Capitolo
1 : Non si
torna indietro
L'alba
primeggiava in cielo quasi timidamente, ricoprendo
ogni cosa di un debole e affatto accecante raggio di sole, come per
destare la
natura costretta al sonno profondo dalla notte con le sue stelle. Sonno
profondo che aveva colpito indistintamente tutto e tutti, piante,
animali,
uomini, donne, bambini, perfino gli oggetti. Tutti tranne due
eccezioni: lui e
loro. Egli, un uomo, un cacciatore, un arciere, un sopravvissuto, un
membro di
un gruppo, un lupo asociale, un animale pronto a tutto, e loro, vaganti
senza
meta e casa, obbligati da una mai appagante fame indistinta. Egli,
Daryl Dixon,
e loro, bestie. Eppure, sebbene diversi e pervasi da motivazioni
completamente
opposte, entrambi erano rimasti per tutta la notte a occhi sgranati,
irrequieti. Nonostante Daryl fosse all'interno di mura alte e solide,
riusciva
a percepire i loro passi, le loro agonie. Stava lì notte e
giorno, di nascosto
in un angolo poco visibile ad occhi estranei, se ne restava
lì con la
malinconia incessante dall'esterno. Lui per com'era fatto, si sentiva
in più,
fuori posto, non necessario a questa cittadina. Per quanto tutti vi
vivessero
felici e contenti, Dixon si sentiva in gabbia. Non era adatto a quella
finta
vita, non lo era stato quando il mondo non era ancora andato a puttane,
figuriamoci adesso. Si guardò intorno come un felino
intenzionato a combinare
qualche guaio e sgattaiolò verso la recinzione.
Tastò la lamiera e le assi
apposte, cercando di capire dove poter far leva. Poggiò
prima il piede destro e
dopo un bel respiro, iniziò la scalata. Non si sentiva in
colpa, non aveva
tentennato un secondo per una motivazione così sciocca.
L'unica cosa che
continuava a ronzargli in testa era il timore di deludere Rick, non
tanto
perché ultimamente si erano avvicinati molto, piuttosto
perché sapeva quanto lo
sceriffo facesse affidamento su di lui. Soltanto per questo aveva
retto, finto
che tutto questo gli andasse bene. Ora, però, anch'egli
meritava la tanto
ardita libertà. Libertà che in fin dei conti muta
e cambia aspetto per ognuno
di noi, chi può dire cosa sia effettivamente? Daryl sentiva
in cuor suo di
dover tornare alla natura, come un lupo addomesticato che sente il
richiamo
della foresta. Dopotutto era proprio questo, Dixon era sempre stato un
lupo, e
se fino adesso fosse potuto sembrare un cane fedele, beh, era solo
finzione. Si
può fingere con tutto se stessi di essere qualcos'altro,
possiamo addirittura
calarci nella parte e convincerci di essere cambiati, ma l'istinto non
varia,
la vera essenza prima o poi riemerge, riaffiora come un cadavere
gettato
nell'oceano. Questo era successo anche al nostro interessato. Non
appena fu a
cavallo della gabbia di ferro, si guardò un attimo indietro
come per dare
l'ultimo saluto, un addio. Poi si lasciò cadere dall'altra
parte. L'erba umida
gli bagnò le scarpe. Fu felice anche solo di quel dettaglio.
Aggiustò la
balestra sulle spalle e si incamminò nella radura. Ad ogni
passo, seguiva un
ricordo. Più si allontanava e più la mente gli
proiettava immagini datate nel
tempo, come il primo incontro con Rick. Ad ogni passo, seguiva una
fitta al
cuore. Non che fosse rimasto molto di quel metaforico muscolo nel
petto, già
martoriato, ferito, rattoppato e cicatrizzato più e
più volte. Ad ogni passo,
seguiva un pentimento. Cose che negli anni avrebbe potuto o non potuto
fare,
frasi non dette, pensieri taciuti, sentimenti mascherati. Ad ogni
passo,
seguiva una presa di coscienza sempre più profonda, sempre
più dolorosa. Ad
ogni passo, seguiva una meticolosa attenzione nel nascondere le tracce,
quasi
volesse cancellare la propria presenza al mondo. Erano passate solo
poche ore,
ma sentiva il corpo pesante come un masso, quasi tutti quei pensieri
gli
stessero aggrappati sulle spalle. Aveva camminato molto, ma non era poi
così
tanto distante da Alexandria. Quello spazio non gli bastava, ne voleva
di più,
voleva sparire dai loro ricordi e non essere trovato. D’un
tratto gli giunse
alle orecchie un suono tangibile, pulito. Doveva essere vicino ad un
corso
d'acqua. Raggiunse velocemente quello che si rilevò essere
un magro
fiumiciattolo e vi immerse le mani per rinfrescarsi. Le ore erano
passate in
fretta e il sole aveva già compiuto il suo cammino, adesso
si trovava nella
posizione più alta, occupato a disperdere
un’ondata di calore afosa e asciutta.
Calore che all’arciere dava molto sui nervi. Si
spogliò dello smanicato di
pelle, si liberò della camicia nera e la legò in
vita, tornando poi ad
indossare il giacchetto a petto nudo. Sgranchite le ossa, decise di
riprendere
il cammino, ma afferrò la balestra per procurarsi del cibo.
Scoiattoli e
conigli scarseggiavano ultimamente, ma era comunque ottimista. Non
passò molto,
infatti, prima che se ne andasse in giro con una sfilza di carcasse a
tracolla.
Di tanto in tanto sbuffava per il caldo, ma il suo passo non era ancora
rallentato. Dai suoi scattanti piedi, si evinceva di quanto fosse
determinato
nella propria decisione, non aveva rimorsi, dubbi, pentimenti. Voleva
semplicemente evadere, non dipendere da nessuno né dover
badare a qualcuno,
starsene pacificamente con se stesso. Meno problemi, più
soluzioni. All’improvviso,
però, un grido attirò la sua attenzione. Urla
squillanti e fastidiose, tanto
che gli attraversarono le ossa. Armò la balestra e si
diresse nella direzione
di quei pianti tanto disperati, prendendo a malavoglia un sentiero che
aveva
deciso di scartare in precedenza. Per un secondo, aveva pure pensato di
lasciar
perdere, di proseguire senza curarsi di quella richiesta
d’aiuto. Dopotutto,
per quante persone potesse salvare, tutte finivano col morire prima o
poi, ed
era oltretutto possibile che una volta giunto a destinazione, fosse
oramai
troppo tardi. In più, non aveva la minima intenzione di
accollarsi un nuovo
individuo. Sfrecciando nel verde, ripeteva a se stesso, quasi per
convincersi,
che avrebbe soltanto risolto il problema e basta. La vittima in
questione poi
avrebbe dovuto cavarsela da sola, dopotutto non era il babysitter di
nessuno.
[ POV Daryl ]
Dopo nemmeno un
minuto, le urla si affievolirono, tanto che
scomparvero, lasciandomi come uno stronzo in mezzo al nulla. Controllai
la zona
a me intorno, cercando di capire il da farsi. Ero nuovamente zuppo di
sudore,
nonostante mi fossi appena rinfrescato. Se la persona era ancora viva,
beh, mi
stava già sui coglioni. Mi diressi in quella che mi sembrava
la giusta
direzione, ignorando qualche vagante accasciato a terra. Non vedevo
tracce di
sangue nel terreno o sui tronchi. Questo significava che la vittima
forse era
solamente in trappola, sempre che fosse ancora viva. Almeno potevo
cancellare l’opzione
di un individuo ferito d’accudire. Non ne avevo né
tempo né voglia, già era una
scocciatura poi dover cancellare le mie tracce su questo sentiero,
figuratevi
se mi importasse poi di qualche screanzato morsicchiato per bene.
Superato
qualche rovo, mi trovai dinanzi ad uno spiazzo fortunatamente
ombreggiato.
Scorsi qualcosa vicino a dei cespugli. Mi accucciai su di essi, tanto
da poter
osservare un’abbozzata pozza di sangue. Vi immersi le dita,
per osservarne il
colore non intriso di terreno. Era scuro, per niente addensato o
marcio. Era
fresco, per così dire. Ma non era molto e questo voleva dire
che il sopravvissuto
doveva essere in buone condizioni, e inoltre essendo torbido, la ferita
doveva
essere abbastanza superficiale, o almeno non grave, non avendo
intaccato
arterie. Rovistai in cerca di qualche frammento organico, non trovando
niente
del genere, potetti scartare anche l’ipotesi di un attacco di
qualche
bestiaccia, vagante o cane selvatico. Vidi delle gocce di sangue pure
sul
cespuglio e sul tronco vicino. Erano tracce basse. Qualcuno aveva
gattonato.
Sbuffai irrequieto, la cosa stava andando per le lunghe e iniziavo a
spazientirmi.
Seguii quatto il percorso indicato da quel vivido rosso cremisi,
ricredendomi
sulla gravità della ferita. Ce n’era troppo a giro
per essere superficiale. Il
tipo o tipa doveva essere stato fortunato. Tenevo la balestra davanti
al volto,
pronto a scoccare il dardo se ve ne fosse stata la
necessità. Dopotutto la
vittima o si era deficientemente ferita da sola oppure era stata
attaccata da
qualcuno. In questo caso, era meglio stare in guardia. Senza motivo
apparente,
le tracce erano sparite nel nulla. Qualcosa non quadrava. Iniziai a
dubitare
del mio stesso giudizio. Possibile che si trattasse di una trappola?
-Provate a fare
una sola stronzata e siete morti! – gridai.
Percepii un
leggero fruscio alle spalle e poi solo dolore,
una fitta lancinante.
[ POV **** ]
Sangue. Sangue,
sangue, sangue. Fa male, fa dannatamente
male. Fa fottutamente male. Cosa devo fare? Sono in trappola,
è incastrata. La
gamba è incastrata. Non riesco ad aprirla. Faccio fatica ad
afferrare le
tenaglie di questa diavolo di trappola per orsi. Le mani sono bagnate,
zuppe
del mio stesso sangue. Non riescono a fare presa, scivolano sul
metallo. Ogni
sforzo è inutile. Perché? Perché sono
stata così stupida? Gli occhi implodono,
sommergendomi il volto di lacrime salate. Sono così
patetica. Forse, se
chiedessi aiuto, se qualcuno potesse sentirmi, forse, forse potrei
salvarmi. Gridai a
squarciagola, o
meglio, cercavo di urlare soffocando i singhiozzi. Doveva pur esserci
qualcuno
nelle vicinanze, non potevo essere così sfortunata. Nessuno
rispondeva al mio
richiamo. Sono spacciata, è finita.
-Se continui a
gridare come una pazza, sì, allora sei
spacciata! – mi rimproverò Jen.
-Cosa devo fare?
– balbettai asciugandomi le lacrime.
-Se continui a
piagnucolare attiri quelle bestiacce. Vuoi
essere divorata?
Mi sporcai il
viso col sangue, avendone le mani imbrattate,
ed ella rise di me. Poi mi scrutò, iniziando a camminare su
e giù davanti a me.
Tirai su col naso, cercando di ricompormi. Ma il dolore era troppo
forte, le
lacrime uscivano senza che potessi averne il comando.
-Se continuo a
provare, forse qualcuno sentirà.
-Zitta!
– esclamò – Nessuno è buono,
ricorda. Nessuno ti
salva senza volere niente in cambio, tienilo a mente.
Mentre Jennifer
continuava a camminarmi intorno, tentai
nuovamente di allargare la morsa senza successo. Mi mordevo il labbro
per
camuffare i singhiozzi. Non avevo solamente un dolore assurdo, temevo
di morire
lì, avevo paura di morire.
-Ho trovato!
– borbottò, tirando un pugno su un palmo della
mano – Prendi la pistola, spara alla cerniera delle tenaglie.
Dovrebbero
rompersi.
Sfilai lo
zainetto dalle spalle, afferrando l’arma al suo
interno. Levai la sicura e presi la mira, ma le mani tremavano.
-Dai che
aspetti? Spara. – insistette.
-Ho paura di
spararmi al piede!
Sbuffò
spallata e prima che potesse farmi una ramanzina,
chiusi gli occhi e premetti il grilletto.
Click
Colpo andato a
vuoto, ero a secco.
-Ma
porcaputtana. – abbaiò – Avevi finito le
munizioni e non
te ne eri nemmeno accorta?
Riiniziai a
piangere disperata, gettando la pistola di malo
modo nella borsa.
-Lo sai quanto
è importante avere una precisa cognizione
delle razioni e delle scorte rimaste? La prima reg-
-La prima regola
per la sopravvivenza è avere sotto controllo
il proprio equipaggiamento. – la precedetti, singhiozzando.
Sbuffò,
sedendosi accanto a me. Era dispiaciuta di essersi
alterata, ma come al suo solito non lo dava a vedere.
-So che fa male.
– parlò gentile – Troveremo un modo per
liberarti.
Vidi il
polpaccio cambiare colore, farsi emaciato. Stava
diventando viola. Di lì a poco sarebbe diventato nero. Non
era la prima volta
che mi rompevo la tibia, ma ancora non mi ero abituata al dolore. Mentre Jennifer continuava a
fissarmi la
ferita mangiandosi le unghie delle mani dal nervoso, io osservavo
quell’ammasso
di ferraglia, sperando di non beccarmi il tetano. Poi, lampo di genio.
-La catena!
– esclamai.
Ma Jennifer mi
guardò confusa.
-Di solito sono
attaccate ad un paletto ben fissato nel
terreno, se scaviamo..
-Se scaviamo
possiamo muoverci da qua! – finì la frase.
Iniziai a
spostarmi strisciando sulle chiappe, alzando di
poco la gamba in modo che non toccasse il terreno. Il dolore era
così pungente
che sentivo il cuore esplodermi dal petto, ma dovevo resistere. Non mi
sarei
liberata dalla morsa, ma almeno era già qualcosa per il
momento. Iniziammo a
scavare con foga, riempiendo le unghie di terra. Scavavo in preda alle
vertigini, sperando che il paletto fosse corto e non troppo piantato in
profondità. Per fortuna, dopo pochissimo riuscimmo ad
estrarlo. Stavo per
urlare dalla gioia, esultare a squarcia gola, quando Jen mi
tappò la bocca.
-Shh.
– sussurrò – Sta arrivando qualcuno.
-Dobbiamo
nasconderci. – mi impaurii.
Si
guardò attorno e poi indicò alle mie spalle.
-Per di qua!
Presi in una
mano il paletto, evitando che pesasse a
penzoloni e provocasse maggiore dolore alla ferita. Intanto mi spingevo
all’indietro,
strusciando sul sedere come un bruco sbilenco. Jennifer mi precedeva,
esaminando ogni angolo di verde in cerca di un nascondiglio. Finalmente
scorgemmo un cespuglio sprovvisto di rovi e ci immergemmo. Poi riuscii
a
sentire anch’io dei passi lontani, stava arrivando. Sbucai
dal cespuglio
sebbene Jen mi tenesse per un braccio, ma buttai qualche foglia e terra
sulle
tracce lasciate, in modo che non potesse trovarci di lì in
poi. D’un tratto un
uomo superò il nostro cespuglio, fermandosi poco
più in là. Spostai un rametto,
per osservarlo. Scarponi marroni e lacci stretti ai pantaloni rovinati,
giacca
di pelle con ali cucite, capelli marroni di media lunghezza spettinati
e
bagnati, ma soprattutto balestra fra le mani. Lasciai andare
immediatamente il
ramo, nascondendomi meglio. Tremavo, ma non volevo far rumore.
-E’
pericoloso. – bisbigliai.
-Ovvio che lo
è! Quale razza di persona amichevole corre
armata e accigliata ad una richiesta di soccorso di una bambina?
Tirai una
gomitata a Jen.
-Non chiamarmi
così. – brontolai – E cosa suggerisci di
fare?
Lo
osservò.
-Uno : lo sei,
quindi non discutere. Due : quel tipo non mi
piace per niente. Sta guardando ogni particolare, presto si
accorgerà
sicuramente di noi. E’ un cacciatore professionista.
La guardai
interrogativa in volto, sebbene odiassi essere
chiamata bambina. Sì, lo sono. Undici anni sono pochi per
essere chiamata
almeno ragazzina, ma con tutto quello che ero riuscita a superare, mi
sentivo
superiore a quel semplice appellativo.
-Dobbiamo
colpire prima noi. Abbiamo un vantaggio,
sfruttiamolo. – propose decisa, indicando il coltello da
lancio che avevo alla
cinta.
Deglutii a
fatica tanto erano l’ansia e le pene che provavo.
Non era la prima volta che uccidevo una persona, ma stavolta non mi
sentivo
proprio nel pieno delle forze. Inoltre, avrei dovuto mirare e fare
centro al
primo tiro. Non avevo un secondo coltello, quello era l’unico
rimasto. Una sola
possibilità, altrimenti morte certa. Dardo in fronte e addio
apocalisse.
-Puoi farcela.
– mi fece coraggio.
Presi un bel
respiro, agguantai la lama e mi sporsi. Feci
volteggiare quel coltellino ad alta velocità, ma nello
sforzo del lancio, una
fitta indescrivibile mi aveva pervaso ogni nervo, perfino i capillari
delle
dita. Non ero sicura che il colpo sarebbe andato a buon fine. Prima che
potessi
capire dove si sarebbe conficcato, Jen parlò.
Che dire, non ho tempo per la mia altra fanfiction ed io, genia che sono, ne inizio un'altra? Ebbene sì, ho avuto questa particolare idea e non potevo lasciarla lì, sospesa nelle mie fantasie. Un avvertimento, sebbene il titolo dia da pensare ad una trama romantica, questa non lo è affatto. Ci sono un paio di particolari che purtroppo ancora non posso spiegarvi, altrimenti faccio auto-spoiler ai miei prossimi capitoli. Nonostante questo cap sia più incentrato sul nuovo personaggio, il protagonista principale sarà Daryl. Qui, dopotutto, dovevo farvi conoscere la new entry. Detto questo, come al solito spero che quanto scritto vi sia piaciuto o almeno vi abbia intrigato un poco, il giusto per continuare almeno a seguire la storia. Fatemi sapere cosa ne pensate, un bacio e grazie anche solo per la visita :*