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Autore: Helena Kanbara    25/01/2016    2 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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Da parachute: Tutto sembrava partire dalla figura di Charles Shelby Carter […]. Nato a New York nel 1888, secondogenito in una famiglia di umili trasportatori di merci, dopo aver servito per dieci anni nell’esercito americano e aver raggiunto l’alta carica di secondo luogotenente d’artiglieria terrestre, aveva deciso di congedarsi per trasferirsi a Beacon Hills nel 1919. […] Nel ventotto ottobre del 1920 prese in sposa la giovane Rita Fitzgerald, che diede alla luce il suo primogenito – Eric – esattamente un anno dopo. I tre vissero una vita più che agiata, affermandosi come una delle famiglie più celebri della piccola cittadina di Beacon Hills […]. La fortuna era senza dubbio a favore dei Carter, cosa che riempì d’invidia alcuni nemici, colpevoli dell’organizzazione di un vero e proprio attentato ai danni del patriarca […]. A seguito di un tragico incidente che subì il primo luglio del 1935 […] Charles […] perse l’abilità di sognare […]. Charles affrontò un iniziale periodo di aggressività comportamentale quasi incontrollabile, che poi si tramutò in allucinazioni tanto vivide che diventò sempre più difficile, per lui, distinguere la realtà dalla finzione […]. Il terzo ed ultimo stadio che l’uomo si ritrova ad affrontare in assenza di sogni è quello della morte per insufficienza surrenale e Charles lo sapeva così bene che si dimostrò fin da subito disposto a tutto pur di riottenere la capacità di sognare. Tutti i rimedi che provò risultarono inutili, almeno finché Charles non riuscì ad entrare in contatto col popolo indiano e a scoprire così la Silene Capensis, pianta meglio conosciuta come “erba del sogno”. Ritenuta sacra dal popolo Xhosa ed utilizzata dagli indiani per l’iniziazione di aspiranti sciamani, era capace di provocare – se ingerita – vivide e profetiche allucinazioni e lucidi sogni durante la fase REM [...].
 
kaleidoscope
 
 
12.    Ever after
 
Quando sei felice pensi stupidamente che tutta la tranquillità e serenità del momento debbano sul serio non finire mai. Soprattutto quando si tratta di un buon periodo arrivato dopo mesi e mesi di buio. Tutto il nuovo benessere ti coglie completamente impreparata, ma ci fai subito l’abitudine e te lo godi fino all’ultimo secondo – convinta del fatto che più niente e nessuno te lo strapperà di mano. Ma solo quando di nuovo tutto precipita nell’oblio capisci sul serio e all’improvviso quanto stupide fossero tutte le tue convinzioni. E ritorni alla realtà di botto: una realtà che fa schifo e che faresti di tutto purché non fosse proprio la tua realtà. Ma lo è, e per quanto ti piacerebbe, non puoi scappare.
Ecco cosa mi successe dopo le festività natalizie e l’inizio dell’anno nuovo passati in completa tranquillità: precipitò tutto in un battibaleno e la notizia improvvisa della malattia di mio nonno Thomas mi colpì allo stomaco con la violenza di un pugno sferrato quando meno te lo aspetti. Proprio nel momento in cui sembrava che nella mia vita ogni tassello fosse tornato al proprio posto, qualcosa andò profondamente storto ed io – proprio come ognuno dei Carter – ne risentii profondamente.
La porta d’ingresso della magione che abitavano i miei nonni paterni si spalancò velocemente, portandosi dietro uno spiffero di vento che mi fece rabbrividire vistosamente nel violento freddo di marzo. Comunque ebbi poco tempo per avvertire quella spiacevole sensazione perché immediatamente un paio di braccia mi si strinsero attorno al corpo ed io mi godetti improvvisamente il calore di quell’abbraccio inaspettato. Riconobbi mia cugina dal solo intenso profumo di fragole che mi riversò addosso mentre mi teneva stretta a sé.
«Finalmente sei arrivata», osservò poi in un sussurro, confermando la mia tesi col tono inconfondibile della sua voce e poi – quando mi lasciò andare – con la vista del suo viso pericolosamente pallido.
Quella che avevo di fronte non aveva niente della sarcastica e sempre sorridente Oriesta Osbourne che avevo conosciuto mesi prima. Proprio come il ragazzino biondo di fianco a lei non aveva niente del suo allegro fratello.
«Ciao, cugina», Niall mi salutò a malapena, invitandomi ad entrare in casa dei nostri nonni con un debolissimo cenno.
Non me lo feci ripetere due volte prima di seguire i miei cugini all’interno della magione, lungo corridoi bui e vagamente polverosi. Non avevo idea di dove stessimo andando, ecco perché non indugiai più nel chiederlo.
«Cosa succede?».
Gli occhi color nocciola di Oriesta mi corsero subito addosso e potei vederli tanto lucidi da sentirmi male. «È nonno», mormorò poi, evitando il mio sguardo scuro e riprendendo a camminare con me e suo fratello Niall alle calcagna. «sta male».
Questo lo sapevo già. Nonna Sarah mi aveva chiamata quella sera, non capace però di dirmi qualcos’altro di più utile perché distrutta dalla crisi di pianto che l’aveva colta al telefono. Nel sentirla così non c’avevo pensato su due volte a raggiungere la magione Carter.
Continuai a seguire i fratelli Osbourne lungo i corridoi, fermandomi insieme a loro di fronte ad una grande porta chiusa. Niall – il più piccolo dei due – afferrò subito la maniglia d’ottone, ma prima di aprirla si voltò a cercare i miei occhi confusi.
«È arrivato il momento», tentò di spiegarmi, ma fallì su tutta la linea perché quelle sue parole m’insospettirono ancor di più.
Il momento per cosa?, non potei far altro che chiedermi infatti. Ma non ricevetti alcuna risposta. Se anche Oriesta e Niall mi avessero letto il pensiero, non diedero segno di accorgersi della mia confusione né provarono ad attenuarla. Semplicemente mio cugino aprì lentamente la porta – dietro la quale avrei trovato mio nonno? – e permise sia a me che a sua sorella di seguirlo all’interno della stanza.
Realizzai subito che fosse una camera da letto, immensa e forse ancor più buia del corridoio lungo la quale era posizionata. E tutti i miei dubbi trovarono la loro dolorosa conferma nel momento in cui individuai la figura di mio nonno ad occupare il grande letto a baldacchino nel centro della camera.
«Bambina», mi richiamò flebilmente, allungando una mano nodosa nella mia direzione con aria stanca. «che bello vederti».
Lo raggiunsi con poche falcate, stringendo subito tra le mie la mano che mi porgeva. L’altra, realizzai con immensa sorpresa, era avvolta da quella abbronzata di una ragazza che poteva avere benissimo la mia stessa età. Avrei dovuto dedicare attenzioni solo a mio nonno e lo sapevo bene, ma comunque non potei far altro che fissare curiosamente la ragazzina dalla pelle ambrata e i lunghi capelli neri che mi stava di fronte. Non l’avevo mai vista prima d’allora, ma avevo la perfetta impressione di conoscerla di già. E le mani di mio cugino Walter posate sulle sue spalle curve diedero la risposta ad ogni mio dubbio. Quella di fronte a me doveva essere Shanti. Ne ero quasi convinta, ma non era quello il tempo perché indagassi.
«Nonno», richiamai dunque l’attenzione di Thomas, distogliendo lo sguardo dagli occhi nerissimi della ragazza di fronte a me, «cos’hai?».
Mio nonno rafforzò lievemente la stretta delle nostre mani, poi m’inchiodò sul posto coi suoi intensi occhi azzurri. Aveva un’aria stravolta.
«Sto morendo, Harriet».
La violenza di quella rivelazione mi colpì tanto che mollai la mano di mio nonno con uno scatto repentino, inorridita all’improvviso.
«Non è possibile», sibilai, incredula. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto quello che Thomas – e tutti i Carter insieme a lui – mi stavano rifilando.
Ma quando vidi mio nonno mettere su nient’altro che un debole sorriso dispiaciuto, qualcosa mi fece capire all’improvviso di come quella fosse la semplice e dura realtà dei fatti.
«Posso prevedere il futuro, ma non sono immortale», spiegò. E lo sapevo – lo sapevo benissimo – ma non riuscivo ad accettarlo. Thomas Carter non poteva sul serio chiedermi di scendere a patti con l’idea che di lì a poco l’avrei perso di nuovo. «Non devi preoccuparti per me, bambina. Shanti mi sta aiutando moltissimo. Io sto bene».
Il suono di quel nome già fin troppo conosciuto – Shanti – mi riportò alla realtà di scatto. Cercai nuovamente il viso abbronzato della ragazza di fronte a me, la quale mi sorrise non troppo convinta.
«Chi è lei?», domandai a mio nonno, mantenendo però gli occhi fissi sulla figura di Shanti.
Lei stessa si occupò di sanare immediatamente ogni mio dubbio.
«Shanti Jādūgara», si presentò, porgendomi una mano che io non riuscii a stringere.
Sentii gli occhi di mio cugino Walter bruciarmi le guance. Era indispettito dal mio comportamento. Ma doveva sapere bene anche lui quanto poco mi piacesse fare nuove inaspettate conoscenze. Ecco perché me ne rimasi ferma senza troppe remore, un solo materasso a dividermi da mio cugino e quella che aveva tutta l’aria di essere la sua nuova famosa ragazza. Quella che io avevo creduto per un attimo potesse essere Sharon. Mi sbagliavo, però. Si chiamava Shanti e il suo cognome figurava nei diari di mio bisnonno Charles. Jādūgara era il cognome del clan indiano che aveva utilizzato la Silene Capensis per l’iniziazione di giovani sciamani secoli prima di Charles Carter, il quale era ricorso all’assunzione di quest’erba magica per riavere indietro i suoi sogni e aveva così donato a tutta la sua discendenza grandi poteri di chiaroveggenza. Sapevo che non poteva essere solo un caso di omonimia, quello, e ci pensai tanto intensamente che mio cugino Walter mi lesse la mente senza sforzi.
«Non è un caso di omonimia», confermò infatti, liberandomi dei miei atroci dubbi. «Shanti discende dagli stessi Jādūgara dei diari di Charles».
«Sono una sciamana», annunciò proprio la diretta interessata, attirando nuovamente tutta la mia attenzione su di sé. «Posso aiutare tuo nonno».
Bastò quella semplice frase a scacciare via ogni traccia di titubanza. Se Thomas, Walter e gli altri della famiglia si fidavano di lei, che motivo avevo io di essere diffidente? Le porsi una mano senza farmelo ripetere due volte.
«Piacere di conoscerti, Shanti».
«Grazie ai suoi poteri curativi», annunciò Thomas all’improvviso, la voce sempre più flebile ogni secondo che passava, «riuscirò a restare in vita quanto basta a prepararti».
Non potei far altro che aggrottare le sopracciglia a quell’osservazione: già avevo un brutto presentimento riguardo le parole di mio nonno, ma preferii scacciarlo ed aspettare che si spiegasse meglio.
«Prepararmi per cosa?», gli domandai quindi, cercando inutilmente di nascondere tutta la mia improvvisa apprensione.
«Per la tua investitura, Harry. È giunto il momento che tu prenda potere sulla famiglia».
Avrei dovuto sostituire mio nonno. A quell’improvvisa consapevolezza, l’ennesimo moto di orrore puro mi sconquassò lo stomaco. Mi feci lontana da Thomas di un paio di passi, osservandolo con gli occhi sgranati ricolmi d’incredulità.
«Non erano questi i patti. Mi avevi promesso che finché non fossi diventata maggiorenne non avrei dovuto saperne niente di questa storia. Ho appena scoperto di avere questi poteri, non posso guidare un’intera famiglia di chiaroveggenti!». Avevo solo sedici anni. Non si poteva pretendere che così piccola dovessi sobbarcarmi tante responsabilità. «Dovrebbe farlo Walter. È lui il più grande dei cugini».
Cercai i suoi occhi ambrati, ben sapendo che lui sarebbe stato più che capace di guidare la famiglia Carter – al contrario mio. Ma Walt non provò nemmeno a tranquillizzarmi. Semplicemente scosse la testa, facendosi lievemente lontano dalla figura di Shanti.
«Non posso farlo io, Harry. Bisogna seguire la linea di sangue».
Quella secondo la quale al comando della famiglia dovevano esserci solo secondogeniti. Mio bisnonno Charles era stato il primo leader, dopo era toccato a suo figlio Thomas. Mio nonno avrebbe dovuto lasciare il controllo della famiglia a mio padre – il suo secondogenito – ma Philip era scappato dalle sue responsabilità prima ancora che queste potessero divenire realtà. E ora che Thomas stava morendo, toccava a me riparare ai suoi sbagli.
«O tu o tuo padre», mormorò Oriesta a quel punto, ed io mi voltai a guardarla velocemente. Quasi mi ero dimenticata della sua presenza e di quella di suo fratello Niall all’interno della stanza.
Deglutii. «Philip non accetterà mai». E nemmeno io, pensai, non sapendo se sperare che qualcuno lì dentro leggesse di nuovo la mia mente.
Quando avevo saputo tutta la verità sulla codardia di mio padre – grazie alla quale non era stato in grado di prendersi le sue responsabilità come erede della dinastia Carter – avevo giurato a nonno Thomas di essere ben diversa da lui. Gli avevo promesso che non sarei mai scappata come aveva fatto lui anni prima. Che sarei rimasta e avrei accettato fino in fondo i miei poteri e tutto ciò che ne sarebbe derivato.
«Tocca a te, bambina», concluse Thomas in un sussurro, e fu in quel momento che capii di come non sarei mai stata in grado di tenere fede alle mie promesse.
Perché la verità era che ero molto più simile a mio padre di quanto credessi. La verità era che volevo anch’io scappare dalla mia vita, in quel momento – lo volevo come non mai. La verità era che finalmente riuscivo a capire fin nel profondo Philip Carter e le scelte che fino ad allora avevo tanto criticato. Scelte che, di lì a poco, avrei compiuto anch’io.
 
Una fitta dolorosa al cuoio capelluto mi risvegliò all’improvviso dalla mia trance fitta di pensieri, riportandomi velocemente alla realtà. Sussultai, allontanando la mano di Stiles dai miei capelli e sistemandomi meglio sull’amaca in terrazza che occupavamo in due. Eravamo alle Bahamas, ospiti di una mega-villa che mia sorella Cassandra e quello che ora era ufficialmente suo marito – nonché mio cognato, Jamie – avevano prenotato per la loro luna di miele.
Stiles si scusò per avermi tirato inavvertitamente i capelli ed io sentii subito i suoi occhi ambrati bruciarmi la schiena. Si era reso conto perfettamente del fatto che fossi lontana da quel posto da sogno e persa in tutt’altri pensieri e ricordi, tanto che non mancò di farmelo notare.
«A che pensi?», mi domandò infatti, e solo al suono della sua voce decisi di distogliere lo sguardo dalle onde del mare che s’infrangevano placidamente sulla battigia della spiaggia privata antistante la villa e mi voltai a cercare il suo viso rilassato.
«A mio nonno», mormorai poi.
Stiles s’irrigidì solo per un attimo. Ritornò subito in sé e mi accarezzò un braccio in punta di dita, al che non me lo feci ripetere due volte prima di farmi più vicina a lui. Lui che ancora una volta sapeva e capiva tutto.
«L’hai più sentito dall’ultima volta che sei andata a trovarlo in ospedale?».
Già, le cure miracolose di Shanti Jādūgara erano state utili per poco più di un mese. Poi la situazione era precipitata vistosamente e Thomas aveva avuto bisogno di un ricovero urgente al Beacon Hills Memorial Hospital. Ero stata a trovarlo un paio di volte – anche in compagnia di Stiles – odiando sempre più l’idea di doverlo vedere ridotto in quelle condizioni pietose per colpa di una malattia che sapevo semplicemente non esistesse. Mio nonno stava semplicemente morendo: dopo aver tanto resistito, il suo momento era giunto – ora finalmente capivo le parole di mio cugino Niall.
«No», risposi infine a Stiles, di nuovo all’improvviso consapevole di essermi distratta completamente. «ma ho parlato con Natalie. Nonno sta sempre peggio e pare che Shanti non riuscirà a rimandare ancora a lungo l’inevitabile».
Mio nonno sarebbe morto. Ed io l’avrei perso dopo così poco dall’averlo conosciuto che–
«Cosa ne pensi di lei?». Quella domanda mi distrasse all’improvviso dai miei dolorosi pensieri.
Feci spallucce, osservando attentamente gli occhi di Stiles. «Non lo so. La conosco a malapena», esalai. «Però sta aiutando moltissimo mio nonno e non posso far altro che apprezzarlo».
Stavo dicendo la verità. Shanti era stata davvero una presenza preziosa, non solo per Thomas ma anche per Walter e noi altri. Ci aveva aiutati tutti, pur non conoscendoci granché. E l’aveva fatto senza – all’apparenza – pretendere nulla in cambio. Cominciavo seriamente a capire perché a mio cugino piacesse così tanto.
«Della situazione in generale cosa ne pensi, invece?», domandò ancora Stiles, ed io mi morsi un labbro.
Avrei davvero preferito non parlarne, ma sapevo di non poter scappare – non anche allora. Ecco perché mi limitai a tirare fuori nient’altro che la verità.
«Non sono pronta. Non lo sarò mai», ammisi in un soffio.
Provai ad evitare lo sguardo ambrato di Stiles, ma lui prontamente me lo impedì cercando le mie guance accaldate con entrambe le mani e costringendomi a sostenere il contatto visivo. 
«Io penso che potresti farcela. Non saresti sola», cercò di consolarmi, piuttosto inutilmente però.
Sorrisi comunque, perché come al solito apprezzavo moltissimo i suoi tentativi. «Sappiamo entrambi che non è vero».
Stiles trattenne a malapena un sospiro sconfitto, carezzandomi lievemente una guancia. «Che vuoi fare, quindi?».
Scappare. Non volevo nient’altro e lo sapevo benissimo, nonostante tutto. Ma non ebbi il coraggio di dirlo a Stiles. Semplicemente lasciai che i miei occhi s’inumidissero di lacrime colpevoli e rifuggii finalmente il suo sguardo.
«N-Non lo so», mentii. Sapevo benissimo cosa volevo fare e cosa avrei fatto. E mi sentivo una persona terribile. «Possiamo non pensarci, per ora?».
Vidi a malapena Stiles annuire, poi lo sentii darmi ragione. Un’altra delle tante cose che non meritavo – non più.
«Scusami», mormorò addirittura, facendomi sentire ancor più ad un passo dal pianto isterico.
Spalancò le braccia nella mia direzione ed io non me lo feci ripetere due volte: mi rifugiai contro il suo petto e lo strinsi a me, ben consapevole del fatto che in nessun altro posto al mondo – nemmeno in Texas, dove avevo intenzione di tornare di lì a pochissimo – mi sarei mai sentita tanto sicura ed amata.
 
Ho già cancellato milioni di parole e accartocciato miliardi di fogli scarabocchiati da quando sono scesa qui in spiaggia, ma tu questo non puoi ancora saperlo. Ti ho lasciato in terrazza a dormire tranquillamente, odiandomi per ciò che sento tuttora il disperato bisogno di fare. Sto scrivendo questa lettera a te, Stiles, perché so già che quando ti parlerò più tardi non avrò il coraggio di dirti nemmeno la metà di ciò che vorrei e mi odio per questo. Voglio che tu sappia tutto ciò che c’è da sapere, perché te lo meriti, e se l’unico modo per farlo senza che io perda quel poco di coraggio che m’è stato donato è scrivertelo, allora così sia.
Purtroppo ogni parola mi sembra troppo poco. Troppo poco giusta, troppo poco meritevole. Perché è vero, Stiles: non te lo meriti. Non ti meriti nemmeno un quarto di tutto ciò che sto per riversarti addosso. E la cosa peggiore è che non so nemmeno spiegarti bene ciò che sento in questo momento. Non riesco a scriverlo né a dimostrartelo a gesti e la cosa mi uccide, te lo giuro. Mi uccide come mai niente prima d’ora, perché sono ben consapevole del fatto che se non riesco a parlare a te che sei la persona più importante della mia vita, non riuscirò mai più a parlare con nessun altro. E non posso permettermelo, Stiles. Non posso affrontare tutto questo da sola. Perché sono debole. Debole e codarda. Ma voglio smettere e so che l’unico modo per riuscirci è quello di compiere finalmente una scelta e portarla avanti nonostante tutto. Non voglio essere la copia di mio padre, Stiles. Non voglio scappare dalle mie responsabilità come una bambina, non voglio semplicemente lasciarmi vivere senza mai prendere decisioni ed osservando tutto dall’esterno come se nulla mi riguardasse sul serio. Voglio essere parte attiva della vita che mi è stata donata, voglio scendere in campo – sì, ancora – e combattere. Voglio farlo anche se so che soffrirò, anche se so che non farò sempre la scelta giusta. Ma ora come ora cerco di non pensarci. Non posso permettermi di stare peggio di così e spero davvero che tu lo capirai, come spero che capirai tutte le altre cose che probabilmente non sarò mai in grado di spiegarti – né a parole né tantomeno in questa lettera. Non so nemmeno se né quando la leggerai. Non so nulla in questo momento, se non che ti devo delle spiegazioni e devo a mio nonno una scelta. O dentro o fuori.
E io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. Solo Dio sa quanto vorrei poter continuare a fare quest’ultima scelta senza problemi. Ma non posso, Stiles. Non posso. E per questo come per tutto e niente, ti chiedo scusa. Infinitamente e in ginocchio. Per ogni più piccola cazzata, dalla prima all’ultima che ancora devo compiere a tua insaputa. Ti chiedo scusa ma ne approfitto anche per ringraziarti: per quello che sei e per quello che fai diventare me. Grazie per la fiducia, le risate, i baci – grazie anche per i bisticci, le mille preoccupazioni e tutte le volte in cui avresti semplicemente voluto mandarmi a quel paese ma sei rimasto accanto a me. Grazie, grazie, grazie.
Grazie per avermi fatto capire cos’è l’amore. Perché sì, Stiles, ti amo. Sono innamorata di te e avrei voluto dirtelo già da tempo, da prima ancora che Jackson sparisse e noi lasciassimo Beacon Hills per il Natale. Avrei voluto dirtelo ma non ne sono stata in grado. Ecco perché te lo sto scrivendo: scrivere è più semplice – almeno all’apparenza – e so che queste due paroline rimarranno impresse nel tempo sulla carta più che nella mia voce e nelle tue orecchie. Vorrei che tu le rileggessi ogni volta che ne senti il bisogno e soprattutto che non le dimenticassi mai, perché se c’è una cosa vera e sicura della mia vita quella è solo il fatto che ti amo. Sono innamorata di te, Stiles. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto.
Mi pentirò invece di averti lasciato e già lo so, ma non posso fare altrimenti. Non posso restare a Beacon Hills nell’attesa che mio nonno muoia e tutto il resto della mia famiglia cominci a volere da me cose che io non potrò mai dare loro. Semplicemente non posso. Non sono pronta né lo sarò mai, proprio come ti ho detto solo poche ore fa sull’amaca in terrazza – quella sulla quale tu ancora dormi, inconsapevole di quanto male mi agita lo stomaco e mi costringe ad una scelta del genere. Ad un abbandono forzato. Non vorrei mai doverti lasciare, Stiles, e prego perché tu creda a queste parole con tutto te stesso quando le leggerai. Anche se non sarò più accanto a te e mi odierai più di chiunque altro.
Vorrei dirti che andrà tutto bene, che ogni cosa tornerà al suo posto come speriamo entrambi e che potremo continuare ad essere felici come lo siamo stati per fin troppo tempo dopo la storia del kanima. Vorrei che fossimo sereni come ce lo meritiamo, ma evidentemente il Destino ha in serbo per noi qualcosa di ben diverso. Vorrei che mio nonno non si fosse mai ammalato, vorrei che potesse restare in vita altri due anni – quanto basta, spero, a fare di me la donna che serve alla famiglia Carter. 
Quella donna non sono io, Stiles. Perlomeno non ancora. Ecco perché ho deciso di andar via, proprio come da piano originale. L’Intercultura giustifica la mia presenza a Beacon Hills per soli nove mesi e questi sono passati già da un pezzo. È l’ora di tornare a casa, in Texas. È l’ora di scappare.
E sai qual è la cosa peggiore? Non sento più sul serio il Texas come casa mia. Perché la mia casa sei tu, Stiles. Ed io ti amo. Ti amo così tanto
 
«Ecco dov’eri finita!».
Prima ancora che Stiles potesse finire di parlare scattai in piedi sulla sabbia umida della battigia, nascondendo la lettera dietro la schiena lasciata nuda dal mio bikini. Avevo in viso l’aria più colpevole del mondo e sono certa che Stiles lo capì – proprio come capiva sempre tutto – ma si limitò a distogliere lo sguardo dalle mie mani nascoste dietro la schiena e ritornò a guardarmi negli occhi, riservandomi un sorriso non troppo convinto. Come al solito, non intendeva farmi pressioni. Ed io ero la persona più orribile di sempre.
«Cassandra e James vogliono andare a Nassau», esalò, facendomi presente il perché di quella sua visita improvvisa.
Credevo che sarebbe rimasto a dormire ancora per molto, cullato dall’aria salmastra di quella favolosa villa sul mare. Ecco perché me n’ero rimasta tranquilla in spiaggia a buttare giù parole che già sapevo mi sarei pentita di aver scritto e pronunciato. Ma avevo deciso di affrontare le situazioni di petto, d’allora in poi, ecco perché presi finalmente coraggio e cercai gli occhi chiari di Stiles.
«Ti devo parlare», mormorai, stringendo tra le dita la lettera che ancora non volevo vedesse.
«Anch’io», si aggregò Stiles, muovendo un inaspettato passo nella mia direzione. Il mio comportamento aveva smorzato violentemente l’eccitazione che gli vidi riaffiorare sul viso a quella notizia. «Di cosa si tratta?».
«È…», cominciai, ma dovetti fermarmi subito. Avevo l’improvviso sospetto che Stiles volesse dirmi qualcosa di davvero importante. Qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto. E volevo che parlasse. «Cosa devi dirmi?».
Gliene diedi la possibilità. Ci provai. Ma di nuovo il Destino si mise tra di noi e la nostra felicità.
«Può aspettare», liquidò infatti Stiles, e a me ritornò di botto l’immensa voglia di piangere che fino a quel momento ero riuscita chissà come a trattenere. Non avrebbe detto nulla. Non mi avrebbe salvata. «Prima tu».
Prima io. Mi toccava. Dovevo parlargli. Ed infine lo feci, torturandomi le mani e l’interno guancia dall’ansia.
«Devo tornare in Texas».
Stiles non ebbe alcuna reazione. Mi ero aspettata di tutto, da parte sua, tranne quella calma apparente. Semplicemente annuì, osservandomi a lungo prima di uscirsene con un semplicissimo: «Lo so».
Aggrottai le sopracciglia. «Lo sai?».
Di nuovo, Stiles si limitò ad annuire. «Era anche di questo che volevo parlarti».
Mi si seccò all’improvviso la gola. Di cosa voleva parlarmi Stiles? Avrei dato di tutto per poterlo sapere. Ma qualcosa mi trattenne. Perciò mi limitai a deglutire a fondo.
«Ah sì?», domandai infine, schiarendomi la gola con un nervosissimo colpo di tosse.
«Sì», confermò subito Stiles. Poi mosse un passo verso la mia direzione ed io dovetti trattenere con tutte le mie forze lo sbagliatissimo istinto di farmi lontana da lui. «Sai che non devi per forza andar via, vero?».
Oh no. Pensavo di aver capito già benissimo a cosa Stiles stesse puntando. Voleva convincermi a restare a Beacon Hills – con lui – e sapevo che ci sarebbe potuto riuscire senza nemmeno troppi sforzi. Ecco perché feci di tutto per evitare quella scomoda situazione. Non potevo permettergli di cambiare ogni mio piano.
«Austin è casa mia», mentii dunque, cercando invano di non far tremolare la voce.
«Anche Beacon Hills lo è», mi corresse Stiles subito, ed io mi limitai a scuotere la testa ripetutamente. Ero in piena fase di negazione, ma ritornai immediatamente in me alle successive parole di Stiles. «Io non voglio perderti».
Neanch’io, questo avrei voluto dirgli. Invece mi limitai a scoppiare a piangere.
«Mi dispiace…», mormorai tra una lacrima e l’altra, piena di vergogna come non mai.
«Cosa significa che ti dispiace?», chiese Stiles, con una forte nota di confusione a distorcergli il tono di voce. Ma io non gli risposi, semplicemente continuai a piangere finché lui non mi pregò di smettere. «Non piangere, per favore. Sai che non lo sopporto. Qualunque cosa sia, possiamo risolverla insieme. Come sempre».
Di nuovo scossi la testa. No che non potevamo risolvere quella situazione. Nemmeno se fossimo rimasti ancora insieme.
«M-Mi dispiace», ripetei dunque, cercando di asciugarmi il viso alla bell’e meglio senza mostrare a Stiles la lettera che ancora nascondevo dietro la schiena.
Stiles provò ancora a chiedermi spiegazioni, ma all’improvviso capì di non averne più bisogno. Mi conosceva già bene abbastanza da leggermi tutto in viso ed è proprio ciò che fece in quel momento. Vidi la sua espressione mutare completamente e capii subito che ci fosse arrivato. Che il sentore di tempesta imminente fosse stato captato anche da lui.
«Dimmi che è uno scherzo», pregò.
Io mi limitai a scuotere la testa. Non era uno scherzo. «Devo andare via».
«D’accordo. Posso provare a capirlo», Stiles riparlò dopo interi minuti di silenzio, «Ma con me cosa vuoi fare? Che intenzioni hai?».
Mi morsi un labbro nella speranza di riuscire a fermare finalmente le lacrime. Poi scrollai le spalle. Sapevo che Stiles avesse già un’idea ben precisa di quali fossero le mie intenzioni, ma dovevo dirglielo comunque in maniera esplicita. Si meritava una spiegazione.
«Non voglio costringerti ad una relazione a distanza. Sai che non ce la faremmo», provai quindi, ma Stiles non apprezzò nemmeno il gesto.
Al contrario si animò subito, sgranando gli occhi sulla mia figura e riservandomi l’occhiata peggiore del mondo. Era un misto di incredulità, delusione e disgusto. Non mi aveva mai guardata in quel modo.
«Non usare il plurale! Stai decidendo tu per entrambi, non provare a convincermi del fatto che questa cosa dipenda anche da me!», urlò, e mi sentii morire un po’ di più ad ogni nuova parola.
Avrei dovuto parlargli ancora e lo sapevo – tentare di fargli capire il mio punto di vista e giustificarmi – ma di nuovo non ci riuscii. Le parole mi rimasero tutte incastrate in gola, proprio come avevo temuto ore prima quando avevo deciso di mettere le mie motivazioni per iscritto. Mi limitai a chiedergli scusa per l’ennesima volta. Ma a Stiles non importava nulla del mio dispiacere, non più.
«Che vuoi fare, me lo spieghi? Vai via e mi dimentichi? Tabula rasa, come se non ci fossimo mai conosciuti? Pensi che sia così facile?». Mi mise alla prova, tanto che pensai di essere quasi ad un passo dal cedere. Ma ciò che aggiunse in seguito mi fece velocemente ritornare sui miei passi. «Forse per te lo è davvero. Forse non te n’è mai importato niente di me. Né di mio padre o Scott, Allison, Lydia…».
Un’ondata improvvisa di rabbia m’infiammò completamente. No. Assolutamente no. Non gli avrei permesso di dubitare dei miei sentimenti. Mai.
«Non osare, Stiles», sibilai quindi, stringendo i pugni dietro la schiena e stropicciando la maledetta lettera che ancora tenevo tra le dita tremanti. «Sai che non è vero».
Ma Stiles non credeva più a nessuna delle mie parole. Lo vidi scuotere la testa più volte e realizzai tutto all’improvviso. Quella consapevolezza mi uccise.
«Io so solo che stai mettendo fine a questa cosa prima ancora che potesse cominciare. E stai facendo tutto da sola», mormorò, allontanandosi da me ancor di più. «Dio mio. Pensa che figura di merda se non avessi lasciato parlare prima te».
Quella sua ultima frase mi colpì all’improvviso, togliendomi del tutto il respiro. Cosa avrebbe dovuto dirmi, Stiles? Temevo di saperlo fin troppo bene. Ma volevo – masochisticamente – averne la conferma.
Ecco perché mossi un passo nella sua direzione e provai a raggiungerlo. Allungai una mano verso di lui, ma Stiles la evitò come la peste. Nemmeno rispose al mio richiamo.
Semplicemente scappò, con un ultimo e veloce: «Devo andare» che recepii a malapena.  
Era sparito dalla mia visuale prima ancora che me ne rendessi conto.
 
Rimasi a fissare con occhi pieni di lacrime il posto di fronte a me che aveva occupato Stiles fino ad un momento prima, non curandomi minimamente della fredda brezza marina che mi riempì la pelle scoperta di brividi. Avrei voluto riprendere a piangere e sfogarmi, ma non ci riuscii. Semplicemente mi portai la lettera che avevo nascosto fino a quel momento di fronte agli occhi e l’osservai, rigirandomela a lungo tra le mani. Avrei dovuto completarla e darle un senso, ma sapevo già che non ci sarei riuscita. Ecco perché corsi in casa velocemente, ben decisa a liberarmene finalmente.
Recuperai dalla cucina abitabile della villa uno spago e ripiegai la lettera su se stessa, legandola affinché potesse restare così chiusa e celare tutti i miei segreti. A Stiles non avrei lasciato altro che quello, pensai, mentre mi dirigevo verso la camera matrimoniale che avevamo occupato da quand’eravamo giunti alle Bahamas.
Individuai subito la valigia di Stiles in un angolo e mi ci avvicinai, ben decisa a nascondere lì la lettera. Speravo che potesse leggerla una volta tornato a Beacon Hills – senza di me. Ma ad un passo dal lasciar andare quel pezzo di carta maledetta, mi ritrovai immobilizzata. C’era un’altra cosa che volevo aggiungere e lo feci senza più pensarci su: recuperai la penna che avevo abbandonato in cucina e scrissi sul retro Mi importerà sempre di te.
Le parole più vere che ancora una volta potessi dedicare a Stiles. Solo allora riuscii a liberarmi della lettera. La nascosi sotto un cumulo di vestiti spiegazzati e mi feci lontana dalla sua valigia con un sobbalzo veloce.
La crisi di pianto arrivò inaspettata: il respiro mi mancò all’improvviso e il cuore sembrò volere di botto scoppiarmi nel petto. Mi portai le mani alla gola, terrorizzata da ciò che avevo fatto e da chi stavo diventando, scappando da quella stanza ricolma di momenti che non avrei mai più potuto rivivere e mi rifugiai nel bagno del secondo piano, chiudendomi la porta in legno alle spalle con un sonoro tonfo.
Poi scoppiai a piangere seriamente. All’inizio mi venne istintivo soffocare i miei gemiti contro i palmi delle mani, come già tante volte avevo fatto per nascondere a tutti la mia smisurata debolezza. Poi realizzai di essere completamente sola in quell’immensa e triste villa e semplicemente mi lasciai andare. Mollai la presa e urlai, scalciai e strepitai. Mi maledissi e piansi, piansi, piansi. Fino a non poterci vedere più e a sentirmi la testa scoppiare. Pensai a tutto e a niente: pensai alle persone che avrei perso e a quant’ero stupida. A quanto poco servisse quella mia crisi di pianto. Non avrei risolto nulla con le mie inutili lacrime, ne sarei semplicemente uscita spossata e distrutta. Ecco perché provai a rialzarmi in piedi.
Mi costò immensi sforzi, ma alla fine ci riuscii. Utilizzai il lavandino come appiglio e ritornai stabile sulle mie gambe traballanti, cercando di soffocare i gemiti ed evitando il mio riflesso nello specchio da parete. Ma alla fine cedetti e mi osservai. Vidi sul serio ciò che avevo scelto di diventare. E mentre pregavo di ritrovare una forza che non sapevo nemmeno di aver mai avuto, capii che in vita mia – per quanto credessi stupidamente il contrario – non avevo mai sofferto tanto come in quel momento.
 
You don’t know pain until you’re staring at yourself in the mirror 
with tears streaming down your face
and you’re begging yourself to just hold on and be strong.
That is pain.
 
Continuai a piangere per quelli che mi sembrarono secoli, combattendo inutilmente contro me stessa almeno finché non udii una porta sbattere contro i cardini nel fondo del corridoio. Allora sgranai gli occhi arrossati, balzando in piedi nel centro della stanza. Cassandra, Jamie e Stiles erano finalmente tornati dalla loro piccola gita a Nassau e ne ero all’improvviso più che sicura.
Ecco perché fronteggiai velocemente il lavandino, sciacquandomi il viso nella speranza di potermi rendere un minimo presentabile mentre evitavo come la peste il mio riflesso nello specchio. Lavai via ogni lacrima e mi asciugai il viso, poi finalmente misi piede fuori dal dannato bagno, pronta ad affrontare qualunque sfida la vita avesse deciso di lanciarmi allora.
Alla fine finii nella camera che io e Stiles avevamo sempre condiviso da quand’eravamo lì alle Bahamas, sentendomi il cuore scoppiare di fronte alla vista di quest’ultimo tutto preso dalla preparazione delle sue valigie. Non ero affatto pronta per quella sfida.
Perciò me ne rimasi immobilizzata sulla soglia, accostando la porta senza chiuderla mentre osservavo con gli occhi lucidi Stiles mentre si preparava a lasciarmi. Se anche si fosse reso conto della mia presenza all’interno della stanza, non diede segno della cosa. Continuò invece ad ignorarmi come se niente fosse ed io glielo lasciai fare finché il silenzio nella stanza non cominciò a pesarmi addosso come un insopportabile macigno. Allora mi sentii in dovere di interromperlo.
«Ti amo».
Non era la cosa migliore da dire e lo sapevo bene. Ma in quel momento non c’era nient’altro che volessi o potessi far sapere a Stiles se non l’assoluta verità. Perché lo amavo – sul serio – e dovevo fare di tutto perché lui sentisse quelle due parole magiche abbandonarmi le labbra almeno una volta. Dubitavo seriamente che avrei avuto occasione di ripetergliele.
Avevo parlato per poter finalmente attirare l’attenzione di Stiles e scoprii di aver raggiunto il mio obbiettivo quando lo vidi mollare di scatto un paio di calzini per voltarsi a guardarmi lentamente. Restammo a fissarci – occhi negli occhi – per ore e ore, almeno finché Stiles non mosse diversi passi nella mia direzione, facendomi sobbalzare dall’improvvisa aspettativa che mi colse. Deglutii sonoramente quando me lo ritrovai a soli pochissimi passi dal viso, ma non riuscii a fare nient’altro per tranquillizzarmi perché prima ancora che me ne rendessi conto sul serio Stiles aveva azzerato completamente – e inaspettatamente – quel poco di distanza che ancora ci divideva.
Mi strinse il viso tra le mani e le sue labbra corsero subito a cercare le mie, trovandole già dischiuse proprio come se non aspettassi nient’altro che quello da fin troppo tempo. Mi lasciai andare contro ogni logica a quel bacio, chiudendo gli occhi per godermi il momento e Stiles – che non avevo mai visto così – fino in fondo. Sentii le sue mani lasciarmi il viso per attraversare il collo in una carezza fugace prima di posarsi sui fianchi, che strinse quanto bastava a spingermi contro il legno della porta, la quale si richiuse alle nostre spalle con un tonfo che mi fece saltare il cuore in gola all’improvviso ricordo del secondo bacio che ci eravamo scambiati a casa Stilinski, contro la porta della camera di Stiles. Non c’era niente oltre al luogo che rendesse anche solo lontanamente simili quei due baci: il primo era stato cauto e insicuro, quello invece era guidato da un mix letale di odio e amore che avrebbe sicuramente finito per farci male. Più che un bacio sembrava uno scontro, dal quale sapevo per certo nessuno dei due sarebbe uscito vincitore.
Ma nonostante tutto, né io né Stiles ci tirammo indietro. Continuammo a combattere, cercando di farci valere l’uno sull’altra con morsi e affondi di lingua fin troppo irruenti. Non osai lamentarmi della cosa: in nessun caso Stiles avrebbe potuto farmi più male di quanto già gliene avessi fatto io con quella nostra rottura forzata. Lo lasciai fare, passandogli le mani tra i capelli già molto più lunghi di quando l’avevo conosciuto quasi un anno prima mentre Stiles artigliava le mani ai miei glutei quanto bastava a farmi perdere contatto con la morbida moquette che rivestiva il pavimento. Di nuovo lo assecondai completamente, rispondendo al suo chiaro invito e allacciandogli le gambe attorno al bacino mentre gli stringevo le braccia attorno al collo. La situazione ci stava chiaramente sfuggendo di mano, ma quella volta non avrei avuto paura.
Riuscii a tenere fede alla mia promessa e mi godetti tutto fino in fondo, finché potei. Mi lasciai trasportare sul letto, ri-attirai Stiles su di me quando lui provò per un breve attimo a sfuggirmi e continuai a stringerlo contro il mio corpo, ben sapendo che nei mesi a seguire non avrei avuto più occasione di farlo. Mi lasciai spogliare del misero bikini che ancora indossavo da quella mattina e mi occupai in prima persona di fare altrettanto col costume ancora un po’ umido di Stiles. Gli permisi di entrarmi dentro e prendermi, non solo in senso fisico. Gli donai una gran parte di me stessa ancora una volta, ben sapendo che mai e poi mai avrei potuto pentirmi di quel gesto avventato.
Sapevo però che mi avrebbe fatta soffrire e ne ebbi la dolorosa conferma nel momento in cui tutto finì – per sempre – e Stiles non ci pensò su due volte a lasciarmi sola, nuda e ansimante al centro del letto. Lo osservai con occhi nuovamente pieni di lacrime mentre si rivestiva velocemente, finendo poi a riordinare delle ultime cose nella sua valigia prima che la chiudesse e la trascinasse giù lungo il pavimento fino alla porta. Si era preso la sua vendetta e l’aveva fatto nel modo più atroce possibile.
«Se davvero mi amassi», pronunciò prima di sparire definitivamente dalla mia vita, la mano stretta sulla maniglia d’ottone e lo sguardo ben lontano da me, «non mi lasceresti mai andare».
Cosa che io feci. Anche se lo amavo, ancor più della mia stessa vita. Stiles si chiuse la porta alle spalle con un tonfo ed io aspettai di sentir svanire il rumore del trolley sul pavimento della villa prima di scoppiare a piangere come se il mondo mi fosse all’improvviso caduto addosso senza che avessi la minima opportunità di spostarmi un po’ più in là. Era proprio così che mi sentivo. Ma per quanto dannatamente doloroso fosse, sapevo di aver fatto la cosa giusta.
È proprio perché ti amo che ti sto lasciando andare, Stiles.
 
 
 
 
I could be your perfect disaster,
you could be my ever after.
 
 
 
 
Ringraziamenti
gilraen_white e Axelle_, che ci sono state fin dall’inizio.
A chiunque mi abbia seguita in quest’ennesima avventura pur restandosene – ahimè – in silenzio.
A chi mi ha scoperta quest’anno e ha aggiunto kaleidoscope ai preferiti e alle seguite/ricordate.
A chi non è più tornato.
me, che sto portando avanti un progetto che credevo non sarei mai stata in grado nemmeno di abbozzare.
kaleidoscope non ha avuto gli stessi bei risultati di parachute, ma io ne sono orgogliosa comunque. Ho fatto davvero del mio meglio per questo sequel e penso che sia solo questa l’unica cosa davvero importante. A prescindere dal numero di recensioni/seguiti/preferiti/ricordate, ciò che conta è che la storia piaccia a me e che io mi senta bene riguardo a come l’ho gestita. Ed è proprio così che mi sento
 
#sorrynotsorry.
 
Note
Per chi non l’avesse capito, la prima scena è un flashback. Harry, mentre è alle Bahamas con Stiles – Cassandra e suo cognato, rivive uno degli ultimi terribili incontri con suo nonno Thomas e Shanti. Shanti che finalmente è entrata in gioco (per mia grande gioia) e che spero possa piacervi. Agli occhi di Harriet – ma anche ai vostri, ne sono sicura – questo nuovo personaggio è ancora avvolto da parecchio fumo, ma tranquilli: in storm scoprirete tutto ciò che c’è da sapere su di lei e la vedrete parecchio. :) Nel frattempo vi basti sapere che è della sua famiglia che si parla nei diari di Charles, quelli che vi ho riportato anche ad inizio capitolo. Che gli indiani comparissero era una cosa che pianificavo di fare fin dall’inizio e sono davvero contenta di esserci riuscita.
Come al solito, per qualsiasi dubbio assillatemi pure! u.u
La lettera è un chiaro riferimento a parachute (l’ennesimo). Ormai è tradizione concludere le storie con Harry che scrive qualcosa e spero che vi sia piaciuto quest’altro parallel. Ce n’è un altro nell’ultima scena e chi ha letto parachute probabilmente l’avrà notato: in ogni caso, potete capirlo leggendo il 
capitolo 19.
PER FAVORE, cercate di non massacrare Harriet. :(
 
ATTENZIONE
Per motivi di rating non mi sono potuta spingere troppo in là con le descrizioni della prima volta degli Starriet – i miei bambini, omg – ma se v'interessa leggere qualcosina di più potete andare qui:
 Everything that kills me makes me feel alive. Non vi aspettate chissà che, comunque, perché non sono brava a scrivere roba rossa. Sob.



 
THE END
   
 
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