Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: frown    07/02/2016    2 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Cocoa butter kisses

(3).

Everything I ask for


 


 





Erano passati circa due mesi, quando successe il misfatto.
Due mesi trascorsi a guardarlo cambiare, a salutarlo gettandomi in un suo abbraccio caldo in antitesi con il freddo di stagione. Andreas ed io ci vedevamo circa ogni giorno, tutte le volte che potevamo e, le sue notti tormentate le passavamo nel garage di lui, sdraiati sul materasso vecchio e consunto. Io struccata ed inebriata dall'odore di tutti gli Arbre Magique che avevamo appeso alle pareti e al soffitto, lo guardavo fumarsi l'ennesima sigaretta e sorseggiare una pepsi sgasata. C'era la vecchia radio di suo nonno che trasmetteva sempre le solite canzoni e, avevo imparato a canticchiarle in modo poco udibile, ma apprezzabile. I Rolling Stones cantavano la loro Satisfaction mentre lui mi parlava a bassa voce di ogni cosa che gli faceva male, di ciascun dolore lo torturasse e gli impedisse di dormire la notte.
Lui mi raccontava di sua madre e delle pillole che prendeva tutte le mattine, con il latte e un bicchierino di cognac, di suo padre che non tornava a casa e di suo fratello piccolo, intelligente e problematico.
Io suggerivo qualcosa e Andreas sospirava ironicamente alle mie parole stupide. Sorrideva difronte alla mia risata tutte le volte che spuntava fuori senza preavviso.
Erano due mesi, quelli che erano trascorsi con le sue paure e i suoi timori tra i palmi delle mie mani. I miei umori ingestibili venivano riciclati per un altro momento, messi da parte in un cassetto dove c'era ancora spazio. Per quelli trovavo spazio quando tutti dormivano ed io salivo sul tetto. Il panorama da lì è bellissimo, si vedono le ultime luci ancora accese, le rare macchine che sfrecciano veloci incuranti dei semafori ininterrottamente arancioni e i lampioni che illuminano le strade buie e deserte.
Per arrivare sul tetto dovevo fare tutto molto silenziosamente; innanzi tutto, sgusciare fuori dall'appartamento e avvolta dal plaid di Giselle, salire tre piani di scale. Una volta arrivata all'ultimo piano, bastava tirare giù la scala a pioli.
Era il mio posto preferito e non lo conosceva nessuno, nemmeno Giselle, nonostante spesso mi avesse vista rientrare con il raffreddore e assonnata all'alba, dopo aver trascorso la notte sul tetto e dopo essermici appisolata come un'allocca.
La notte è strana. Mia nonna me lo diceva sempre: “accadono cose magiche la notte”.
Erano passati due mesi circa, dunque circa sessanta giorni in cui al mio risveglio, trovavo sempre i messaggi inaspettati e cordiali che mi auguravano una buona giornata di Andreas. Sessanta giorni di racconti sulla vita, sul passato e sul futuro. Mi raccontava le storie che lo avevano fatto crescere e i mali che si portava dietro sdraiati su una mia sciarpa esageratamente grossa in riva al fiume, lanciavamo i cracker ai cigni e io mi divertivo a dare loro un nome. Erano stati sessanta giorni di incoscienza, cambiamenti e di una me che lo teneva stretto - “sul serio, non ti mollo” -. Sessanta giorni di quel posto che “davvero, da oggi è il nostro posto”, dei baci loschi che mi appiccava sul guancia e sulla fronte e, sessanta giorni con la voglia scostante di appiccicare cerotti su quelle zone piene di segni indolori. Sessanta giorni di nuove abitudini, ritualità un po' sceme, strette soffocanti, rassegnazione e sessanta giorni dei miei spasmi accompagnati dalla mia risata un po' ridicola. Sessanta giorni di mie fissazioni e suoi gesti, affetto, mie azioni lasciate a metà e i suoi limiti. I suoi limiti, descritti nelle serate più alcoliche come degli ostacoli alti e di cemento armato. Io sorridevo alla metafora e gli accarezzavo il braccio, lo rassicuravo con parole tenui e pensavo ai sessanta giorni che ci erano voluti per sentirsi improvvisamente cresciuti, pieni. Ci sentivamo improvvisamente così completi e apprezzati, regalandoci strette soffocanti che non facevano mai male a nessuno. Sessanta giorni erano bastati affinché la mia stanchezza iniziasse ad abbinarsi bene e con con complicità al suo viso addormentato sulla mia spalla sulla metropolitana.
Sessanta giorni (circa) che avrebbero dovuto essere buttati, gettati il più lontano possibile per mettermi al sicuro.


 

Il sessantunesimo giorno (circa), Andreas conobbe Giselle.

 


 

Era un martedì o un giovedì mattina, io mi ero svegliata con qualcosa che mi attanagliava lo stomaco. Andreas.
Mi ero fatta una doccia da trentacinque minuti, depilata e mentre mi spruzzavo il deodorante sopra le ascelle, indossando solo dei jeans larghi sui polpacci e il reggiseno, la porta di camera mia si spalancò, facendo entrare una frustrata ragazza dagli occhi grandi e i capelli intrecciati.
“Mi fa male la schiena” mi salutò, prima di gettarsi sul mio letto. Indossava un maglione di mio padre, sotto cui non indossava altro se non le mutandine e gli stivali in eco-pelle marrone.
Giselle era una stangona che passava le sue giornate alternando sessioni di ginnastica aerobica, a maratone in streaming di sfilate di Victoria's Secret e Abercrombie. La sua dieta era composta da insalate russe, lecca-lecca e gomme da masticare, super alcolici e grissini. Andava per locali ogni sera; usciva presto e tornava tardi. Molto spesso tornava la mattina, verso le otto del mattino, la serratura girava e Giselle entrava sfilando per la sua camminata della vergogna, ma senza alcuna traccia di risentimento o imbarazzo sul volto. Il trucco della sera prima sembrava sparito, rimpiazzato da una lavata di acqua e sapone e una passata di mascara e rossetto rosa perla. Sopra al vestito della sera prima indossava una giacca sempre nuova, presa dal ragazzo con cui aveva passato la notte. Consensualmente. La cosa per cui non chiedeva mai il consenso, era l'oggetto che lei rubava dalla casa in cui era stata. Lei lo chiamava “souvenir” e, ne avevamo la casa piena.
Variavano dalle cose più stupide, come cornici con infilate fotografie di famiglie sorridenti o coppie di amici o innamorati, a lampade estrose. Una volta aveva persino preso con sé il tappetino del bagno, mettendolo quindi nel nostro. Le tende per la cucina, un tostapane, una scorta di carta igenica o libri di testo.

“Hai pensato all'università?” le chiesi, iniziando a pettinarmi guardandola arricciarsi i capelli attorno al dito dallo specchio.
Mi ero trasferita dalla casa dei nostri genitori appena finito il liceo, Giselle mi aveva seguita due mesi dopo, inquinando la mia stanza e la mia casa, nonostante lei fosse più grande di me di un anno.

“Sì” rispose concisa. “E non fa per me. Voglio diventare un imprenditrice” mi spiegò sorridendo.

“Ti serve l'università, Elle” sbuffai scocciata.
Spalancai l'anta destra dell'armadio e afferrai una semplice camicia larga e leggera, bianca e semplice.
“Non è vero, pensa a Tyra Banks, a Beyoncè o a tutta la famiglia Kardashian!” esultò mettendosi a sedere.
Giselle era un’idolatrice dello Star Sistem, preferiva la coppia Jennifer Aniston e Brad Pitt alla BradAngelina, venerava Alessandra Ambrosio e Adriana Lima a turni ed era attualmente vegetariana. Nonostante potesse sembrare una persona conformista e frivola, Giselle non era scema.
Certo, non era Heinstein e non sarebbe riuscita nello spelling del suo nome, ma era furba. Furba della furbizia di strada, era cresciuta in fretta, fumando erba e tracannando birra economica con i ragazzi più grandi da quando aveva quattordici anni.
Ricordo una me tredicenne sdraiata sul tappeto persiano a leggere di poeti francesi e maledetti mentre lei fumava chissà cosa con la porta di camera nostra chiusa a chiave e con la finestra aperta a Gennaio, prima di spruzzare ovunque spray all'arancia per l'ambiente e puntarmi un dito contro: “Di qualcosa alla mamma e ti uccido, Elle”.
Era buffo, ci chiamavamo Giselle e Elena, ma tendevamo a soprannominarci entrambe “Elle”.
“Giselle, se ci tieni tanto, gira anche tu un porno come Kim e diventa una... Una... Beh, qualsiasi cosa sia lei” finii.
Inarcai un sopracciglio davanti all'evidente silenzio e mi girai a guardare Giselle .
Giselle, mia sorella maggiore, aveva pochi ma utili talenti. Oltre a un vero e proprio animo da seduttrice, aveva il dono di riuscire sempre a non sentirsi fuori posto. Nonostante avese una risata scomposta ed esagerata, facesse sempre delle strane costruzioni fra posate dopo un pasto e ridendo, le sue spalle iniziavano ad abbassarsi e ad alzarsi in movimenti frenetici.
A Giselle erano stati donati degli occhi caldi e dolci, verdi e circondati da chiazze nocciola, profondi e attraenti. Ed erano quelli gli occhi che mi stavano guardando con disapprovazione.
“Che c'è?” proruppi stanca di chiacchiere futili.
Uscii dalla mia stanza, ora diventata nostra, per entrare in quello che avevo arredato come il mio studio, ma avevo chiamato “santuario” quando Giselle era sbucata sul mio pianerottolo con due valigie troppo grandi e un sorriso troppo entusiasta. Almeno così non mi avrebbe disturbata.
Non era particolarmente grande, ma aveva ampie finestre da cui filtrava sempre poca luce, che andava puntualmente a colpire la scrivania di legno comprata a un mercato dell'usato. Oltre alla scrivania, avevo rimediato una libreria piuttosto ampia e degli scaffali che Lols e Connor avevano attaccato alla parete con non poche difficoltà. C'era anche un vaso cinese, che mi aveva regalato Rhett appena comprata casa, all'interno riposava una grossa pianta grassa. Appeso alla parete c'era un orologio impostato di un ora in ritardo, ma che non decidevo mai di reimpostare.
Giselle mi seguii. Dalle grosse finestre in legno che davano su una strada principale si potevano vedere le fronde degli alberi scuotere nel vento di Marzo.
Per fortuna non pioveva, avevo un libro da ritirare in biblioteca.
Giselle sbuffò, sfregandosi una mano sul viso e passandola poi fra i lunghi capelli dorati, rovinati dall'ultima tinta colorata.
Teneva in mano un mio libro, riuscii a sbirciare il titolo prima che lo chiudesse con disapprovazione, per poi incrociare le braccia al petto e imbronciarsi. “Penso che dovresti lasciarmi questa stanza e spostare la scrivania e la libreria nella nostra attuale camera da letto” si impuntò.
Quasi le risi in faccia. “Non credo seguirò il tuo... Consiglio”.
“Ma che strano!” esclamò lei, posizionandosi le mani sui fianchi come una madre apprensiva. “Tu non mi ascolti mai”
Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo e arrotolai una manica della camicia attorno al polso, indecisa su come spiegarle la situazione. “Giselle, questa è casa mia. Io ti sto ospitando, non paghi nulla. Né la spesa che compio settimanalmente, né l'affitto, né le bollette. Non pensi sia arrogante quindi volere anche una stanza tutta per te?”
Giselle sfilò dalla tasca posteriore dei jeans chiari un pacchetto di sigarette ridotto male, ne sfilò una e se la infilò tra le labbra sottili. “Potresti almeno rifletterci su” e sparì, andando probabilmente a cercare un accendino.
Mentre pedalavo sulla bicicletta riverniciata da poco, pensai a Giselle e al suo sguardo deluso.


 


 

Quando tornai a casa, Giselle era in soggiorno in mutande, circondata da una quantità disdicevole di vestiti.
Appena mi sentii entrare mi venne incontro saltellando come una scimmietta, euforica e con un sorriso equivoco stampato sulle labbra rosee.
“Non potrai mai crederci” schiamazzò allegra e felice come una pasqua.
“Indovino?” domandai, gettando la borsa per terra. “Cercano una ragazza per lo spot di un dentifricio” e mi piegai a sfilarmi le Oxford bordeaux dai piedi.
“Non essere sciocca” e saltellò di nuovo, accompagnata dal battito frenetico delle sue mani, l'una contro l'altra.
Indossava una maglietta con su scritto “YOUR PUSSY YOUR CHOICE” oltre alle mutande con stampata sull'inguine una serratura. “Ho conosciuto un ragazzo!”
Strinsi le labbra e “Wow” esordii poco convinta. Succedeva ogni giorno con Giselle, non era una novità.
“No, no” e scuotendo la testa mi spiegò che non avevo propriamente capito, così mi prese per mano nonostante le mie proteste e mi trascinò sul divano su cui era sdraiata prima del mio ingresso. Mi costrinse a sedermi e senza lasciarmi le mani, si sedette accanto a me. “Ho conosciuto IL ragazzo”
“Chi?” sgranai gli occhi. “Drake?” quasi gridai.
Giselle scosse benevolmente la testa, come se stesse parlando a una sociopatica. “Sono andata al Pychoholic, quello che piace tanto a te, perché in effetti, cercavo te” ridacchiò.
Mi spostai la treccia oltre le spalle, prima di prendere fiato e fissarla attenta. “Hai incontrato Drake al Psychoholic?”
Giselle sbuffò amareggiata. “Drake non c'entra, Elle”
Adocchiata una mela, poggiata su un tovagliolo giallo sul tavolino, la afferrai. “Quindi?”
“Al bancone c'era un ragazzo, molto carino” iniziò. “Stava bevendo una gin tonic e aveva lo sguardo sofferente e amareggiato” pensai di essere amareggiata e sofferente anche io in quel momento. “Così mi sono offerta di fargli compagnia, per risollevargli il morale. E lui mi ha ignorata” il racconto prima noioso e monotono mi sorprese proprio quando stavo per addentare la mela.
“C-Cosa?”
“Hai capito” disse lei scocciata. “Mi hai rifiutata, in modo anche piuttosto sgarbato” riferì.
“Mi dispiace?” non seppi se era un'affermazione o una vera e propria domanda.
“Non mi era mai successo!” quasi urlò, iniziando a farneticare e a gesticolare.
“Calma, calma” la fermai. Aggrottai la fronte e “Non puoi farci niente, Elle. Succede” sbottai.
Giselle esibì una smorfia frustrata sul suo bel viso angelico. “Beh, io qualcosa l'ho fatta” esordii senza evidenti ripensamenti.
“E...?” la invitai a continuare improvvisamente curiosa.
“Gli ho detto che sono una che non demorde e lui mi ha risposto che a lui sembravo una ragazza... Una ragazza come tante, facile e infantile” s'interruppe quando si accorse che stavo annuendo, d'accordo con le parole del ragazzo.
“Oh, scusa” brontolai. “Questo ragazzo è un idiota, l'hai insultato e te ne sei andata?” chiesi per recuperare.
Mia sorella sorrise tranquilla. “No, gli ho detto che invece lui era una persona presuntuosa e che non guarda mai oltre il proprio naso... La cosa che mi dici sempre tu!” esultò come se fosse una cosa positiva.
Addentai la mela. “E allora è stato lui ad insultarti?” l’apostrofai tornata disinteressata, mi guardai il polso, su cui l'orologio stretto intorno segnava l'ora. Giselle mi acchiappò il braccio e affondò sfrontatamente le unghie lunghe e laccate di smalto nero nella carne del braccio sinistro. “Ascoltami!” mi rimproverò incollerita.
Annuii, gemendo per il dolore al mio povero braccio innocente.
“Mi ha sfidato, mi ha invitato a giocare a carte, nel caso avessi vinto, sarebbe uscito con me e mi avrebbe dato l'occasione di rivalutarmi, se perdevo dovevo ammettere di essere una ragazza scema e vuota” spiegò, schioccando soddisfatta la lingua.
Pensai immediatamente che quel ragazzo fosse un cafone, seduta sul sofà panna, con le ginocchia incollate alla gamba di Giselle.
“Hai vinto?” chiesi tirando fuori dalla tasca anteriore e sinistra dei jeans il cellulare. Iniziai a scorrere sulle notifiche di Whatsapp.
“Elle!” si lamentò scandalizzata. “Non mi presti mai attenzione” sbuffò irritata. Giselle era buona, ma quando s’intestardiva, la sua linguaccia diventava davvero irritante.
Smisi di digitare emoticons random alla chat che condividevo con Lola, per lanciarle un'occhiata offesa. “Non è vero” strepitai.
“Cristo” sbottò quindi lei, alzandosi in piedi. “Non ho vinto” esclamò come se fosse un editto, o il Non Expedit.
Gongolai inconsciamente. “Capita” decretai e addentai ancora la mela.
Mia sorella, si risiedette accanto a me, si allungò per sbirciare sul mio cellulare e mi guardò serissima. “Elle, stasera c'è la nostra partita. Non ho ancora vinto”
“Auguri” replicai alzandomi, la mela in una mano e il cellulare nell'altra. Giselle s'alzò in piedi e mi seguii, mentre io alzavo gli occhi al soffitto incrostato, avrei preferito che la mia uscita glissasse l'argomento, ma mia sorella sembrava di altro parere. Infatti, si inalberò. “Sono senza parole! Ma ce l'hai un misero sputo di coscienza?”
“Che vuoi da me, Giselle?” l'apostrofai scocciata.
Giselle mi esaminò con la coda dell'occhio prima di guardarmi di traverso. “Devi insegnarmi a vincere a poker”
“No” bofonchiai nervosa. “Non posso, Elle. In due ore non posso trasformarti in una arrampicatrice sociale newyorkese cresciuta a Las Vegas”
Giselle sbuffò. “Devi aiutarmi” detto ciò, prese una sigaretta e aprì la porta-finestra del soggiorno per uscire sul balcone a fumare e a fissare imbambolata le luci abbaglianti del traffico pomeridiano-serale.
A quel punto, le diedi le spalle e me ne andai nella mia tana, sperando di non essere disturbata, almeno lì.
Ovviamente, avevo sperato invano. Dieci minuti dopo, Giselle spalancò la porta del mio studio e meditabonda, con lo sguardo perso nel vuoto bofonchiò qualcosa di incomprensibile, le chiesi di ripetere.
“Insegnami a giocare e a barare, Elle” sospirò. “Ti prego, devi aiutarmi, sono tua sorella. Ho bisogno di te, ho bisogno di te, Elena”
La fissai sospirare sconsolata, decisa a conquistare il giocatore di poker molto cafone. “Okay” mi arresi alla fine.
Ci mettemmo subito a lavoro. Trovai le carte da gioco in un cassetto del mio comodino, sotto a una vecchia spazzola e le insegnai le regole e la metodologia di gioco. In un'ora, Giselle seppe giocare a poker, ma nonostante i miei rimproveri sull'espressione che avrebbe dovuto mantenere e degli utili consigli, Giselle restava una pessima giocatrice, nonostante le avessi successivamente insegnato anche dei trucchi, di cui non andavo fiera, Giselle restava una giocatrice mediocre, che non avrebbe mai potuto battere un ragazzo esperto. Doveva essere esperto, dato che scommetteva attraverso il poker. Sospirai sconsolata. “Giselle, non sarà facile batterlo. Anzi”
Giselle sollevò lo sguardo su di me, ignorando le carte ai suoi piedi per pochi istanti. Esibii una smorfia sarcastica e “Ma non mi dire” disse semplicemente.
Stroncando la mia replica, mi guardò di nuovo. “Ho un'idea, terrò i capelli sciolti e indosserò le cuffie, mi suggerirai tutto, capito? Una chiamata e io ti sussurrerò le mie carte, Elena. Non fare quella faccia, dopo ti lascerò in pace, ti scongiuro”
Ovviamene accettai.
Alle nove e un quarto, Giselle era al Psychoholic, mentre io avevo avvisato Andreas che sarei arrivata leggermente in ritardo quella sera.
Giselle avviò la chiamata, pochi istanti prima di entrare nel locale, sentii immediatamente il chiasso del pub e mia sorella brontolare insulti e bestemmie, nervosa come mai l'avevo vista.
“Ciao” la sentii dire. “Pronto a dirmi che sono la donna della tua vita?”
Riuscii a captare una risata sarcastica, mentre seduta sul tappeto, fissavo le carte da poker e addentavo un cracker.
“I commenti lasciamoli per la fine, Judith” scoppiai a ridere dimenticandomi per un istante del fatto che anche Giselle potesse ascoltarmi.
Immaginai Giselle irrigidirsi, tirare una sedia via dal tavolo e sedersi composta, lanciare uno sguardo di sfida solo alla fine. “Giselle” lo corresse.
“Iniziamo, Giselle?” disse il cafone allora. “Mischi tu o io?”
“Mischia tu, Giselle. Come ti ho insegnato” dissi a mia sorella.
Giselle seguii il mio consiglio e le dissi di dire che non si fidava dei giocatori d'azzardo. Lei ripetette tutto come un robot, con la mia stessa intonazione. Il ragazzo sembrò stupirsi e ridere sinceramente.
Tra un cracker e un altro, sentii il frusciare lento e calcolato delle carte, segno che mia sorella stesse mischiando, prima di distribuirle in modo equo, non senza utilizzare un altro trucchetto che le avevo insegnato.
“Non confondere le donne tra di loro, Giselle” le ricordai come una mamma apprensiva.
Rischiammo molto quella sera. Giselle fece la figura di una sciocca perchè Il Giocatore D'Azzardo l'aveva sentita brontolarmi “Di quadri!” esasperata dal mio udito a un certo punto della serata.
“La fortuna è determinante, in questo gioco” le aveva detto lui a un certo punto. Dissi a Giselle cosa rispondere.
Quando mia sorella, sorridente e accattivante come una iena gli rispose “Fortuna e calcolo delle probabilità, osservazione del giocatore e ottime esecuzioni di bluff”, riuscii quasi a sentirlo spalancare gli occhi e arrossire.
Giselle eseguii i trucchi che le avevo insegnato e, con il fato e i trucchi che aveva imparato una me tredicenne dalla nostra parte, la partita filava liscia e controllata. Il suo accompagnatore era in difficoltà con la mia esperienza, ma solo quando Giselle sembrò in vantaggio, vincendo la seconda mano, riuscii ad avvertire la sua paura. “Vuoi rilanciare?” chiese Giselle ironica.
Alle dieci e sette riuscii a sussurrare esausta a una Giselle gongolante di gioia “abbiamo vinto”.
Mi vestii ed uscii di casa, incamminandomi a piedi verso lo Psychoholic.



Trovai fuori dal locale Lysander.
Lo vedi e puoi solo sospirare. Mi intimoriva persino averlo intorno, perchè Lysander era di quella bellezza evidente che non ti permette di distogliere lo sguardo o di distrarti. Se ne stava lì, in piedi, appoggiato al muro del pub. Sicuro di sé e di quello che avrebbe potuto fare –farmi – con un pizzico di determinazione in più. Mi fissò avvicinarmi, mentre accanto a lui una ragazza dai lineamenti asiatici e un ragazzo mulatto e con gli occhiali dalla montatura bordeaux e sottile chiacchieravano divertendosi. Lo guardai dire qualcosa di tanto in tanto, quel poco che bastava a imprimertelo nel cervello. Parla quanto basta, Lysander. Diceva le cose giuste al momento giusto, sorrideva con le mani virili e le vene sporgenti davanti alla bocca sottile, si metteva in disordine i capelli in modo da costringermi a desiderare di passarci le dita in mezzo.

Mi guardò con quella sua assurda bellezza selvaggia ed io ricambiai lo sguardo, percorrendo con i miei occhi stranamente impavidi la sua figura. Era estremamente attraente, più di Andreas, nonostante gravitassi solo intorno a quest'ultimo.
 Era alto e slanciato, dalle spalle ampie e i fianchi stretti, capelli lunghi, scuri e lisci. La carnagione invece era chiarissima e non presentava neanche l'ombra di un imperfezione, pensai alla sua pubertà e a un suo ipotetico volto intriso di brufoli: non ci riuscii.

Mentre mi guardava raggiungerlo, con la mia camminata fanciullesca, alternava un'occhiata a me e ai suoi interlocutori, ma il suo sguardo non differiva, restava malinconico. Bellissimo e malinconico. Lunghe ciglia ombreggiavano dunque i suoi occhi chiari e limpidi, ghiacciati e ardenti. Un dio della mitologica greca o forse norrena, con il portamento di un soldato prussiano. Aveva la postura di un étoile o di un pianista dell'Opèra di Parigi, ma la parlantina di un parlamentare di Strasburgo.
Quando fui a portata di orecchio, sentii la ragazza parlare di una sua possibile malattia mentale, dicendo che presto il neuropsichiatra le avrebbe diagnosticato la paranoia, il ragazzo affianco a lei, la smentii, dicendo che era solo una ragazza ossessiva e intelligente, un'ottima osservatrice.
Lysander sorrise. “I paranoici attribuiscono un'importanza enorme ai particolari più insignificanti del comportamento altrui, quelli che generalmente sfuggono alle persone normali” detto ciò, la guardò quasi con dolcezza.
Posai la mano sulla porta del locale, indecisa sul salutarlo o meno. Ciao mi sembrava banale, buonasera da vecchia. Così finii per arrossire come una bambina, girarmi verso il trio e schiarirmi la voce. Sei occhi puntarono lo sguardo sulla mia figura, che non mi era mai apparsa sciatta quanto allora. “Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana” recitai guardando la mia mano sulla porta, quando ebbi il coraggio di sollevare gli occhi, lo feci con un sorriso sbilenco sul volto, che dedicai quasi in modo esasperatamente infantile al mio diretto interlocutore.
Corsi all'interno del locale un secondo dopo, neanche un passo e Lysander mi fermò con la sua voce fascinosa. “Volevi sorprendermi?”
Mi girai quasi turbata. “Non era mia intenzione...” feci finta di essermi scordata il suo nome.
“Lysander Warhol Lafayette” elencò meccanicamente, superandomi per poi posizionarsi difronte a me.
“Lysander Warhol Lafayatte” sospirai prima di fare un fischio ammirato. “Che sviolinata!”
“Un cognome presuntuoso” ammise.
“Un cognome ingombrante” lo corressi. “Stavamo dicendo?”
Scosse la testa divertito. “Stavolta sono sinceramente impressionato”
“Perché, prima non lo eri?”

Lui non rispose, mi sorrise e basta. Avrebbero dovuto rendere illegale quel suo sorrisetto malizioso. “Sei un bugiardo, Lysander Lafayette Warhol” conclusi io sorprendentemente maliziosa, superandolo e avviandomi verso il bancone, distaccandomi solo per esigenze naturali, quali prendere qualcosa da bere, preferibilmente dissetante.
Lysander mi affiancò ancora una volta. “Stai cercando Andreas?”
Annuii, mentre il barman mi passava una tazza di cioccolata calda. Lysander acchiappò la tazza prima di me. L'annusò per capirne il contenuto, prima di afferrare due bustine di zucchero di canna, aprirle entrambe e gettarne il contenuto nella tazza. Lo guardai ipnotizzata mescolare la cioccolata con studiata attenzione verso i chicchi più restii a sciogliersi. Quando finalmente me la passò, lo fissai accigliata. “Come fai a sapere che utilizzo lo zucchero di canna?”
“Me l'ha detto Andreas” replicò, voltando lo sguardo altrove. Bugia.
“Parlate delle mie preferenze in fatto di zucchero?”
Rise. “No, di te e basta”
Arrossii e, fu il mio turno di voltare lo sguardo altrove. “Dov'è?”
“A conquistare gonnelle, suppongo” rispose sorridendo.
Non diedi peso alle sue parole e lo presi come uno scherzo, o una battuta detta tanto per dire.
Salutai Magalì che iniziava il turno notturno e le chiesi la mela che aveva in mano, probabilmente desiderosa di frullarla per qualche drink. L'addentai e mi girai verso il ragazzo.
“Appoggi il suo metodo?” chiese.
“Quale metodo? Come fa il caffè o il letto?”
Sorrise. “Quando si tratta di uscire con le ragazze, diciamo che ha delle precise regole da rispettare” disse tranquillo e gli permisi di leggere sul mio volto momentanea confusione.
Inarcai un sopracciglio scettica. “Belle, bionde e stupide?” chiesi ironica.
Ero sinceramente curiosa, così osservai i suoi movimenti decisi minuziosamente.
Mi guardò al di sopra del suo bicchiere di Moscow Mule, gli occhi attenti e perspicaci. “Non esattamente: poker”
Quasi soffocai. Come se avesse detto una battuta sporca, lo fissai stralunata, con la bocca socchiusa e gli occhi strabuzzati.
Per ridestarmi dallo stato di trance, addentai di nuovo la mela e Lysander dischiuse le labbra in un sorriso complice che gli illuminò gli occhi. “Accetta di uscire solo con le ragazze che sono in grado di batterlo a poker”
“Che stronzata!” mi animai sudando freddo. Pensai a mia sorella e al suo giocatore d'azzardo, al Psychoholic e a una partita giocata per lo stesso scopo. Senza accorgermi di non aver ancora inghiottito il boccone decisamente troppo grande di mela, mi resi conto troppo tardi che un rivolo di succo mi stava colando sul mento. Lysander mi sorrise divertito ed io mi affrettai a pulirmi la bocca e a mandare giù il pezzo di frutto. Mi maledissi per la pessima figura, mentre lui ridacchiava. Prima che potessi dire qualcosa o scusarmi, lui aveva puntato lo sguardo oltre le mie spalle. Seguii il suo sguardo e girai il collo in tempo per vedere Andreas avanzare tenendo per mano Giselle Jordan. Mia sorella.

La mela mi cadde di mano.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: frown