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Autore: Feynman    22/12/2015    4 recensioni
La Stazione Flaminio, a Roma, dista quattro fermate dalla stazione Termini, il centro nevralgico della mobilità sotterranea e non dell'Urbe. Erica Leone, la prima volta che vi mette piede, a Flaminio, ha dieci anni ed è sempre stata accompagnata da sua madre; ma, quel giorno, è un giorno diverso. Erica, in quel suo primo giorno di scuola, deve diventare grande e fare quelle quattro fermate senza il calore rassicurante di sua madre.
Anche il 17 ottobre di cinque anni dopo sarà ugualmente diverso, per lei.
Nella vita di Erica, entra Michela Morente e niente, da quel giorno, sarà più uguale a qualcosa.
***
Avevi gli occhi verdi.
Li ho ancora, gli occhi verdi.
Ma non verdi come quel giorno.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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IV.

 

Tre parole appena sussurrate con un forte rumore di fondo, frusciante, caotico, disturbante, sbagliato. La voce di Michela si era fatta spazio cavalcando sinapsi elettriche e andando a toccare nervi che pensava di aver nascosto alla vista, strappato via e gettati sotto un antico tappeto persiano.

 

Erica, sono Michela.

Si era alzata di scatto dal pavimento ed era rimasta nel bel mezzo del salotto, con le felici lucine di Natale ad illuminarle la figura, in quella notte di immacolate concezioni e confusione. Subito le aveva attraversato la mente il pensiero che fosse uno scherzo da ubriachi, un gioco di cattivo gusto, un modo per prendere il suo cuore distrutto e immergerlo nel sale, ancora sanguinante e lo sentiva bruciare nel petto, cattivo e amaro. Lo sentiva seccarsi e ingiallirsi.

 

«Che è successo?» le aveva chiesto deglutendo forte. Si era portata una mano alla fronte e poi in mezzo ai capelli, si era grattata la nuca e si sentiva nervosa, sudata, bagnata, emozionata.

Silenzio, dall’altra parte.

«Sei ancora lì?».

«…Sì, ci sono».

«Perché mi hai chiamata, Michela?».

«Ho fatto una cazzata, Erica».

Come sbagliarsi, infondo.

Michela l’aveva sempre e solo chiamata perché faceva cazzate, non per sentire come stava. Michela correva a bussare alla porta di casa sua quando litigava con i genitori, quando doveva lamentarsi dei gemelli, mai per sapere come stava Erica, se voleva giocare, se le andava di uscire per farsi un giro, per andare da Star Shop che non c’era mai stata, per fare qualsiasi cosa. Quella era Erica.

Era Erica che andava da lei, bussava timida alla porta del 13/B e chiedeva, giocando con la punta delle scarpe, se Michela fosse in casa e se le andasse di uscire a prendere un po’ di sole, a giocare con le foglie cadute dagli ippocastani, a mangiare cioccolata da Castroni.

 

Qualsiasi cosa, Michela, qualsiasi cosa.

 

Claudio le sorrideva, le carezzava una guancia e le diceva che Michela era già uscita, che era venuta a prenderla qualche ragazzina di cui Erica dimenticava immediatamente il nome, perché non importava, non veramente. Michela era uscita un’altra volta e non le aveva chiesto niente perché non aveva litigato con nessuno, non aveva puntato i piedi e nessuno le aveva detto di no. Allora, lei ringraziava Claudio e lui per tirarla su di morale le dava un nuovo classico che aveva acquistato, per farlo leggere prima a lei e per ascoltarne il responso perché dentro il 12/B, Silvio non leggeva e Teresa, alla sera, era troppo esausta anche per ricordarsi il nome. Erica ringraziava cercando di sorridere un po’ di più, Claudio le sorrideva di rimando, sempre un po’ mesto, e sembrava chiederle di lasciar perdere ma lei non sapeva cosa le facesse Michela, per presentarsi al 13/B tutti i giorni, per bussare alla porta e per chiedere se Michela ci fosse.

 

Si era diretta verso il frigo, l’aveva aperto e aveva afferrato quella bottiglia di birra che non aveva bevuto per cena. Si era seduta sul divano e aveva aspettato che Michela la finisse di respirare e basta contro la cornetta, che iniziasse a parlare davvero, a dirle come mai la sua vita stava andando di merda ed Erica si stava preparando ad ascoltarla, ad inghiottire tutto quel vomito che avrebbe dovuto gettarle addosso. Erica era stanca, ma amava Michela e nemmeno dopo un anno di silenzio, di lontananza, di male e di lacrime sarebbe riuscita a chiuderle il telefono in faccia e…

«Non so da dove cominciare».

«Io non ho capito perché hai chiamato me».

«Perché tu non hai ancora attaccato».

E non l’avrebbe mai fatto, si dice.

Erica sospirò ed incrociò le gambe sul divano, posò la bottiglia di birra sul tavolino e chiese a Michela di cominciare da cinque minuti prima, quando stava componendo il numero per chiamarla.

 

Michela, quella sera, aveva preso qualcosa in discoteca ma non riusciva a ricordarsi cosa. Era una notte come un’altra, con quella sua compagnia di amici che non erano realmente amici e che pretendevano di conoscerla e lei non voleva sapere nulla di loro. Michela aveva passato un intero anno in quella maniera. Aveva sostenuto gli esami di maturità da privatista, si era iscritta a tempo perso in università e passava le serate a distruggersi il cervello, a farsi scopare da ragazzi che non contavano niente e a farsi dare della puttana da sua nonna, che lei mandava a farsi fottere per poi chiudere la porta con violenza. Marianna e Claudio la chiamavano poco perché Michela non rispondeva, i gemelli erano scomparsi e lei faceva finta che la vita andasse avanti, mentre era ferma sempre allo stesso punto.

Michela sentiva il bisogno di fermarsi, ma la vita continuava a scorrerle via dalle dita e un anno intero aveva buttato via, mentre si lasciava trascinare dagli eventi. Michela aveva bisogno di qualcuno che le dicesse che non era colpa sua, era degli altri che non la capivano perché lei era troppo speciale per il mondo nel quale si era ritrovata a vivere. Quello, però, era sempre stato il compito di Erica e lei aveva interrotto i contatti con l’unica persona che sembrava volerle bene davvero.

 

«Michela, sono finiti i tempi in cui venivo a rincorrerti per sapere come stai» le confessò stancamente Erica, lanciando un’occhiata sfuggente al cielo sereno.

«Volevo solo sentire la tua voce, Erica» rispose l’altra, dall’altro capo d’Italia.

Michela si era allontanata dalla discoteca, stava cercando le chiavi della macchina in quella borsa piccolissima dove era impossibile perdere le cose perché non c’entrava niente. Cercava di sorreggersi all’intonaco sporco e dipinto mentre provava ad articolare le parole che le vorticavano nella testa, sempre loro, sempre presenti. Quelle cose che avrebbe voluto chiedere ad Erica quando era il loro tempo, quando l’altra glielo avrebbe permesso senza remore. Michela lo sapeva che Erica l’avrebbe ascoltata comunque, ma sapeva che non sarebbe stato come prima.

«Torno a Roma, Erica. Sto andando alla stazione a prendere il notturno e…».

«Ti vengo a prendere a Termini. Aspettami lì».

 

 

   
 
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