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Dal
capitolo precedente:
Dio,
che brutta cosa. Che brutta cosa il rimpianto.
Una
voce lo scosse. Lo fece voltare.
“Ha
bisogno?”
Doveva
essere l’addetto al bureau di accoglienza dell’Accademia.
“Sì.
Mi chiamo Michael Corner, e vorrei costituirmi.”
35.
Camminava
svelto per non perdere il passo. I lampioni erano spenti, qualche
macchina
era parcheggiata accanto al marciapiede, ma c’era buio, veramente
buio, ed erano poche le finestre ancora illuminate. Si erano appena
materializzati, mano di lei sul suo braccio, senza una parola, ed
eccoli arrivati in un vicolo che non aveva niente di familiare.
Ronald Weasley non sapeva cosa pensare. Era confuso. Era perso.
“Ehi,
pivello. Ti spiace aspettare qui?”
Alzò immediatamente lo
sguardo all’appello di Megan Reeves, e scosse la testa in segno di
diniego. Si sedette su un muretto di mattoni rossi, dietro di lui i
cipressi lo costringevano a stare piegato in avanti, con la schiena
curva e il capo chino. Che odio, quei cipressi.
Riuscì a
sbirciare Megan, le sue lunghe gambe femminili e l’andatura stanca
e altalenante, arrivare davanti alla porta. Lei suonò al campanello
più volte, in un modo che avrebbe sicuramente innervosito
oltremisura una come Hermione. Lo spiraglio della porta fece uscire
una fetta di luce dall’interno. La figura era alta, sovrastava
quella della sua Senior, ma non lo lasciò all’immaginazione e uscì
allo scoperto, accendendosi una sigaretta.
Ron indietreggiò.
Era
Adam Fullbuster, l’ultimo membro della loro squadra. Se avesse
un’aria preoccupata, Ron non avrebbe saputo dirlo. Lo guardò
mentre portava la mano tremante alla bocca per aspirare altro
fumo.
Era nascosto nella siepe, su quel muretto, come un bambino.
In disparte, come in punizione. Sentì squarci della
conversazione.
“…stabile. Ma tu devi andare a
vederlo.”
“Cribbio Megan, io non posso.”
“Nessuno
giudica nessuno. Sono a posto, davvero… fidarti di me.”
“No.
Non se ne parla.”
“…chiesto lui.”
“Come? E gli
altri?”
“Nessuno ha sentito. Rex… ti prego. Ha bisogno di
te.”
Ron fissava le sue scarpe e i mattoni ordinati, il respiro
piatto e disteso, con la finta calma che conferisce il buio della
notte, forse per questo sussultò allo sbattere della porta.
Megan
era lì, illuminata dalla fioca luce che sfuggiva all’oblò
dell’entrata. Era ancora voltata di spalle, e lui pensò che era
strano, che stesse voltata così tanto, ma non disse niente.
Come
un bambino, attese. E lei dopo qualche minuto lo raggiunse. I suoi
occhi pesti di stanchezza e di trucco gli fecero pena in un modo
scomodo, che ti fa venire voglia di scappare, e non di
consolare.
“Andiamo, Ronnie.”
“...fanculo.”
Un
po’ di nausea ce l’aveva. Doveva essere l’indecisione di lei,
durante la materializzazione congiunta. Forse avrebbe voluto essere
altrove. Anche lui, dopotutto. Posto sbagliato, persone sbagliate. Al
diavolo tutto.
La
seguì nel giardino posteriore di due villette a schiera babbane;
l’incantesimo che proteggeva la sua casa scomparve e lasciò
intravedere una grande villa bianca in fondo a un vialetto.
“Vieni,
è per di qua.”
La seguì attraverso il portico, fino all’uscio,
avvolti dal buio e dal rumore delle fronde degli alberi.
“Ti va
un Jack Daniel’s?”
“Che diavolo è?”
“Va bene, non lo
vuoi.”
“Ok, dammelo.”
La seguì, ancora, fino a un
gigantesco salotto. Era grande, sgombro, elegante. E lei era in
mezzo, vicino a un carrello per le bevande veramente grazioso, doveva
essere una cosa da ricchi. Cristallo, ottone. Bottiglie di ogni
genere. Megan gli versò quel Jack Daniel’s, e lui si avvicinò,
titubante, sull’immenso tappeto orientale.
“Buono.”
“I
babbani ci sanno fare con l’alcool.”
“Vieni spesso
qui?”
“Questa è casa mia.”
Ronald si guardò attorno
sbalordito. Doveva essere cinque o sei volte più grande della Tana.
Ed era solo per lei.
“Non ti perdi mai?”
Lei rise, di una
risata un po’ roca.
“Vuoi vederla tutta? Non sei mai stato in
un posto del genere, vero?”
“Più o meno. Ho conosciuto da
vicino Malfoy Manor.”
Il pensiero gli ghiacciava ancora il
sangue.
“Vieni, ti faccio vedere.”
Tracannò un sorso che a
Ron parve troppo lungo direttamente dalla bottiglia, poi lo prese per
il polso e lo strattonò.
E lui, stranito e perseverante, ancora
una volta decise di seguirla.
Ogni tanto mandava giù un sorso, e
lei lo imitava. Si scambiavano a malapena qualche occhiata di sbieco.
Ron abbassava ostinatamente la testa per sottrarsi al contatto
visivo.
Non capiva il motivo del suo sguardo triste, storpio,
capiva solamente lo sguardo in sé. Era uno sguardo da donna che
parla
e sa di saperlo fare.
Non era un totale idiota, pensava. Non era
così stupido, così insensibile. Lei, per esempio, era così
limpida. Capiva le sue intenzioni. Niente a che vedere con i messaggi
crittografati ai quali era abituato.
Così lasciò correre gli
occhi su quel corpo di donna.
I fianchi, il fondo schiena, le
cosce, gli avanbracci. In un corridoio lungo, in un bagno grande e in
una sala da musica con il pianoforte al centro, in forse dieci
anticamere con i muri coperti di scaffali e pieni di libri. Finirono
nuovamente in salotto. Non aveva avuto l’occasione di toglierle gli
occhi di dosso in mezzo a quelle mille stanze. Il ricordo confuso del
pianoforte si sovrapponeva ai muri bianchi delle anticamere in un
vortice di colori e fattezze irreali. Fino a che lei si voltò
lentamente, con l’intenzione di guardare lui negli occhi. Proprio
lui.
C’era ancora una vena ilare nel modo in cui lo squadrava,
ma ora si nascondeva meglio nel torbido dell’alcool. La bottiglia
era quasi vuota e anche il bicchiere di Ron. Lo posò. Le prese la
bottiglia dalla mano e bevve l’ultimo sorso. Lei non aveva smesso
di guardarlo. Era di fronte a lui, in attesa. In attesa!
Voluttuosa
doveva essere la parola giusta per descriverla. Presto Ron non capì
più niente. Scuoteva il capo e scuoteva via gli ultimi rivoli di
coscienza.
Il Jack Daniel’s era nel suo sangue e gli aveva
liquefatto la mente e le gambe. Sentiva solo una parte del corpo
sveglia, ed erano i lombi, incendiati da quella situazione assurda,
tanto assurda da spingerlo a desiderare, come un chiodo infisso nel
cranio, quel corpo di donna.
L’idea martellante lo spinse ad
avvicinarsi. Una mano corse a lambire il petto, con un movimento dal
basso verso l’alto; e scese, s’impossessò del fianco; s’impresse
sui reni, per avvicinare quell’anima guasta alla sua, per portarla
a un palmo dal suo corpo confuso e fremente.
Non dissero una
parola.
Ron si tolse il maglione e la fece indietreggiare fino al
divano. Megan si slacciò il corpetto, scivolò fuori dai suoi
proverbiali anfibi e si tolse la gonna corta e spiegazzata.
Ron si
sedette accanto a lei. Con una mano impacciata le scostò i capelli
dal viso.
“Non devi farlo per forza.” Sussurrò lei, con un
sorriso beffardo.
“Che cosa?”
“Essere carino con me.”
La
frase lo spiazzò, non riuscì a trattenere una risatina dal timbro
basso e canzonatorio.
“Non sono qui per essere carino con te. E
nemmeno con me. Credo proprio che domani avremo più grane di
oggi.”
“Mi va bene così.”
Lui non seppe cosa rispondere.
Sorrise mestamente, e si lavò via l’ultimo barlume di riso.
Era
rimasto con la mano sospesa dietro al suo orecchio. Qualche piercing,
una piccola croce gotica; un tatuaggio nascosto e leggermente in
rilievo sulla nuca; testimoni inanimati della sua animosa
diversità.
“Che cos’è questo?” sussurrò avvicinandosi,
curioso.
“Una rosa.”
“Perché?”
“Fatti gli affari
tuoi, pivello.”
Ron rise ancora.
“Ti
va bene così?”
“Sì.”
“Tu
ami Rexford?”
Gli arrivò una scarica di pugni rivolti al suo
stomaco che riuscì a deviare goffamente. Avrebbe dovuto
aspettarselo. La odiò ancora un po’ di più. Dopo qualche istante,
però, lei gli rispose:
“Rex mi piace. Ma io non piaccio a
lui.”
“Mh. Non è tanto diversa la mia situazione.”
Lei
lo guardò con tanto d’occhi.
Ron sentì intimamente le viscere
torcersi per quegli occhi amari, ma non si sottrasse.
“Cosa c’è,
la Granger è troppo per te?”
“La
Granger
ha in mente qualcun altro.”
Fece una breve pausa.
“O
comunque non più me.”
“Rex ama un altro.”
Lo aveva detto
così rapidamente, fra le labbra arrabbiate, che Ron credette di aver
frainteso. Poi capì. Collegò. La conversazione a sprazzi.
Lei
che alla richiesta di Rex e se ne andava e quasi dimenticava il
cappotto. Lei che accettava la sua presenza e anzi lo invitava a
seguirla. Lei che fingeva di desiderarlo, per sballarsi, per
dimenticare un attimo tutto e tutto in un attimo.
“Fullbuster?”
Lei
fece di sì.
Le accarezzò la nuca, la rosa, il capo.
“Dai,
rivestiti, Megan. Andiamo via di qui. Siamo patetici.”
Fece per
alzarsi, ma lei lo prese per la collottola e lo baciò.
Un brivido
gli s’irradiò dalla nuca verso i reni. Nessuno gli aveva mai
infilato la lingua in bocca in quel modo senza chiedere permesso. Le
reazioni fisiche, mentali, si contrastavano in un esplodere di
sensazioni luminose e dolorosamente gradevoli.
“No.” Megan si
scostò, ricoprendogli la bocca di baci brevi e irriverenti. “Non
lasciarmi da sola stasera. Potrei morire. Giuro che potrei.”
Ron
era rimasto interdetto. Per l’ennesima volta era in bilico. La
mente annebbiata rimandava immagini confuse di Hermione, di Harry,
dell’Accademia.
Il piatto della bilancia della coscienza si
rovesciò con un clangore attutito, abbastanza forte da richiamare
l’attenzione ma abbastanza lieve da essere ignorato con
disinvoltura.
Ron si divincolò, mentre il petto gli si sollevava
incontrollatamente per lo scompiglio profondo.
“Vorresti davvero
scopare
con il Pivello? Guarda che poi te lo ritrovi davanti tutti i giorni,
a forza. Dico sul serio, Megan, non mi sembra una grande
idea.”
Ansimava solo all’idea. Lei era molto attraente, ed era
lì, con il capo nascosto nel suo collo, occupata a nascondersi dal
suo sguardo. Docile, infinitamente fragile e femminile. Aveva una
scorza incredibile. Ron le sollevò il volto con il cuore che batteva
a mille. Lo stava facendo? Stava tradendo Hermione? Se lo meritava,
davvero?
“Stai pensando a lei.” Lo rimproverò Megan.
“Lei
non mi ha mai tradito.”
“E tu non hai mai tradito
lei.”
“Falso... questo è… falso. Prima ancora di stare con
lei… io ero a conoscenza dei suoi sentimenti, ma mi sono lasciato
…lusingare da Lavanda Brown. Una ragazza del nostro anno. Sai, a
scuola. Hogwarts. Lei mi ha baciato davanti a tutti e io… cosa
potevo fare? Ho accettato. Insomma, mi guardavano tutti! Ma… è
stato un errore clamoroso. A me era sempre piaciuta… solo lei.”
“Ti
senti in colpa?”
“No… Hermione mi sta lasciando.”
“Allora
lasciala
tu per primo.”
La
sentì mordergli il petto e le clavicole. Sì, Megan aveva ragione.
E
anche la sua bocca ne aveva da vendere. E quelle sue mani…
Si
lasciò andare. Finì di spogliarsi senza vergogna, disinibito
dall’alcool, e il fine riverbero delle vetrate illuminò a nastri
il suo addome diafano che nascondeva a malapena uno stomaco
dolorosamente annodato. Incurante del nodo in gola, si sdraiò su di
lei. La sentì sospirare sotto al suo peso e di rimando arricciò le
labbra in un fremito. Accolse un piacevole brivido di sollievo al
contatto con la sua pelle tiepida.
Le scostò i capelli dal viso,
prima di baciarla una prima volta con delicatezza.
“Ti ho già
detto niente smancerie.”
Lui rise di nuovo, un po’ ubriaco,
fra le sue labbra, e in quell’istante, guardandosi cullati dal
buio, si sentirono un po’ più vicini, un po’ meno strani.
Come
se un semplice bacio potesse suggellare un patto o cancellare la loro
abiezione.
Ron capì che lei, in quel momento, Rex o non Rex, era
sua. E lei, che il pivello ne aveva da vendere, e quella Hermione non
era poi intelligente come aveva pensato.
Si capirono con la
lingua, idioma universale.
C’era buio pesto. Il Jack Daniel’s,
vuoto, era sul ricco carrello del signor Reeves ormai defunto. E Ron
e Megan, avvinghiati come serpenti, ondeggiavano di un amarsi malsano
e malvissuto, vero, sfrenato.
Al resto ci avrebbero pensato
dopo.
36.
Harry aprì gli occhi
all’insistente suono del campanello. Raccolse la coperta in tweed
da terra e la mise sopra a quella di Rexford, che dormiva
profondamente e non si era svegliato in tutta la notte. Al contrario,
Harry non aveva chiuso occhio fino alle ultime ore. Era troppo
preoccupato e troppo frustrato. Si mise gli occhiali e tentò di
sistemarsi i capelli e la maglia di traverso prima di aprire la
porta.
Alla vista di Hermione si sentì profondamente
sollevato.
“Ah, già. La bacchetta.”
“Hai dormito,
Harry?”
La ragazza entrò senza togliersi la giacca e si
avvicinò cautamente al mago addormentato. Indirizzò qualche sguardo
verso Harry, e lui rispose con un pollice verso.
“Vado a farmi
un caffè, vuoi qualcosa?”
“Non vorrei darti spiacevoli
sorprese, ma le tue dispense ieri sera erano vuote.”
“Da
quanto controlli le mie dispense?”
“Da quando sono più in
questa casa che a lavorare fra i libri. E mi devo occupare di gente
che sta male, gente che si lamenta, gente che non sa quello che
vuole…”
Lo raggiunse in cucina e finalmente si tolse i guanti
e la sciarpa. Li appoggiò nella ciotola vuota della frutta.
Harry
appoggiò il bollitore e accese il fuoco. Aprì le ante degli
armadietti della cucina alla ricerca di una tazza pulita,
sbadigliando sonoramente.
“Com’è andata ieri sera? Era molto
abbattuto?”
Il disagio pervase la stanza. Li per li fu certo che
lei non avrebbe risposto, perché si era spinto troppo al di là
degli affari suoi. Non era la prima volta che qualcuno gli dava del
ficcanaso. Sentì Hermione accavallare le gambe alle sue
spalle.
“Ron?” disse, “Non ne ho idea.”
Harry si voltò
all’improvviso, sbattendo la testa nell’anta
aperta.
“Accidenti.”
“Harry, ma cosa fai!”
Hermione
si precipitò da lui per vedergli la fronte.
“Ti verrà un
bell’ematoma.”
“Ron non è tornato?”
“Non avere quel
tono stupito, cosa ti aspettavi da lui?”
“Dai, non dire così.
Per favore.”
“E che cosa dovrei dire? – ti fa male
qui?”
“AHI, sì, dannazione. Non è che vorresti usare la
bacchetta, così, giusto per accelerare la guarigione? Ne ho
abbastanza di cicatrici idiote.”
“Giusto per? È solo una
botta.”
“Sembro Quasimodo…”
“Va bene, va bene.”
Agitò la bacchetta sul bernoccolo di Harry e quello scomparve
immediatamente. “Comunque, se ci tieni a saperlo, non ha dato
notizie di sé. Zero.”
“Dove si sarà cacciato quel… quello
scemo.” Borbottò Harry.
“Notizie di Seamus?” tagliò corto
Hermione, visibilmente non in pena per la faccenda.
“No, ancora
niente.”
“Allora andiamo, ti va? Ti pago un caffè in centro.
Prima che tu ti faccia del male un’altra volta.”
37.
Il
cielo era incredibilmente limpido. Qualche stria bianca qua e là si
rifletteva sulla landa ombreggiando le spighe ancora tenere del
granoturco. In lontananza, uno tetto bitorzoluto invaso dai camini si
stagliava svettante contrastando in modo familiare il
panorama.
Ginevra giunse in fondo al viale che portava al giardino
della Tana. Il vento sibilava così forte da farle temere per i suoi
timpani. Si stringeva ancora nella felpa di fortuna prestatale da
Luna. Tutto sommato, avanzare a testa bassa, senza guardare la
strada, non le era tanto estraneo. Tuttavia, ferma davanti al
cancelletto, non riuscì a muovere un muscolo.
“GINNY!”
Si
voltò di scatto, intimorita.
“RON!”
“GINNY.”
Ron
arrivò correndo, incespicando nei suoi lacci sfatti, la raggiunse e
la strinse con forza.
Le baciò tutta la testa, la strinse di
nuovo. Ginny respirò profondamente l’odore di suo fratello, e si
sentì a casa come non lo era da tanto tempo ormai. Le traballò il
cuore nel petto. “Sono così felice, Ginny.”
“Ron, ma cosa
ti è successo? Sei tutto scombinato.”
Lo sguardo duro che le
rivolse le gelò il sangue.
“Cos’è successo?”
“E a
te?”
“Io… ho voluto seguire due Ghermidori e dal Rio delle
Amazzoni mi sono ritrovata sotto al negozio di Magie Sinister. Se non
fosse stato per… qualcuno, sarei ancora rinchiusa in quella
prigione, o più probabilmente il troll prigioniero nella cella di
fronte alla mia mi avrebbe uccisa.”
“Ma come… dove sei stata
finora?”
“Luna. Mi ha ospitata lei.”
“E Michael?”
“Sta
bene. Sta… lui… oh, insomma. Non voglio parlarne.”
“Va
bene, andiamo. La mamma probabilmente non dorme dal compleanno di
Harry.”
Le mise un braccio sulla spalla e stringendola la
sospinse verso casa.
“Oh…”
Ginny si immobilizzò.
“Cosa
c’è?”
“Niente, dovrò sistemare la faccenda anche con
Harry… ho alcune …cose. A cui pensare.”
“Hai incontrato
qualcuno, laggiù? In Brasile?”
“No.” Rispose lei,
ingrugnita.
“Strano, non è da te.”
“Se tu sapessi cosa è
da
me…”
Entrarono
cautamente dal retro della cucina e trovarono la signora Weasley
addormentata sulla sedia a dondolo, fra le mani aveva l’ultimo
numero della Gazzetta del Profeta. La Tana era rimasta la stessa
negli anni, nessuno dei figli l’aveva veramente abbandonata
andandosene di casa. Più precisamente, avevano sparso cosi’ tanti
oggetti personali che nemmeno con un secolo a disposizione sarebbero
riusciti a discriminare cosa fosse di chi, a partire dai gingilli
babbani del signor Weasley, passando per i vari maglioni di lana
grezza e i diari segreti nascosti fra i libri usati dei figli, le
figurine delle Cioccorane – un tesoro comune, le vasche con i
girini dello stagno e le puffole pigmee appoggiate sul caminetto in
bella mostra vicino alle cornici degli ultimi diplomi.
La ragazza,
di ritorno a casa dopo lunghi mesi in mezzo alla foresta, ebbe un
potente moto d’affetto che non avrebbe creduto possibile, lei che
si reputava un’indomabile viaggiatrice.
Si tolse la felpa e si
avvolse attorno lo scialle che sua madre aveva abbandonato su una
sedia del soggiorno. Le lancette dell’orologio magico si rimisero
in posizione. Ginny era di nuovo al sicuro. Ron si servì una tazza
di latte e si avvicinò a sua madre, ancora indeciso sul come
l’avrebbe svegliata.
“Mamma…” le mise una mano sulla
spalla e la scosse delicatamente.
“Merlino… Ron! Cosa ci fai
qui…” ma si zittì non appena vide sua figlia.
Ginny era
avvolta nel suo scialle, con i capelli spettinati che le coprivano le
braccia fino al gomito, e aveva gli occhi pesti di quando piangeva
tutto il sabato mattina per i capricci.
E Ron, lui era conciato
come una persona poco raccomandabile, aveva la camicia abbottonata in
modo asimmetrico, non infilata nei pantaloni, e i lacci delle sue
scarpe si trascinavano pietosamente sotto alle suole e all’incurie
di quel benedetto figlio da strapazzo.
Le bastò una lunga
occhiata per capire cosa era successo.
Era furiosa, così furiosa
che le si riempirono gli occhi di lacrime.
“Vorrei sgridarvi,
tutti e due. Ma non ci riesco.”
Li abbracciò stretti, li
costrinse a cozzare contro il suo petto. Ron, piegato in due per la
sua rimarcabile altezza, allungò le braccia goffamente attorno alle
due donne.
“Profumi di donna.” Sentenziò Ginny rivolta a Ron,
sbucando dal collo odoroso e familiare di sua madre, storcendo il
naso all’odore dolciastro e sconosciuto. Gli pizzicò la guancia
con fare ammonitore. Ron sembrò più arrabbiato di prima, ma
stranamente non rispose alla provocazione.
“Sei stata via così
tanto… Ron vive con Hermione, adesso, sai?” la signora Weasley
prese la figlia per mano e la condusse a tavola, lasciando che Ron si
adagiasse sulla poltrona ancora calda vicino al caminetto. “Avete
fame? Io ho bisogno di un tè caldo.”
“Mamma, più tardi
dovrei passare… insomma, testimoniare… contro i Ghermidori…”
“Tu
non andrai da nessuna parte fino a nuovo ordine.”
“Mamma ti
prego… non ho più dieci anni. È importante, davvero.”
“Sai
cos’è importante? È importante non raccontare bugie ai propri
cari. E tu, cara,
me ne stai preparando una grossa come una casa. È solo un
suggerimento. Ti consiglio
di parlare.”
“Mamma, lasciala respirare. Non dev’essere
stato facile nemmeno per lei.” Intervenne Ron.
La signora
Weasley lo fulminò con lo sguardo.
“Non ho detto questo. Non ho
detto questo…”
Ron per poco non si pentì di aver parlato; sua
madre sembrava tremendamente avvilita dai sensi di colpa. La osservò
mentre preparava la colazione e gli sembrò più piccola che mai.
“Ha
ragione lei. Avrei dovuto dirvelo prima che stavo bene.” Disse
Ginny. “E mi dispiace. Ho avuto tanti problemi e non sapevo come
affrontarli.”
“Non pensi che avresti potuto parlarmene?”
rispose la signora Weasley, piazzandole davanti due tramezzini
tostati e un bicchiere di latte. Ginny non poté trattenere un
sorriso sincero, malgrado il sermone. Sua madre alzò gli occhi al
cielo in un tentativo imbarazzato di trattenere le lacrime che in un
primo momento non si erano fatte avanti. Ma ora il sollievo era quasi
sconvolgente. Sua figlia era lì con lei, e tutto era tornato al suo
posto. Ginny, stoica di natura, la guardava con gratitudine. Quasi
non credeva di poter assaggiare quelle leccornie ancora una volta. Si
avventò sul cibo come un’affamata, mentre sua madre e suo fratello
si scambiavano uno sguardo apprensivo.
“Ho mangiato in questi
giorni, non vi preoccupate. È solo che… mi è mancata
casa.”
Disse, candidamente.
Ron sorrise reclinando la testa
all’indietro sullo schienale.
“Tu non mangi niente,
Ronnie?”
Ron storse la bocca.
“Magari, qualcosina, se
c’è.”
Ammiccò a sua madre indaffarata e socchiuse gli occhi
con immensa gratitudine.
“Ti ho messo un’omelette sul fuoco.
Stai attento a non bruciarla. Vado a mandare subito un gufo a vostro
padre. Speriamo gli concedano di tornare a casa presto oggi…”
Si
dileguò su per le scale scricchiolanti alla ricerca del piccolo
Leotordo, chiamandolo a gran voce. Rimasti soli, calò il silenzio
temporeggiato dai rumori di stoviglie e dalla masticazione sonora
della ragazza.
“Si può sapere cos’hai combinato?” chiese
Ginny a bruciapelo.
Ron si alzò mollemente e raggiunse i
fornelli. Passando, le strinse la spalla.
“Allora?”
“Un
pasticcio, ma tanto ormai era già andato tutto in brodo.”
Rispose
lui, scrostando la frittata dalla padella.
“Ci stiamo lasciando.
Probabilmente.”
Ginny posò la tazza rumorosamente.
“Che
cosa accidenti vorrebbe dire probabilmente?”
Si
voltò a guardare suo fratello. Era occupato a rigirare la frittata
che ormai era diventata un grumo bruciacchiato al centro della
padella. Sembrava profondamente rassegnato.
Ron si servì il
materiale grumoso in un piatto con una porzione generosa di ketchup e
si sedette vicino a lei. Ginny, a capotavola, gli puntò il
cucchiaino sotto al naso.
“Parla, Ronald.”
“Hermione ha
deciso che io non vado più bene per lei. Così ho deciso di
lasciarla io per primo.”
“…e?” chiese lei, veemente.
“E
stanotte ho dormito con un’altra.” Ammise lui, masticando con
disgusto un boccone bruciacchiato.
A Ginny cadde il cucchiaio di
mano.
“Stai scherzando, spero.”
“Non mi giudicare. Io…
ho bevuto alcol e… Merlino, lei è praticamente il mio capo
all’Accademia…”
La teiera fischiò indispettita fino a che
Ron si decise ad alzarsi per togliere l’infuso.
“Il tè è
pronto.” Borbottò. Le versò il tè nel latte in un tentativo
goffo di premura, sporcando irrimediabilmente la tovaglia.
“Gratta
e netta.
Sia maledetto il… beh, meglio di niente.”
Tornò a sedersi e a
osservare con costernazione il suo piatto. Si mise le mani fra i
capelli. Ginny raccolse il cucchiaino e tornò a mescolare il tè nel
latte. Quei minuti furono fonte di incredibili sensi di colpa per
Ronald. Alla luce del giorno era difficile accettare quello che la
sua coscienza si era buttata alle spalle la sera prima.
“Credo
sia un difetto di famiglia.” Buttò lì Ginny, tossicchiando.
Ron
alzò lo sguardo immediatamente. La guardò fra le dita,
stropicciandosi il viso.
“Però tu almeno avevi una
motivazione…” si precipitò a dire lei.
“Hai tradito Harry?”
gemette Ron in falsetto.
“Zitto, deficiente. Se ci sente la
mamma…”
“Hai tradito Harry?”
“Devo ricordarti che sei
stato tu il primo a confessare e cosa?” ringhiò Ginny,
piccata.
“Con chi?” si protese sul tavolo, urtando ciotole e
bicchieri con le braccia. Lei istintivamente indietreggiò.
“Senti,
è complicato. Anche perché è stata una cosa sbagliata e insomma ce
ne siamo accorti per tempo e adesso non abbiamo più niente a che
fare io e lui.”
Riconobbe chiaramente un lampo di comprensione
negli occhi chiari del fratello.
“Quel Corner.” La
accusò.
“Cos’è questo tono sprezzante? Non posso credere che
venga da te. Voglio dire, Ronald, da che pulpito…”
“Cos’ha
Harry che non va?”
Ginny si fece di ghiaccio. Cos’era quella
domanda, che senso aveva? Non aveva appena detto anche lui di aver
fatto qualcosa di sbagliato? Non si sentiva in colpa? Si credeva
forse giustificato?
“Senti, Michael e io siamo stati amici per
molto tempo e…”
Si interruppe, osservando lo sguardo carico di
tristezza di suo fratello. I suoi occhi grigi erano sporcati dal
disprezzo, dalla paura, erano così allarmati. Ron sembrava fuori di
sé. Era un’altra domanda che stava ponendo.
Cosa
ho io che non va.
Se non va bene uno come Harry, come posso andare
bene io.
Ecco
cosa passò per la mente di lei, mentre osservava Ron afflosciarsi
attorno al suo piatto, sconfitto. Ecco che ricompariva quel lato
odioso di suo fratello; lui aveva sempre faticato a credere in se
stesso, ed Hermione era stata la prima a credere in lui, a notare lui
e solamente lui. Non stava andando in frantumi solamente una
relazione, ma tutto il mondo e i castelli di carta di Ron. E lei non
ci poteva fare niente. Era colpevole di chissà quale crimine.
Aveva
preferito dare una possibilità a Michael, piuttosto che restare
fedele a Harry, questo sì.
Al di là del contesto, dei suoi
sentimenti, lei stava togliendo a Ron qualsiasi possibilità di
salvezza, con il suo comportamento. Se
le cose stanno così…
Le
salì una rabbia in corpo che trattenne a stento mentre sbatteva il
cucchiaio sul tavolo.
“Harry non c’entra niente. Harry è
buono e caro, ma non è l’uomo giusto per me e io non posso più
stare con lui, non dopo aver capito che ho bisogno di altro.”
Lo
disse con un tono così basso e risoluto che stupì anche se
stessa.
“Ti è chiaro il concetto?”
“Limpido.” Ribatté
subito Ron. “E com’è andata a finire, con Corner?” le chiese,
velenoso.
“Michael, si chiama Michael! Male, malissimo. Come
doveva finire. Non mi interessa.”
“Bugiarda.”
“Non sono
affari tuoi!”
“Si che lo sono! Harry è il mio migliore amico
e tu…”
“E io l’ho tradito, IO, non tu! Ora smettila di
sovrapporti alle sue disgrazie come se l’intero mondo femminile
fosse contro di voi!” sbottò. “Non è colpa di nessuno. Oh, non
posso credere che mi sto giustificando con te.”
“Giusto,
perché dare spiegazioni alla feccia
di tuo fratello…”
"Piantala."
“No che non la
pianto! Devo andare.”
Allontanò da sé il piatto con il grumo
di uovo bruciato e si alzò rumorosamente.
“Ron.”
Raccolse
rapidamente una giacca dall’appendiabiti – poteva essere solo di
Percy, vista la taglia e lo stile ricercato – e si avviò a grandi
passi, spostando le sedie, verso la porta aperta sul cortile.
“Ron!
Dove stai andando?” chiese Ginny, terrorizzata.
Ecco, stava per
espiare tutte le sue colpe per aver voluto rispolverare un vecchio
sogno dimenticato nel cassetto. Ci
siamo. È la fine.
“Non
ti preoccupare, non dirò niente a Harry. Non voglio toglierti il
piacere di dirglielo di persona. Vado a spiegargli perché me ne sono
andato ieri sera. Almeno lui capirà. Dì a mamma che avevo da fare.”
Fece qualche passo senza voltarsi e si dileguò.
Si era
smaterializzato.