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Autore: Querthe    21/12/2015    0 recensioni
Storia ispirata dai Blackmore’s Night, Album “Under a Violet Moon”, canzone “Self Portrait”. Il testo è nella storia, indicato in grassetto.
A volte uno sconosciuto è il migliore ascoltatore del tuo passato, e se il passato è quello di Piton...
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
- Questa storia fa parte della serie 'Storie da una canzone o canzoni in una storia?'
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Attenzione: La storia si basa sul testo della canzone, da me tradotto in italiano e che potere comunque trovare tranquillamente in giro per internet.
L’idea di base è quella di inserire il testo (in parte o totalmente) all’interno di una normale fanfiction, godibile quindi sia che si conosca la canzone sia che non la si conosca. I pezzi del testo sono stati messi in evidenza in grassetto.
Scritta per la Severus House Cup 2014 – Sfida di Febbraio “A Ritmo di musica” del sito “Il calderone di Severus”

Erano passati solo pochi, pochissimi giorni da quando il Professor Piton era diventato a tutti gli effetti il Preside Piton, giorni in cui il sole sembrava brillare sempre meno caldo e sempre meno a lungo sui tetti, nel parco e nei cuori della gente di Hogwarts. Il nuovo ciclo della scuola, inaugurato dall’ex professore di pozioni, era stato così all’insegna dell’austerità e delle classificazioni in ranghi che poco aveva da invidiare alle caste dei babbani indiani o della discriminazione di stampo nazista. Ma ciò che succedeva in Hogwarts era solo lo specchio di ciò che stava avvenendo nell’intero mondo magico. “Il male ha forse vinto? Il bene ha forse deciso di abbandonare la battaglia dando ragione a chi predica la perfezione dei sangue puro contro la tara che alcuni avrebbero potuto definire genetica dei sanguesporco? Alla fine forse ho davvero contribuito in maniera significativa alla situazione attuale...” pensò il mago. L’uomo spostò lo sguardo dalla finestra del suo studio, quello che fino a qualche tempo prima era lo studio di Silente, lo stesso studio in cui lui aveva giurato di ucciderlo, su sua richiesta, e lo soffermò un paio di secondi sull'uomo, sul mago dall'aspetto bizzarro che era in piedi davanti alla porta d'entrata. Relativamente alto, molto magro, quasi dinoccolato nel camice color marrone chiaro troppo grosso per lui. Un buffo berretto viola scuro sulle ventitré nascondeva l'incipiente calvizie, e un grande fiocco morbido nello stesso colore adornava il suo collo, rendendolo a tutti gli effetti un cliché vivente dei pittori francesi di fine del precedente secolo. “Signor preside. Sono...” “So chi è lei, e per quale motivo è qui. Sarebbe impossibile non individuare il suo ruolo. Non mi aspettavo una celerità tale nel volermi immortalare come preside.” “Effettivamente è inusuale, ma credo che sia per la situazione attuale. Capisce, nel caso…” Il preside sollevò un sopracciglio come muta domanda, pur avendo assolutamente compreso ciò che aveva sottinteso senza nessuna cattiveria l’uomo. “Non volevo certo dire che…” borbottò in evidente imbarazzo. “La prego, non...” “Non si preoccupi.” Sembrò rincuorarlo Piton, voltandosi nuovamente verso la finestra, le mani incrociate dietro la schiena, la mano destra a stringere il polso della sinistra. “Cominciamo, quando vuole.” “Sì, certo.” Mormorò il pittore, iniziando ad aprire il cavalletto che aveva fatto comparire dal nulla e estraendo dalla sua borsa la tela, già sull’intelaiatura di legno, su cui avrebbe dipinto il quadro. “Se posso, prima di iniziare a schizzare il suo ritratto, sarebbe necessario avere più particolari possibili dei fatti che lei reputa siano stati salienti nella sua vita, punti focali che hanno forgiato il suo carattere e la sua persona. Sa, dovendo dare una sorta di anima a questo quadro, più particolari ci sono, meglio è per tutti.” “Particolari?” “Sì esatto, Signor preside. Ho presente quello che comunemente si dice su di lei, ma spesso le persone non sono ciò che sembrano. Mi spiacerebbe dipingere un quadro che non rispecchi quanto più fedelmente possibile l’anima del preside che rappresenta.” Piton si concesse un debole sorriso. La luce del sole stava tramontando, stagliando nella stanza la sua sagoma come una figura nera avvolta da riflessi tra l’arancione e il violaceo. “Bene, allora, pittore. Dipingimi un quadro e appendilo al muro di questa stanza quando lo avrai finito e io non ci sarò più, ma attenzione, se vorrai che il tuo quadro abbia anche solo parte della mia anima, del mio essere, allora anche tu dovrai sapere ciò che io so.” “Certamente, cercherò almeno di comprenderne una parte…” “Tutto ciò che mi ha reso ciò che sono si potrebbe riassumere in una parola, volendo essere estremamente sintetici: amore.” “Amore?” chiese il pittore controllando che tutti i colori fossero a loro posto nella confezione di legno stinta in alcuni punti e macchiata in altri. “Ah, se il tuo quadro fosse davvero quello che io sono, allora stai tranquillo che il colore sarebbe funereo, le linee inizierebbero a colare giù… giù come la mia anima scivolò in basso quel giorno che lei si allontanò da me.” “Certo, certo…” annuì come distrattamente l’uomo, cercando nella borsa il magenta. “Era bella?” “Lei era tutta la mia vita, tutto ciò che desideravo; lei era il mio amore, ma mi abbandonò, scelse un altro. E quello per me fu l’inizio di tutto, di ciò che sono adesso, delle mie azioni passate e future. Il mio amore rimase, ma la sua forza bruciò nel modo sbagliato, portandomi a compiere scelte che non avrei mai pensato di fare. Fu quello che mi spinse ad abbracciare la Sua causa.” Le mani si mossero da dietro la schiena a davanti al petto, incrociate, mentre la mascella si tese, gli occhi si chiusero fino a formare due fessure mentre osservava fuori senza vedere, perso nei ricordi di quel tempo ormi passato, ma che ancora gli provocava dolore al pari di una moderna ferita di Chirone. “Fammi girare come una trottola impazzita, fammi perdere il senno, fammi capire la verità senza che io possa sapere ciò che sto facendo, spingimi nella notte dal giorno, non lasciare che ci siano tracce da trovare di me come ero prima. Spingimi giù… giù… dove io non possa ricordarla.” le parole che aveva detto quel giorno, parlando come non aveva fatto nemmeno con sua madre, al Signore Oscuro echeggiarono ancora nella sua mente, ma non le disse, esse furono muto silenzio agli occhi dell’artista che aveva iniziato ad abbozzare le proporzioni dell’uomo davanti a lui. “E questo amore l’ha spinta a fare tutto quello che ha fatto nella sua vita? E’ stato il suo mantra nei momenti difficili?” “Forse, probabilmente sì.” Rispose il mago. “Fu probabilmente lo stesso motivo che mi spinse a tradirla, a condannarla alla morte atroce che ebbe lei e suo marito, lo stesso motivo che mi legò al figlio che aveva i suoi stessi occhi, l’amore per lei tentò di redimermi, trasformandomi in quello che sono da molti, troppi anni probabilmente.” “Un abilissimo mago?” Severus piegò le labbra in una smorfia tra il divertito e il disgustato. “Non solo. In un abile pedina nelle mani di due avversari temibili. In un docile cane che obbediva agli ordini di due padroni, divenendo quando serviva bestia sanguinaria, ingoiando sentimenti e dolore per la giusta causa. Già. La giusta causa. Come se ne esistesse una. Ogni guerra ha un vincitore e un vinto, alla fine, ma tutti quelli che sono stati feriti, traditi, morti o ingannati durante la stessa cosa sono? Vincitori o vinti? O solo mattoni per erigere il mausoleo di gloria al vincitore? Sogni spezzati dei due contendenti, strade che non potranno mai essere percorse perché interrotte prima del tempo, burattini dai fili rotti. Ecco, io mi sento così.” “La prego Signor preside, non dica così. Dopotutto lei è la massima autorità di Hogwarts in questo momento. Questa è la realtà dei fatti.” “Niente è reale per me in questo momento se non come mi sento e io mi sento andare sempre più giù, giù, verso un luogo che mai fino ad ora pensavo di agognare.” Si voltò, una luce intensa negli occhi, quasi febbricitante. “Dipingimi un quadro di occhi che non possono vedere i lampi dei fulmini che bruciano solo per me nelle notti che passo nell’osservare l’uomo che amavo più di un padre essere ucciso, mentre il mio cuore scoppia in pezzi più piccoli della polvere, per poi ricomporsi e morire di nuovo sapendo che lui lo voleva e io ho dovuto farlo per il sacro rispetto che nutro nelle promesse. Sapeva comandare con la gentilezza, glielo devo riconoscere, era una delle sue tante stupende doti.” Si voltò verso il quadro di Silente, che sonnecchiava tranquillo dietro le lenti a mezzaluna. “Dimmi, dimmi perché ho dovuto farlo? Tu che non sei lui, ma che dovresti esserlo per i posteri, dimmi come trovare la pace che desidero.” Il pittore stava bevendo ogni parola, ogni espressione, anche il modo di muovere le mani di quell’uomo che si stava rivelando ben diverso dalla bestia feroce che tutti dipingevano sui rotocalchi e sulle bocche dei pettegolezzi. Si fermò, il pennello in mano, una piccola goccia di rosa incarnato indecisa se cadere o meno sulla tavolozza di betulla che impugnava con la mano sinistra, gli occhi rapiti nel vedere la scena. “Già, lo so la tua risposta quale sarebbe, se tu fossi lui. Ma non lo sei.” Sembrò calmarsi, le braccia tornarono a stendersi, quasi abbandonate ai lati del corpo, quando prima erano tese come alla ricerca della risposta che non arrivò mai. “E’ facile, una cosa molto facile, e tutto sarà finito, il debito saldato, c’è solo il diavolo da pagare per tutto ciò che ho preso a credito in questi anni: vite, dolore, morti, ma lo scotto non è pesante come credevo all’inizio…” Severus Piton tornò a guardare fuori dalla finestra, le mani appoggiate ai lati della stessa, come disperato. “Ormai so cosa succederà. Ho vagliato tutte le ipotesi, so cosa potrebbe succedere e so come potrei reagire, ma la domanda è se io sono pronto a reagire. Sono stanco, sono estremamente stanco di questa vita vissuta per altri, di questa vita così piena del mio amore per lei che mi ha impedito di vivere la mia vera vita, ma ormai è troppo tardi, non posso tornare indietro e compiere altre scelte, altre azioni che mi permetterebbero di essere una persona diversa, di avere una vita diversa, forse più inutile per molti, ma sicuramente più appagante per me.” “Ma lei è preside...” “Verissimo, eppure cosa rappresenta davvero questa carica senza un uomo, un’anima a riempirla? Io sono il successore di Silente, una cosa strana, decisamente bizzarra se si pensa che l’ho ucciso io, ma chi mai mi crederebbe se dicessi che è stato lui a chiedermelo? Chi mai penserebbe che l’uomo che ora calpesta il pavimento dello studio del preside di Hogwarts ha compiuto un omicidio che suona molto di babbana eutanasia? Io non mi sento degno del ruolo, e così tutti gli altri che vedono in me ciò che sono ai loro occhi. Non ha senso questa farsa, ma presto finirà, finirà tutto.” Guardò verso l’alto, come a parlare a qualche spirito superiore. “Sono pronto per andare, spingimi verso il basso dall’alto a cui sono arrivato grazie al sangue di molti, finalmente dammi un posto in cui io possa distendermi e riposare per sempre. Magari non con te, ma che io possa vederti almeno ogni tanto.” Sospirò e staccò le mani dai lati della finestra, riprendendo un contegno che aveva abbandonato per i pochi minuti precedenti. “Signor preside...” “No. Lasci stare, direi che per oggi abbiamo finito.” “Certamente. Metto via le mie cose e potremo riprendere domani o quando lo desidera.” Piton si voltò verso di lui. L’uomo sapeva troppo, e non poteva farlo uscire vivo da quella stanza. La mano si mosse, nascosta dal mantello, alla bacchetta, un incanto già si stava dischiudendo sulle sue labbra, e tutto sarebbe tornato a posto. Uno in più, uno in meno, la lista che sporcava le sue mani era lunga. Eppure non riusciva a pensare di farlo. Qualcosa in lui lo bloccava. Troppo sangue aveva macchiato le sue mani negli anni, e anche se un morto in più non poteva cambiare molto le cose, sentiva che sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso, e lui sarebbe crollato. E cosa sarebbe cambiato? Nulla probabilmente per lui, ma troppa gente ancora dipendeva da lui e dalla sua facciata. Maledetta sacralità alle promesse fatte. Il pittore si era voltato per mettere via i colori. Un colpo veloce, un incantesimo non verbale, e si pietrificò, immobile, ma vigile. Piton camminò lentamente verso di lui, fino ad essere davanti a lui e si piegò sulle ginocchia, in modo che il suo viso e quello del mago bloccato dal potente incantesimo fossero alla stessa altezza. “Mi spiace...” gli disse senza tradire alcuna emozione, per poi puntargli la bacchetta dritta in mezzo alla fronte. Il quadro prese lentamente a bruciare nel fuoco del camino dello studio del Preside Piton. “Niente è reale se non i ricordi che hai...” pensò l’uomo mentre i ricordi della giornata scorrevano via dalla mente del pittore sostituiti da altri. “E questo quadro che non esisterà mai.” Disse completando l’incantesimo. Il volto abbozzato di Piton nel quadro sembrò accennare un sorriso prima di dissolversi in cenere.
   
 
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