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Autore: Francine    13/01/2016    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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21.




Il vento ha spazzato via le nuvole e adesso fa dondolare con dolcezza le fronde degli alberi, mentre le arriva il mormorio del mare, dolce, placido, tranquillo. Come una ninna nanna. La luna, tonda e gonfia in cielo, si stropiccia gli occhioni mentre il sole se ne sta andando ad illuminare altri giorni ed altre vite. Fotinê si attarda ancora per un istante ad osservare il panorama al tramonto, la Torre Bianca che spicca all’orizzonte, poi chiude bene la finestra e tira le tende.
Si affaccia sul lettino a controllare che i suoi due ometti dormano tranquilli. Sembrano due ballerini impegnati in una coreografia: lo stesso braccino alzato – il sinistro – la stessa gambina piegata – la destra – le labbra socchiuse nello stesso, identico modo. Solo i visi sono voltati in direzione opposta, come a guardare due sogni diversissimi tra di loro.
Non fate scherzi. Intesi?
È tutto pronto. Ha tolto lo specchio. Ha eliminato ogni oggetto metallico – ha bendato la maniglia della finestra con del nastro di velluto rosso. Ha scelto i nomi dei padrini, a dispetto di chi le consigliava di rivolgersi ai due Gemelli. Ha fede – una fede incrollabile – che l’ascolteranno, nonostante le vecchie beghe. Eppure, un’ansia sottile le serpeggia nello stomaco.

Cosa dovrebbe andare storto?, si chiede.
Nulla. Lei sarà all’ingresso, sul divano, un libro per compagnia e un piatto di pollo coi peperoni in grembo. Molte sue amiche pagherebbero oro per passare una notte intera senza il pianto o il lamento dei loro bambini; lei esita. Si è appena abituata ad avere attorno quei due gnomi, eppure è così difficile staccarsi da quel lettino bianco dalle sponde alte. Le mancano già. Ma l’orologio corre. Sbuccia i minuti con una velocità impressionante. Fra poco sarà buio. E se non si decide, perderà l’attimo e tanti saluti.

Forse sarebbe meglio, pensa. Dopo tutto, è il 1958. E quello che sta facendo è roba da isolani. Non sarebbe il caso di darci un taglio ed uscire da questo medioevo di superstizioni una volta per tutte, magari cominciando con loro? Sì. Però una strana paura l’assale. Una paura irrazionale.

E se succedesse qualcosa di male ai miei piccoli?

Le tremano le vene dei polsi. Lei è sola. E Ioannis non ci metterebbe molto a prendere un’altra donna che gli scaldi il letto e rassetti la casa, almeno fino a quando il mare non si prenderà lui, una volta o un’altra. E allora? Che succederebbe ai suoi piccoli, allora?
Una morsa gelata le serra lo stomaco. Stringe le labbra fino a farle diventare livide, poi si scuote. Meglio rimandare ad un’altra volta l’uscita dal medioevo. Fotinê sorride.
Andrà tutto bene, si dice, accarezzando le schiene dei suoi bambini. Andrà tutto bene.
Poi si fa forza. Dà un bacio sulla fronte ai suoi piccoli, rimbocca loro il lenzuolino, e controlla la stanza per l’ultima volta.
Poi esce, e si chiude la porta alle spalle.
Nella stanza calano il buio ed il silenzio più assoluto.

Per qualche minuto non succede nulla. Poi si va formando un leggero chiarore sopra il lettino, come una lucciola che cresce sempre di più, sempre di più fino a planare dolcemente sul pavimento. I bambini dormono. Non sembrano essersi accorti di nulla.
Tre mani scheletriche si avvicinano alle sponde. Le afferrano. Tre visi si affacciano dal buio e scrutano i due neonati. Sono tre donne. Hanno un’età indefinibile, e capelli d’argento che spuntano oltre l’orlo del cappuccio nero, e occhi dello stesso colore delle stelle.
Le tre donne si guardano. Poi insieme chiedono: «Chi parla per questi bambini?».
«Io.»
«È la Fanciulla a rispondere», dicono le donne, e dall’altra parte del letto avanza una figura femminile. L’egida sulle spalle, lancia e scudo impugnati e l’elmo a coprirle la fronte. Gli occhi scintillano dello stesso riverbero dell’acciaio. «E l’altro dov’è?», chiedono le tre donne in un’unica voce.
«Non c’è nessun altro», replica la Fanciulla. «Questi bambini mi appartengono.»
«La loro madre te ne ha affidato uno solo, questo qui», replicano le donne, indicando il bambino che dorme a sinistra. «L’altro appartiene al Mare.»
«Questi bambini mi appartengono», ripete la Fanciulla con semplicità.
Le tre donne si guardano perplesse. «Stai scherzando con il fuoco, Fanciulla», la ammoniscono.
«Ne sono consapevole, Sorelle. Ma è necessario che io parli per questo bambino perché il Mare non c’è. Il Mare non può intercedere per lui.»
«Il Mare potrebbe richiedertelo, un giorno o l’altro. Ne sei consapevole?»
«Sì.»
«E sei davvero disposta ad accettarlo?»
«Sì.»
Le Tre Sorelle si scambiano un altro lunghissimo sguardo. Poi quella al centro dischiude le labbra. «Così sia.» La donna alla sua destra tira fuori un fuso da sotto al mantello, una conocchia con un filo splendente e luminoso come l’oro liquido. Quella alla sua sinistra, invece, le mostra un paio di forbici del colore della notte.
«Ascolta, Fanciulla. Con il cuore e con la mente.»
«Ascolto», replica lei, posando lancia e scudo e prendendo tra le braccia il bambino che il Mare le chiederà indietro, prima o poi.
La donna al centro sorride. «Possiamo cominciare le contrattazioni…»



Non tutti i fogli del calendario sono uguali. Ci sono giornate e giornate.
Quelle importanti sono appuntamenti che prendiamo con il destino, punti fissi ed immutabili nel tempo. Una nascita. Un anniversario. Un matrimonio. La laurea. Il primo giorno di scuola. L’investitura ufficiale. Sono qualcosa che cerchiamo di ottenere. Sono qualcosa che noi vogliamo segnare sull’affresco della nostra vita con un bel punto rosso, o una strisciata di evidenziatore giallo sole. Qualcosa che non vogliamo dimenticare, che spicchi nel tessuto della nostra esistenza. Giornate che ci fa piacere ricordare nei momenti in cui ne abbiamo più bisogno. Per solitudine, nostalgia o semplice noia.
Le giornate strane, invece, sono diverse.
Ti cadono in testa come tegole dispettose. Quelle storte le riconosci subito, appena apri gli occhi, o quasi. Hai quella sensazione antipatica – come un formicolio sotto la pelle– e il tuo sesto senso ti dice che è meglio marcare visita e starsene a letto. E di solito, ha ragione lui. Ma le giornate strane non le distingui dalle altre appena ti svegli, ma solo dopo. Solo a sera, quando abbandoni distrutto la testa sul cuscino. Solo quando sono esplose come fuochi d’artificio nella notte e hanno già fatto il loro lavoro. Scombussolarti le carte, ad esempio. O cambiarti la vita. In un battito di ciglia.
Zio Kostas glielo aveva ripetuto, e così aveva fatto Aristoteles durante gli anni dell’addestramento: il buongiorno si vede dal mattino. Ma al mattino piace tenersi gli assi ben nascosti nella manica. Eppure, nonostante fosse immerso nel vortice fino al collo, Milo avrebbe compreso la reale portata degli eventi che stava vivendo solo più tardi, quando a sera avrebbe sprofondato la sua testa sul cuscino del suo letto all’Ottava Casa.

Kanon l’aveva mandato a dormire sul pavimento, una coperta vissuta e le mani a cuscino. «Il letto è mio. Fossi una bella ragazza, te l’avrei ceduto volentieri, o magari l’avremmo diviso. Ma non sei una bella ragazza…», gli aveva detto. «E visto che hai tutta l’intenzione di andarti a fare ammazzare, puoi anche dormire sul pavimento, no?»
Milo non aveva replicato. Aveva afferrato – aveva strappato – la coperta dalle mani di Kanon e senza dire una mezza parola si era steso a terra, accanto alla porta, schiena al suo ospite. Ospite che aveva tenuto accesa la candela fino a tardi, tra il fruscio delle pagine ingiallite e la risacca del mare.
Ho le ossa a pezzi, pensò lo Scorpione stiracchiandosi. Il cielo era rosa. La brezza spirava dal mare come ad invitarlo a muoversi. A fare il suo dovere. Kanon gli aveva detto che era stato Poseidone a salvarlo. Perché avesse scelto lui, Milo non sapeva dirlo; però si chiedeva come mai il dio dei sette mari, Ennosigeo, non fosse intervenuto lui stesso nella questione. Era una faccenda tra divinità, giusto? Perché allora, tirarsi indietro? Perché Athena voleva essere il cavallo di Troia? Ma che bisogno c’è?, si chiese Milo scaldandosi al sole come una lucertola.
«Sei già in piedi?»
Alle sue spalle, Kanon aveva l’aria di chi ha passato una nottata poco piacevole, di quelle in cui il letto diventa una graticola in cui rigirarsi fino all’alba. Milo si concesse un sorrisetto.
«Che c’è?», gli chiese Kanon, aggrottando le sopracciglia.
Se Atene piange, Sparta non ride, pensò lo Scorpione. «Nulla, nulla», si affrettò a rispondere. «Quando arriverà il tuo amico?»
«Sarà qui tra mezz’ora», replicò Kanon osservando il cielo per capire che ore fossero. «Mi vesto», disse chiudendo la porta.
Milo lo seguì, spalancò la porta e lo fronteggiò sulla soglia, braccia incrociate e sguardo fermo. «Credevo di essere stato chiaro.»
«Credevo di esserlo stato anch’io», ribatté Kanon disfacendo il letto e arrotolando il materasso.
«Tu resti qui.»
«E questo chi lo dice?»
«Io.»
«E tu chi saresti?»
«Un Santo di Athena.»
«E dunque?», chiese Kanon, affondando lo sguardo in quello di Milo. «Un Santo di Athena può decidere della mia vita?»
«Se tu fossi una minaccia, sì.»
«E dimmi, Scorpione… Questo eremita che se ne sta solo e ramingo su uno scoglio troppo cresciuto in mezzo all’Egeo, rappresenta forse una minaccia per te?»
«Dimmelo tu…»
«Te l’ho già detto, ragazzo…»
«Non chiamarmi ragazzo…»
«E perché non dovrei? Ti stai comportando come un bambino a cui hanno morso la merenda. Vuoi essere trattato da uomo? Allora smettila di fare il moccioso e usa il cervello», disse Kanon, picchiettandosi con un dito le tempie.
«Sto usando il cervello!», puntualizzò Milo.
«No. Stai ragionando coi piedi.» Kanon si liberò dei vestiti e li lasciò cadere sul pavimento. Li allontanò con il piede e prese degli abiti puliti. «Quanto tempo è passato dal vostro viaggetto ad Atlantide?»
«Atlantide? Che c’entra adesso Atlantide, fottuto pazzo?!»
«Hai sbagliato fratello. Io sono quello sano.» Kanon si legò i capelli in una coda distratta e si infilò le scarpe. «Te lo dico io. Cinque mesi e mezzo. Ora, se avessi rappresentato davvero una minaccia, vi sareste fatti vivi molto, molto tempo prima. Magari quand’ero ancora ferito e boccheggiante. Invece no. Invece avete fatto finta che io non esistessi. Avete volutamente ignorato il mio microcosmo. E non dirmi che non l’hai mai percepito perché non ci credo.»

Milo tacque. Sì, l’aveva sentito quel microcosmo lontano e distante, troppo familiare per non poterlo riconoscere, troppo pericoloso per non intervenire. Ma anche Athena l’aveva riconosciuto, e non aveva detto nulla. Così Milo di Scorpio aveva commesso lo stesso errore: aveva scelto la via più facile. Aveva spento il cervello e aveva seguito la corrente, senza esternare i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi timori. E con chi avrebbe potuto parlarne? Camus non c’era più, e aveva letto negli occhi dei suoi compagni lo stesso sentimento che agitava il suo cosmo. Parlarne avrebbe significato scoperchiare una pentola in ebollizione, pronta a rovesciare sulla loro fragile quiete quanta più schiuma e quanto più veleno possibile. Così Milo aveva deciso di lasciare quel microcosmo a vegetare, lontano dal tempio, lontano da Athena, lontano da lui. Se ne sarebbero occupati più avanti, quando la loro vita non sarebbe stata tanto fragile e delicata da esplodere in mille pezzi al primo soffio di vento.

«Quindi?», chiese Milo.
Kanon sorrise. «Stai evitando di rispondere?», chiese a sua volta, le mani sui fianchi ed un’espressione divertita.
«Ti ho fatto una domanda.»
«Anch’io», ribatté Kanon. «Ma hai ragione. Torniamo al punto. Io vengo con te. Voglio capire cosa sta succedendo, e voglio farlo coi miei occhi.»
«Perché Poseidone ha schioccato le dita?»
«Perché c’è bisogno di me. Perché Athena ha bisogno di me. Lei mi ha salvato e mi ha dato un’altra possibilità. E non me la farò strappare di mano. Nemmeno da te.»
«Sei senza armatura.»
«Credi che per me sia un problema?»
«Hai assaggiato la mia medicina. Se ne vuoi ancora, non hai che da dirlo.»
«Ieri mi sono lasciato punzecchiare. O non mi avresti mai ascoltato. Perché sei fatto così. Quindi, sei sicuro di non essere tu quello che vuole assaggiare la mia, di medicina?»
«Mi stai minacciando?»
«Ti sto avvisando», replicò Kanon raccogliendo i vestiti da terra. «Non metterti sulla mia strada.»

Milo tacque. Lo fissò affaccendarsi per casa come se dovessero partire per una gita di breve durata, uno o due giorni o poco più. Un’innocente bugia che ogni Santo si raccontava prima di andare in missione, per dirsi che no, non sarebbe stata quella l’ultima, che ci sarebbe stato un ritorno, e che sarebbe stato piacevole rincasare e trovare un ambiente in ordine e sprofondare su di un letto pronto ad accoglierlo, invece che tra lenzuola sfatte e impolverate.
«Te lo chiederò per l’ultima volta. Che intenzioni hai?»
A Milo non interessava sapere se e quanto il ravvedimento di Kanon fosse genuino e autentico. Erano cose che non lo riguardavano. Ma quello che davvero gli importava, quello che doveva sapere davvero, era cosa frullasse nella mente del fratello minore di Saga. Che intenzioni aveva quell’uomo? Poteva rivelarsi una bomba pronta ed esplodere in qualsiasi momento, e il Cielo sapeva quanto avrebbero fatto volentieri a meno di un’altra tegola tra capo e collo. Ma lo Scorpione si chiedeva se non fosse, piuttosto, un azzardo maggiore lasciarlo lì, da solo, lontano dagli occhi, libero di agire indisturbato, senza alcun controllo.
Kanon l’avrebbe rassicurato. Gli avrebbe detto quello che lui voleva sentirsi dire, qualche bella storiella strappalacrime sul mondo in cui l’amore di Athena gli aveva salvato la vita e portato uno sprazzo di luce nel suo cupo mondo di peccatore; ma Milo voleva sentire quelle parole. Aveva bisogno di sentirgliele dire, perché poi avrebbe avuto tutt’altro sapore affondare Antares nelle sue carni una volta, due, tre, fino ad ammazzarlo.
«La mia vita appartiene ad Athena. Voglio solo rendermi utile», rispose Kanon, con una semplicità che lasciò Milo spiazzato. Era sincero. Sembrava sincero. E lo Scorpione decise di credergli.
«E in che modo ti renderesti utile? Giocando a fare l'eroe?»
«Possiamo essere tutti eroi, ragazzo. Ma stai tranquillo. Io lo farò a modo mio.»
«Cioè?»
Kanon si toccò le tempie. «Usando il cervello.»


«Sai perché nessuno di noi ha un gatto, come animale sacro?»
«Per non inimicarci i Nubiani?»
«I Nubiani!!» Scoppia a ridere con fragore, gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro, fino quasi a rivaleggiare con il chiasso metallico che arriva dalla sua fucina. «I Nubiani», dice. Asciugandosi le lacrime tra le ciglia e liberando un lembo di pelle dal sudore e dalla fuliggine. È brunita e solcata da rughe profonde, come il cuoio ciancicato dei vecchi calzari: logori e sfatti, ma ancora affidabili. Osserva il cielo sulle loro teste, poi aggiunge: «No, Fanciulla. Non è per inimicarci i Nubiani. Ti svelo un segreto, anzi due. Il primo, è che ai Nubiani non importa nulla di ciò che si fa qui. Possiamo vivere in pace ed armonia, oppure scannarci come cani rabbiosi, per loro è lo stesso. Almeno, fino a quando uno di noi non azzannerà le loro chiappette glabre.»
«E il secondo?»
«Il secondo, è che non ci prendiamo coi gatti. Tutto qui.»

Tutto qui? Possibile?, si dice la Fanciulla. La quale non ha mai perso il sonno sul perché nessun vivente abbia associato il gatto ad uno di loro. «Perché sono troppo indipendenti?»
«Sì e no. Sai come si dice, vero? Il gatto ama il pesce, ma non ama bagnarsi le zampe. E poi i gatti appartengono a loro stessi. Non puoi forzarli, non puoi richiedere loro l’assenso al sacrificio. E poi, non ha senso riprendersi un dono, non ti pare?»

La Fanciulla lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«Non lo sai? Abbiamo creato il gatto per permettere ai mortali di accarezzare la tigre.»
«Pensavo fosse solo un modo di dire.»
«Nient’affatto!» La grosse e callose dita del Fabbro si stringono attorno alle sue ginocchia. «Li ho forgiati io. Con queste stesse mani. Altrimenti, chi sarebbe rimasto a nutrirci, tutti presi com’erano da quelle bestie? Modestamente, ho fatto un buon lavoro, no?»

Le fa l’occhiolino, e poi sorride. Nella Fucina, i lavori proseguono al solito ritmo, in un batti e leva di acciaio e vapore e mantici e fuoco liquido.
«Le altre armature saranno pronte al più presto», le dice il Fabbro, come proseguendo un discorso mai interrotto nella sua testa. «Quel moccioso ti ha dato un buon consiglio, una volta tanto», dice, guardando qualcosa all’orizzonte. Sorride, come se gli costasse elargire un complimento al Guerriero. Al suo rivale per i favori dell’Amore.
«Spero non ti dispiaccia.»
«Sapere che anche quel bell’imbusto passa dei momenti poco piacevoli con mia moglie? Starai scherzando, spero!»

Il sorriso si allarga ancora di più. Il Fabbro non è bello come il Citaredo o come il Mare. Forse lo è stato un tempo, prima che suo padre lo scagliasse sulla Terra alla vista di quella gambetta storta e corta. Ma il Fabbro ha qualcosa, oltre la barba incolta, la pelle simile a cuoio e le sopracciglia cispose, qualcosa che gli brilla sul fondo dello sguardo di cenere. Qualcosa che affascina la Fanciulla, perché la Fanciulla non riesce a dare un nome a quella luce. Brillante ironia? Pungente sarcasmo? Saggezza?
«Però, devo dire che il suo regalo è stato molto astuto. Accorto. Vedi, le donne sono creature davvero pericolose. Con tutto il rispetto…» Lei annuisce e lui prosegue. «Vogliono essere protette e tutto il resto, salvo poi tirare fuori gli artigli quando noi maschi meno ce lo aspettiamo. Guarda la Cacciatrice. Sai di quella brutta storia a Gargafia, vero?»
«So.»

Gargafia. La Cacciatrice e le sue ancelle che rincorrono un cervo. Il sole. Il caldo. Un bagno fuori programma. Un cacciatore di passaggio. Un cacciatore incauto. Che guarda ciò che non dovrebbe. E riceve la giusta punizione.
«Detta tra noi, anche io avrei dato una sbirciatina. Siamo uomini. Siamo fatti di carne. E quando sentiamo delle voci femminili ridere e scherzare, spegniamo il cervello.» Il Fabbro sorride e ignora lo sguardo di rimprovero che la Fanciulla gli lancia. «Ma la Cacciatrice non è poi tanto diversa dall’Amore, dalla Madre o dalla Terra. Solo che lei, almeno, ha il coraggio di andare fino in fondo e imbracciare l’arco.»
«Cosa vuoi dirmi, Fabbro?»
«Che l’arma migliore da usare contro una donna è un’altra donna.»

 

«Aspetta!»
L’afferrò per un polso e l’attirò a sé, facendola girare su se stessa. Lei lo colpì al volto, come previsto, ma lui la lasciò fare. Se lo meritava, quello schiaffo. Era stato inopportuno. Spiacevole. Un vero stronzo. Ma non pensava veramente quello che aveva detto. Gli era scappato, ecco, sì. Scappato. C’era da capirlo, in fondo. Si era appena riavuto da una brutta avventura, aveva fatto un sogno pazzesco e lei gli aveva detto che Milo e Saori – e Athena – erano…
L’aveva odiata. Detestata. Perché gli era parso che lei stesse facendo a pezzi le sue certezze, una per una, sbriciolandole sotto il tacco delle sue scarpe. Invece lei non voleva che s’illudesse, questo Seiya l’aveva capito. Ora, però, era arrivato il momento in cui toccava a Shaina ascoltare quello che lui aveva da dirle. Che Athena non era morta. Che anche se potava sembrare pazzesco, per lui non lo era. Perché lo sentiva, così come percepiva le ossa del polso di Shaina tra le dita.

Un altro schiaffo arrivò. La guancia di Seiya bruciò come se si fosse scottato con l’acqua incandescente. Lei lo graffiò e si divincolò, come una gatta rabbiosa, ma lui mantenne la presa.
«Lasciami andare!»
«Non voglio farti del male», le disse, abbassandole con delicatezza le mani e fissando la maschera.
«E cosa vorresti, sentiamo!»
«Parlare. Vorrei che tu mi stessi a sentire. Cinque minuti. Chiedo troppo?»
La maschera di Shaina lo fissò, inespressiva e muta, con quelle decorazioni viola scuro a contrasto col lucore freddo dell’argento.
«Shaina?», la chiamò.
«Non ho tempo da perdere e non voglio sentire altre assurdità.»
«Ti prego. Ascoltami. Te ne supplico. È tutto il giorno che ti cerco…»
«Ho avuto da fare. Cosa credi, che qui la vita si sia fermata? Ci sono nuove reclute da formare, armature da assegnare, casini da sistemare…»
«Ed è per questo che te ne sei rimasta tutta la mattina dentro al gineceo?»

Un secondo schiaffo lo colpì in pieno viso.
«E adesso cos’ho fatto?»
«Chiamalo gineceo un’altra volta e ti cavo gli occhi», sibilò Shaina, e Seiya capì che quella non era una minaccia. Era una promessa. «Si chiama Campo d’Addestramento Femminile. Campo. D’Addestramento. Femminile. Intesi, muso giallo
«Non offendere…»
«Hai cominciato tu.»
«Ok. Non volevo. Chiedo scusa. È che qui tutti lo chiamano così…»
«Tutti i maschi lo chiamano così, vorrai dire. Pensavo che Marin ti avesse spiegato la differenza con un gineceo vero e proprio…»
«Sì. Sì, l’ha fatto. Scusami ancora.»
Shaina liberò anche l’altro polso e incrociò le braccia al petto. «Allora?»
«Volevo chiederti scusa.»
«Per cosa?»
«Per averti detto quelle cose. Io non le pensavo davvero.»
«Ma dimmi! Perché esiste un modo di pensare le cose per davvero ed uno per finta?»
«Ero arrabbiato, Shaina. Non volevo ferirti.»
«Eppure l’hai fatto.»
«Lo so. E me ne dispiace.»
«Ok. Scuse accettate. Io adesso ho da fare…»
«No, aspetta!»
Le afferrò il polso sinistro e lei reagì come se la sua mano scottasse.
«Lasciami andare, Seiya.»
«Non ho finito.»
«Lasciami. Andare.»
«Lo farò solo quando mi prometterai che mi starai a sentire.»
«Che altro devi dirmi di così importante?!»
«Riguarda Athena.»
«E ti pareva», mormorò Shaina scuotendo la testa. «Stasera c’è una riunione nell’arena centrale.»
«Ho bisogno di parlarne con te.»
«Per affondare il coltello nella piaga?», gli chiese. Le sue spalle tremavano. La sua voce era sul punto di cedere. Seiya poteva percepire la sua mascella serrata, i suoi occhi tristi, le sue sopracciglia aggrottate dietro quella maschera inespressiva.
«Perché so che tu mi capirai. Posso parlare con il Santo dell’Ofiuco, per piacere?»
«Cinque minuti, non uno di più.»
«Non qui. Ho bisogno di discrezione.»
«Ho capito. Seguimi.»

Si liberò della sua presa e lo precedette ad ampie falcate lungo una strada in discesa che costeggiava il perimetro del campo d’addestramento femminile. Seiya la seguì senza battere ciglio, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans, il cervello impegnato a scegliere con cura le parole da dirle. Vedeva la sua schiena dritta e fiera precederlo. E si chiese, ad un tratto, se la sua armatura fosse sempre stata così scollata, oltre le spalle. E perché non me ne sono mai accorto?, si disse, senza accorgersi che stavano varcando i cancelli del Kerameikos, il cimitero del Santuario. Stava ancora fissando la sua schiena, e provando una fitta di gelosia alla bocca dello stomaco, quando Shaina si fermò. Pose le mani sui fianchi e sospirò. Si inginocchiò davanti ad una lapide – una croce sbozzata infilata nel terreno -  si segnò e mormorò una breve preghiera.
Seiya sbirciò oltre la sua spalla e trasalì nel leggere il nome inciso sulla croce a colpi di coltello. Cassios. Questo è un colpo basso, pensò, stringendo le labbra ed i pugni. Questo è un colpo davvero basso.

Shaina si voltò, la maschera sul viso. Lo scrutò da dietro quell’affare che Seiya trovava irritante, e poi si alzò. «Sono tutta orecchie»  gli disse.
«Proprio qui?», le chiese lui.
«Non credo avrai il coraggio di mentirmi, davanti alla sua tomba», e Shaina indicò col pollice la croce alle sue spalle. «Allora? Cosa volevi dirmi con tanta urgenza?»
Seiya sospirò. «Non ti fidi proprio di me, vero?»
«No.»
«Nonostante tutto?»
«Nonostante tutto, cosa? Io sono quella che s’è fatta avanti. Che s’è presa non so più quanti colpi sulla schiena per difendere te. Tu cos’hai fatto? Ti sei preso la freccia del Sagittario in petto. Anzi, no. Nemmeno quello, visto che quella volta t’ha fatto da scudo il Drago.»
«Shaina, ti prego…»
«Ti prego, cosa?» Shaina si portò le mani sui fianchi. «Tu vieni da me solo quando ne hai bisogno, Seiya. Credi che non l’abbia capito?! Anche adesso, anche qui, davanti alla tomba di Cassios, tu sei venuto da me perché sai che sono l’unica deficiente disposta a starti ad ascoltare!»
Le spalle di Shaina tremarono. Lei si strinse e gli voltò la schiena. «Dimmi quello che hai da dire e facciamola finita.» Voleva fare la dura e rifugiarsi dietro la corazza con cui proteggeva il suo cuore; ma c’era una crepa profonda, in quel muro che aveva imparato ad erigere tra sé ed il mondo, e a Seiya non sfuggì che la sua voce era rotta dal pianto che stentava a trattenere nei polmoni.
Le si avvicinò. La abbracciò. E le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Shaina rimase congelata. I suoi muscoli si sciolsero. Abbassò la testa.
«Bastardo», mormorò. «Non c’è bisogno di…»
«Sono sincero.» La voltò e le sfilò con delicatezza la maschera. Lei abbassò il viso. «Guardami, Shaina.»
«No, non possiamo. Lo sai.»
«Guardami.»
«Se qualcuno dovesse scoprirci, passeremmo dei guai…»
«Ho già visto il tuo volto, per errore. Mi hai fatto vedere i sorci verdi, ricordi?»
Lei annuì, con un risolino in sottofondo.
«Adesso voglio vedere i tuoi occhi. Non m’importa di nulla, voglio solo parlarti occhi negli occhi. Voglio che tu veda che io sono sincero…»
Lei sollevò appena lo sguardo, quel tanto che bastò per scorgere il caldo marrone scuro degli occhi di Seiya. Lui sorrise e a lei sembrò che mille fuochi d’artificio le stessero esplodendo nel petto.
«Ecco. Così va meglio.» Le sollevò il mento con due dita, delicatamente.
«Dimmelo ancora. Se non è una balla per…»
Glielo sussurrò all’orecchio. Poi si staccò un poco da lei e le disse: «Dobbiamo parlare, Shaina. Di noi due. Per capire. Ma non possiamo farlo fino a quando ci sarà questa spada di Damocle sulle nostre teste.»
«Athena?»
Lui annuì. «È viva, Shaina. Lo so. L’ho sognato.»
«Anch’io l’ho sognata stanotte, Seiya. Ma purtroppo…»
«No, non capisci. Ascoltami. L’ho sognata prima che tu venissi a svegliarmi. E prima che tu mi dicessi che lei e Milo sono…»
Lei gli accarezzò il viso. «Va tutto bene, Seiya. Va tutto bene.»
«Non era un sogno. Athena mi stava parlando perché Athena è viva!»
«Seiya…»
«Lo senti anche tu il suo microcosmo, sì o no?»
Shaina sospirò. «Sì. Sì, lo percepisco anch’io. Ma questo non significa nulla.»
«Come sarebbe a dire?», domandò lui.
«Il cosmo di un dio non è come il cosmo di un uomo. Quando quelli come me e te muoiono, resta un briciolo di cosmo dietro di loro. Un’ombra, un odore appena. Ma per gli dei è diverso. Il loro cosmo è così ampio e vasto che occorrono mesi e forse anche anni prima che si dissolva del tutto.»
«Sei sempre così ottimista, tu…»
«Cerco di essere razionale, Seiya. Quello che senti potrebbe essere una pista sfumata, capisci?»
«Potrebbe. Ma potrebbe essere anche la vera pista. E sarebbe sciocco lasciare che si raffreddi, no?»
«Seiya…»
«Siamo cavalieri della speranza, sì o no?»
«Sì», soffiò fuori lei. «Ma tu sei disposto a mettere in conto che la speranza potrebbe già essere morta?»
Seiya annuì. «Sì. Ma se non ci proviamo neppure, è morta ancor prima di cominciare.»
 

«I vestiti invernali! Hai preso i vestiti invernali?»
Maman Louise non riesce a staccare gli occhi da Françoise. Non riesce a rassegnarsi all’idea di lasciarla andare via perché qualcosa le gonfia il suo vecchio cuore malato. Un senso di paura e angoscia che stanotte non l’ha lasciata dormire e che le ha regalato qualche capello bianco in più.
«Compreremo qualcosa lì, maman. A Roma non fa poi così freddo…» Il trucco non riesce a coprire quel brutto alone bluastro sotto l’occhio, dove la mano di Alain l’aveva schiaffeggiata. Eppure, Françoise sorride. «Staremo bene, Maman. Te lo prometto.»
«Massì, massì, lo so. Giovanna e Cristina sono mie amiche. Le conosco. Sono un po’ bislacche, ma sono persone a posto. Lì Alain non ti troverà mai, stai tranquilla.»
«Lo so. Rémy dice che è meglio così, ma ho paura. Per lui, Maman. Non vorrei che facesse qualche sciocchezza.»
«In che senso, bambina mia?»

Françoise sospira. Coralie si è addormentata al suo seno, le manine strette a pugno e le ciglia che proiettano un’ombra scura e lunga sulle guance paffute. Lo spavento dei giorni scorsi sembra passato, ma di notte, quando tutto tace, la piccina si sveglia piangendo disperata, come quando la carrozzina filava giù per la discesa, gradino dopo gradino. E allora Françoise se la stringe al cuore. Per darle coraggio, per darsi coraggio. Per dirsi che è stato solo un bruttissimo sogno, che è tutto finito e che non succederà più.
«Non vorrei che desse una lezione ad Alain, Maman…»
Maman Louise la guarda come se le fosse spuntata una seconda testa. «E se anche fosse?», le chiede, dando una manata e facendo tintinnare i braccialetti che porta al polso. «A quel maiale starebbe proprio bene una bella lezione come Dio comanda!»
«Rémy non può. Rémy è un Santo. Rémy non può avere guai con la legge per colpa di Alain. Non me lo perdonerei mai, Maman…»
«Ma Rémy non viene con te?»
Françoise sorride, una smorfia amara che le arriccia le labbra. «Sì che viene con me. Ma non può restare sempre con me. La conosci anche tu la canzone. Prima o poi si allontanerà per questa o quella missione. E magari, tornando a casa, potrebbe prendere la strada più lunga.»
«Capisco.»

La sigaretta abbandona un altro po’ di cenere che cade in strada. Sì, Rémy sarebbe capacissimo di farlo. E anzi, Maman Louise si chiede se non lo stia già facendo adesso, mentre Françoise sta allattando Coralie e lui dovrebbe essere sceso a comprare i pannolini in farmacia.
Ci sta mettendo troppo, pensa, dando un’occhiata fugace all’orologio. E il bordello di Alain si trova ad un tiro di schioppo dalla Collina. Non è che quel cretino… ?, pensa Maman Louise guardando in strada, sperando di veder sbucare la sua zazzera rossa da un momento all’altro. Ma Rémy non si vede. Ed è passata quasi un’ora. E Maman capisce. Maman sa. Una questione tra uomini, anche se uno è poco più che un porco vestito con abiti eleganti e i capelli impomatati. Françoise non deve sapere. Françoise non deve capire.
«Perché non ti fai un riposino, bambina mia?»
Françoise si volta e la scruta. «No, non possiamo. Rémy sarà qui a momenti, e…»
«Suvvia. Cosa vuoi che sia una mezz’ora in più o in meno. Vai a stenderti. E poi non vorrai mica che la piccina ti vomiti in macchina, vero?»
«No…» Françoise guarda sua figlia e quei pugnetti chiusi. Coralie soffre il mal d’auto. E se sarà un’avventura guidare fino a Roma con lei che piange e strepita, farlo mentre ha il latte nella pancia sarà un inferno. E Maman Louise lo sa. Françoise accarezza i capelli di sua figlia. La fede le brilla all’anulare sinistro.
«Dammi retta, bambina mia. Andate a farvi un riposino, ché ne avete bisogno tutt’e due. Ti sveglio io non appena arriva Rémy…»
«Va bene. Mezz’ora, però… Non di più, o si farà tardi.»
«Promesso…», le dice Maman Louise con un sorriso, Françoise si alza, si stacca la figlia dal seno, si sistema la camicetta e si dirige verso la camera da letto. Solo quando sente la porta chiudersi la donna torna a fissare la strada con un’espressione preoccupata, il bocchino con un mozzicone spento tra le dita.

«Coco, tu sai dov’è Rémy, vero?», sussurra accendendosi un’altra sigaretta e liberando in aria un’altra boccata di fumo.
Ma Coralie non risponde. Probabilmente starà gingillandosi con i pizzi ingrigiti del suo vestito da sposa, o giocando tra le travi del soffitto con altri fantasmi, altri sogni, altre chimere. O magari è impegnata a fare chissà cos’altro. Magari a dare manforte a quell’altro incosciente.
Così Maman Louise si toglie i braccialetti, spegne con rabbia la sigaretta nel posacenere e si allontana dalla finestra. Dischiude appena la porta della camera da letto. Françoise e Coralie sono crollate sfinite sul letto, l’una accanto all’altra, con il gatto sdraiato ai loro piedi. Ha capito che la piccina se ne va. A Maman Louise fa tenerezza quando socchiude i suoi occhi d’agata e sembra dirle che ci pensa lui, a vegliare sul loro sonno. La donna richiude la porta e va a socchiudere quella di casa, mettendo lo zerbino a fare da zeppa. Se le cose sono andate come crede – e come sotto sotto spera – Rémy tornerà a casa insanguinato e sporco. E non deve farsi vedere in quello stato da Françoise, no. Deve sistemarsi. Rendersi presentabile. Gli servirà un bel bagno. Dei vestiti puliti. E due dita di cognac.

Diamoci da fare, si dice Maman Louise mentre l’orologio batte le undici.
 
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Vi avevo promesso i pestaggi, ma ancora nisba. Abbiate pazienza, per i cazzotti che fendono in due il cielo ed i calci che sconquassano la terra occerre avere la testa libera sul serio.
Sotto con le note!
Secondo la mia amica Sen, in Grecia è consuetudine affidare i neonati agli dei. La neomamma decide chi tra i dodici sarà il padrino della creatura che porta in grembo. È una scelta di pancia, più che di testa, e solo lei ha l'ultima parola a riguardo.
La quinta o la settima sera dalla nascita del bambino, la mamma pone il pargoletto in una stanza buia, senza spiragli di luce, senza specchi, né metalli e lo affida alla divinità prescelta. Poi esce dalla stanza e vi rientra la mattina seguente.
Secondo la leggenda, le Moire appaiono davanti alla culla e filano il suo destino sotto lo sguardo della divinità chiamata in causa, che cerca di intercedere per il suo protetto.
Fotinê, la madre di Vasiollios/Saga e Viktoras/Kanon ha affidato ad Athena il primo e a Poseidone il secondo. Solo che Poseidone se ne dorme della grossa nell'urna in cui Athena lo sigillò, secoli prima. E quindi lei può reclamare come sua la reincarnazione di Defteros. Athena bara, signore mie. Senza pudore alcuno.
Questa tradizione è più sentita nelle isole, che sulla terraferma, e trova il suo corrispettivo anche nell'antica Roma: sapete che il prototipo della fata madrina si trova nelle Parche che, così come le Moire, apparivano al capezzale del neonato con fuso, conocchia e forbici in pugno?

La Collina cui fa riferimento Maman Louise è Montmartre, detta anche La Butte, la Collinetta.

Il Kerameikos è una necropoli nel cuore di Atene, a due passi dal Partenone. Da lì partiva la Via Sacra che portava ad Eleusi, ed era il quartiere dei ceramisti e dei vasai, dove potevi ordinare anche la lapide per la tomba di tua moglie, tuo figlio o tuo marito. Un po' come San Lorenzo a Roma, che sorge attorno al cimitero del Verano. Nel mio headcanon, il kerameikos è anche il cimitero all'interno del Santuario di Athena.

Mi serve davvero un buon caffè. Chi mi fa compagnia?  
   
 
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