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Autore: lady dreamer    14/11/2015    7 recensioni
Prendete una giornata di sole, aggiungete un artista concettual-impegnato poco disposto a farsi intervistare - Sherlock - e un giornalista del Times - John - che deve fare un vero e proprio scoop se vuole mantenere il posto di lavoro. Aggiungete un atterraggio inaspettato all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi, una mostra da organizzare, un pazzo criminale sempre in agguato e mischiate energicamente con la promessa di grandi avventure. Salate con inseguimenti e battute sagaci e pepate con relazioni inaspettate. Riversate tutto su un file word e... ecco quello che ne esce fuori!
Genere: Comico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Arte contemporanea
Capitolo VII
 
 
Ci diremo tra le labbra ormai stanche
"eri il mio caro amore”
Fabrizio De Andrè.
 
 

 
Stavi baciando Sherlock. Ricordi perfettamente la sensazione di beatitudine che questo ha comportato, le endorfine che ha messo in circolo, la mancanza momentanea di angosce che ha generato. Non hai pensato alla redazione, né al tuo capo, al tuo posto di lavoro, alle tue onnipresenti frustrazioni, alla tua presunta eterosessualità. Non hai pensato a nulla. Per quegli interminabili, dolcissimi istanti hai vissuto il tuo corpo in maniera esclusiva, senza la mediazione delle ansie, delle paure, dei tuoi problemi. Hai avuto fin troppe incertezze negli ultimi anni. Ti sei lasciato andare a facili disfattismi, ti sei considerato un fallito, senza che questo fosse necessariamente vero. E soprattutto senza che fosse irreversibile. Niente dura per sempre. E anche quello stato di sconforto latente sarebbe stato destinato a finire.
 
Ed è finito. Quando si è scontrato con Sherlock Holmes. Quando ha sfiorato le sue inquietudini, rotto le sue titubanze, accarezzandogli i capelli, schiudendogli le labbra. Ti sei lasciato sorprendere dalla sua resistenza così razionale, e da quel desiderio così energico, così malinconico ad un tempo. Così suo. Disperato, sentito, vivo. Di Sherlock. E di nessun altro.
 
Non potresti mai amare un altro uomo. Desiderare di scompigliargli i capelli, di baciargli il volto, le labbra, ogni parte del corpo, di avere il grado di complicità tale da permetterti di farlo. Ti sei fatto stupire da Sherlock, dalla sua affascinante algidità. Dalla sua involontaria tenerezza. Dalla sua capacità di dissezionare la realtà e di saperla ricomporre, come un abilissimo chirurgo. Sa il fatto suo, Sherlock Holmes.
 
Bacia le tue labbra con sincero trasporto, ha il battito accelerato, approfondisce il contatto, gioca con la tua lingua, gli occhi chiusi, un abbandono dolce e disordinato.
 
Il tuo cuore lo amava già. Il tuo corpo lo desiderava già. Ma sei stato il suo assistente, perché ti aveva chiesto di essere questo. La sua balia, perché ha bisogno di qualcuno che lo metta in guardia circa le conseguenze delle sue azioni. Sei stato suo complice, quando siete entrati illegalmente al Pantheon, o avete scavalcato il cancello del cimitero. Sei stato suo amico quando gli hai accarezzato i capelli, quando hai chiamato il suo nome, mentre aveva un incubo da cui non riusciva a risvegliarsi. Ti sei addormentato con lui, senza malizia, come un genitore. Senza pensare minimamente alle complicazioni che dormire insieme, in un letto, abbracciati, avrebbero potuto portare. Non era quello il momento. È questo.
 
Lo spoglieresti. Ti lasceresti spogliare. Allenteresti tutti i freni, senza riflettere, inebriato dai suoi baci, dal profumo della sua pelle, dalla sofficità di quei ricci scuri, dal fascino innegabile che emana involontariamente da tutta la sua persona, dalle sue membra statuarie. Ma è troppo presto.
Ci sono troppe cose che non sai. Che non ti dice. Che tiene nascoste forse anche a se stesso. Che determinano le sue titubanze, che ordiscono contro il suo sonno, che lo portano a reagire con quest’appassionata disperazione. E sono cose non puoi ignorare. Anche se…
 
- William Sherlock Scott Holmes apri questa porta!
 
Ma cosa?
Ti scosti da Sherlock, sentendoti d’un tratto quasi colpevole. Forse non avresti dovuto baciarlo, è stato un impulso prematuro, molto probabilmente. Ma non riesci a pentirtene. Non dopo la grandiosa sensazione di benessere che ti ha agguantato il corpo mentre lo baciavi. In ogni caso non capisci come qualcuno possa aver scelto proprio questo dannato momento per comparire a rompere le scatole.
 
Lui alza gli occhi dalle tue labbra, volgendoli significativamente alla porta, allentando appena la presa del braccio che ti stringeva a sé.
 
- Quel che si definisce tempismo.
 
Sospiri abbastanza vistosamente, accarezzando il suo profilo con lo sguardo, mentre riprendi fiato, ancora vicinissimo al suo petto che si alza ed abbassa per calmare il battito cardiaco.
- Già…
 
Respiri la sua stessa aria, e per un attimo ancora siete soli in quella stanza. Sapete che non durerà ancora molto. Che Mycroft Holmes, è sua la voce, piomberà con le forze armate inglesi di gran carriera se non sarete voi ad aprirgli. Però…
 
C’è un’urgenza titubante negli occhi di Sherlock. L’hai vista fare capolino, distintamente. Eppure hai cercato di convincerti di averlo solo immaginato. Perché sarebbe stato troppo. Perché ti sentiresti troppo dannatamente bene. Ma non c’è tempo per formulare una frase del genere. Non per dirla, prendere coscienza della sua importanza, sorridersi e baciarsi ancora, e ancora, e potenzialmente sempre. È una promessa che non si può fare in due minuti sottratti al tempo così platealmente. Eppure Sherlock rompe le titubanze, o almeno parte di esse, nel suo sguardo uno spaesamento consapevole. Ti guarda intensamente, con quegli occhi misteriosamente chiari e scuri insieme. - Io…
 
Non ha tempo. E forse è comunque troppo presto. Ma non è importante. Le tue labbra sulla sua bocca, lo guardi a tua volta negli occhi, sussurri:- Anch’io. - e sai che non vi serve altro.
 
Che per adesso sarà questa la vostra dichiarazione d’amore. L’unica che ora potete permettervi. “Io…” “Anch’io”. E tutto è indefinibilmente chiaro. E dolce. Le vostre labbra si sfiorano ancora. Solo un istante che non dura abbastanza ma che dilata il tempo.
 
E ti viene da ridere, pensando che vi state baciando e dietro la porta c’è Mister Governo Inglese. Che romanticismo.
 
A malincuore ti allontani da Sherlock, cercando vanamente di ricomporti. Ricordandoti di essere in pigiama, e di avere in volto un sorriso ebete. Anche Sherlock esita a riappropriarsi della sua usuale compostezza. Sospiri, sorridendo amaramente.
 
- Vagli ad aprire, prima che butti giù la porta…
 
Sherlock alza gli occhi al cielo, e il tempo di aprire a suo fratello gli basta per chiamare a raccolta un po’ di sarcasmo, e la sua migliore espressione strafottente.
 
- Il motivo di tanta irruenza?
 
Mycroft entra come una furia nel salotto della suite. -  Trevon è sparito.
 
*
 
Alzi vistosamente gli occhi al cielo, maledicendoti per averlo lasciato da solo in piena notte in giro per Parigi. Non era palesemente una buona idea. Ma non hai avuto modo di fermarlo, di elaborare un’alternativa, mentre la mente di Sherlock andava a tremila, ma in direzione opposta, verso il cimitero del XVII arrondissement. E al fronte della sua prontezza, della sua sfrontata sicurezza, le sorti di Victor Trevon ti erano passate di mente. Così com’era arrivato probabilmente se ne sarebbe anche tornato da dov’era venuto.
 
- Ma dove alloggia Victor Trevon?
 
Mycroft risponde velocemente alla tua domanda, fissandoti un secondo di troppo.
- Qui in albergo con voi.
 
- Ah.
 
Dovresti preoccuparti del fatto che sia sparito nel nulla. E invece non puoi smettere di pensare al fatto che, nonostante avrebbe potuto benissimo spedirti a condividere la stanza con Trevon, Sherlock ti abbia tenuto nella sua suite. Non puoi credere, nonostante la sua grande intelligenza, che avesse già intuito gli sviluppi della vicenda, del resto, è stato tutto così bizzarro e inaspettato che se qualcuno ti avesse detto che ti saresti innamorato di lui probabilmente ti saresti messo a ridere. O a negare, arrossendo. O a fare entrambe le cose.
 
L’ipotesi più plausibile è che Sherlock non volesse perderti d’occhio, temendo ritorsioni, che vendessi un articolo non autorizzato al miglior offerente, o chissà cos’altro. Ma istintivamente hai sorriso come uno sciocco, pensando a quanto sia stato profeticamente romantico che ti abbia tenuto con lui, sin dall’inizio.
 
- Signor Watson, è con noi?
 
Ti scuoti abbastanza teatralmente. - Certo.
 
Mycroft continua il discorso che evidentemente aveva iniziato mentre, in modo del tutto inappropriato, ti compiacevi del corso degli eventi. - Abbiamo controllato gli ospedali e le stazioni di polizia, non si è messo nei guai in modo evidente, ma non è al momento reperibile.
 
- Magari sta semplicemente dormendo…
 
Il più grande degli Holmes ti fissa con glaciale esasperazione.  - Non è rientrato in albergo.
 
Sherlock ti trae momentaneamente d’impiccio, fin troppo serioso.
- Hai già perquisito la stanza?
 
- No. Ti aspettavo, ma tu hai deciso d’un tratto di diventare irraggiungibile.
 
Mycroft Holmes fissa Sherlock e poi te. E la vedi balenare come un lampo la consapevolezza del motivo per cui non gli stava rispondendo. Non sai da cosa lo capisca. Forse dal tuo sguardo assente, o dal fatto che tu sia ancora in pigiama, nonostante evidentemente sveglio da un po’, magari unito al fatto che Sherlock risponde subito al telefono, di solito. O magari basta solo vedere quanto siete ancora accaldati, scompigliati, con le labbra arrossate. Siete abbastanza facili da classificare, in realtà, ora che ci pensi.
 
- Posso chiederle di mettersi un abbigliamento più appropriato, signor Watson, prima di procedere alla perquisizione della stanza di Trevon?
 
Sai bene che è una scusa per poter parlare in privato con suo fratello. Non lo biasimi. Anche se non pensi che sia prioritario indagare sulla natura del vostro rapporto, se effettivamente Victor Trevon è sparito dalla circolazione. Ma fai finta di non cogliere la vena apprensiva nella voce di Mycroft Holmes e ti defili con cortesia, con qualche parola formale di congedo, senza riuscire a non rivolgere un ultimo sguardo a Sherlock, sorridendo appena.
 
***
La stanza di Victor Trevon è un disordinato guazzabuglio di vestiti e oggetti sparsi ovunque. È un soqquadro quasi deliberato, tanto risponde allo stereotipo di camera in cui qualcuno ha frugato alla ricerca di qualcosa. Letto disfatto, vestiti e grucce per terra, la valigia aperta sul pavimento, i cassetti della scrivania svuotati del loro esiguo contenuto: un agenda evidentemente spaginata, libri lasciati mezzi aperti sul tavolo.
 
Tutto fa sembrare che l’inquilino della stanza non l’abbia lasciata di sua sponte, ma che qualcuno abbia buttato tutto per aria alla ricerca di qualcosa. Sherlock e Mycroft camminano in mezzo al caos che i pochi effetti personali di Trevon sono riusciti a creare, mentre tu rimani sulla soglia a interrogarti a riguardo, senza capire.
 
Pensavi sul serio che Sherlock e Mycroft fossero esagerati, immaginando scenari catastrofici in luogo di una dormita più lunga, o di una sistemazione provvisoria per la difficoltà di tornare in albergo. Eppure la faccenda pare molto più spinosa. Qualcuno lo ha evidentemente fatto sparire, perché se fosse fuggito da quelli che lo cercavano, per cosa poi resta un mistero, sicuramente non avrebbe lasciato i suoi effetti personali. Eppure… tu puoi dedurlo adesso, con che elementi Sherlock e Mycroft Holmes sono riusciti a saltare a queste conclusioni prima di vedere la stanza? Cosa sanno che tu non sai?
 
Sherlock ha dei segreti che è restio a rivelare, ma a cui ormai fa volontariamente o meno cenno, cercando di allontanarti. “Un passato complicato” o “un passato difficile”, aveva accennato a qualcosa del genere prima di baciarti. E tu gli avevi detto che non era un problema, che tutti hanno qualcosa che li addolora nel proprio passato. Ma… non può più lasciarti all’oscuro. Se vuole che tu possa continuare ad aiutarlo in questa folle impresa deve spiegarti cosa è successo, e cosa sta succedendo.
 
- Quello è un cellulare?
 
Sherlock e Mycroft si voltano fulmineamente verso di te. Ti limiti ad indicare il comodino di Victor Trevon su cui troneggia con noncuranza uno smartphone avvolto da un’improbabile cover rosa. Entrambi, presi dal cercare indizi indiretti, si erano evidentemente lasciati sfuggire l’evidenza.
Sherlock lo agguanta con fulminea incredulità.
- Ma cosa…?!
 
Sblocca lo schermo e sul telefono appare qualcosa.
È un dettaglio di un quadro di Sherlock.
E lo riconosci anche tu, sebbene dopo qualche inziale tentennamento: è “Lo studio in rosa”, il quadro che rappresenta il cadavere di una donna vestita di rosa riverso sul pavimento.
 
- Il Cavaliere Azzurro?
 
Sherlock guarda con attenzione il telefono, spogliandolo della cover di plastica.
È un vecchio modello, uno dei primi smartphone, in commercio da non prima di cinque anni fa. E Sherlock pare riconoscerlo. E trasalire. E guardare Mycroft con apprensione.
 
Detesti non capire. E non poterlo aiutare.
 
- Come ha fatto ad averlo?
 
- Non farti suggestionare, Sherlock, lo sta facendo apposta per farti suggestionare. Non può essere il suo.
 
- Lo riconosco. È quello. L’ha tenuto per tutto questo tempo.
 
- Allo scopo di annebbiare la tua razionalità, ancora una volta.
 
Il telefono squilla. Sherlock guarda lo schermo illuminarsi come se il chiarore venisse dall’oltretomba.
 
- Pronto?
 
***
Dall’altra parte del telefono c’era Victor Trevon, evidentemente costretto contro la sua volontà a recitare frasi scritte da qualcun altro. Al posto del quadro di Sherlock si cela inspiegabilmente un falso, e forse ritrovando l’originale potrete aspirare a salvargli la vita.
Mycroft è uscito dalla stanza e ha preso a parlare a telefono con ansiogena metodicità, Sherlock guarda un punto di fronte a sé articolando pensieri che non ti è dato scoprire.
 
Quello che sta accadendo è surreale. Il Cavaliere Azzurro che doveva essere un collezionista di quadri, pazzo ed incidentalmente un ladro, ma pur sempre una persona relativamente innocua, ha fatto rapire Victor Trevon.
Ricatta Sherlock in qualche modo che ti è oscuro, tirando fuori tombe, poesie in latino, cellulari fantasma, e lo fa crollare in uno stato di ansia sottocutanea palpabile. E di tutto questo, a parte l’ovvietà dei fatti, non sai nulla.
 
Il che, considerato quello che sta nascendo tra te e lui è abbastanza frustrante. Non hai fatto altro che fidarti da quando l’hai conosciuto e lui non ti ha mai dato gli elementi chiave per capirlo. E adesso, se quel tizio è davvero un potenziale assassino, pronto ad uccidere per qualcosa che tu non conosci, è arrivato il momento di scoprire la verità. Perché sei stufo di fargli da spalla senza poterlo sul serio sostenere. Perché la sua vaghezza inizia ad insospettirti.
 
Mycroft avrà praticamente mobilitato l’intelligence, Sherlock passa in rassegna febbrilmente un passato per te inaccessibile.
 
- Sherlock, adesso devi dirmelo. Chi è il Cavaliere Azzurro? Cosa c’entra con te?
 
Lui ti fissa per qualche istante, scuotendo il capo. - È più complicato di così.
 
- Sherlock, se vuoi che io rimanga, devi mettermi in condizione di capire quello che sta succedendo. Di chi è quel cellulare. E il perché di quella poesia in latino. E i tuoi incubi. E perché stiamo rischiando non so cosa. Ho bisogno di saperlo, Sherlock.
 
Lui guarda altrove, ha lo stesso sguardo che aveva al cimitero, davanti alla tomba di Verlaine, quando le gocce di pioggia gli cadevano addosso e lui non faceva niente per ripararsi.
- È una storia lunga.
 
Detesti dover insistere, ma senti di non poter fare altrimenti.
- Sherlock. Non puoi tenermi all’oscuro. Pretendo che tu mi spieghi.
 
Lui guarda verso la porta della stanza di Trevon, assicurandosi che sia chiusa, ti fa cenno di sederti dove vuoi, mentre lui si appoggia appena alla scrivania.
 
- Ti parlerò del Cavaliere Azzurro. Ma questa storia inizia con un’altra persona. Quando ero al college… Ti prego di non saltare a conclusioni affrettate quando avrò finito.
 
****
 
Sei una creatura solitaria. Non cerchi gli altri, ma li fuggi. Non ti capiscono, ti giudicano senza conoscerti. Pensano che quello che fai sia sciocco e fatto male. Che tu non abbia talento. Ti definiscono strambo, insopportabile, pazzo, e in realtà non sanno nulla di te. Di chi sei veramente.
Però non ti interessa di loro.
 
Ti sei convinto che non ti interessi. Ma è evidente che non è così. Non dipingi solo per te stesso. Speri che qualcuno possa capire il disagio che provi da quei quadri. Ma ce lo nascondi bene, perché non sia facile trovarlo. Per non armare le lingue che ti attaccano di nuovi argomenti. Loro non capiscono, a te sta bene. Fermo restando che speri, seppur del tutto inconsciamente, che un giorno qualcuno possa capire.
 
Te ne stai sdraiato sul letto in pigiama e vestaglia, a scarabocchiare su un taccuino, quando qualcuno bussa sonoramente con due dita sulla porta.
 
Lo ignoreresti, se non continuasse ad insistere.
Ti alzi di malagrazia dal letto, apri la porta e dietro ci trovi un ragazzo più o meno della tua età con una borsa porta computer a tracolla e la mano destra che si tira dietro un trolley piuttosto massiccio. Sembra entusiasta. - Sei Sherlock Holmes?
 
Lo guardi sconcertato, senza capire il senso della sua presenza alla tua porta. - Sì.
 
Lui sorride, lasciando la maniglia del trolley, e porgendoti la mano.
- Sono il tuo compagno di stanza.
 
Ignori quel suo gesto di istintiva cortesia. Dev’essere un equivoco.
- Pensavo che la mia stanza fosse solo mia, come tutti gli altri anni.
 
Lui ritrae la mano, abbastanza deluso dalla tua scarsa accoglienza. - Pare di no.
 
Lo fissi con noncuranza. Ma non basta a scacciarlo.
Così gli fai un cenno di entrare.
 
- Mi chiamo Carl Norton, comunque.
 
Chiudi la porta alle vostre spalle, lanciando un’occhiata eloquente al letto dall’altra parte della stanza che hai sempre usato come magazzino/immondezzaio delle cose inutili. Ti toccherà liberarlo, molto probabilmente.
 
- Vorrei dire che sia un piacere, ma non dimostrerei una grande coerenza.
 
Dietro questa inattesa comparsa di un coinquilino ci deve essere Mycroft, che deve aver smesso di pagare, per dispetto, non per mancanza di soldi, due posti invece che uno nell’alloggio del college. Allo scopo di costringerti a socializzare con qualcuno. Sforzo inutile.
 
- Ho sentito il tutor che mi ha assegnato questo alloggio fare scommesse con altri due ragazzi su quanto avrei resistito qui con te…
 
Gli rivolgi un’occhiata sdegnata. - Gentile da parte tua dirmelo.
 
Ma lui sembra non perdere smalto, sinceramente stupito. - Perché non dovrei resistere?
 
Ti volti totalmente verso di lui, le braccia conserte sul petto, come in un gesto di istintiva difesa.
- In molti pensano che sia una persona sgradevole.
 
Carl ti guarda con un’intensità sorprendete per essere un estraneo. - Perché?
 
Volevi mandarlo via appena è arrivato, ma sembra così sinceramente stupito delle dicerie su di te che qualcosa ti dice che potrebbe non essere come tutti gli altri. Ma potrebbe benissimo essere una falsa per farsi liberare il letto dalle tue cianfrusaglie e lasciargli il posto che gli spetta nella stanza. Il che tecnicamente è un suo diritto.
 
Comunque ti ha sfidato lui. Forse non l’avresti messo alle strette in maniera così incisiva se non te l’avesse implicitamente richiesto. Lo scruti per un paio di secondi. - Medicina o chimica?
 
Carl ritrae istintivamente il capo. - Come, scusa?
 
Vuoi scacciarlo o vuoi sorprenderlo? Diciamo che lui potrebbe darti meno fastidio di tanta altra gente sgradevole che conosci.
 
- Frequentavi medicina o chimica prima di trasferirti qui?
 
D’un tratto il piglio del ragazzo cambia radicalmente. Visibilmente stupito, vagamente sulla difensiva. - E tu che ne sai?
 
- Frequento questa università da due anni e non ti ho mai visto in giro, in più sembra che tu non conosca né me né la mia cattiva nomea. Ma sembra che tu abbia la mia stessa età. Quindi presumibilmente frequentavi un'altra università. Dal modo in cui sei vestito e dall’atteggiamento cortese che hai e in più dal fatto che tu sia capitato qui, deduco che la tua famiglia sia benestante. Tuo padre potrebbe essere avvocato, o lavorare in banca, o essere medico. Quindi ti avrà indirizzato su una facoltà che ti avrebbe permesso di seguire le sue orme. Ma ti chiami Norton, e c’è un Norton che è un famoso neurochirurgo. Quindi medicina. Ma potresti non aver passato i test, visto che verosimilmente non ti piaceva se adesso ti trovi qui, quindi potresti aver sprecato uno o due anni alla facoltà di chimica o di fisioterapia o roba del genere.
 
Carl continua a fissarti con irritata ammirazione. - Diamine, fai così con tutti?
 
Rispondi d’impulso, accennando un sorrisetto volutamente indisponente.
- Solo con chi mi sta antipatico.
 
Carl sposta una pila dei tuoi libri per terra e si siede sul bordo di quello che tecnicamente sarebbe il suo letto, lasciando sprofondare la sua stanchezza sul materasso. - Non mi conosci e ti sto già antipatico?
 
- Volevi sapere perché la gente mi trovasse insopportabile.
 
Nel suo sguardo un guizzo di sarcastico ottimismo. - Quindi non ti sto antipatico.
 
Ha un certo spirito e non se n’è andato sbattendosi subito la porta alle spalle. Ti ha quasi stupito con la sua serena indisponente disponibilità a sopportarti. - Non ancora.
 
Sorride con un certo titubante entusiasmo.
 
- Che facoltà era?
 
Lui alza appena le spalle, con una certa vincente noncuranza. - Medicina. Volevo solo scappare.
 
Nei suoi occhi si adombra una certa tristezza. E trovi crudele lasciarlo rosolare lì dentro, considerato che ce l’hai spinto tu. - Ti piace il violino?
 
Carl Norton alza gli occhi evidentemente sorpreso dalla domanda.
 
Ti senti in dovere di spiegare. - Suono il violino delle volte, mi aiuta a pensare.
 
- Non ho niente contro il violino. Se suonato bene.
 
Gli lasci correre l’ultima insolenza, ma decidi che dovrà liberarsi la sua parte di stanza da solo, se vorrà usufruirne. Così ti limiti a tacere e a sprofondare sul letto dove stavi spaparanzato prima.
 
Carl si volta verso di te, un’espressione a metà tra l’incredulo e il curioso. - Hai molti amici?
 
Classifichi la domanda come inutile, ti proponi di ritrattare le sue considerazioni sulla sua presunta intelligenza. - No.
 
Pare che non volesse essere impertinente, o almeno la sua impertinenza non era programmata per essere fine a se stessa. - C’è qualcuno a cui puoi presentarmi? Non conosco nessuno a parte te e il mio tutor.
 
Scuoti il capo senza enfasi. - Conosco solo gente che non mi piace.
 
Carl ti guarda con una certa sorpresa indulgenza. - Te ne stai sempre da solo?
 
Alzi le spalle, incurante. Stai benissimo da solo, non hai bisogno di nessuno, è bene che lo capisca subito e non inizi a commiserarti. - Per la maggior parte del tempo.
 
Sembra incuriosito da te. E che le sue domande siano senza malizia.- E che cosa fai? Studi sempre?
 
Snoccioli la tua routine come se ne fossi pienamente soddisfatto. - Me ne sto in biblioteca, seguo qualche corso nel dipartimento di chimica, dipingo. Ogni tanto studio.
 
Ma non può continuare a farti domande a raffica. Inverti il verso della conversazione.
- Perché hai lasciato medicina?
 
Carl contiene sapientemente uno sguardo piuttosto amareggiato. - Perché mio nonno è morto, mi ha lasciato dei soldi, ho mandato al diavolo mio padre e mi sono iscritto ad un corso di arte fotografica. Ma mi devo trovare un lavoro… Mi hanno detto che si può fare domanda per lavorare in mensa o in biblioteca.
 
Gli dici quello che sai e per oggi decidi di lasciarlo in pace. Sai che vuol dire perdere qualcuno a cui si tiene, non avere l’appoggio di chi rimane, e quel senso di irrequieto malessere che si prova.
 
***
Questo fine settimana c’è una mostra all’auditorium. Espongono tutti gli studenti del tuo corso, due quadri a testa. La cosa come linea di principio ti ha esaltato, ma sai che in pochi guarderanno davvero le tue tele, in mezzo alle centinaia di quadri che saranno esposti. E poi quello che dipingi ai tuoi docenti non piace, quindi le hanno messe in un posto tale da non risaltare particolarmente. 
 
Non hai voluto presenziare davanti all’entrata. Te ne stai seduto su una panchina solitaria, nel parco, mentre un timido raggio di sole cerca di infonderti speranza accarezzandoti i capelli.
Ogni tanto qualcuno passa nelle vicinanze e tendi a non farci caso, perché ormai sei diventato abbastanza bravo a ignorare le persone. Ma di solito la gente ti passa davanti senza fermarsi a parlare con te. Alzi gli occhi. E incroci quelli di Carl.
 
Ha uno sguardo benevolo, ma sceglie le parole con troppa attenzione.
- Ho visto i tuoi quadri, alla mostra…
 
Riconosci quell’atteggiamento. E sai che vuol dire. - E non ti sono piaciuti.
 
Carl dimostra ancora una certa sorpresa quando deduci qualcosa su di lui o sul resto del mondo. E questo un po’ ti lusinga, del resto la gente non è mai tanto paziente con te, ma leggi nei suoi occhi una certa delusione. 
 
- Come fai a saperlo?
 
Accenni un sorriso sprezzante con poca convinzione. - È abbastanza evidente, basta osservare l’espressione del tuo volto.
 
Carl ti lancia un’occhiataccia stranamente bonaria. - Allora posso anche andarmene.
 
Di solito tendi a capire molte cose sulle persone, ma questa volta c’è qualcosa che ti sfugge. Avevi capito che non gli piacessero i tuoi quadri, ma allora, vista la sua solita discreta gentilezza, perché venirtelo a dire? - In realtà non capisco perché me ne stai parlando.
 
Si siede accanto a te sulla panchina, facendoti dubitare del suo malanimo. Ha un’espressione corrucciata sul viso, ma allo stesso tempo non sembra intenzionato a demordere. 
 
- Perché sono strani. Non capisco cosa vogliano dire.
 
Di solito gli altri si perdono nell’apparenza, e non si preoccupano di fare domande. Finanche Anderson, uno dei tuoi ottusi insegnanti, non ti ha mai seriamente chiesto cosa si nascondesse dietro le tue tele. E se si spingono a formulare la domanda, si accontentano di una risposta come questa: - Dipingo così apposta.
 
Carl ti fissa con severa incredulità. - Non vuoi farti capire? Che senso ha?
 
Scuoti il capo, guardandolo negli occhi. Sai che si fa così per sembrare sicuri di quello che si dice, si mantiene il contatto visivo per sembrare sinceri. - Diciamo che… è il mio stile.
 
Ma lui non si fa convincere così facilmente. Il suo sorriso è rassicurante come sempre. Ti guarda senza giudicarti, con l’onesto desiderio di capire, e basta. - Di che cosa hai paura?
 
Insisti. - Di niente.
 
- Non si direbbe, dai tuoi quadri.
 
Hai capito che quando non si può essere sinceri bisogna dire qualcosa di verosimile, una menzogna credibile, una mezza verità. Mai assolutizzare. Eppure i suoi occhi penetranti e schietti ti hanno estorto quel “niente”, la più sfacciata delle ammissioni di colpa. Ma te la devi cavare, in un modo o nell’altro. Se la difesa non funziona bisogna attaccare, no? - E tu di cos’hai paura?
 
Carl accenna un sorriso, vagamente evasivo. - Del futuro. Di tante altre cose.
 
Non vuoi offenderlo o scacciarlo, vuoi solo riportarlo lontano dalla soglia della tua interiorità. E forse sei un po’ brusco, arrugginito come sei nell’usare metodi cortesi per deviare l’attenzione dalle cose di cui ti irrita parlare. - “Di tante altre cose” che non vai a dire in giro. Tu non le dici. Io non le dipingo chiaramente. È semplice.
 
Carl sembra comprendere quello che dici, e per qualche istante fa silenzio, come per metabolizzare che non ti va di parlare di questo argomento, per continuare a scansarlo in futuro. Ti starebbe bene se si comportasse così. Potrebbe essere tuo amico se accettasse di lasciarti i tuoi spazi. Se si accontentasse di intuire senza indagare. E invece Carl fa di peggio. Insiste. Affermando sfacciatamente, per giunta. - Dipingi così per nascondere quello che ti spaventa.
 
Scuoti il capo, con una certa amarezza. - È un’affermazione molto semplicistica.
 
- Ma tendenzialmente è vera.
 
Alzi gli occhi con irritazione. - Parliamo d’altro?
 
Carl annuisce, un lampo di pazzo entusiasmo negli occhi. - Solo se vieni con me in un posto.
 
***
Ti ha trascinato in biblioteca, domandandoti con una certa compiaciuta soddisfazione se conoscessi gli Impressionisti. Non si cura di parlare a bassa voce, l’edificio è deserto, la domenica mattina di per sé non c’è quasi nessuno, poi con la mostra appena inaugurata la dispersione è aumentata ancora di più.
 
Soffochi a malapena uno sbuffo di insofferenza. - Sì, li conosco. E non mi interessano.
 
Carl si volta a fissarti, mulinando un dito per aria, con energico spirito di contraddizione. - Molto grave. L’arte contemporanea nasce dall’arte moderna. E l’arte moderna sono gli Impressionisti. 
 
Non capisci tutto questo entusiasmo, adduci i tuoi soliti schemi razionali come una giustificazione che presumi sufficientemente valida. - Non posso interessarmi di quelli che hanno ispirato quelli che mi interessano.
 
Carl sembra quasi indignato. - Ma gli Impressionisti sono stati rivoluzionari anche per te. Se non avessero iniziato a dipingere di getto, in mezzo al niente, la vita vera, lontana dai soggetti stereotipati del mito, probabilmente non sarebbe nato l’Espressionismo, e poi tutte le avanguardie del ‘900.
 
Sbotti la prima cosa che ti viene in mente, sperando di fargli smettere questa inutile orazion picciola. Convincerti a spingerti oltre le colonne d’Ercole delle tue statiche convinzioni è di norma quasi impossibile. Glielo dimostrerai.
 
- Sono borghesi che si divertono.
 
L’occhiata che ti rivolge ha del melodrammatico, distogliendosi dalla ricerca dei libri che aveva intensione di mostrarti. - E le ninfe che fanno il bagno hanno forse maggiore dignità artistica? Che te ne fai delle ninfe che fanno il bagno? Sono decorative e non comunicano niente. Gli Impressionisti dipingono su tela la vita vera. La loro vita e quella di chi sta loro intorno. Con una sostanziale differenza rispetto al passato.
 
- Dipingono a macchie e punti. È evidente.
 
Non ti hanno mai interessato gli Impressionisti perché sono troppo limpidamente felici, oppure aspirano ad esserlo, in modo così candido e luminoso… Non si può invidiare gente morta e sepolta da secoli, ma i borghesi di Renoir sembrano al loro posto nel mondo, mentre si divertono al Moulin de la Galette. E forse semplicemente non li senti affini e per questo non ti interessano.
 
Carl non si lascia scoraggiare dal tuo spirito di contraddizione. E centra perfettamente il punto.
- Ma ti sei mai chiesto perché lo fanno?
 
Lo guardi come se avesse appena detto una stronzata. Per poi renderti drammaticamente conto del fatto che fosse una domanda che non ti eri mai posto. Alzi le spalle, arrancando una risposta qualsiasi. - Perché gli andava.
 
Lui si rivolge a te con appassionata convinzione in quello che sta dicendo.
- Perché dipingevano il filtro della loro personale visione del mondo. Troviamo l’interesse per il singolo e il suo distinto punto di vista. Se un pittore non usa mai il nero forse vuol dire che non pensa mai alla morte o che non ne ha paura, o che vuole semplicemente sperimentare, o scandalizzare gli altri dipingendo le ombre viola.
 
Incroci le braccia sul petto, involontariamente sulla difensiva. - Le ombre non sono viola.
 
Carl sorride con un che di benevolo. - Ma con una particolare luce ti può sembrare che sia così. E se sei triste, non serve la particolare luce. Tutto ti sembra triste e soffuso. E le ombra sono viola. Perché in quel momento esprimono il tuo stato d’animo.
 
E capisci che questa battaglia non puoi vincerla. Non potresti mai fargli cambiare idea. Crede agli Impressionisti, alla loro arte, alle sensazioni che trasmettono, al messaggio che veicolano. Crede in loro. Forse perché nessuno lo fece quando sui giornali li deridevano chiamandoli “impressionisti”, prima che facessero di quell’etichetta un vessillo e un vanto. Perché il tempo ha dato loro ragione. E anche Carl cerca disperatamente che venga riconosciuta la validità delle sue scelte. Che qualcuno gli dica che è stato bravo. Fai finta di non capirlo.
 
- Perché vuoi convincermi sugli Impressionisti?
 
Lui ti guarda con rapito entusiasmo, sorridendo appena, come se non potesse farne a meno.
 
- Perché sono i miei pittori preferiti. Erano degli spiantati visionari ribelli.
 
- Penso di preferire Van Gogh. Almeno era uno spiantato visionario ribelle infelice.
 
Carl ti dà una pacca sulla spalla e sei sicuro che passerà il resto del pomeriggio a mostrarti foto di dipinti e a rallegrarsi in cuor suo se non di averti convinto, almeno di averti zittito. E non succede mai, ma oggi sei contento di averglielo permesso. Perché d’ora in poi saprai disegnare una sfumatura in più dell’anima di Carl. Sai che i suoi sogni sono fumosi come gli sbuffi delle locomotive della Gare Saint Lazare, che i suoi occhi hanno la luce dell’alba sulle cattedrali di Rouen.
 
***
Seminario di disegno dal vero. Odi il disegno dal vero. Odi doverti confrontare e conformare alla banale realtà delle cose.
 
 
Carl sta in piedi vicino alla porta, fissando l’aula pensieroso.
 
- Che ci fai qui?
 
- Mi pagano per stare fermo.
 
Scuoti appena il capo. È assurdo. Ma avresti dovuto capirlo. Qualche giorno fa gli avevi accidentalmente detto che i modelli vengono pagati per posare. E sai che lui ha bisogno di soldi per mantenersi. Non lo biasimi per questo. Ma almeno avrebbe potuto dirtelo.
 
Sospiri impercettibilmente, mentre lo vedi raggiungere la pedana al centro della stanza.
 
Il professore lo introduce sommariamente alla classe e lo ringrazia della sua presenza, prima di invitarlo ad accomodarsi su un’asettica poltroncina bianca e iniziare a ribadire le regole da seguire per il ritratto dal vero.
 
Tu non ascolti. Ringrazi il cielo di non doverlo ritrarre nudo, perché quest’inattesa intimità avrebbe sicuramente portato un certo imbarazzo ad aleggiare tra te e lui per tutto il resto dell’anno scolastico.
 
Tiri fuori il blocco dei fogli da disegno e le matite dalle diverse consistenze.
Carl se ne sta immobile, guarda un punto indistinto sul pavimento, le braccia conserte.
Finché non alza gli occhi. Ci sono quaranta persone in sala, distribuite nelle postazioni in modo che, ognuno da un’angolazione differente, riesca a vedere perfettamente il modello, ma Carl guarda te. È palese, ti indirizza anche un cenno del capo per conferma.
Sembra che ti dovrai rassegnare ad avere i suoi occhi addosso per tutto il tempo.
 
Solitamente osservi ma non guardi.
Cerchi nelle persone solo le informazioni che ti sono più utili, che soddisfano la tua curiosità, o con cui puoi ricattarle - e questo succede spesso con i professori - ma non le guardi mai.
Capelli biondi, scuri, rossi, non ti interessano. Tranne se non ci sono capelli di colori completamente diversi sul cappotto o sul maglione di qualcuno, segno che o la persona in questione si è fatta prestare quel dato capo d’abbigliamento, oppure, più semplicemente, ha una relazione con quell’altra persona. Magari all’insaputa di una terza persona ignara. Ti diverti a dedurre la vita privata della gente.
Sarà che non ne hai una. E devi pur far qualcosa del tuo tempo.
 
Così non hai mai badato all’aspetto di Carl Norton. Fino ad oggi.
Riscuote un discreto successo con le ragazze, e anzi, Sally Donovan sembra avergli messo seriamente gli occhi addosso, ma lui, per quanto sorrida e parli con la gente molto più di quanto non faccia tu, non sembra interessato alla Donovan o più in generale ad una relazione. Anche perché tra lezioni, studio e lavoretti occasionali, non è che abbia poi molto tempo libero.
 
Se ne sta seduto sulla poltroncina bianca. Le gambe leggermente divaricate, le mani in grembo, il capo leggermente inclinato a sinistra. Indossa un paio di jeans, una camicia bianca. Un abbigliamento semplice, che non deve distogliere l’attenzione di chi lo deve ritrarre.
È un bel ragazzo Carl Norton.
Con i suoi occhi scuri, macchiati d’infinito. C’è una luce in quegli occhi.
È la luce di chi crede in quello che fa, anche se è difficile.
 
C’è la stessa luce nei tuoi occhi?
Non sapresti dire con esattezza, ma supponi di no. Sei troppo arrabbiato contro il mondo, perché la luce che ti brilla negli occhi possa essere così puramente disinteressata. La luce dei tuoi occhi è il guizzo di intelligenza che usi gratuitamente contro il prossimo, per non lasciarti ferire ancora.
Sei abbastanza infelice, in fondo.
E te ne sei accorto quando nella tua vita è entrato Carl.
Che ha una situazione volendo molto più sgangherata della tua. Ma non perde l’entusiasmo. È sincero, disincantato, ma ci crede lo stesso. Sembra un ossimoro…
 
Un bell’ossimoro.
Dai capelli scuri. Ma non di nera pece. Piuttosto di un singolare marrone, tra il colore delle castagne bruciate e quello delle mandorle amare. Li porta corti, ma non da militare. Una volta ha detto di volersi lasciar crescere i capelli, fortunatamente non l’ha fatto. Non ti ci saresti abituato subito. Non passi le tue giornate a fissargli i capelli, ovviamente. Ma insomma, un particolare del genere ti avrebbe… beh… te ne saresti accorto.
 
Carl sorride, come se potesse vedere i pensieri che si ingarbugliano nel tuo cervello iperattivo.
Sorride, come sa fare lui, un sorriso appena accennato.
 
Ti guarda e sorride. E ti senti uno sciocco.
Abbassi il capo sul foglio, continuando a tracciare il contorno delle sue membra atletiche, sperando, rialzando lo sguardo, che i suoi occhi non continuino a cercare i tuoi.
Ma in fondo perché dovrebbe imbarazzarti questo scambio di sguardi?
 
***
 
Carl scherza con ridente convinzione. - Che dici, posso contare su una carriera da modello se non riesco a sfondare come fotografo?
 
L’hai fissato per tutto il tempo, sforzandoti di distogliere ogni tanto lo sguardo, scoprendo quasi imbarazzato di dispiacertene.
 
- Non saprei…
 
Le sopracciglia di Carl diventano come due archi ad ogiva, sulla facciata di una cattedrale gotica.
 
- Come non sapresti? Sono rimasto fermo per due ore e mezza Sherlock! Due ore e mezza!
 
Tu scuoti appena il capo, divertito. - Hai cambiato posizione tre volte.
 
Carl si volta fulmineo verso di te. - Tre volte?
 
- All’inizio avevi la testa reclinata a sinistra, le gambe un po’ divaricate, le mani in grembo. Poi ti sei appoggiato completamente alla poltrona, la testa sulla stoffa, come per sprofondarci dentro. Stavi per accavallare le gambe, ma non l’hai fatto solo perché Banks ti ha fatto tacitamente segno di no. E alla fine sei tornato alla posizione di partenza, se non fosse che hai inclinato la testa a destra e non a sinistra.
 
Carl ti fissa con tacita sorpresa. - Sherlock, hai fatto caso a tutti questi particolari?
 
- Dovevo ritrarti, e tu non accennavi a startene immobile come avresti dovuto.
 
Ma è un osservatore troppo fine per farsi ingannare. -Ma se hai messo giù le matite dopo mezz’ora!
 
Ti arrendi ad un sorriso. - Dovevo comunque restare lì per supportarti.
 
Carl calca con entusiasmo la dose, stupito. - Quindi ti sei preoccupato per me?
 
- Andiamo, hai guardato me per tutto il tempo, era ovvio che non avresti potuto guardare nessun altro e rimanere serio.
 
Forse non si aspettava un capovolgimento così repentino dei rapporti di forza.
 
- Sono una persona così scontata?
 
Lo guardi negli occhi per una singola frazione di secondo. - Non sei scontato.
 
A lui questa concessione pare bastare. Cambiate argomento, mentre vi allontanate dalla stanza, ma non puoi evitare di guardarlo per una frazione di secondo, senza prestare attenzione a quello che dice, e pensare che probabilmente sia la persona meno scontata che tu abbia mai incontrato…
 
***
 
È il tuo compleanno. Non lo sa nessuno. Mycroft ti ha regalato un set da scrittoio come tutti gli anni. E a te non interessa. O meglio, ti piacerebbe essere sincero e non soltanto credibile, quando fingi con te stesso che non ti interessi. Così te ne stai in camera, seduto sul pavimento freddo, da solo, a fianco a te sta inerte e abbandonato a se stesso l’unico regalo che hai ricevuto.
 
 I tuoi sono morti in un incidente. Ti è rimasto solo tuo fratello, il cui modo di dimostrare l’affetto è abbastanza deprimente. E poi la gente ti domanda perché dipingi cose contorte. Che cosa tu voglia nasconderci. È che cascano tutti dalle nuvole, si accontentano della tua ostentata noncuranza, e credono che tu sia un pazzo che dipinge cose senza senso. Come puoi pensare che sia un bene voler bene a qualcuno se le persone a cui tenevi di più sono morte? Così ti sei rinchiuso in un abbraccio di indifferenza e te ne stai da solo con te stesso, a nascondere il tuo malessere nei tuoi quadri.
 
Carl entra nella camera con lo stanco entusiasmo di chi finalmente può buttarsi sul letto e riposarsi dopo una giornata sfiancante. Ma i suoi propositi sono stoppati dalla tua espressione sconsolata e sorpresa insieme, nel vederlo comparire proprio nel momento in cui le tue debolezze sempre sopite sono così evidenti. Si chiude la porta alle spalle, si avvicina.
 
 - Cosa ci fai con quel set da scrittoio?
 
Fai un breve calcolo mentale. Servirebbe mentire? - È un regalo. Oggi è il mio compleanno.
 
Sul volto di Carl come un senso di spaesato tradimento. È come se si sentisse in colpa per non averlo scoperto. - Auguri allora! Ma non me l’avevi detto.
 
 
Lo rassicuri con uno timido sorriso. - Non lo sa nessuno. Il regalo me l’ha mandato mio fratello.
 
Si siede a fianco a te e rigira tra le mani il set da scrittoio ancora incartato dalla pellicola di plastica, un po’ stupito dalla noncuranza con cui hai trattato l’oggetto. - Non ti piace?
 
Sospiri lievemente, nel riportare alla memoria tale archeologia emotiva. - Me ne regala uno ogni anno da cinque anni. E il bello è che non mi è piaciuto mai neanche il primo.
 
Carl ti guarda con una certa sottesa dolcezza. - Ma come? Se dovessi scegliere per me un oggetto del genere, lo comprerei proprio così… - rigira la confezione tra le mani, come per osservarla meglio al fine di descriverla con verosimiglianza. - Ha una forma… aereodinamica, non trovi?
 
Non nascondi un certo divertito disappunto.
 
Lui si tira su dal pavimento portandosi dietro il set da scrittoio. Si volta a porgerti la mano per aiutarti ad alzarti a tua volta. - Vieni con me.
 
Lo guardi con una certa incredula felicità. Gli stringi la mano e ti lasci aiutare, ma lasci la sua presa appena in piedi, con un certo velato imbarazzo.
 
***
 
Ti svegli di colpo da un sonno pastoso e denso come colla liquida.
Hai dormito troppo poco.
 
Ieri sera Carl ti ha portato sul tetto dell’edificio, ha spiegato serissimo le sue ragioni e poi ridendo, ad un tuo cenno affermativo, ha lanciato il set da scrittorio giù dall’edificio. “Perché è proprio fatto per volare, con quella forma aerodinamica, no?” E poi “non temere, Sherlock, ne riceverai un altro l’anno prossimo!” Hai riso come non facevi da tempo immemore.
 
Hai passato tutta la notte sul tetto a parlare con Carl, sdraiati a guardare il cielo, di un blu infinitamente blu. Denso e sfumato dal chiarore di solitarie nuvolette che sembravano disegnate sulla volta celeste con un carboncino bianco. La luna brillava, sorridendo della sua incompletezza, senza mortificarsi. E anche tu hai sorriso e ti sei sentito vivo, abbandonato su quel pavimento neanche tanto freddo, le braccia sotto la testa, in un cuscino scomodo.
 
Voltandoti verso Carl vedevi appena il suo profilo, ma la sua voce la sentivi forte e chiara, dolce e sicura. E non hai pensato al tempo che correva, inesorabile, verso l’alba. E per una volta, da quando hai compiuto dieci anni, non ti sei sentito solo nel giorno del tuo compleanno.
 
 
Ti alzi dal letto, intontito.
Queste nottate non fanno per te. Devi dormire più di tre ore per poter articolare un ragionamento coerente. Ed è per questo, in una sorta di annebbiamento deduttivo, che non ti accorgi del pacchetto incartato malamente, ai piedi del letto, che mentre ti alzi dal materasso, piomba a terra con un tonfo sordo.
 
Ti volti a vedere di che si tratta. Sembra un regalo. E non può essere che di Carl.
Ti guardi rapidamente intorno, ma nella stanza non c’è nessuno a parte te.
Sospiri piano. Non volevi che si sentisse costretto a farti un regalo. Per questo non gliel’avevi detto. E poi non trovi niente da festeggiare in un compleanno.
 
Lo stato del pacchetto ti fa capire che molto probabilmente l’ha incartato lui, anche perché non sapresti quale negozio potrebbe incartare un regalo con un foglio di giornale. Il nastro azzurro sembra riciclato da qualche altro regalo, perché è un po’ sgualcito. Ma non molto, probabilmente un altro non se ne sarebbe accorto.
 
Incastrato sul pacchetto, tenuto fermo dal nastro di stoffa, un foglio di carta ripiegato un paio di volte. Lo apri titubante.
 
“Scusami, l’ho incartato con quello che ho trovato prima di andare al turno di colazione in mensa.
Anche se in ritardo, buon compleanno, Sherlock.”
 
Metti da parte il biglietto e scarti il regalo. Presumibilmente si tratta di un libro.
 
Una copertina beige, neutra, su cui sta scritto con caratteri eleganti:
 
“Le più belle poesie di Paul Verlaine.”
 
Apri il libro. La pagina bianca imbrattata dalla scrittura fitta e scarna di Carl.
 
“Non puoi dire di non amare la poesia, se non hai mai letto i grandi poeti.
Uno dei miei libri preferiti, per cercare di farti cambiare idea.
Con stima… affetto… o qualsiasi altra cosa si dica in questi casi,
C.”
 
Rileggi la dedica un paio di volte, basito.
Sfogli velocemente il libro. È in buone condizioni, ma è visibilmente appartenuto a qualcuno. È suo. Ti ha regalato uno dei suoi libri. Uno dei suoi preferiti.
Con stima. Affetto. O qualsiasi altra cosa si dica in questi casi.
Le guance ti si tingono incautamente d’imbarazzo. E sei felice di essere solo nella stanza.
 
***
 
Solitamente non fai colazione. Ti basta una tazza di the a metà mattina, che ti consente di saltare anche il pranzo. Così vai in mensa solo a cena, e presto, quando non c’è quasi nessuno. Anche perché sederti in un tavolo vuoto o in mezzo a gente con cui non parli non è l’esperienza più esaltante a cui aspiri durante la giornata.
Ma oggi farai un’eccezione.
 
Ti sei lavato e vestito di fretta, e sei letteralmente corso nella sala della mensa, dove Carl potrebbe finire il turno da un momento all’altro.
 
Invece quando entri nella sala, lui è ancora lì, a servire porridge o bacon e uova strapazzate dietro al bancone. Arrivi e ti metti in fila dietro altri tre studenti ritardatari.
 
Carl sorride in modo manifestamente evidente, quando arriva il tuo turno.
 - Non mi aspettavo di vederti qui.
 
Accenni vagamente con il capo allo stanzone mezzo vuoto dietro di te.
- Non mi aspettavo di venire qui. Se può consolarti.
 
Carl spia oltre le tue spalle, prima di rivolgersi di nuovo a te:
- Stacco tra un quarto d’ora… possiamo parlare dopo?
 
- Certo.
 
Ti porge un piatto di uova e bacon, nonostante il tuo sguardo contrariato. Intuisci dall’angolazione delle sue sopracciglia, che tu debba accettare il piatto e andarti a sedere, lasciando spazio alla ragazza dietro di te. Sotto la supervisione di qualcuno del personale, immagini.
Prendi il piatto e le posate, e fai un cenno affermativo del capo.
 
- Ci vediamo dopo.
 
Rivolgi un saluto formale all’insopportabile Mr. Anderson e appoggi il piatto su un tavolo vuoto in fondo alla stanza. Ormai non c’è quasi più nessuno, le sedie sono per la maggior parte vuote, i tavoli iniziano ad essere sgombrati dagli addetti al servizio di questa mattina.
 
Non hai fame, ovviamente.
 
Passi cinque minuti a rigirare l’uovo nel piatto, riducendolo ad un’orribile poltiglia. Mangi un pezzo di bacon. Ne sminuzzi gli altri pezzi, e inizi a disporre tutto come se fosse una composizione astratta.
 
Poi ti decidi ad abbandonare il capolavoro sul tavolo ed esci dalla stanza, facendo un cenno a Carl che lo aspetti fuori.
 
Lui ti raggiunge dopo pochi minuti, stropicciandosi gli occhi con una mano, visibilmente stanco.
Vi incamminate in silenzio verso l’uscita dalla mensa, finché lui prende con naturalezza a parlare, come se continuasse una conversazione già iniziata.
 
- La prossima volta che mi metto a sproloquiare su quanto siano belle le stelle di notte, fermami. Stamattina non riuscivo ad alzarmi dal letto. Per quanto ci ho messo a spegnere la sveglia, sono stupito che non ti sia svegliato anche tu.
 
Hai rigirato la frase mille volte nei tuoi pensieri mentre lo aspettavi. Butti fuori una qualsiasi delle formulazioni, forse un po’ troppo bruscamente. - Non dovevi sentirti obbligato a regalarmi niente.
 
Carl sorride con una certa stupita tenerezza. - Non mi sono sentito obbligato. Altrimenti non ti avrei regalato la mia copia di Verlaine.
 
- Perché l’hai fatto?
 
Carl ti fissa con un’espressione da vecchio santone indù. - Non puoi diventare un pittore se non leggi poesie. Non riusciresti a cogliere la bellezza delle cose.
 
Non sai come interpretare quello che ha appena detto. E questo ti fa paura. Tutto quello che non riesci a capire, ad analizzare razionalmente, ti spaventa. Il tuo unico modo di incanalare l’irrazionalità è dipingere, e anche lì c’è una componente analiticamente teorico-astratta dietro.
Ti sforzi di non far tremare le parole.
 
- Tu pensi che io non sappia riconoscere la bellezza quando la vedo?
 
Carl ti guarda intensamente, rallentando impercettibilmente il passo, per poi accelerarlo nuovamente. - Non devi prendermi sul serio, sono quelle frasi che si dicono per darsi un tono.
 
Non dovrebbe essere così, però riesce a metterti in imbarazzo. Sa portati lontano dalla tua zona di confort continuando a tenerti per mano, senza andarsene mai via. Eppure non sai sempre sostenere il suo sguardo. Sussurri qualcosa di vagamente sconnesso con il resto della conversazione.
 
- Io… dovrei andare a lezione.
 
Carl annuisce, una potenziale delusione che già si affaccia sul suo viso.
- Non mi hai detto se ti è piaciuto il mio libro.
 
Anche lui è fragile, avrebbe bisogno di molte più conferme di quante tu non riesca a dargliene. Ti limiti a sorridere appena e a riferiti alla notte precedente. Ma sai che lui capirà. Per te anche solo ammettere che fosse il tuo compleanno e lasciarti tenere compagnia era qualcosa di immensamente complicato. Fino a ieri. - Non è certo un set da scrittoio.
 
Così sorride rassegnato, anche se i suoi occhi dicono fermamente che ha compreso, che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ti fa un cenno col capo ed fa per andarsene.
 
Ma al diavolo tutto, non puoi lasciarlo andare via così. Intercetti di nuovo la sua attenzione. Le guance arrosate d’imbarazzo. - Comunque grazie.
 
Si volta appena, giusto il tempo di guardarti negli occhi. Di sorridere, un’altra dannata volta.
- Di niente.
 
***
 
Carl entra in stanza trascinandosi dietro tutta la stanchezza di una giornata pesante. È passato del tempo da quando ti ha regalato il libro di poesie. Siete amici, adesso. O qualsiasi cosa si dica in questi casi.
 
- È proprio necessario suonare a quest’ora? Il ragazzo della stanza affianco alla nostra che mi ha visto arrivare mi ha scongiurato di farti smettere.  
 
Non gli rispondi, immerso come sei nelle note che danzano intorno all’archetto del tuo violino.
 
- Sherlock?
 
Continui a suonare, noncurante.
 
Carl smette di lamentarsi, scuotendo appena il capo e sedendosi sul suo letto, evidentemente stanco. Solitamente si toglie le scarpe e si sdraia, infischiandosene di quello che stai facendo, se ti trova in camera. Ma questa volta ti osserva, senza sbadigliare, senza distogliere lo sguardo. Non è la prima volta che ti sente suonare, ma di solito ti limiti ai suoni sconnessi che improvvisi per accompagnare riflessioni e intuizioni artistiche, mentre la mente dipinge affannosamente schizzi nella tua testa.
 
Forse è la prima volta che ti sente suonare qualcosa di compiuto.
Ha le orecchie tese, e gli occhi che saggiano i movimenti delle tue dita, l’incavo del collo con cui fermi il violino, la tua figura slanciata e sicura, avvolta da un’aria di imperturbabile sacralità.
Termini il pezzo, gli occhi chiusi, perso nelle sensazioni che solo la musica e l’arte riescono a darti.
 
Apri gli occhi dopo qualche istante, mentre allontani il violino dalla spalla.
 
Carl sembra piacevolmente stupito. - Che cos’era?
 
Alzi gli occhi, abbastanza soddisfatto della sua curiosità.
- Concerto d'Aranjuez nella trasposizione per violino.
 
- Lo suoni ancora?
 
Volevi che te lo chiedesse, ma non osavi sperarlo. Il suo sguardo ammirato ti ha riempito di tremante orgoglio. Non è un grande estimatore del modo in cui dipingi, anche se ti incoraggia a farlo, ma hai visto l’incredulo stupore con cui ti ha guardato, e senti di averne bisogno ancora.
Razionalmente ti costringi a mostrarti esitante. Scherzi, sapendo bene che non costituirà un ostacolo:- E il vicino? Come la mettiamo?
 
- Quando mai c’è importato del vicino?
 
Scuoti appena il capo. E continui a suonare per Carl.
 
Alzi gli occhi su di lui, vedi il suo sorriso sciogliersi presto in una silenziosa partecipazione.
E la sua anima sensibile seguire gli svolazzi e le pause della tua musica.
 
Quando ti accorgi di star prendendo male una nota per poter guardare l’espressione rapita di Carl, smetti di fissarlo. E chiudi nuovamente gli occhi. Ma continui a sentire il suo sguardo addosso. Tacito e sognante. Scuoti appena il capo. Hai sicuramente solo immaginato tutto. È Joaquin Rodrigo che ti fa confondere realtà e fantasia…
 
***
Presto dovrai presentare la tesi ed andartene, con il grande sollievo di metà del corpo docente.
Questo è il tuo terzo anno, e preparando gli ultimi esami ti rendi conto di quanto poco manchi alla laurea. I sette mesi trascorsi con Carl hanno soppiantato i due ombrosi e lunghissimi anni precedenti. Come sarà la tua vita senza di lui? Inizi a chiedertelo e a chiederglielo.  
 
Carl scuote piano il capo, fissandoti con una certa malinconia.
- Stare qui senza di te non sarà più lo stesso.
 
Dall’altra parte del tavolo, rigiri il cucchiaio nella tazza ormai vuota di the.
- Posso non presentare la tesi o farmi bocciare agli ultimi esami, se vuoi.
 
Lui alza lo sguardo dalla tua tintinnante occupazione, lo sguardo scuro ma vagamente divertito.
- Lo sai che non acconsentirei mai ad una cosa del genere.
 
Non sai come ti sia venuta in testa un’idea tanto balorda, ma per un attimo credi davvero a quello che dici:- So che neanche mio fratello acconsentirebbe mai, quindi…
 
Carl ti fissa con adorante terrore. - Perché? Tu faresti una cosa tanto folle per me?
 
Sei preso alla sprovvista dalla sua mano che ti fa smettere di  tormentare la porcellana della tazza. Abbandoni il cucchiaino, ed esisti a scansare la tua mano dalla sua. - Non farei una cosa tanto folle. Ma potrei essere in dubbio solo se si trattasse di te. Mi sembra abbastanza scontato.
 
Carl ti rivolge uno sguardo aggrottato. - Non è una cosa scontata…
 
Sorridi sarcasticamente. - Con quante altre persone mi hai visto socializzare qui dentro?
 
- Che c’entra?
 
Lo guardi. E fissi i suoi occhi scuri per un secondo di troppo. - Io non ho amici. Ho solo te.
 
- Sherlock…
 
Carl si alza di scatto dalla sedia e ti invita tacitamente a fare lo stesso. Si avvicina pericolosamente a te, colmando d’un passo lo spazio che vi separava. Ma il tuo corpo non accenna a spostarsi, il tuo cervello sembra una centrale di controllo impazzita.
 
E d’un tratto ti trovi le sue mani a cingerti le spalle in un abbraccio.
- Sei così tenero quando non te ne accorgi. - ti sussurra in un orecchio.
 
Tu resti per una frazione di secondo impietrito, poi le tue mani si poggiano timidamente sulle sue spalle. Carl non commenta, e non avverti neanche un risolino per la tua goffa dimostrazione d’affetto. Si limita a stringerti a sé per qualche altro secondo. Poi lascia la presa, sorridendo.
Devi essere vagamente rosso in faccia.
 
- Nessuno ti ha mai abbracciato, Sherlock?
 
Pensi che il cuore possa andarti a fuoco, mentre il cervello cerca di spegnere razionalmente l’incendio. Ma anche lì c’è troppo fumo. E i tuoi neuroni, presi di sorpresa, hanno bisogno di più tempo per elaborare una soluzione. Ti lasci scappare la verità. - Nessuno mi abbraccia da quando avevo nove anni.
 
- Tutte le volte che hai bisogno di un abbraccio chiamami e io verrò da te ad abbracciarti.
 
Accenni un sorriso imbarazzato, davanti all’ingenua sicurezza nella voce di Carl. E per quanto il cuore ti consigli di restare, il cervello intima di dileguarti, chiamando la ritirata come se fosse questione di vita o di morte.
 
- Vado in biblioteca. Mi serve del materiale per la tesi.
 
Non gli dai il tempo di dire niente, ed esci dalla stanza, col passo più calmo che riesci. Ma appena ti chiudi la porta alle spalle corri via, verso il giardino.
 
*
 
Accendi una sigaretta. Aspiri lentamente il fumo.
E lo ricacci fuori, allontanando la sigaretta dalle labbra.
Ti senti uno sciocco.
 
Non hai aspettato altro che andartene dall’ambiente opprimente dell’università. Via dalle critiche di Anderson. Dagli sguardi della gente che non ti capisce perché troppo ottusa per guardare al di là del proprio naso. Via da chi ti ha sempre preso in giro. O additato come quello strambo che fa scarabocchi e suona il violino di notte.
Non vedevi l’ora di poter essere davvero padrone di te stesso. E andartene. 
Ed era così, finché non è piombato nella tua vita Carl Norton.
 
***
 
Carl apre la porta accostata. Alzi lo sguardo, lo vedi accaldato, il petto che si alza e abbassa a ripagarlo della corsa appena fatta per raggiungerti. - Pensavi di andartene senza salutarmi?
 
Scuoti appena il capo. - Sapevo che te ne saresti accorto.
 
Carl si siede accanto a te. Non si è mai seduto sul tuo letto, neanche per sbaglio. E adesso ci si è seduto, sprofondandoci senza neanche pensarci. Del resto, ormai non potresti fraintendere. Te ne stai andando. E se non è successo niente finora, non è adesso che le cose devono o possono cambiare. Carl riprende fiato, e butta fuori la sua protesta, ignorando le tue inutili elucubrazioni.
 
- Devi smetterla di sottopormi a questi test. Arriverà il giorno in cui non riuscirò più a passarli.
 
Non abbassi lo sguardo. Sarebbe una prova troppo grande di debolezza. Così ti trovi a guardarlo negli occhi e a non riuscire a mentire. - Non hai bisogno di passare nessun test. Sei il mio unico amico.
 
Carl prova a sorriderti, ma è un sorriso troppo amaro per infonderti il suo abituale ottimismo.
- Sarà triste stare qui senza di te, Sherlock.
 
E per una volta sarai tu a dirgli qualcosa di rassicurante. Per una volta non sei tu quello che deve essere consolato, sei quello che consola. Ma è un ruolo che non ti si addice. - Ti scriverò.
 
- Non sarà lo stesso.
 
Siete abbastanza vicini da permetterti di percepire il leggero sbuffo di fiato quando respira ed espira l’aria che la corsa affannosa di prima gli ha fatto inghiottire tutta insieme.
 
- Ammetterlo non serve a molto.
 
- Lo so… Ma…
 
Siete troppo vicini. E non puoi permetterti di pensare alle sue labbra, appena dischiuse per respirare meglio. Devi smettere di fare caso al suo sguardo affranto, a tutta l’affannosa malinconia che manifesta per te. Non puoi permetterti di farlo adesso.
 
Ti alzi di colpo dal letto, le molle che saltano scricchiolando nel materasso.
Prendi la custodia del violino lasciata sulla scrivania e ti trascini dietro il trolley scuro.
 
- Devo proprio andare, Carl.
 
Lui è di nuovo al tuo fianco. Stavolta in piedi, ad una distanza meno imbarazzante, e con un’espressione più serena che ti fa pensare per un attimo di aver frainteso tutto.
 
- Non ti piacciono gli addii, lo so. Ma il nostro non è un addio, me lo prometti?
 
Hai annuito. Sperando sinceramente e disperatamente che non si sbagliasse.
Prima di scappare via.
 
***
 
Mycroft non ti è venuto a prendere. Si è limitato a mandarti la macchina, con il suo autista, perché ti riportasse a casa. È sempre stato troppo impegnato per stare con te. E ormai è troppo tardi per colmare le falle del vostro rapporto sbilanciato.
 
Ti aspetta seduto sulla poltrona del salotto, davanti ad una marea di giornali sia inglesi che stranieri. Non sei ancora in grado di nascondergli tutto, purtroppo. Capisce anche quello che non dici, e con una facilità che non può fare a meno di irritarti.
 
Gli basta alzare gli occhi dal Times. - Perché sei triste, Sherlock?
 
Resti in piedi. Le dita che stritolano la maniglia della custodia del violino. - Non penso che ci sia bisogno davvero di parlare. L’hai sicuramente già dedotto.
 
Mycroft ti guarda serafico. - Non è così che funziona di solito.
 
- È sempre funzionato così tra noi. E poi so già quello che pensi. Tenerci non è un vantaggio, vero?
 
***
 
Sherlock, come va? C
 
Insomma. SH
 
Il mio nuovo coinquilino non suona il violino. C
 
E quindi? SH
 
Quindi mi manca sentirti suonare. C
 
Com’è lui? SH
 
Noioso. C
 
Forse terrò una mostra a Londra. SH
 
Quando? Voglio esserci. C
 
Il mese prossimo. Pare che le conoscenze di Mycroft servano a qualcosa. SH
 
Ma tu sei bravo. Te lo meriti. C
 
***
- Sherlock!
 
Quando lo vedi sbracciarsi in mezzo alla folla sorridi e ti senti un idiota, ma non puoi fare a meno di andargli incontro, impacciato come solo tu sai essere. Con lui.
 
- Non pensavo che saresti venuto.
 
Carl rompe ogni indugio, ti abbraccia appena sei abbastanza vicino, sorridendo con una certa tenerezza, mentre istintivamente anche tu lo abbracci, stringendolo e lasciandoti stringere, pensando che non ci sia niente di più giusto di questo. Non riesci a realizzare di aver pensato concretamente di stringergli la mano e basta, avvicinandoti il minimo indispensabile. Avevi bisogno di questo contatto. Avevi bisogno di vederlo. Che fosse qui, oggi, anche se non osavi sperarci.  
 
- Come potevo non esserci? È la tua prima mostra.
 
E la sua espressione di sorpresa è così schietta, le sue parole così sincere, che ti vergogni di aver dubitato. Accampi scuse con poca convinzione. - Pensavo che con gli esami…
 
Carl sorride, evidentemente contento di mandare in pezzi le tue titubanti incertezze.
- Chi se ne frega degli esami? Qui si fa la storia.
 
Perché è questo che fanno gli amici. Ci sono nei momenti importanti. Non ti lasciano solo alla tua prima mostra. Ti offrono conforto e sostegno anche quando non te lo aspetteresti. Perché Carl è questo. Ma forse è anche molto di più. Forse. Ma non riesci a pensarci coscientemente. Non sapresti accettarlo o realizzarlo adesso. Già il fatto di avere un amico ti destabilizza.
 
- Dubito. Ma grazie.
 
Carl sorride, scostandosi da te.
- Sherlock Holmes sa anche ringraziare? Te l’ho detto che si faceva la storia!
 
Perché gli amici sono anche questo. Le uniche persone da cui piace lasciarsi prendere in giro.
- Scemo.
 
Carl si fa più serio, solo per farti impensierire inutilmente, prima di ridere di nuovo.
- Come non detto.
 
***
 
Una bella mostra, Mr. Holmes. Intendo comprare “Notturno aereodinamico”.
Un ammiratore
 
Mi spiace. Quel quadro non è in vendita. Scelga uno qualsiasi degli altri.
E si firmi.
SH
 
Insisto per avere quel quadro.
Il Cavaliere Azzurro
 
Perché vuole proprio quello?
Era scritto espressamente che non fosse in vendita.
SH
 
Non è questo un motivo più che sufficiente? Perché non lo vende?
Il Cavaliere Azzurro
 
Per lo stesso motivo per cui lei non si firma.
SH
 
Ho un nome troppo anonimo e ambizioni troppo grandi. È questo anche il suo motivo?
Oppure la sua è una questione di cuore?
Il Cavaliere Azzurro
 
Non le interessa. Semplicemente non lo vendo.
SH


Non volevo essere invadente. O si?
Il Cavaliere Azzurro
 
Sembra una persona molto infantile.
SH
 
Sembra una persona molto sola.
Sta continuando a rispondermi.
Il Cavaliere Azzurro
 
Gli artisti devono essere soli. Dipingiamo per questo.
SH
 
Dipinge per attirare l’attenzione. Ma c’è dell’altro che non capisco ancora.
Il Cavaliere Azzurro
 
Non voleva comprare uno dei miei quadri?
SH
 
Posso commissionargliene uno?
Il Cavaliere Azzurro
 
Dipende dal soggetto.
SH
 
Voglio che dipinga una scena del crimine.
Il Cavaliere Azzurro
 
Perché una scena del crimine?
SH
 
È un soggetto come un altro.
Il Cavaliere Azzurro
 
Che crimine vuole?
SH
 
Quello che preferisce. Si diverta. Sperimenti.
Il Cavaliere Azzurro
 
***
 
Come va? C
 
Un pazzo vuole che faccia un omicidio. SH
 
Sherlock ma che cazzo stai dicendo? C
 
Che dipinga un omicidio. O un altro crimine qualsiasi. SH
 
Non farmi più questi scherzi. Come t’è venuto in mente di scrivere “che faccia un omicidio”?! C
 
Prendi tutto così alla lettera. SH
 
Sono contento che ti abbiano commissionato un quadro, per inciso. Ma chi vuole appendere in salotto una scena del crimine? C
 
Penso che non gli interessi davvero. Che sia una specie di sfida. SH
 
Ma è uno che conosci? C
 
No. Mi ha scritto sul blog. SH
 
Ed ha un nome? C
 
Si firma “Il Cavaliere Azzurro”. SH
 
E non sai chi sia? Potrebbe essere un serial killer. C
 
Potrebbe. SH
 
Sherlock? Sei impazzito? C
 
Sono solo annoiato. SH
 
Non mi scrivi mai. C
 
Non vorrei annoiare anche te. SH
 
Con te è impossibile annoiarsi, anche a distanza. C
 
Cosa fai in questo periodo? SH
 
Sto uscendo con una ragazza. C
Ma non la amo.
 
Avresti voluto domandargli perché ci uscisse. Avresti voluto chiedergli perché avesse precisato che non la amasse. Avresti voluto chiedergli se dovesse sembrarti un tradimento, oppure no, dal momento che non la amava. Ma si può tradire una persona solo se si è fatto una promessa. E voi non vi eravate promessi niente. Non c’era niente da promettere. Niente che avreste ammesso, almeno.
 
E così non hai scritto niente. Perché per te, per una sensazione sommersa e inconfessabile, era un tradimento. Anche se non avevi il permesso. Anche senza nessuna promessa.
Iniziasti a buttare giù schizzi per il quadro con la scena del crimine. Ma la tua matita riusciva a disegnare solo il profilo di Carl e la sua mano stretta in quella di una donna senza volto.
Quando Mycroft entrò nella tua stanza, ti trovò circondato da fogli strappati e nessuna voglia di parlare.
 
La sua apparente premura ti inquieta. Devi avere un aspetto davvero orribile per spingerlo a tanto. Oppure deve essersi concretamente rincretinito, il che è dannatamente meno probabile.
 
- La musa non ti ispira stasera?
Il tuo sguardo non riesce a celare una certa esasperazione. - Davvero non hai altro da fare?
 
- Sei mio fratello.
 
- A volte me ne dimentico.
 
Resta sulla porta, a dimostrare la sua poca familiarità persino con la tua stanza.
- Devo parlare io con…?
 
È questo quello che ti dà fastidio di tuo fratello. Che non c’è mai e quando riappare ha dei modi semplicistici che non portano a nulla, se non a farti rimpiangere la sua assenza.
 
Alzi gli occhi, furente. - Con chi vuoi parlare, sentiamo?
 
- Con chiunque ti stia rendendo infelice.
 
Il suo tono di voce è lo stesso di sempre, ma la sua espressione per una volta sembra sinceramente preoccupata.
 
- La felicità è una cosa che non puoi comprare.
 
***
 
Quel quadro, la scena del crimine. Ci sto lavorando.
SH
 
Che crimine ha deciso di commettere? Pardon, di dipingere?
Il Cavaliere Azzurro
 
Omicidio.
SH
 
***
 
Sherlock? Stai bene? Adesso non mi rispondi più? C
 
Sto bene. E la tua ragazza? SH
 
Non è la mia ragazza. C
 
Quella che ti porti a letto? SH
 
Non capisco il tuo astio. C
 
Perché la inganni se non la ami? SH
 
Non posso avere la persona che voglio. Non è disponibile. C
 
Fa quello che vuoi della tua vita. SH
 
 
***
 
Hai costretto Mycroft a comprarti una casa tua, per non dover più rendere conto a lui di ogni tuo sospiro. È un sollievo non vivere insieme con tuo fratello, anche se sai di non essere assolutamente libero dal suo ipercontrollo.
 
Ma le stanze mezze vuote, le pareti bianche, è tutto come un’immensa tela che non sai come riempire. È la tua vita che non riesce ad avere un suo senso. Pensavi che dipingere avrebbe risolto tutto. Che avrebbe appiattito le conflittualità interiori ad un rumore di fondo sopportabile. Invece no. Dipingere, a quanto pare, non ti basta più. Avresti bisogno di qualcuno con cui condividere quello che dipingi. Ovvero quello che provi. Ma ti sei rinchiuso in un isolamento quasi totale. È difficile che tu abbia qualcuno con cui confrontarti, se non il pazzo che continua a scriverti sul blog. Eri geloso della tua solitudine, ti proteggeva da tutto il resto… ma perché continuasse a funzionare avresti dovuto mantenerne l’integrità. Dopo la morte dei tuoi genitori avevi seguito quello che Mycroft ti aveva insegnato, tenere alle persone non è mai un vantaggio. Crea dipendenza, e il vuoto nel cuore. Non avresti mai dovuto affezionarti a Carl.
E infatti sono settimane che rispondi di rado alle sue chiamate e ai suoi messaggi. Devi disimparare ad avere bisogno di lui. E vedertelo di fronte davanti casa non ti aiuta.
 
- Carl? Cosa ci fai qui?
 
Il giovane ha il volto serio e stanco. - Volevo vederti.
 
Una parte di te è felice e vorrebbe solo ringraziarlo per essere venuto, per essersi preoccupato del tuo silenzio, che vorrebbe solo abbraccialo. E… non hai il coraggio di pensare neanche per un momento che sia possibile. Carl ha una ragazza, una donna. E tu… tenerci non è un vantaggio, ricordi? Ti sforzi di essere scostante. La tua razionalità ti impone di tenerti a distanza, di non permettergli di scombussolarti ulteriormente l’esistenza. - Per dirmi?
 
Carl alza timidamente le spalle. - Ci dev’essere per forza un motivo? Sei il mio miglior amico.
 
Lo guardi con sprezzante sicurezza. - Adesso hai una ragazza. Non hai più bisogno di un amico.
 
L’accenno di un sorriso solca amaramente le sue labbra. - Non sai molto dell’amicizia, allora.
 
- Ne so abbastanza da capire che se non ci sentiamo e non ci vediamo allora evidentemente non siamo poi così amici.
 
Abbassa gli occhi, con fare colpevole. - Sai che lavoro oltre lo studio…
 
- Anch’io lavoro.
 
Alza di scatto lo sguardo, investendoti con un’occhiata di fermo rimprovero.
- Sherlock, tu non devi mantenerti.
 
Forse non ha colpe, non più di quante non ne abbia tu. Anzi, quando hai smesso di rispondergli, sei probabilmente passato dalla parte del torto. Ma sei troppo stizzito. A livello inconscio si era sedimentata la convinzione che lui sarebbe stato tutto per te, sempre.
 
- Lavoravi anche quando c’ero io al college. Ma questo non ti impediva di impicciarti della mia vita.
 
Carl si sforza visibilmente di non litigare. Si sente in colpa, quando teoricamente non dovrebbe. E forse sarebbe un sollievo se lui sbottasse, dicesse che non hai diritti sulla sua vita privata, che devi accontentarti delle briciole, che la tua è una delle facce che la lontananza lascerà dimenticare. Vorresti che mettesse in chiaro che non hai nessun motivo valido di fare l’offeso, che sei un permaloso acido ed egoista. E che non ti meriti niente. Così potresti metterci una pietra sopra.
Ma lui non lo dice.
 
- A quanto pare mi impiccio ancora. Ti sono venuto a cercare io.
 
E finché non te lo dirà, continuerai a lambiccarti il cervello ed illuderti. - Vuoi entrare?
 
- Se non ti dispiace.
 
Non è bello fare finta con le persone a cui tieni. E per un attimo pensi che sia tutto inutile, che cercare di essere conciliante voglia dire in fondo mentire, però lui è qui con te, ed è già qualcosa.
Attacca di nuovo discorso:- Perché non le dipingi queste pareti? È uno spreco tenerle bianche.
 
Il soffitto immacolato per le scale, non avresti mai pensato di farci qualcosa. In un altro momento avresti di buon grado accettato il suo consiglio, ma adesso tutto sembra immensamente più difficile, e la vostra distanza insormontabile. - Non ti è mai piaciuto il mio modo di dipingere.
 
Carl continua a salire le scale senza fermarsi, lanciandoti un’occhiata irritata. - Non capisco i messaggi che lanci con i tuoi quadri. E detesto non capirti.
 
Glielo lasci dire, e sembra che le sue parole precipitino nel vuoto.  
 
Si ferma sul pianerottolo, marmoreo nella sua gravezza. - Sherlock, io non voglio perderti.
 
- Non mi stai perdendo, Carl. Semplicemente viviamo in due posti diversi e lontani. E siamo molto impegnati.
 
Lui ti guarda con una certa esasperazione. - Sai che puoi venirmi a trovare, ma non l’hai mai fatto.
 
Gli rinfacci la stessa accusa perché non sai cos’altro dire. - Anche tu non l’hai mai fatto. L’inaugurazione non vale.  
 
Carl è in imbarazzo quanto te. Semplicemente sa convivere più placidamente con la situazione.
- Abbiamo sbagliato entrambi, non trovi?
 
- Forse.
 
A te basterebbe questo, se la vostra riconciliazione potesse essere permanente, e riportarvi al rapporto che avevate prima. Ma sai che ormai non è più possibile.
 
Lui cerca di sorridere, chiedendoti tacitamente di smettere di pensare a com’era prima e come sarà dopo, e di pensare solo ad adesso, a questo singolo momento. Che non andrebbe sprecato a litigare. - Mi fai vedere i tuoi quadri?
 
Annuisci, sperando che smuovervi dal pianerottolo sia risolutivo. Che smetterla di rinfacciarvi la rispettiva infelicità possa portare a qualcosa.
 
*
 
Il tuo appartamento è sempre terribilmente in disordine. Colori ad olio, trementina, tavolozze, pennelli, ma anche spatole e strofinacci, gessetti, matite, tele bianche o imbrattate, con soggetti raschiati via o mezzi finiti, spadroneggiano nel salotto del 221 B di Baker Street.
Un divano ammassato alla parete, con diversi cuscini maltrattati e sporchi di colore.
 
Carl accenna uno dei commenti cauti dei suoi: - Ti aiuto a mettere un po’ in ordine, se vuoi.
 
- A me non dispiace questo disordine. Rispecchia...
 
Scuote appena il capo, cammina con noncuranza in mezzo al caos, e guarda le tue tele sparse ovunque. - Rispecchia i tuoi pensieri, lo so. Lo dicevi sempre.
 
Lo lasci fare, e ti azzardi a preparare un the, per distoglierlo dai tuoi sofferenti lavori, e mostrargli che sei ancora capace di uno squarcio di normalità. Lui ti raggiunge in cucina, si siede, ti guarda, sussurra qualche parola di lode sui tuoi quadri, più per obbligo che per reale partecipazione, e nei suoi occhi leggi l’attesa che adesso sia tu a dire qualcosa. A proporre una trattativa di riconciliazione.
 
Gli poggi una tazza di the nero davanti, sperando che basti, ed intavoli una conversazione a prima vista del tutto anonima. - Lavori ancora in mensa?
 
Anche se pensi a quella volta che l’hai raggiunto per ringraziarlo per il libro che ti aveva regalato. E lui aveva il turno per la colazione.
 
- Sì, e anche in biblioteca.
 
E non sai se si ricorda di quella volta che ha passato il pomeriggio a decantarti la bravura degli Impressionisti. Non dice niente, e supponi che non dia alle parole il peso che tu stai conferendo loro.
 
Così decisi di rendere inequivocabile che stai pensando a tutte quelle occasioni in cui l’hai visto come un amico, come una persona potenzialmente importante nella tua vita. Alzi gli occhi dalla tua tazza. - E posi ancora?
 
- No. Non ci sei più tu a ritrarmi. Non c’è gusto.
 
Abbassi gli occhi, con la scusa di bere un sorso di the.
 
Lui accenna un sorriso. - Ce l’ho ancora il tuo ritratto.
 
Alzi lo sguardo, stupito di essere stupito. Un tempo non sarebbe bastato così poco per sentirti importante per lui. E quel foglio conservato gelosamente in un cassetto diventa il simbolo di un surrogato di affetto. Un ricordo, destinato ad allontanarsi sempre più nel tempo.
 
Scuoti il capo. - Era solo uno scarabocchio.
 
Carl ti rimprovera tacitamente. Gli basta un’inclinazione diversa del tono della voce, come faceva quando peccavi di infantilismo. - Banks ti mise una A per quello scarabocchio.
 
- Sai che non è il mio stile. È troppo scolastico. - e sei tornato al tono scostante del primo giorno che parlaste di arte. Ricordi che eri seduto su una panchina nel parco. Che erano tutti alla mostra. E che lui ti venne a cercare per tentare di capirti. Era quando potevi illuderti di non avere bisogno di nessuno.
 
Stai in silenzio, con la scusa di finire il the.
Carl fa correre le dita sul bordo della sua tazza, accumulando cerchi per non far caso al silenzio.
 
- E poi mi hanno chiesto di posare al corso di anatomia per artisti.
 
Sai benissimo che vuol dire. Che gli hanno proposto di posare senza vestiti. Sapevi che prima o poi l’avrebbero fatto. Carl è visibilmente sprecato per posare con i vestiti. Ostenti indifferenza.
 
- Pagano di più.
 
Ha smesso di tormentare la tazza, ti guarda negli occhi, serio in volto.
 
- Ma non mi spoglio davanti a tutti.
 
- Solo davanti a… come si chiama la tua ragazza? - Ti stupisci dell’ostentato sfacciato menefreghismo del tono della tua voce. Vorresti sparire piuttosto che parlarne, ma ti sentiresti un allocco a non tirare fuori l’argomento. Perché è la prima cosa che volevi chiedergli. Avresti voluto sbatterlo contro un muro e pretendere una spiegazione sensata della faccenda. Ma ti rifugi nella tua impacciata compostezza.
 
Carl sospira manifestamente. - Ci sono stato insieme un paio di volte, non è la mia ragazza.
 
Lo dice come se non fosse importante, quando in realtà è un macigno di dimensioni colossali tra voi due. Non riesci a trattenere la domanda che ti parte spontanea dalle labbra.
- Nella nostra stanza?
 
Ma anche lui non riflette. Si limita a rispondere, quando potrebbe darti del pazzo e non aggiungere altro. - Non avrei mai potuto farlo.
 
Per un riflesso involontario lo fissi con gli occhi spalancati dallo stupore.
 
Carl continua frettolosamente la frase. - Il mio nuovo coinquilino sta sempre lì a rompere.
 
Deglutisci a fatica. - Quante ragazze hai portato nella nostra stanza quando ci stavo io?
 
- Nessuna.
 
Ostenti indifferenza, tornando a sbattere le palpebre. - Quando uscivo, intendo. Io uscivo spesso.
 
- Nessuna, Sherlock.
 
Silenzio.
Ti mordi l’interno del labbro fino a sentire una fitta di dolore distinto.
 
Carl riacquista a sua volta lucidità, riprendendo a giocare con il bordo della tazza. - Com’è che d’un tratto ti interessa la mia vita privata?
 
Alzi le sopracciglia facendo spallucce. - Non mi interessa, infatti. Un argomento di conversazione come un altro.
 
- E la tua vita privata, Sherlock?
 
Spari la prima cosa che ti viene in mente. - Sono sposato, non lo sai?
 
Carl rotea gli occhi, ha allentato la presa della tazza in modo così fulmineo che questa pericola sul piattino, dove la ferma un’involontaria prontezza. - Ma che cazzo stai dicendo?
 
È bastato così poco per mandarlo nel panico. Potresti compiacertene se servisse a qualcosa. Ma non servirà ad altro che ad arricchire le idiozie da passare in rassegna ossessivamente per le prossime settimane. - Con il mio lavoro. Mi pare ovvio.
 
Carl emette un suono strano, a metà tra uno sbuffo e un sospiro di sollievo. Ti guarda intensamente con i suoi occhi scuri. Quasi volesse trasmetterti qualcosa. Qualcos’altro. - A me non pare ovvio. Hai… sapresti piacere a qualcuno se solo lo volessi.
 
Ma fai finta di non coglierlo. Decidi che non c’è nient’altro. Che non ci può essere nient’altro.
Alzi gli occhi dalla tazza, sfacciatamente. - Non mi interessa nessuno.
 
- Io non ti capisco…
 
- Io non capisco che necessità ci sia di rincorrere il piacere in un bagno doloroso di sudore e umori.
 
Carl scuote appena il capo. - Non è così squallido come lo fai sembrare. E poi dovresti essere con la persona che ami.
 
Sei troppo preso dal fargli capire quanto il suo comportamento t’abbia urtato per cogliere i timidi indizi di frustrazione nella sua frase. Quel “così”, quel “dovresti”. Forse non era con lei che sarebbe voluto essere. Forse è stato un po’ squallido perché non era lei la persona che amava. Ma ti senti troppo punto nel vivo per farci caso.
 
- Io non amo che l’arte.
 
Carl ti fissa con sarcastico disaccordo. - L’arte è una sublimazione del sesso, Sherlock.
 
Ti alzi in piedi, dopo aver impilato le due tazze e i due piattini, scappando via dalle sue insinuazioni. - Freud è superato.
 
I cucchiaini per lo zucchero sono miseramente cascati per terra nella tua frettolosa chiusura tragica. Carl si alza per aiutarti a raccoglierli. Te li porge, in un gesto inequivocabile di pace.
 
Sostieni il suo sguardo con tardivo imbarazzo.
 
Carl ti toglie le tazze e i piatti di mano e mette tutto nel lavabo. - Suoni ancora il violino?
 
Annuisci, piuttosto stupito.
 
- Ti ricordi quel pezzo che facevi sempre?
 
Ed è immensamente dolorosa la consapevolezza di sapere esattamente a cosa si stia riferendo.
- Il Concerto d'Aranjuez?
 
Lui scuote appena il volto, mentre nei suoi occhi risplende un misto di titubanza e aspettativa.
- Non so come si chiama, quello che suonavi sempre.
 
- Vuoi che lo suoni.
 
Sorridi con una residua tristezza. Dolcezza che deriva dalla nostalgia di qualcosa che neanche la musica potrà portare indietro.
 
Carl ti sfiora appena la mano destra con cui impugnerai l’archetto del violino.
 
- Sì. Mi è mancato sentirti suonare.
 
****
Sei sinceramente in imbarazzo. In piedi, appoggiato alla scrivania, lo sguardo che alterna i tuoi occhi al pavimento, Sherlock parla di momenti sconnessi della sua vita, del suo amore disperatamente non ammesso per il suo compagno di stanza del college, della pochezza della sua esistenza prima di incontrarlo. E ti senti come un’insignificante scintilla rispetto ad un fuoco alimentato per anni alla luce di timide speranze e brucianti rimpianti. Cosa può mai essere stato un tuo bacio rispetto al solo, sofferto e inappagato desiderio di baciare Carl? Cosa può essere stato il tuo stargli vicino se non il cercare inconsapevole e del tutto vano di colmare un vuoto destinato a restare eterno?
 
Ora capisci perché Verlaine, perché i “Versi per essere calunniato”, perché quei distici latini, e che il nome Cinzia si presta ironicamente ad essere il senhal di Carl. “Amore gli preme la testa sotto i suoi piedi.” E cogli drammaticamente il senso della sua tacita disperazione davanti alla tomba di Verlaine. Probabilmente, in circostanze che non ti sono chiare, il giovane che amava è morto. E questo spiegherebbe gli incubi, e il suoi occhi bassi a scavare il pavimento.
 
Il suo “Io…” di prima, dopo averti baciato, il suo sguardo spaesato… Avresti dovuto lasciarlo finire, ti avrebbe sicuramente detto qualcosa di più simile a quello che ti sta dicendo adesso. E ti penti del tuo patetico “Anch’io…”, del tuo comportamento stupido, del tuo sentimentalismo ingenuo.
 
Parla anche del Cavaliere Azzurro, di come gli ha scritto sul suo blog, di come gli abbia commissionato un quadro dove fosse raffigurato un reato. E hai capito che “Uno studio in rosa” non può essere stato al centro dell’intrigo per caso. È quello il quadro commissionato, ma se così fosse perché ce l’aveva ancora Sherlock?  E il Cavaliere Azzurro ha organizzato tutto questo casino solo per riavere il quadro?
 
È tutto terribilmente surreale. E le sue parole continuano a bruciare. E decidi di porre fine a questo strazio.
 
Non riesci a trovare dolcezza nel tono della tua voce, mentre il suo suono giunge alle tue stesse orecchie. C’è una punta di incredulità e tanta amarezza.
- Perché mi stai raccontando di questo ragazzo?
 
Sherlock d’un tratto riprende il contatto visivo.
Esita ad articolare le parole, lui, di solito sempre così sfrontatamente loquace.
 
- Perché lo conoscevi. L’hai conosciuto in Afghanistan…
 
Allarmato, cerchi conferma nei tuoi ricordi.  - Non conoscevo nessun Norton.
 
- Con il nome di Carl Powers.
 
Ed è come se avessi avuto finora un pesante drappo davanti agli occhi, che adesso, d’un tratto, con tutto il suo peso, precipita e ti lascia vedere quello che forse avresti dovuto capire prima.
 
E tutte le coincidenze si incasellano in uno schema preciso. E forse non è molto diverso quello che lui sta facendo con te, da quello che il Cavaliere Azzurro sta facendo con Trevon.
Perché in entrambi i casi è rapimento premeditato.
 
Guardi Sherlock stupito ed indignato.
- Mi avete rapito apposta? Perché conoscevo Carl? Ma che cazzo di senso ha?
 
- Sei in pericolo.
 
Sherlock cerca di fermarti, ma ormai sei in piedi, e rivolgi ansiosamente un occhio alla porta.
 
- Sherlock io non sono Carl, non posso sostituirlo… E io sono stato così coglione da credere che… - ti mordi la lingua pur di non continuare la frase.
 
D’un tratto ti sembra di non aver capito niente. Mai.
Hai davvero creduto di essere finito per caso ad intervistare Sherlock Holmes che non rilascia mai interviste. Che avrebbero dato a te un incarico tanto importante solo perché chi vi era stato destinato non era disponibile. Hai pensato che fosse inverosimile ma tutto sommato possibile che una mente geniale come quella di Sherlock non si accorgesse che non fossi Victor Trevon, il suo assistente. E che sapesse sul serio dedurre che eri stato in Afghanistan solo guardandoti in faccia.
 
Hai creduto possibile che una compagnia stimata come la British Airways potesse non effettuare un controllo dell’identità dei suoi passeggeri. Hai creduto che Mycroft Holmes non avrebbe rimandato indietro in Inghilterra con il primo volo un giornalista potenzialmente ficcanaso, ma ti avrebbe bellamente permesso di ascoltare di faccende delicate e indagare su un pazzo sconclusionato, solo per la tua aria affidabile e la tua promessa di non pubblicare neanche un tweet senza il loro permesso. Hai creduto a tutto questo.
E soprattutto hai creduto che Sherlock avrebbe potuto amarti.
E invece, sin dall’inizio ti ha mentito. Perché gli servivi.
 
L’artista ti guarda con preoccupazione, scuotendo il capo. - John, ti avevo chiesto di non saltare a conclusioni affrettate…
 
E ti sembra paradossale dover essere tu a dire a lui:- Non sono conclusioni affrettate, si tratta di semplice logica.
 
Nei suoi occhi un sincero rammarico, una cappa di nostalgia, il peso di innumerevoli sensi di colpa. - Non c’è niente di semplice in questa storia… E non mi hai fatto finire. È parziale quello che…
 
Con voce ferma ed inflessibile cerchi di celare il tuo sconforto:- Sherlock. Non voglio sentire un’altra parola. Dimmi cosa vuoi da me e me ne torno a Londra.
 
- Non voglio che te ne vada.
 
Sembra sinceramente affranto. Ma ormai diffidi di ogni sua pretesa di spontaneità. Sembrava spontaneo quando ti credeva Trevon, quando fingeva di non capire che le domande fossero per un’intervista, quando cercava le tue labbra con le sue. Ma non c’era niente di spontaneo.
 
- Adesso dici così, ma in realtà tu volevi qualcos’altro, no? Altrimenti perché mi avresti messo nella condizione di essere qui adesso? Cosa vuoi che ti dica?
 
- John, io… Lasciami spiegare.
 
Non vuoi altre spiegazioni. Non vuoi sapere come è proseguita la storia, ma sai com’è andata a finire. Carl era il fotografo della tua troupe per il reportage sull’Afghanistan, tre anni fa. Nell’agguanto di cui siete stati vittime, lui è stato ucciso subito, tu e gli altri siete stati prigionieri dei terroristi per quattro mesi prima di riuscire fortuitamente a fuggire.
 
Carl era una persona diversa da quella che Sherlock ti ha descritto, non era rimasto più niente della sua sognante ingenuità, nei suoi occhi solo una sofferente amarezza.
 
Carl lo amava. A volte accennava di una persona che si era lasciato alle spalle, prendendo il dannato aereo per l’Afghanistan. Era contento del suo lavoro, ma aveva temuto sin da subito che non sarebbe tornato vivo a casa. E adesso capisci che c’entrava il Cavaliere Azzurro, in quale modo. E qualcosa di losco in cui c’entrava anche Sherlock che non vuoi conoscere.
 
Nei febbrili attimi in cui vi catturarono, prima che gli sparassero un colpo, Carl ti diede un foglietto spiegazzato senza avere il tempo di spiegarti niente.
 
Tiri fuori quel foglio spiegazzato dal portafoglio, davanti all’incredulità ostentata da Sherlock.
 
- E pensare che ho cercato per anni il destinatario di questa lettera… E ce l’avevo davanti. Non ho saputo riconoscerti, ed ho letto mille volte quelle righe per capire… Non lo so. Non sta a me… Tieni, suppongo che sia tua… Avresti solo potuto chiederla subito e non costringermi ad entrare in questa girandola di follia.
 
Lui prende il foglio ingiallito, visibilmente impaziente di aprilo, ma alza gli occhi a cercare ancora una volta i tuoi. - John, lascia che ti spieghi…
 
Ma non vuoi più spiegazioni. Avverti un senso di inutilità e di tradimento difficile, se non impossibile, da scacciare via. Vuoi solo prendere il primo aereo e tornare alla sicura monotonia della tua vita.
 
Lo guardi negli occhi, forse per l’ultima volta. - Sherlock, è la tua battaglia, non la mia. Lasciami in pace. Non cercarmi più…
 
 
 
Angolo autrice:
 
Pubblicare oggi una storia tanto futile ambientata a Parigi, dopo quello che è successo ieri, mi colma di amarezza. Ma efp è un sito in cui raccontiamo storie anche per darci la forza di andare avanti. E non posso fare altro che mettere queste pagine a disposizione di chi vorrà distrarsi, anche solo per un istante, dalla barbarie di quello che è successo ieri.
 
Sono consapevole del fatto che i miei lettori - che ringrazio della pazienza - aspettassero questo capitolo a settembre. Lo so, questa volta ho sgarrato alla grande. Ma prometto entro la fine dell’anno di pubblicare il finale della storia, probabilmente uno, al massimo due, altri capitoli.
 
Non so quanti di voi avessero fatto caso che all’inizio del primo capitolo io nominassi esplicitamente Carl Powers come il fotografo della troupe di John in Afghanistan, ma comunque adesso sapete che era lì per un motivo…
 
Programmo il capitolo con parte del passato di Sherlock da mesi, e ho sviluppato un’ossessione per “Caro amore” di De André, che per me sarà sempre collegata a Sherlock e Carl. Vi sarete accorti che ho preso il nome della vittima del primo omicidio su cui Sherlock indaga nella serie, e vi sarete anche accorti che ne ho fatto sostanzialmente un personaggio originale, a parte il nome preso in prestito, per dare continuità alla ff con la serie.
 
Ragion per cui io a Carl tengo particolarmente.
 
Cosa pensate di lui?
 
Mi auguro che nessuno lo abbia odiato per l’ingrato posto che occupa nella storia…
 
Ad ogni modo, sono veramente curiosa su quello che pensate su questo capitolo.
 
Lo posto dopo un tempo di assenza immenso, ma è un capitolo a cui tengo particolarmente.
 
John si è fatto una sua idea su quello che è successo, ma ha ancora una visione parziale (molto parziale) di quanto accaduto. Per scoprire chi si cela dietro il Cavaliere Azzurro (come se non l’aveste capito!) e soprattutto quali sono le motivazioni che tengono in piedi tutto questo assurdo teatrino, vi aspetto al prossimo capitolo!
 
lady dreamer
 
 
  
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