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Autore: Dark_Water    05/12/2015    4 recensioni
AU.
Quando John uscì dalla camera da letto fu accolto da un leggero tintinnio di stoviglie con in sottofondo il chiacchiericcio delicato di due voci allegre e familiari.
“Sono felice che siate qui. Mi siete mancati.”
“Anche tu ci sei mancato. Ci voleva una rimpatriata dopo tutto questo tempo. Manca solo….”
Rory si interruppe forse troppo tardi,lasciandosi sfuggire un pensiero che come un alito gelido di vento si era insinuato tra loro spaccando l’equilibrio che avevano avuto fino a quel momento.
Nei millesimi di secondo immediatamente successivi, Rory si ritrovò un gomito della moglie piantato nel fianco, John invece con la mano ferma a mezz’aria, attraversata da un fremito che si diradò anche attraverso la forchetta che stringeva tra le dita lasciando cadere da essa un piccolo pezzo di bacon sul tavolo.
Amy/Rory - Clara/Doctor...Who?
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amy Pond, Clara Oswin Oswald, Doctor - 11, Doctor - 12, Rory Williams
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Non Brucia Solo La Pelle'
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Cap.14

Capitolo 14

 

 
John e Clara si ritrovano a passeggiare nel parco, Colin che sgambettava poco distante da loro. Aveva piovuto durante il loro caffè e l’aria era frizzante, chiara dimostrazione che l’estate a Londra non voleva proprio arrivare, quell’anno.  

Colin si fermò ai bordi di una piccola pozzanghera, piegandosi sulle sue malferme gambette per allungare la mano verso l’acqua, ignorando il richiamo di Clara che voleva proibirglielo. Ma che altro poteva fare la donna? La mano del bambino era già a schiaffeggiare la superficie dello specchio d’acqua e le sue risa si espandevano nell’aria. Clara si portò una mano alla fronte, sospirando:

“Adesso dovrò portarlo a casa e cambiargli tutti i vestiti…”

 Non era così disastroso l’aspetto del bimbo, solo qualche macchia di fango sui pantaloni ed un po’ d’acqua sulla maglietta, ma l’esasperazione della giovane madre sembrava quasi d’abitudine.

John invece sorrise prima di fermare lo sguardo sul bambino dicendo:

“Clara… davvero Colin non è..” Si fermò incerto per poi finire: “… vostro figlio?”

“Non mi credi?” Chiese Clara, fissando l’espressione perplessa di John.

“E’ solo… che somiglia così tanto a lui. E così tanto anche a te.”

“Eleven, non riuscirai mai a fidarti di me, vero?” Il sorriso amaro di Clara lo fece sospirare, ma tacque mentre lei continuava:

“Cambia qualcosa se Colin è o non è mio figlio biologico?”

John rimase in silenzio, spostando il peso del corpo su una sola gamba ed incrociando le mani dietro la schiena. Clara raggiunse Colin per prenderlo in braccio, non curante del fatto che le mani bagnate del bambino furono subito su di lei mentre premeva il suo corpicino contro la sua spalla, in un abbraccio. L’ora del pisolino era passata e la stanchezza si stava impadronendo di lui. Clara sorrise, avvertendo la fronte del piccolo e le sue braccia attorno al collo. Cercò dei fazzoletti puliti all’interno della borsa con la mano libera e ne prese alcuni per asciugare un po’ il disastro che il bambino aveva fatto con le sue manine ed i vestitini. Infine si voltò verso John con un’espressione malinconica dicendo:

“Tu non riuscirai mai ad accettare il fatto che tuo padre è una parte importante della mia vita. Non potrai mai conviverci vero?” Non era un’accusa; più che altro una consapevolezza che le permise di mantenere il tono della voce dolce, sebbene si leggesse anche una nota rassegnata:

“John. Perché hai voluto incontrarmi? Ho bisogno di sapere il vero perché.”

E quella domanda era l’unica domanda. Quella alla quale John voleva rispondere ma ancora non lo aveva fatto; l’unica domanda della quale aveva anche paura, anzi ne era terrorizzato.

“Io… credevo di saperlo. Adesso non lo so più…”

Colin cominciò a mostrare i primi segni di cedimento, con gli occhi che gli si stavano arrossando, resi lucidi dai primi segni di un capriccio in arrivo. Clara cominciò inconsciamente a dondolarlo, guardando però John.

“Te l’ho detto, sono stata sincera su questo… abbiamo provato, io e tuo padre; e non è andata. Il nostro rapporto è del tutto platonico, lo è sempre stato. Ma Colin… è comunque tanto suo figlio quanto mio. Biologico o no. Legalmente o meno. Non è il DNA o un documento a farne mio figlio. E non è lui il problema, lo sappiamo entrambi.”

Clara vide John abbassare lo sguardo al selciato su cui stavano passeggiando, gli occhi improvvisamente tristi, le guance arrossate e quel broncio che lei capiva sempre. Gli si avvicinò e gli prese la mano:

“Stai bruciando Eleven…”

“Non è solo la pelle a bruciare, Clara…”

Clara lo sapeva. Ed anche John sapeva cosa significavano davvero le parole di Clara. Ma quello che non sapeva era che quelle parole per Clara erano già fin troppo familiari.

“Sono le stesse parole che tuo padre mi ha detto un anno e mezzo fa, quando si è presentato alla mia porta con lui tra le braccia… tu e lui siete così uguali…” Quelle parole le erano sfuggite dalle labbra senza rendersene conto. Non volevano essere parole dette per ferire, nelle sue intenzioni; al contrario, per lei era un ricordo piacevole che le lasciava intuire quanto i due uomini più importanti della sua vita fossero simili ed allo stesso tempo molto stupidi.

John sospirò, non sicuro di cosa però quelle parole davvero volevano significare. Osservò Colin sbadigliare di nuovo mentre si sistemava meglio contro la donna per poi richiudere gli occhi, con il visino premuto contro la spalla di lei e le piccole braccia attorno al suo collo sottile.

“Clara… ti va di parlarmi di lui?”

Clara sorrise, annuendo:

“Cammina con me verso la metropolitana, ne parliamo durante il tragitto.”

“Ho l’auto, posso accompagnarti io a casa. Oppure ovunque tu voglia…”

“Preferisco camminare. Ti prego Eleven.”

John annuì; Clara invece cominciò la storia del piccolo Colin e di suo padre.

 
***

 Clara aveva trovato un lavoro presso una scuola privata di Liverpool. Aveva lasciato Londra, aveva lasciato il suo appartamento ed aveva lasciato il ricordo di John e del Dottore alle sue spalle.

Era quello che si ripeteva ogni giorno, come un mantra. Era quello in cui voleva credere senza però riuscirci. Il tempo passava monotono ed inconsistente; aveva provato a frequentare un collega di lavoro, ma non riusciva ad avere emozioni per le quali valesse la pena continuare la frequentazione, così aveva deciso di chiudere.

Poi, un giorno di primavera, qualcuno bussò alla sua porta. Qualcuno che non si aspettava di vedere  e che stringeva un fagotto tra le braccia.

Il Dottore le chiedeva aiuto in una situazione complicata, una situazione delicata in cui non lo avrebbe di certo abbandonato: durante una missione umanitaria – non militare – con un’organizzazione a difesa di minori, avevano intercettato un camioncino carico di ‘merci da inserire sul mercato nero’. Le merci in questione erano bambini ed adolescenti tra i dieci ed i diciassette anni. Il ‘mercato’ era quello dei minori assegnati allo sfruttamento della prostituzione. Avevano sventato un tentativo di traffico di umani, ma le condizioni di questi adolescenti erano pietose e.. tra loro c’era Laila. Una dodicenne afghana dai profondi occhi blu, spaventata, sola, giaceva sul fondo del camioncino tra i suoi stessi liquidi amniotici, con un pancione quasi più grande di lei ed una sofferenza fetale in atto.

Il Dottore fece di tutto per aiutarla, parlandole nella sua lingua, tranquillizzandola. Ma Laila chiuse gli occhi nel momento esatto in cui il bambino appena uscito da lei li aprì. Laila emise il suo ultimo respiro mentre Colin prendeva il suo primo. L’uomo provò a rianimarla, ma tutto fu inutile. Ed il momento in cui il Dottore incrociò lo sguardo ancora cieco del neonato fu quello in cui capì che non poteva lasciarlo, che loro due erano in qualche modo legati.

Il Dottore decise di adottarlo, ma le questioni legali e burocratiche erano complesse, soprattutto a livello internazionale; si parlava di un minimo di due anni per avere un’adozione ufficiale, ma l’Afghanistan non avrebbe mai dato il nulla osta per uno dei suoi figli; nemmeno se era stato ritrovato in uno Stato straniero, nemmeno se era afghano solo per metà, perché l’altra metà era di nazionalità ignota.

Quando Clara aprì la porta di casa si ritrovò di fronte un Dottore più magro del solito, malmesso, con un occhio nero ed una labbro spaccato, eppure le ferite sembravano vecchie. Lesse nei suoi occhi che qualcosa lo aveva cambiato, che aveva bisogno di lei. Il Dottore aveva solo Clara, in quel momento era l’unica di cui poteva fidarsi, e lei non si sarebbe rifiutata di aiutarlo.

Non chiese i particolari di quella adozione, sapeva solo che non era del tutto completa; sapeva che, al momento, Colin era una sorta di rifugiato politico e che il Dottore aveva attraversato momenti non del tutto piacevoli per portarlo al sicuro in Inghilterra. Non le avrebbe mai raccontato, né quel giorno né in futuro, cosa gli fosse accaduto per ridursi in quello stato e Clara non glielo avrebbe mai chiesto. Non perché non le importasse, ma solo perché sapeva che non avrebbe ricevuto una risposta, o comunque non la verità completa.

Tre settimane dopo, però, al Dottore fu imposto l’obbligo di vivre a Londra, almeno nella fase iniziale della messa in regola di tutta la burocrazia necessaria a rendere Colin effettivamente Inglese e suo figlio. Ma aveva bisogno di lavorare, aveva bisogno di lasciare la città. E Clara ancora non si tirò indietro, diventando una sorta di affidatario per il bambino.

L’aria di Londra era particolare. Umida e triste, ma anche piena di vita e frizzante, carica di profumi che le erano mancati. I primi mesi avevano tirato avanti solo con lo stipendio del Dottore, ma Clara si sentiva a disagio con questo. Inutili erano le rassicurazioni di lui sul suo impegno con Colin, un impegno che lui non aveva mai voluto imporle, pesarle sulle spalle. Quella fu la sera in cui Clara gli prese per la prima volta la mano da quelli che sembravano secoli, rispondendo:

“Ho scelto io di venire qui con te. Ed ho scelto io di essere la sua affidataria. Non so se sia giusto o meno… ma sento di essere una sorta di madre per lui. Anzi, io sono assolutamente sua madre. Siamo legati, io e lui.”

Il Dottore ritirò la mano portandosela al petto, stringendola con l’altra mentre le dava le spalle:

“Clara… però io non posso esserlo per te. Non posso essere ciò di cui hai bisogno.”

Clara si avvicinò a lui, affiancandolo con la consapevolezza dell’implicazione nascosta nelle parole dell’uomo:

“Se proprio vogliamo rifare questo discorso… una volta mi hai detto che avresti voluto. Ed anch’io volevo. Potrei richiedertelo all’infinito finchè non cederesti. E tu cederesti, ma lo faresti in un momento in cui sarebbe troppo tardi, e lo sai anche tu.”

Il Dottore si voltò verso di lei, muovendo incerto le mani davanti a se prima di lasciarle cadere lungo i fianchi. Clara portò la mano sulla guancia dell’uomo guardandolo negli occhi e sorprendendosi di quanto calda fosse la pelle di lui contro la sua:

“Stai bruciando, Dottore.”

Lui la guardò con uno sguardo triste e pieno di dolore concludendo:

“Non è la pelle a bruciare, Clara. Sono io che sto bruciando. Io in tutto il mio essere.”

 Clara gli sorrise capendo pienamente:

“Lo so. E per essere chiari: non ti sto chiedendo nulla, Dottore. E non lo farò. Solo, lo so.”

E quello fu il momento in cui capirono finalmente entrambi che il legame che avevano era più profondo di un amore corrisposto, era un legame che non aveva bisogno di sfociare in qualcosa di sentimentale, qualcosa di effimero come l’amore romantico o animalesco come il sesso. Era qualcosa di più, qualcosa che poteva essere trascinato per secoli e non affievolirsi ne incrementarsi ulteriormente. Era un tipo di amore diverso, che forse non aveva una definizione vera. Ma era di sicuro un amore per il qual non potevano rendersi completamente felici a vicenda.

Colin nella culla dormiva, era un pezzo in più nella loro vita, qualcosa che li teneva legati. Ma c’era ancora quel pezzo che mancava, quel pezzo che avrebbe completato la felicità del Dottore ed avrebbe dato a Clara l’amore di cui aveva davvero bisogno. Quel pezzo, lo sapevano entrambi, era John.

 
***

 “Quindi lo hai seguito…” Disse Eleven con voce quasi meccanica.

“Si… cos’altro potevo fare?” Clara portò lo sguardo verso Colin che ormai dormiva con il viso premuto contro il suo collo.

Avevano ormai raggiunto l’ingresso della metro, con il cuore di John che batteva sempre più veloce man mano che scendevano le scale verso il basso, il nervosismo e l’ansia ch aumentavano e che gli facevano desiderare sempre di più che il treno tardasse e tardasse ancora, perché non voleva separarsi da lei.

“E’ come se tu e lui aveste questa sorta di dipendenza l’uno dal’altra. Non lo capisco.”

Clara lanciò uno sguardo verso il giovane, senza però interromperlo notando il tremolio delle sue labbra. Conosceva fin troppo bene il suo Eleven per capire che aveva pensieri contrastanti nella mente ai quali stava cercando di dare un senso, e quel tremolio delle labbra stava ad indicare che avrebbe continuato il discorso entro pochi attimi.

“O forse…. forse è solo strano. Come lo era il rapporto che avevo io con lui… solo in modo diverso?”

“Il punto focale è: puoi accettarlo, John?”

Avevano raggiunto i binari, fermandosi nella zona di attesa. Nell’eco della galleria c’erano i rumori più disparati e confusi dell’Universo; c’era il suono del vento che soffiava nella galleria dei treni, lo scalpiccio delle persone che correvano apparentemente senza una destinazione con le loro borse e le loro valigie, le voci degli stranieri che si sovrapponevano a quelle dei residenti ed il fischio di un treno in lontananza. John non sapeva se quello in arrivo era davvero il treno di Clara oppure no, ma si rese conto che il loro tempo stava per scadere. Si fermò a fissarla intensamente, col cuore che gli batteva feroce nel petto e quella sensazione di leggerezza nella testa che gli dava la sensazione di essere sospeso nel tempo e nello spazio mentre affogava nelle pozze scure che erano gli occhi della sua Clara. Abbassò lo sguardo sconfitto, lasciandosi scappare un sorriso triste prima di scuotere la testa in segno quasi di resa.

“Eleven…” La voce triste e rassegnata di Clara lo scosse.

John alzò improvvisamente lo sguardo su di lei, le labbra dischiuse e tremanti. Si fermò con gli occhi in quelli di lei, chiedendosi come potesse, a distanza di anni, quella ragazza leggergli dentro come nessuno aveva mai fatto prima.

Infine John sospirò arrendendosi definitivamente:

“Non so se potrei accettarlo, in futuro. Però Clara… è incredibile!” John avanzò di un passo verso di lei, portando la mano destra a carezzare i capelli scuri di Colin prima di correre con la stessa mano al viso di Clara aggiungendo:

“Dopo tutti questi anni, io non ho mai smesso di amarti! E… non voglio… lasciarti andare.”

Lo sguardo emozionato di John era ancora incastonato in quello sorpreso di Clara. La donna avrebbe voluto parlare, ma il cuore le si era come fermato in gola. Avvertiva nel corpo uno strano contrasto tra il freddo del vuoto attorno a lei ed il caldo della mano dell’uomo che accompagnava il tepore del corpicino di Colin premuto contro una piccola porzione di se. Ed in quel momento si rese conto che avrebbe voluto le braccia di John attorno a lei per poter scacciare via quella sensazione spiacevole, come da completamento ad un guscio protettivo attorno a se; ma sapeva che le cose erano più complicate di come apparivano in quel momento.

“Ed io non ho mai smesso di pensare a te, John. Solo che… dopo tutto questo tempo è difficile, e non riesco ancora a capire: cosa mi stai chiedendo, John?”

In realtà Clara capiva, ma aveva bisogno di certezze, aveva bisogno che John parlasse e mettesse le cose in chiaro una volta per tutte anche con se stesso.

La mano del giovane si mosse dalla guancia per salire un po’ più su e lasciar scivolare le dita tra i capelli di Clara, avvicinando appena il viso a quello di lei. Il fischio delle rotaie segnalavano il treno della metro in arrivo, i freni già attivi per la fermata, ma sia John che Clara decisero di ignorarlo.

“Clara… la prima volta che ti ho chiesto di bere un tè con me, lo ricordi?” John si prese qualche secondo per fissare gli occhi ancora confusi della giovane prima di continuare: “Eravamo a casa, tu stavi preparando una tesina su Jane Eyre. Cosa mi hai detto?”

Lo sguardo di Clara si fece per un attimo vuoto mentre si perdeva nei ricordi di quei giorni a casa di John. Quando quel pomeriggio d’inverno le tornò in mente portò di nuovo lo sguardo verso di lui rispondendo:

“Ti ho detto: Chiedimelo domani.”

John annuì, continuando:

“Io ti ho chiesto ‘perché’. Tu mi hai risposto ‘perché potrei dirti di si’. Ed il giorno dopo mi hai effettivamente detto di si.”

“Si, ma cosa…”

Clara avrebbe voluto chiedergli cosa c’entrava questo con loro due adesso, ma John le portò il dito sulle labbra e gli sorrise dolce, mentre la metro ripartiva lasciandoli con un soffio di vento contro i vestiti:

“Ti sto chiedendo: permettimi di accompagnarti a casa, per oggi. Permettimi di offrirti un tè domani ed una cena dopodomani. Permettimi di recuperare due anni di silenzi ed altri due di cose non dette. E non rimandare a domani.”Sorrise allontanando la mano dal viso della donna per lasciarla cadere lungo il suo fianco:

“Non so cosa potrei essere per Colin…” Lanciò uno sguardo sorridente al bambino prima di fissarlo nuovamente su Clara: “ Ma so cosa potrei essere per te. Non un amico, non un fratello. Voglio essere qualcosa di più: un fidanzato non so se riesco ad esserlo, non sono molto allenato in quello… ma almeno, voglio essere il tuo Eleven.”

Le labbra di Clara si dischiusero ed i suoi occhi si inumidirono di un’emozione troppo forte per esser messa in parole. Il suo cuore sembrava voler uscire dal petto, battendo violento contro la cassa toracica e chiudendole la gola, rendendole difficile non solo parlare, ma anche respirare.

“E con tuo padre? Lui è un punto fisso nella nostra vita.”

“Io… ci proverò. In futuro. Ma devo muovermi un passo alla volta, il primo passo per me sei tu. Dammi solo una possibilità, Clara. La metropolitana puoi prenderla un altro giorno.”

Si rendevano ormai conto entrambi che il tempo trascorso non poteva essere recuperato, che ciò che avevano perso era già troppo, ma era anche così difficile riprendere il filo!

“Non sarà facile, John. E ci vorrà del tempo… Gli ultimi anni sono stati un incubo per me. E se davvero vuoi recuperare qualcosa, devi capire che le cose saranno complicate, ed a volte ci spaventeranno. Io sono spaventata già adesso, devi essere sicuro di voler affrontare tutto questo, perché non voglio illudermi di essere felice e poi vedermi buttata di nuovo nel baratro.”

In quel momento, John capì perfettamente le parole di Clara. Capì che in qualche modo Clara era diventata come lui, ferita nel cuore e nell’anima e con una paura incredibile di legarsi nuovamente a qualcuno. E che era stato lui a renderla così simile a se stesso.

“Sono disposto a provare, assumermi il rischio, Clara. Un passo alla volta.” John si avvicinò ulteriormente e con cautela le prese la mano sinistra:

“ Eleven e la Ragazza Impossibile.”

Clara gli sorrise, rendendosi conto del sacrificio che quel ragazzo stava imponendo soprattutto a se stesso. L’unico che davvero aveva avuto diritto a perdere ogni speranza, ogni tipo di fiducia nel genere umano le stava dando invece la prospettiva di un futuro insieme, anche se incerto.

Non era facile fidarsi di una nuova persona piombata all’improvviso nella propria vita, ma loro due non erano estranei, si conoscevano e sapevano di cosa avevano entrambi bisogno. O almeno volevano credere questo. E la risposta più sensata era che, per essere felici, per essere completi, avevano bisogno l’uno dell’altra.

 

Ci sarebbe voluto tempo, ci sarebbero voluti molti sforzi da parte di entrambi per combattere le paure e le incertezze, accettando infine la consapevolezza che l’amore, in qualsiasi forma si fosse presentata, avrebbe avuto la meglio su tutto. A volte questo effimero sentimento poteva sembrare insufficiente, quando le gelosie si insinuavano nell’anima seminando dubbi e nuove paure, ma sarebbero poi scomparse del tutto il giorno in cui, attraverso una navata, un bambino nei primi anni dell’infanzia avrebbe consegnato un cuscino blu e due anelli dorati ad una coppia di innamorati. Avrebbe dato un bacio alla sua mamma ed un altro al suo papà giovane, correndo poi a seguire il resto di una cerimonia bellissima in prima fila, tra le braccia del suo papà più grande, con gli occhi innocenti e felici di un bambino emozionato che vedeva ingenuamente nel mondo solo la bellezza.

La famiglia Smith poteva sembrare una famiglia strana, agli occhi degli estranei, ma decisamente felice. E dopo tanto dolore e tanti sacrifici, un po’ forse se lo meritavano.

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NOTA:

Eccomi finalmente alla conclusione di questa storia. Ho molto da dire a riguardo, ma innanzitutto devo le mie scuse a chi ha seguito ed atteso pazientemente per questo,  il problema che mi ha bloccata è stato davvero difficile da affrontare: Eleven!

Amo Eleven, l’ho sempre amato e continuo a farlo, ma avevo cominciato a scrivere questa storia whouffle con l’idea di concluderla con un finale Whouffaldi. Colin doveva a tutti gli effetti essere figlio biologico di Clara e Twelve ma…. Ma c’è un ‘ma’:

Avevo scritto il primo capitolo ed avevo scritto già anche il capitolo finale. Ma man mano che la storia proseguiva Eleven diventava sempre più protagonista, sempre più capriccioso e sempre più prepotente nella mia testa. Ha preso il sopravvento, mi ha imposto di lasciargli Clara perché Clara era la sua Ragazza Impossibile e non potevo togliergli tutto in un colpo solo. Eleven ha preso vita propria ed ho avvertito tutta la sua sofferenza in ogni capitolo, in ogni sua parola ed in ogni sua sfumatura. E mi sono resa conto che aveva ragione.

Aveva ragione perchè avevo impostato il suo rapporto con il padre in un modo troppo forte, come una sorta di dipendenza, la stessa dipendenza che Clara e Twelve avevano nella serie TV e riadattata anche in questa storia. Che un rapporto padre/figlio così forte non poteva essere distrutto dalla contesa di una ragazza, non avrebbe avuto il valore forte che volevo dargli e non sarebbe stato giusto perché Twelve è il punto fisso nella vita di entrambi. E mi sono accorta che Clara e Twelve avrebbero funzionato, ed anche bene, si sarebbero curati a vicenda ed avrebbero avuto la loro dose di felicità; ma paradossalmente mi sono accorta soprattutto che Clara ed Eleven avevano bisogno del loro riscatto, che Clara ed Eleven erano la via più giusta, quella che avrebbe spento le fiamme che bruciavano e distruggevano, che insieme avrebbero funzionato come un balsamo rigenerante per tutti i personaggi coinvolti. Ho quindi eliminato la parte del concepimento di Colin, ho eliminato la parte di Twelve e Clara sposati con prole perché ho capito che Eleven non avrebbe mai e poi mai potuto perdonare questo, e non era giusto togliergli tutto, non era giusto togliergli l’amore del padre, non era giusto togliergli l’amore di Clara.

Mi rendo conto che cambiare la storia ha reso le cose più difficili, che l’influenza sui capitoli è stata molta e si nota. Ma ripeto: Eleven ha puntato i piedi per terra, ha urlato, combattuto, anche implorato per tutta la stesura della storia a cominciare dal primo capitolo… ed alla fine non ho potuto fare altro che cedere e dargliela vinta. Non so ancora se inserire un capitolo extra, la tentazione è forte, ma suppongo che anche questo finale possa essere accettabile e forse non è il caso di rovinarlo, non lo so…

Quindi, chiedo scusa a chi ha seguito fin’ora e si sente un po’ tradito. Chiedo scusa a chi ha invece abbandonato disperando che una conclusione non sarebbe mai giunta. Ma spero che almeno a qualcuno questa conclusione abbia dato un po’ di emozione, anche se si trattasse solo di un lieve sorriso o una lacrima di disgusto.

Nel frattempo, grazie e tutti voi che pazientemente avete tenuto la storia da conto, con la speranza di leggerne la fine, e grazie soprattutto a chi ha lasciato un segno con i propri commenti, sono stati per me importantissimi, davvero!

Grazie, grazie, grazie, grazie!!

   
 
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