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Autore: ChocoCat    22/11/2015    1 recensioni
REVISIONE IN CORSO
"Hermione raccolse la borsetta di perline dalla sedia accanto alla propria e si avviò verso il piano di sopra per entrare nella prima camera che avesse trovato. Si ritrovò davanti al letto sfatto di Ron; sul davanzale della finestra c’era una boccia di vetro vuota, il vecchio Deluminatore e la sua bacchetta. I ricordi la sommersero; in quella stanza, strategie, ansie, affetti, paure, e ancora gioie, disappunto, e amori senza fine…"
Seguiamo le vicende di una Hermione che sta per cambiare definitivamente la rotta della propria vita (e se non lo sapete ancora, sappiate che non andrà come previsto!), un vivace Ronald pronto a tutto - anche a un'avventura nella jungla nera in mezzo ai ragni-, una Ginevra alle prese con il vaiolo magico brasiliano e un passato pronto a ribollirle contro, un Seamus con il suo più grande sogno inconfessato, ed infine... Harry, che dovrebbe avere la mente vuota e non sentire mal di testa da un bel po', ma è risaputo... nella vita... non si sa mai cosa ci aspetta!
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Il trio protagonista, Luna Lovegood, Michael Corner, Seamus Finnigan | Coppie: Harry/Hermione
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Keepsake Tales'
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Dal capitolo precedente:

Dio, che brutta cosa. Che brutta cosa il rimpianto.
Una voce lo scosse. Lo fece voltare.
“Ha bisogno?”
Doveva essere l’addetto al bureau di accoglienza dell’Accademia.
“Sì. Mi chiamo Michael Corner, e vorrei costituirmi.”





35.

Camminava svelto per non perdere il passo. I lampioni erano spenti, qualche
macchina era parcheggiata accanto al marciapiede, ma c’era buio, veramente buio, ed erano poche le finestre ancora illuminate. Si erano appena materializzati, mano di lei sul suo braccio, senza una parola, ed eccoli arrivati in un vicolo che non aveva niente di familiare. Ronald Weasley non sapeva cosa pensare. Era confuso. Era perso.
“Ehi, pivello. Ti spiace aspettare qui?”
Alzò immediatamente lo sguardo all’appello di Megan Reeves, e scosse la testa in segno di diniego. Si sedette su un muretto di mattoni rossi, dietro di lui i cipressi lo costringevano a stare piegato in avanti, con la schiena curva e il capo chino. Che odio, quei cipressi.
Riuscì a sbirciare Megan, le sue lunghe gambe femminili e l’andatura stanca e altalenante, arrivare davanti alla porta. Lei suonò al campanello più volte, in un modo che avrebbe sicuramente innervosito oltremisura una come Hermione. Lo spiraglio della porta fece uscire una fetta di luce dall’interno. La figura era alta, sovrastava quella della sua Senior, ma non lo lasciò all’immaginazione e uscì allo scoperto, accendendosi una sigaretta.
Ron indietreggiò.
Era Adam Fullbuster, l’ultimo membro della loro squadra. Se avesse un’aria preoccupata, Ron non avrebbe saputo dirlo. Lo guardò mentre portava la mano tremante alla bocca per aspirare altro fumo.
Era nascosto nella siepe, su quel muretto, come un bambino. In disparte, come in punizione. Sentì squarci della conversazione.
“…stabile. Ma tu devi andare a vederlo.”
“Cribbio Megan, io non posso.”
“Nessuno giudica nessuno. Sono a posto, davvero… fidarti di me.”
“No. Non se ne parla.”
“…chiesto lui.”
“Come? E gli altri?”
“Nessuno ha sentito. Rex… ti prego. Ha bisogno di te.”
Ron fissava le sue scarpe e i mattoni ordinati, il respiro piatto e disteso, con la finta calma che conferisce il buio della notte, forse per questo sussultò allo sbattere della porta.
Megan era lì, illuminata dalla fioca luce che sfuggiva all’oblò dell’entrata. Era ancora voltata di spalle, e lui pensò che era strano, che stesse voltata così tanto, ma non disse niente.
Come un bambino, attese. E lei dopo qualche minuto lo raggiunse. I suoi occhi pesti di stanchezza e di trucco gli fecero pena in un modo scomodo, che ti fa venire voglia di scappare, e non di consolare.
“Andiamo, Ronnie.”
“...fanculo.”

Un po’ di nausea ce l’aveva. Doveva essere l’indecisione di lei, durante la materializzazione congiunta. Forse avrebbe voluto essere altrove. Anche lui, dopotutto. Posto sbagliato, persone sbagliate.
Al diavolo tutto.
La seguì nel giardino posteriore di due villette a schiera babbane; l’incantesimo che proteggeva la sua casa scomparve e lasciò intravedere una grande villa bianca in fondo a un vialetto.
“Vieni, è per di qua.”
La seguì attraverso il portico, fino all’uscio, avvolti dal buio e dal rumore delle fronde degli alberi.
“Ti va un Jack Daniel’s?”
“Che diavolo è?”
“Va bene, non lo vuoi.”
“Ok, dammelo.”
La seguì, ancora, fino a un gigantesco salotto. Era grande, sgombro, elegante. E lei era in mezzo, vicino a un carrello per le bevande veramente grazioso, doveva essere una cosa da ricchi. Cristallo, ottone. Bottiglie di ogni genere. Megan gli versò quel Jack Daniel’s, e lui si avvicinò, titubante, sull’immenso tappeto orientale.
“Buono.”
“I babbani ci sanno fare con l’alcool.”
“Vieni spesso qui?”
“Questa è casa mia.”
Ronald si guardò attorno sbalordito. Doveva essere cinque o sei volte più grande della Tana. Ed era solo per lei.
“Non ti perdi mai?”
Lei rise, di una risata un po’ roca.
“Vuoi vederla tutta? Non sei mai stato in un posto del genere, vero?”
“Più o meno. Ho conosciuto da vicino Malfoy Manor.”
Il pensiero gli ghiacciava ancora il sangue.
“Vieni, ti faccio vedere.”
Tracannò un sorso che a Ron parve troppo lungo direttamente dalla bottiglia, poi lo prese per il polso e lo strattonò.
E lui, stranito e perseverante, ancora una volta decise di seguirla.
Ogni tanto mandava giù un sorso, e lei lo imitava. Si scambiavano a malapena qualche occhiata di sbieco. Ron abbassava ostinatamente la testa per sottrarsi al contatto visivo.
Non capiva il motivo del suo sguardo triste, storpio, capiva solamente lo sguardo in sé. Era uno sguardo da donna che
parla e sa di saperlo fare.
Non era un totale idiota, pensava. Non era così stupido, così insensibile. Lei, per esempio, era così limpida. Capiva le sue intenzioni. Niente a che vedere con i messaggi crittografati ai quali era abituato.
Così lasciò correre gli occhi su quel corpo di donna.
I fianchi, il fondo schiena, le cosce, gli avanbracci. In un corridoio lungo, in un bagno grande e in una sala da musica con il pianoforte al centro, in forse dieci anticamere con i muri coperti di scaffali e pieni di libri. Finirono nuovamente in salotto. Non aveva avuto l’occasione di toglierle gli occhi di dosso in mezzo a quelle mille stanze. Il ricordo confuso del pianoforte si sovrapponeva ai muri bianchi delle anticamere in un vortice di colori e fattezze irreali. Fino a che lei si voltò lentamente, con l’intenzione di guardare lui negli occhi. Proprio lui.
C’era ancora una vena ilare nel modo in cui lo squadrava, ma ora si nascondeva meglio nel torbido dell’alcool. La bottiglia era quasi vuota e anche il bicchiere di Ron. Lo posò. Le prese la bottiglia dalla mano e bevve l’ultimo sorso. Lei non aveva smesso di guardarlo. Era di fronte a lui, in attesa. In attesa!
Voluttuosa doveva essere la parola giusta per descriverla. Presto Ron non capì più niente. Scuoteva il capo e scuoteva via gli ultimi rivoli di coscienza.
Il Jack Daniel’s era nel suo sangue e gli aveva liquefatto la mente e le gambe. Sentiva solo una parte del corpo sveglia, ed erano i lombi, incendiati da quella situazione assurda, tanto assurda da spingerlo a desiderare, come un chiodo infisso nel cranio, quel corpo di donna.
L’idea martellante lo spinse ad avvicinarsi. Una mano corse a lambire il petto, con un movimento dal basso verso l’alto; e scese, s’impossessò del fianco; s’impresse sui reni, per avvicinare quell’anima guasta alla sua, per portarla a un palmo dal suo corpo confuso e fremente.
Non dissero una parola.
Ron si tolse il maglione e la fece indietreggiare fino al divano. Megan si slacciò il corpetto, scivolò fuori dai suoi proverbiali anfibi e si tolse la gonna corta e spiegazzata.
Ron si sedette accanto a lei. Con una mano impacciata le scostò i capelli dal viso.
“Non devi farlo per forza.” Sussurrò lei, con un sorriso beffardo.
“Che cosa?”
“Essere carino con me.”
La frase lo spiazzò, non riuscì a trattenere una risatina dal timbro basso e canzonatorio.
“Non sono qui per essere carino con te. E nemmeno con me. Credo proprio che domani avremo più grane di oggi.”
“Mi va bene così.”
Lui non seppe cosa rispondere. Sorrise mestamente, e si lavò via l’ultimo barlume di riso.
Era rimasto con la mano sospesa dietro al suo orecchio. Qualche piercing, una piccola croce gotica; un tatuaggio nascosto e leggermente in rilievo sulla nuca; testimoni inanimati della sua animosa diversità.
“Che cos’è questo?” sussurrò avvicinandosi, curioso.
“Una rosa.”
“Perché?”
“Fatti gli affari tuoi, pivello.”
Ron rise ancora.
Ti va bene così?”
“Sì.”
“Tu ami Rexford?”
Gli arrivò una scarica di pugni rivolti al suo stomaco che riuscì a deviare goffamente. Avrebbe dovuto aspettarselo. La odiò ancora un po’ di più. Dopo qualche istante, però, lei gli rispose:
“Rex mi piace. Ma io non piaccio a lui.”
“Mh. Non è tanto diversa la mia situazione.”
Lei lo guardò con tanto d’occhi.
Ron sentì intimamente le viscere torcersi per quegli occhi amari, ma non si sottrasse.
“Cosa c’è, la Granger è troppo per te?”
La Granger ha in mente qualcun altro.”
Fece una breve pausa.
“O comunque non più me.”
“Rex ama un altro.”
Lo aveva detto così rapidamente, fra le labbra arrabbiate, che Ron credette di aver frainteso. Poi capì. Collegò. La conversazione a sprazzi.
Lei che alla richiesta di Rex e se ne andava e quasi dimenticava il cappotto. Lei che accettava la sua presenza e anzi lo invitava a seguirla. Lei che fingeva di desiderarlo, per sballarsi, per dimenticare un attimo tutto e tutto in un attimo.
“Fullbuster?”
Lei fece di sì.
Le accarezzò la nuca, la rosa, il capo.
“Dai, rivestiti, Megan. Andiamo via di qui. Siamo patetici.”
Fece per alzarsi, ma lei lo prese per la collottola e lo baciò.
Un brivido gli s’irradiò dalla nuca verso i reni. Nessuno gli aveva mai infilato la lingua in bocca in quel modo senza chiedere permesso. Le reazioni fisiche, mentali, si contrastavano in un esplodere di sensazioni luminose e dolorosamente gradevoli.
“No.” Megan si scostò, ricoprendogli la bocca di baci brevi e irriverenti. “Non lasciarmi da sola stasera. Potrei morire. Giuro che potrei.”
Ron era rimasto interdetto. Per l’ennesima volta era in bilico. La mente annebbiata rimandava immagini confuse di Hermione, di Harry, dell’Accademia.
Il piatto della bilancia della coscienza si rovesciò con un clangore attutito, abbastanza forte da richiamare l’attenzione ma abbastanza lieve da essere ignorato con disinvoltura.
Ron si divincolò, mentre il petto gli si sollevava incontrollatamente per lo scompiglio profondo.
“Vorresti davvero
scopare con il Pivello? Guarda che poi te lo ritrovi davanti tutti i giorni, a forza. Dico sul serio, Megan, non mi sembra una grande idea.”
Ansimava solo all’idea. Lei era molto attraente, ed era lì, con il capo nascosto nel suo collo, occupata a nascondersi dal suo sguardo. Docile, infinitamente fragile e femminile. Aveva una scorza incredibile. Ron le sollevò il volto con il cuore che batteva a mille. Lo stava facendo? Stava tradendo Hermione? Se lo meritava, davvero?
“Stai pensando a lei.” Lo rimproverò Megan.
“Lei non mi ha mai tradito.”
“E tu non hai mai tradito lei.”
“Falso... questo è… falso. Prima ancora di stare con lei… io ero a conoscenza dei suoi sentimenti, ma mi sono lasciato …lusingare da Lavanda Brown. Una ragazza del nostro anno. Sai, a scuola. Hogwarts. Lei mi ha baciato davanti a tutti e io… cosa potevo fare? Ho accettato. Insomma, mi guardavano tutti! Ma… è stato un errore clamoroso. A me era sempre piaciuta… solo lei.”
“Ti senti in colpa?”
“No… Hermione mi sta lasciando.”
“Allora
lasciala tu per primo.”
La sentì mordergli il petto e le clavicole. Sì, Megan aveva ragione.
E anche la sua bocca ne aveva da vendere. E quelle sue mani…
Si lasciò andare. Finì di spogliarsi senza vergogna, disinibito dall’alcool, e il fine riverbero delle vetrate illuminò a nastri il suo addome diafano che nascondeva a malapena uno stomaco dolorosamente annodato. Incurante del nodo in gola, si sdraiò su di lei. La sentì sospirare sotto al suo peso e di rimando arricciò le labbra in un fremito. Accolse un piacevole brivido di sollievo al contatto con la sua pelle tiepida.
Le scostò i capelli dal viso, prima di baciarla una prima volta con delicatezza.
“Ti ho già detto niente smancerie.”
Lui rise di nuovo, un po’ ubriaco, fra le sue labbra, e in quell’istante, guardandosi cullati dal buio, si sentirono un po’ più vicini, un po’ meno strani.
Come se un semplice bacio potesse suggellare un patto o cancellare la loro abiezione.
Ron capì che lei, in quel momento, Rex o non Rex, era sua. E lei, che il pivello ne aveva da vendere, e quella Hermione non era poi intelligente come aveva pensato.
Si capirono con la lingua, idioma universale.
C’era buio pesto. Il Jack Daniel’s, vuoto, era sul ricco carrello del signor Reeves ormai defunto. E Ron e Megan, avvinghiati come serpenti, ondeggiavano di un amarsi malsano e malvissuto, vero, sfrenato.
Al resto ci avrebbero pensato dopo.





36.

Harry aprì gli occhi all’insistente suono del campanello. Raccolse la coperta in tweed da terra e la mise sopra a quella di Rexford, che dormiva profondamente e non si era svegliato in tutta la notte. Al contrario, Harry non aveva chiuso occhio fino alle ultime ore. Era troppo preoccupato e troppo frustrato. Si mise gli occhiali e tentò di sistemarsi i capelli e la maglia di traverso prima di aprire la porta.
Alla vista di Hermione si sentì profondamente sollevato.
“Ah, già. La bacchetta.”
“Hai dormito, Harry?”
La ragazza entrò senza togliersi la giacca e si avvicinò cautamente al mago addormentato. Indirizzò qualche sguardo verso Harry, e lui rispose con un pollice verso.
“Vado a farmi un caffè, vuoi qualcosa?”
“Non vorrei darti spiacevoli sorprese, ma le tue dispense ieri sera erano vuote.”
“Da quanto controlli le mie dispense?”
“Da quando sono più in questa casa che a lavorare fra i libri. E mi devo occupare di gente che sta male, gente che si lamenta, gente che non sa quello che vuole…”
Lo raggiunse in cucina e finalmente si tolse i guanti e la sciarpa. Li appoggiò nella ciotola vuota della frutta.
Harry appoggiò il bollitore e accese il fuoco. Aprì le ante degli armadietti della cucina alla ricerca di una tazza pulita, sbadigliando sonoramente.
“Com’è andata ieri sera? Era molto abbattuto?”
Il disagio pervase la stanza. Li per li fu certo che lei non avrebbe risposto, perché si era spinto troppo al di là degli affari suoi. Non era la prima volta che qualcuno gli dava del ficcanaso. Sentì Hermione accavallare le gambe alle sue spalle.
“Ron?” disse, “Non ne ho idea.”
Harry si voltò all’improvviso, sbattendo la testa nell’anta aperta.
“Accidenti.”
“Harry, ma cosa fai!”
Hermione si precipitò da lui per vedergli la fronte.
“Ti verrà un bell’ematoma.”
“Ron non è tornato?”
“Non avere quel tono stupito, cosa ti aspettavi da lui?”
“Dai, non dire così. Per favore.”
“E che cosa dovrei dire? – ti fa male qui?”
“AHI, sì, dannazione. Non è che vorresti usare la bacchetta, così, giusto per accelerare la guarigione? Ne ho abbastanza di cicatrici idiote.”
“Giusto per? È solo una botta.”
“Sembro Quasimodo…”
“Va bene, va bene.” Agitò la bacchetta sul bernoccolo di Harry e quello scomparve immediatamente. “Comunque, se ci tieni a saperlo, non ha dato notizie di sé. Zero.”
“Dove si sarà cacciato quel… quello scemo.” Borbottò Harry.
“Notizie di Seamus?” tagliò corto Hermione, visibilmente non in pena per la faccenda.
“No, ancora niente.”
“Allora andiamo, ti va? Ti pago un caffè in centro. Prima che tu ti faccia del male un’altra volta.”




37.

Il cielo era incredibilmente limpido. Qualche stria bianca qua e là si rifletteva sulla landa ombreggiando le spighe ancora tenere del granoturco. In lontananza, uno tetto bitorzoluto invaso dai camini si stagliava svettante contrastando in modo familiare il panorama.
Ginevra giunse in fondo al viale che portava al giardino della Tana. Il vento sibilava così forte da farle temere per i suoi timpani. Si stringeva ancora nella felpa di fortuna prestatale da Luna. Tutto sommato, avanzare a testa bassa, senza guardare la strada, non le era tanto estraneo. Tuttavia, ferma davanti al cancelletto, non riuscì a muovere un muscolo.
“GINNY!”
Si voltò di scatto, intimorita.
“RON!”
“GINNY.”
Ron arrivò correndo, incespicando nei suoi lacci sfatti, la raggiunse e la strinse con forza.
Le baciò tutta la testa, la strinse di nuovo. Ginny respirò profondamente l’odore di suo fratello, e si sentì a casa come non lo era da tanto tempo ormai. Le traballò il cuore nel petto. “Sono così felice, Ginny.”
“Ron, ma cosa ti è successo? Sei tutto scombinato.”
Lo sguardo duro che le rivolse le gelò il sangue.
“Cos’è successo?”
“E a te?”
“Io… ho voluto seguire due Ghermidori e dal Rio delle Amazzoni mi sono ritrovata sotto al negozio di Magie Sinister. Se non fosse stato per… qualcuno, sarei ancora rinchiusa in quella prigione, o più probabilmente il troll prigioniero nella cella di fronte alla mia mi avrebbe uccisa.”
“Ma come… dove sei stata finora?”
“Luna. Mi ha ospitata lei.”
“E Michael?”
“Sta bene. Sta… lui… oh, insomma. Non voglio parlarne.”
“Va bene, andiamo. La mamma probabilmente non dorme dal compleanno di Harry.”
Le mise un braccio sulla spalla e stringendola la sospinse verso casa.
“Oh…”
Ginny si immobilizzò.
“Cosa c’è?”
“Niente, dovrò sistemare la faccenda anche con Harry… ho alcune …cose. A cui pensare.”
“Hai incontrato qualcuno, laggiù? In Brasile?”
“No.” Rispose lei, ingrugnita.
“Strano, non è da te.”
“Se tu sapessi cosa è
da me…”
Entrarono cautamente dal retro della cucina e trovarono la signora Weasley addormentata sulla sedia a dondolo, fra le mani aveva l’ultimo numero della Gazzetta del Profeta. La Tana era rimasta la stessa negli anni, nessuno dei figli l’aveva veramente abbandonata andandosene di casa. Più precisamente, avevano sparso cosi’ tanti oggetti personali che nemmeno con un secolo a disposizione sarebbero riusciti a discriminare cosa fosse di chi, a partire dai gingilli babbani del signor Weasley, passando per i vari maglioni di lana grezza e i diari segreti nascosti fra i libri usati dei figli, le figurine delle Cioccorane – un tesoro comune, le vasche con i girini dello stagno e le puffole pigmee appoggiate sul caminetto in bella mostra vicino alle cornici degli ultimi diplomi.
La ragazza, di ritorno a casa dopo lunghi mesi in mezzo alla foresta, ebbe un potente moto d’affetto che non avrebbe creduto possibile, lei che si reputava un’indomabile viaggiatrice.
Si tolse la felpa e si avvolse attorno lo scialle che sua madre aveva abbandonato su una sedia del soggiorno. Le lancette dell’orologio magico si rimisero in posizione. Ginny era di nuovo al sicuro. Ron si servì una tazza di latte e si avvicinò a sua madre, ancora indeciso sul come l’avrebbe svegliata.
“Mamma…” le mise una mano sulla spalla e la scosse delicatamente.
“Merlino… Ron! Cosa ci fai qui…” ma si zittì non appena vide sua figlia.
Ginny era avvolta nel suo scialle, con i capelli spettinati che le coprivano le braccia fino al gomito, e aveva gli occhi pesti di quando piangeva tutto il sabato mattina per i capricci.
E Ron, lui era conciato come una persona poco raccomandabile, aveva la camicia abbottonata in modo asimmetrico, non infilata nei pantaloni, e i lacci delle sue scarpe si trascinavano pietosamente sotto alle suole e all’incurie di quel benedetto figlio da strapazzo.
Le bastò una lunga occhiata per capire cosa era successo.
Era furiosa, così furiosa che le si riempirono gli occhi di lacrime.
“Vorrei sgridarvi, tutti e due. Ma non ci riesco.”
Li abbracciò stretti, li costrinse a cozzare contro il suo petto. Ron, piegato in due per la sua rimarcabile altezza, allungò le braccia goffamente attorno alle due donne.
“Profumi di donna.” Sentenziò Ginny rivolta a Ron, sbucando dal collo odoroso e familiare di sua madre, storcendo il naso all’odore dolciastro e sconosciuto. Gli pizzicò la guancia con fare ammonitore. Ron sembrò più arrabbiato di prima, ma stranamente non rispose alla provocazione.
“Sei stata via così tanto… Ron vive con Hermione, adesso, sai?” la signora Weasley prese la figlia per mano e la condusse a tavola, lasciando che Ron si adagiasse sulla poltrona ancora calda vicino al caminetto. “Avete fame? Io ho bisogno di un tè caldo.”
“Mamma, più tardi dovrei passare… insomma, testimoniare… contro i Ghermidori…”
“Tu non andrai da nessuna parte fino a nuovo ordine.”
“Mamma ti prego… non ho più dieci anni. È importante, davvero.”
“Sai cos’è importante? È importante non raccontare bugie ai propri cari. E tu,
cara, me ne stai preparando una grossa come una casa. È solo un suggerimento. Ti consiglio di parlare.”
“Mamma, lasciala respirare. Non dev’essere stato facile nemmeno per lei.” Intervenne Ron.
La signora Weasley lo fulminò con lo sguardo.
“Non ho detto questo. Non ho detto questo…”
Ron per poco non si pentì di aver parlato; sua madre sembrava tremendamente avvilita dai sensi di colpa. La osservò mentre preparava la colazione e gli sembrò più piccola che mai.
“Ha ragione lei. Avrei dovuto dirvelo prima che stavo bene.” Disse Ginny. “E mi dispiace. Ho avuto tanti problemi e non sapevo come affrontarli.”
“Non pensi che avresti potuto parlarmene?” rispose la signora Weasley, piazzandole davanti due tramezzini tostati e un bicchiere di latte. Ginny non poté trattenere un sorriso sincero, malgrado il sermone. Sua madre alzò gli occhi al cielo in un tentativo imbarazzato di trattenere le lacrime che in un primo momento non si erano fatte avanti. Ma ora il sollievo era quasi sconvolgente. Sua figlia era lì con lei, e tutto era tornato al suo posto. Ginny, stoica di natura, la guardava con gratitudine. Quasi non credeva di poter assaggiare quelle leccornie ancora una volta. Si avventò sul cibo come un’affamata, mentre sua madre e suo fratello si scambiavano uno sguardo apprensivo.
“Ho mangiato in questi giorni, non vi preoccupate. È solo che… mi è mancata casa.”
Disse, candidamente.
Ron sorrise reclinando la testa all’indietro sullo schienale.
“Tu non mangi niente, Ronnie?”
Ron storse la bocca.
“Magari, qualcosina, se c’è.”
Ammiccò a sua madre indaffarata e socchiuse gli occhi con immensa gratitudine.
“Ti ho messo un’omelette sul fuoco. Stai attento a non bruciarla. Vado a mandare subito un gufo a vostro padre. Speriamo gli concedano di tornare a casa presto oggi…”
Si dileguò su per le scale scricchiolanti alla ricerca del piccolo Leotordo, chiamandolo a gran voce. Rimasti soli, calò il silenzio temporeggiato dai rumori di stoviglie e dalla masticazione sonora della ragazza.
“Si può sapere cos’hai combinato?” chiese Ginny a bruciapelo.
Ron si alzò mollemente e raggiunse i fornelli. Passando, le strinse la spalla.
“Allora?”
“Un pasticcio, ma tanto ormai era già andato tutto in brodo.”
Rispose lui, scrostando la frittata dalla padella.
“Ci stiamo lasciando. Probabilmente.”
Ginny posò la tazza rumorosamente.
“Che cosa accidenti vorrebbe dire
probabilmente?”
Si voltò a guardare suo fratello. Era occupato a rigirare la frittata che ormai era diventata un grumo bruciacchiato al centro della padella. Sembrava profondamente rassegnato.
Ron si servì il materiale grumoso in un piatto con una porzione generosa di ketchup e si sedette vicino a lei. Ginny, a capotavola, gli puntò il cucchiaino sotto al naso.
“Parla, Ronald.”
“Hermione ha deciso che io non vado più bene per lei. Così ho deciso di lasciarla io per primo.”
“…e?” chiese lei, veemente.
“E stanotte ho dormito con un’altra.” Ammise lui, masticando con disgusto un boccone bruciacchiato.
A Ginny cadde il cucchiaio di mano.
“Stai scherzando, spero.”
“Non mi giudicare. Io… ho bevuto alcol e… Merlino, lei è praticamente il mio capo all’Accademia…”
La teiera fischiò indispettita fino a che Ron si decise ad alzarsi per togliere l’infuso.
“Il tè è pronto.” Borbottò. Le versò il tè nel latte in un tentativo goffo di premura, sporcando irrimediabilmente la tovaglia.
Gratta e netta. Sia maledetto il… beh, meglio di niente.”
Tornò a sedersi e a osservare con costernazione il suo piatto. Si mise le mani fra i capelli. Ginny raccolse il cucchiaino e tornò a mescolare il tè nel latte. Quei minuti furono fonte di incredibili sensi di colpa per Ronald. Alla luce del giorno era difficile accettare quello che la sua coscienza si era buttata alle spalle la sera prima.
“Credo sia un difetto di famiglia.” Buttò lì Ginny, tossicchiando.
Ron alzò lo sguardo immediatamente. La guardò fra le dita, stropicciandosi il viso.
“Però tu almeno avevi una motivazione…” si precipitò a dire lei.
“Hai tradito Harry?” gemette Ron in falsetto.
“Zitto, deficiente. Se ci sente la mamma…”
“Hai tradito Harry?”
“Devo ricordarti che sei stato tu il primo a confessare e cosa?” ringhiò Ginny, piccata.
“Con chi?” si protese sul tavolo, urtando ciotole e bicchieri con le braccia. Lei istintivamente indietreggiò.
“Senti, è complicato. Anche perché è stata una cosa sbagliata e insomma ce ne siamo accorti per tempo e adesso non abbiamo più niente a che fare io e lui.”
Riconobbe chiaramente un lampo di comprensione negli occhi chiari del fratello.
“Quel Corner.” La accusò.
“Cos’è questo tono sprezzante? Non posso credere che venga da te. Voglio dire, Ronald, da che pulpito…”
“Cos’ha Harry che non va?”
Ginny si fece di ghiaccio. Cos’era quella domanda, che senso aveva? Non aveva appena detto anche lui di aver fatto qualcosa di sbagliato? Non si sentiva in colpa? Si credeva forse giustificato?
“Senti, Michael e io siamo stati amici per molto tempo e…”
Si interruppe, osservando lo sguardo carico di tristezza di suo fratello. I suoi occhi grigi erano sporcati dal disprezzo, dalla paura, erano così allarmati. Ron sembrava fuori di sé. Era un’altra domanda che stava ponendo.
Cosa ho io che non va.
Se non va bene uno come Harry, come posso andare bene io.

Ecco cosa passò per la mente di lei, mentre osservava Ron afflosciarsi attorno al suo piatto, sconfitto. Ecco che ricompariva quel lato odioso di suo fratello; lui aveva sempre faticato a credere in se stesso, ed Hermione era stata la prima a credere in lui, a notare lui e solamente lui. Non stava andando in frantumi solamente una relazione, ma tutto il mondo e i castelli di carta di Ron. E lei non ci poteva fare niente. Era colpevole di chissà quale crimine.
Aveva preferito dare una possibilità a Michael, piuttosto che restare fedele a Harry, questo sì.
Al di là del contesto, dei suoi sentimenti, lei stava togliendo a Ron qualsiasi possibilità di salvezza, con il suo comportamento.
Se le cose stanno così
Le salì una rabbia in corpo che trattenne a stento mentre sbatteva il cucchiaio sul tavolo.
“Harry non c’entra niente. Harry è buono e caro, ma non è l’uomo giusto per me e io non posso più stare con lui, non dopo aver capito che ho bisogno di altro.”
Lo disse con un tono così basso e risoluto che stupì anche se stessa.
“Ti è chiaro il concetto?”
“Limpido.” Ribatté subito Ron. “E com’è andata a finire, con Corner?” le chiese, velenoso.
“Michael, si chiama Michael! Male, malissimo. Come doveva finire. Non mi interessa.”
“Bugiarda.”
“Non sono affari tuoi!”
“Si che lo sono! Harry è il mio migliore amico e tu…”
“E io l’ho tradito, IO, non tu! Ora smettila di sovrapporti alle sue disgrazie come se l’intero mondo femminile fosse contro di voi!” sbottò. “Non è colpa di nessuno. Oh, non posso credere che mi sto giustificando con te.”
“Giusto, perché dare spiegazioni alla
feccia di tuo fratello…”
"Piantala."
“No che non la pianto! Devo andare.”
Allontanò da sé il piatto con il grumo di uovo bruciato e si alzò rumorosamente.
“Ron.”
Raccolse rapidamente una giacca dall’appendiabiti – poteva essere solo di Percy, vista la taglia e lo stile ricercato – e si avviò a grandi passi, spostando le sedie, verso la porta aperta sul cortile.
“Ron! Dove stai andando?” chiese Ginny, terrorizzata.
Ecco, stava per espiare tutte le sue colpe per aver voluto rispolverare un vecchio sogno dimenticato nel cassetto.
Ci siamo. È la fine.
“Non ti preoccupare, non dirò niente a Harry. Non voglio toglierti il piacere di dirglielo di persona. Vado a spiegargli perché me ne sono andato ieri sera. Almeno lui capirà. Dì a mamma che avevo da fare.” Fece qualche passo senza voltarsi e si dileguò.
Si era smaterializzato.







   
 
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