IV.
Tre parole appena sussurrate
con un forte rumore di fondo, frusciante, caotico, disturbante, sbagliato. La
voce di Michela si era fatta spazio cavalcando sinapsi elettriche e andando a
toccare nervi che pensava di aver nascosto alla vista, strappato via e gettati
sotto un antico tappeto persiano.
Erica,
sono Michela.
Si era alzata di scatto dal
pavimento ed era rimasta nel bel mezzo del salotto, con le felici lucine di
Natale ad illuminarle la figura, in quella notte di immacolate concezioni e
confusione. Subito le aveva attraversato la mente il pensiero che fosse uno
scherzo da ubriachi, un gioco di cattivo gusto, un modo per prendere il suo
cuore distrutto e immergerlo nel sale, ancora sanguinante e lo sentiva bruciare
nel petto, cattivo e amaro. Lo sentiva seccarsi e ingiallirsi.
«Che
è successo?» le aveva chiesto deglutendo forte. Si era portata una mano alla
fronte e poi in mezzo ai capelli, si era grattata la nuca e si sentiva nervosa,
sudata, bagnata, emozionata.
Silenzio,
dall’altra parte.
«Sei
ancora lì?».
«…Sì,
ci sono».
«Perché
mi hai chiamata, Michela?».
«Ho
fatto una cazzata, Erica».
Come
sbagliarsi, infondo.
Michela
l’aveva sempre e solo chiamata perché faceva cazzate, non per sentire come
stava. Michela correva a bussare alla porta di casa sua quando litigava con i
genitori, quando doveva lamentarsi dei gemelli, mai per sapere come stava
Erica, se voleva giocare, se le andava di uscire per farsi un giro, per andare
da Star Shop che non c’era mai stata, per fare qualsiasi cosa. Quella era
Erica.
Era
Erica che andava da lei, bussava timida alla porta del 13/B e chiedeva, giocando
con la punta delle scarpe, se Michela fosse in casa e se le andasse di uscire a
prendere un po’ di sole, a giocare con le foglie cadute dagli ippocastani, a mangiare
cioccolata da Castroni.
Qualsiasi cosa, Michela, qualsiasi cosa.
Claudio
le sorrideva, le carezzava una guancia e le diceva che Michela era già uscita,
che era venuta a prenderla qualche ragazzina di cui Erica dimenticava
immediatamente il nome, perché non importava, non veramente. Michela era uscita
un’altra volta e non le aveva chiesto niente perché non aveva litigato con
nessuno, non aveva puntato i piedi e nessuno le aveva detto di no. Allora, lei
ringraziava Claudio e lui per tirarla su di morale le dava un nuovo classico
che aveva acquistato, per farlo leggere prima a lei e per ascoltarne il
responso perché dentro il 12/B, Silvio non leggeva e Teresa, alla sera, era
troppo esausta anche per ricordarsi il nome. Erica ringraziava cercando di sorridere
un po’ di più, Claudio le sorrideva di rimando, sempre un po’ mesto, e sembrava
chiederle di lasciar perdere ma lei non sapeva cosa le facesse Michela, per
presentarsi al 13/B tutti i giorni, per bussare alla porta e per chiedere se
Michela ci fosse.
Si
era diretta verso il frigo, l’aveva aperto e aveva afferrato quella bottiglia
di birra che non aveva bevuto per cena. Si era seduta sul divano e aveva
aspettato che Michela la finisse di respirare e basta contro la cornetta, che
iniziasse a parlare davvero, a dirle come mai la sua vita stava andando di
merda ed Erica si stava preparando ad ascoltarla, ad inghiottire tutto quel
vomito che avrebbe dovuto gettarle addosso. Erica era stanca, ma amava Michela
e nemmeno dopo un anno di silenzio, di lontananza, di male e di lacrime sarebbe
riuscita a chiuderle il telefono in faccia e…
«Non
so da dove cominciare».
«Io
non ho capito perché hai chiamato me».
«Perché
tu non hai ancora attaccato».
E
non l’avrebbe mai fatto, si dice.
Erica
sospirò ed incrociò le gambe sul divano, posò la bottiglia di birra sul
tavolino e chiese a Michela di cominciare da cinque minuti prima, quando stava
componendo il numero per chiamarla.
Michela,
quella sera, aveva preso qualcosa in discoteca ma non riusciva a ricordarsi
cosa. Era una notte come un’altra, con quella sua compagnia di amici che non
erano realmente amici e che pretendevano di conoscerla e lei non voleva sapere
nulla di loro. Michela aveva passato un intero anno in quella maniera. Aveva
sostenuto gli esami di maturità da privatista, si era iscritta a tempo perso in
università e passava le serate a distruggersi il cervello, a farsi scopare da
ragazzi che non contavano niente e a farsi dare della puttana da sua nonna, che
lei mandava a farsi fottere per poi chiudere la porta con violenza. Marianna e
Claudio la chiamavano poco perché Michela non rispondeva, i gemelli erano
scomparsi e lei faceva finta che la vita andasse avanti, mentre era ferma
sempre allo stesso punto.
Michela
sentiva il bisogno di fermarsi, ma la vita continuava a scorrerle via dalle
dita e un anno intero aveva buttato via, mentre si lasciava trascinare dagli
eventi. Michela aveva bisogno di qualcuno che le dicesse che non era colpa sua,
era degli altri che non la capivano perché lei era troppo speciale per il mondo
nel quale si era ritrovata a vivere. Quello, però, era sempre stato il compito
di Erica e lei aveva interrotto i contatti con l’unica persona che sembrava
volerle bene davvero.
«Michela,
sono finiti i tempi in cui venivo a rincorrerti per sapere come stai» le
confessò stancamente Erica, lanciando un’occhiata sfuggente al cielo sereno.
«Volevo
solo sentire la tua voce, Erica» rispose l’altra, dall’altro capo d’Italia.
Michela
si era allontanata dalla discoteca, stava cercando le chiavi della macchina in
quella borsa piccolissima dove era impossibile perdere le cose perché non
c’entrava niente. Cercava di sorreggersi all’intonaco sporco e dipinto mentre
provava ad articolare le parole che le vorticavano nella testa, sempre loro,
sempre presenti. Quelle cose che avrebbe voluto chiedere ad Erica quando era il
loro tempo, quando l’altra glielo avrebbe permesso senza remore. Michela lo
sapeva che Erica l’avrebbe ascoltata comunque, ma sapeva che non sarebbe stato
come prima.
«Torno
a Roma, Erica. Sto andando alla stazione a prendere il notturno e…».
«Ti
vengo a prendere a Termini. Aspettami lì».