II.
Gli anni passarono e le domeniche pomeriggio
vennero raggiunte dai sabati sera, che si distesero in interi giorni e poi
settimane e mesi e infine anni. Il tempo passava, in via Cesare Beccaria numero
23, all’interno 12 e 13 di quel bel palazzo che faceva tanto Torino, e invece
era la caotica Roma, appena si girava l’angolo con Via Flaminia, dove fa capolinea
il tram – uno dei tre ancora in circolazione.
Erica, quando Michela arrivò a Roma,
frequentava il secondo anno del liceo classico, all’Ennio Quirino Visconti come
voleva la tradizione della famiglia – non Leone, ma Borghese, quella della
madre. Suo padre, ai tempi, aveva fatto un professionale, aveva studiato da
tipografo e s’era ritrovato a lavorare dentro un cantiere edile fra le polveri
e sopra i ponteggi senza protezioni. Silvio, quando arrivava la sera, faceva
fatica a prendere sonno: si alzava dal letto, andava in cucina e scostava le
tende della finestra del soggiorno che davano su via Beccaria e respirava in
silenzio, per non svegliare la moglie e le figlie. Silvio era sempre stato un
uomo ansioso, con l’obiettivo di far vivere bene la sua piccola famiglia,
voleva la tranquillità che i suoi genitori non erano mai riusciti ad
assicurargli e Silvio era cresciuto ansioso, abituato ad alzarsi dal letto e a
respirare in silenzio, per non svegliare i suoi.
Teresa Borghese aveva frequentato il liceo classico, si era laureata in Lettere Antiche ed era diventata insegnante di greco nello stesso liceo.
Teresa s’era innamorata di Silvio per caso, come si innamorano
sempre tutti: in gita di piacere con la sua compagnia universitaria di culi
incipriati e palloni gonfiati, in uno di quei paesi al nord della Capitale,
dall’aria bucolica e oraziana. Silvio stava al bar, con i compagni di una vita,
e il caso volle che non fosse andato all’Olimpico per la partita della Roma.
Silvio, da giovane, era bello con il suo metro e novanta d’altezza, i capelli
lunghi fino alle spalle e le mani grandi e rovinate. Teresa, nel suo diario del
1987, scrisse che aveva visto Alessandro Magno in un remoto paese e che il suo Efestione aveva passato il pomeriggio a fare il filo a Monica,
come solo i “galli ruspanti” sapevano fare.
Monica, l’Efestione
di Silvio l’aveva mollato dopo poco, mentre Teresa con il suo Alessandro ci si
era sposata – dopo tre anni di fidanzamento a confine tra Roma e Bucolic City.
Nel 1990, Teresa Borghese e Silvio Leone convolavano a nozze nel paese di nascita di Silvio, ma sarebbero andati ad abitare a Roma, nell’appartamento che Gianluigi Borghese aveva comprato alla figlia. Nel 1993 sarebbe Selene e nel 1996 l’avrebbe seguita Erica, un piccolo batuffolo avvolto nel rosa e tremante dal freddo. Erica si era annunciata da sola, con uno dei pianti più poderosi che Silvio ebbe mai la possibilità di sentire. Scalciò incredibilmente quando il dottore la prese in braccio e l’affidò alle cure delle infermiere.
«È normale che faccia così?» chiese
preoccupato Silvio già dimentico, dopo soli tre anni, che anche Selene salutò
il mondo allo stesso modo.
Il
dottore l’aveva guardato con sufficienza, aveva guardato Teresa e le aveva
detto, bonariamente: «Tranquillizzi suo marito e gli dica che è così che andrà
per i prossimi nove mesi».
Teresa
aveva sorriso e aveva preso la mano di Silvio fra le sue.
Erica,
dopo aver annunciato al mondo la sua presenza, non pianse mai più.
Non
pianse quando i suoi nonni morirono, non pianse quando si ritrovò a un passo
dalla bocciatura al secondo anno, non pianse quando si accorse che sua madre e
suo padre erano in crisi per colpa del lavoro di Silvio. Non pianse quando sua
sorella smise di tornare a casa alle due del pomeriggio, né quando non l’aiutò
più con i compiti di greco perché aveva altro a cui pensare.
Erica non pianse perché al suo fianco c’era sempre Michela Morente, i gemelli e l’intera famiglia di Michela. Non pianse, Erica perché sapeva che Marianna l’avrebbe sempre accolta a braccia aperte con una tazza di tè pronta per lei, un orecchio amico che sarebbe stato in grado di ascoltare. A casa Morente, nell’interno 13/B, non c’erano urla e piatti lanciati e porte sbattute. Al 13/B c’era la pace, le chiacchiere conviviali, i sorrisi leggeri ed educati. Al 13/B c’era Milano, mentre al 12/B c’era Roma ed Erica l’odiava.
Teresa
Borghese accettò il fatto che la figlia minore scappasse da casa sua – così
come lo aveva accettato per la maggiore. Teresa strinse i denti e cercò in tutti
i modi di mantenere in piedi quella famiglia in cui certe volte non credeva
nemmeno lei. Non lo faceva per Erica e Selene; lo faceva per quella ragazza del
1987 che si era innamorata di Alessandro Magno e in nome di quella
testardaggine mediterranea che l’aveva fatta sopravvivere a cinque anni di
lettere classiche. Teresa combatteva per se stessa, quando Silvio tornava a
casa nervoso per il lavoro e stanco morto dopo aver rischiato la morte anche
quel giorno. Silvio le rimproverava silenziosamente di essere una borghese con
il padre fascista e Teresa gli urlava contro che il padre fascista gli aveva
dato un tetto sopra la testa e che, se fosse stato per lui, sarebbero vissuti
in quel paese grande quanto il cesso di un russo bolscevico dei soviet. E
Silvio s’incazzava e gridava. E Teresa faceva altrettanto. Ed Erica era chiusa
in camera sua, con il vocabolario di greco aperto, che faticava a distinguere
una lettera dall’altra, una frase dall’altra, una vita dall’altra. Passava quei
momenti a chiedersi come si vivesse a Milano, dove tutto era ordinato, educato,
preciso e funzionante. Lì, sicuramente, la gente non si urlava addosso e i
piatti non volavano e i genitori non si mandavano a farsi fottere uno con
l’altro e i vicini non parlavano di loro e lei non veniva adocchiata come la
povera vittima in mezzo a due pazzi scriteriati.
Erica
odiava Roma e tutto quello che portava.
A
Milano c’era il lavoro.
Milano
era il Nord.
Il
Nord funziona bene, dicono tutti.
Milano
non è Roma, si dice, e forse è un bene che non lo sia perché lei sarebbe andata
a Milano, sarebbe fuggita da quella Roma che avvelenava gli animi e uccideva
suo padre e strozzava sua madre.
A Milano non c’è il Teatro Marcello.
A Milano non c’è il Colosseo, il Circo
Massimo, piazza di Spagna, Largo Argentina.
A Milano non ce l’hanno Campo de’
Fiori. A Milano non c’è la statua di Giordano Bruno, i gatti randagi fra le
rovine, le vecchiette fuori le porte, i vicoli bui e via della Conciliazione.
A Milano non c’è Roma.
A
Milano non c’era Roma; ed ecco perché Erica non sarebbe mai fuggita. Ecco
perché quella quindicenne con gli occhiali spessi, con il libro da leggere
nello zaino e i soldi nel portafoglio non avrebbe mai comprato un biglietto per
vedere Milano, per fuggire da quel caos sporco e da quel rumore di piatti
infranti.
La sua
Milano era casa Morente e a lei bastava.
In
casa Morente si mangiava il sushi e il kebab, si beveva il tè nero e la
coca-cola. Casa Morente era buddhista e cattolica, agnostica e islamica. Si
parlava di Marx e si ricordava il Duce, si venerava
Newton e si leggeva Nostradamus. Casa Morente era cosmopolita e bucolica.
«L’hai
fatta la versione di Sallustio?».
Erica
sbatté gli occhi e distolse lo sguardo dalla finestra, portandolo su Michela,
seduta accanto a lei, nella cucina di casa sua. Teresa era uscita mezz’ora
prima, per andare a fare la spesa, di Selene non c’era ombra da quella mattina
alle sei.
«Non è
per giovedì?».
«E tu
vorresti farmi credere che ancora non l’hai fatta?» rispose l’altra,
maliziosamente e con il sopracciglio nero arcuato verso l’alto. Erica l’aveva
fatta la versione, ma non sapeva se passarla o meno a Michela. La
ragazzina c’aveva messo ben poco a capire che la coetanea dirimpettaia, che
dimostrava dieci anni per colpa di quegli occhi scuri troppo limpidi, era la
classica ragazzina che studiava tanto, che amava farlo perché piangeva dietro
alle storie raccontate dai tragediografi greci e rideva di gusto con le
commedie dei latini. Michela la sfruttava ed Erica se ne rendeva conto, ma
amava la sua voce, il suo naso che puntava all’alto, gli occhi verdi di malizia
e le labbra rosa e disegnate. Erica la sognava di notte e si sentiva strana,
quando succedeva. Erica si svegliava di soprassalto e respirava in silenzio,
per paura che sua madre la potesse sentire – che Michela potesse sentirla,
oltre le pareti, oltre le scale, oltre il pianerottolo. Erica sognava le dolci
forme di donna di Michela e si scoprì, un po’ alla volta, e si toccò, un po’
alla volta, immaginando che fosse Michela a farlo con le sue mani, che le punte
dei capelli che le sfioravano i capezzoli scoperti fossero neri e che le luci
che vedeva, alla fine, fossero i suoi occhi.
«Perché
mi guardi così?».
«Non
ti sto guardando in nessun modo» le rispose, in fretta, Erica. Prese il
quaderno dallo zaino e glielo passò, con noncuranza. «L’ultima versione è
quella del Bellum Iughurtinum.
Ti consiglio di cambiare qualche parola, altrimenti è troppo palese».
Michela
sbuffò. «Ovviamente lo avrei fatto, Ery. Non è la
prima volta che mi faccio passare una versione». E la guardava con malizia, mentre
glielo diceva, si scostava i capelli dal collo e continuava a guardarla mentre
si umettava le labbra con la punta della lingua. Erica deglutiva la saliva, la
gola era carta abrasiva e il fiato era fuoco. Michela sapeva, si diceva in quei
momenti. Michela sospettava e la stava punendo, altrimenti non avrebbe mai
fatto così. Michela non era amica sua, altrimenti non l’avrebbe torturata con
la cosa che desiderava di più.
Michela
era una puttana, a soli diciotto anni. Tutti lo sapevano, tutti lo dicevano.
Michela aveva aperto le gambe la prima volta che era piombata fra le mura del
Quirino Visconti, con i capelli intrecciati e la gonna ad altezza ginocchio.
Erica, alle spalle, l’aveva osservata ancheggiare e l’aveva invidiata perché
lei non c’era mai riuscita. Erano passati due anni, da quel primo giorno di
scuola di metà ottobre ed Erica era cresciuta.
Portava
ancora gli occhiali, aveva salutato con gioia l’avvento delle felpe nel suo
armadio, dei jeans larghi e sformati, dei capelli rasati sopra l’orecchio
sinistro e quel tatuaggio che si è fatta di nascosto con Michela, la scorsa
estate.
Erica continuava a stare con Michela per colpa del 13/B e dell’aria che respirava all’interno. Teresa aveva lasciato Silvio, in quei due anni. La casa era la sua e lui era tornato a vivere al suo paese, con la nomina di “cornuto” e tutti lo prendevano per il culo alle spalle, mentre gli aprivano la porta di casa e ascoltavano le sue prediche da troppa birra. Il padre, in quei due anni, s’era lasciato andare ed era completamente sparito dalle loro vite. Selene aveva fatto lo stesso. Teresa non aveva pianto, ma aveva continuato a correggere le sue versioni.
«Cristiano
mi ha chiesto di uscire, sabato».
Erica
sorrise, alzando amaramente un lato della bocca e stirando le labbra. «Sabato
dovevamo andare al cinema».
L’altra
sbuffò, come suo solito, mentre raccoglieva le sue cose e le infilava nello
zaino. «Ti avevo detto che non ne ero sicura, se ti ricordi».
«Io mi
ricordo, Michela. E mi ricordo che mi avevi promesso una serata al cinema, solo
io e te».
«Erica!»
esclamò duramente Michela, interrompendosi e guardandola negli occhi, «non
iniziare a cagare il cazzo con la storia del cinema, del “solo tu ed io”
perché, giuro, stavolta mi incazzo».
«Ah,
tu ti incazzi?» disse Erica, quasi urlando e puntandole l’indice contro. «Io mi
dovrei incazzare, che stai sempre con quella troia di Giada e io vengo usata
solo per le versioni, le interrogazioni e qualsiasi altra cosa di poco conto
per te!».
«Non
osare dirmi una cosa del genere, Erica! Lo sai che è una cazzata! Lo sai anche
tu, mentre lo dici». Michela mulinò di nuovo i capelli, che le finirono dietro
una spalla.
Erica aveva fatto il giro del tavolo, le stava addosso. Le aveva messo le mani sulle spalle e tentava di guardarla negli occhi, anche se una goccia di sudore freddo le stava facendo bruciare quello destro. Sentiva il cuore battere forte, le ciglia fremere e il respiro accelerato di Michela sulle guance e poi la lingua di Michela che umettava le labbra, quegli occhi pieni di malizia da puttana del Settecento con la voce roca e il seno imbellettato.
Tutti avevano toccato Michela, tutti l’avevano avuta e nessuno l’aveva amata.
Lei,
invece, Michela l’aveva venerata da lontano, amata, confortata e aiutata nei
momenti di bisogno, quando lo stronzo di turno aveva smesso di giocarci e lei
che pensava fosse il vero amore c’era rimasta di merda. Erica c’era sempre per
Michela, mentre Michela l’abbandonava sempre solo perché non aveva un pene fra
le gambe.
Erica
le aveva stretto le spalle e doveva averle fatto male, perché Michela aprì la
bocca ed Erica non ci capì più niente se non che l’aveva baciata, che sentiva
la sua lingua sul palato e che giocava con la sua. Le mani aperte di Michela
sulla sua schiena e una gamba fra le sue, prepotente, a sfregarle il sesso e a
costringerla a respirare a bocca aperta.
Michela
sapeva farci, che fosse uomo o donna.
Erica
non sapeva cosa fosse, ma lo faceva bene.
Michela
portò una sua mano sul petto di Erica, lo prese forte, le sfregò il capezzolo
già ritto sotto il reggiseno.
Poi,
il cellulare suonò forte e la voce di Nicki Minaj si espanse prepotente.
Michela si scostò, con ancora un filo di saliva ad unire le loro bocche. I suoi
occhi verdi non avevano più malizia, le sue guance erano arrossate, le sue mani
ancora strette addosso a Erica e poi tutto le piombò addosso.
«Non
toccarmi!».
«Eri
tu che stavi…».
«Non
osare… lesbica!».
«Se
doveva essere un insulto-».
«Mi
fai schifo!».
E
Michela sputò.
E il
mondo finì.
E la
porta sbatté.
Ed
Erica morì.
Un
giorno.
Due
giorni.
Un
mese.
Sei
mesi.
Un anno.
Quegli occhi verdi nascondevano il
balsamo per eludere i sogni – Luis Sepúlveda,
Diario di un killer sentimentale