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Autore: makeba    22/03/2009    0 recensioni
Quindi, presi il coraggio a due mani, e te li dissi. Ti dissi tutti, ma proprio tutti i motivi per cui ti lasciavo. Ti lasciavo perché dovevo partire. Ti lasciavo perché non volevo restare qui. Ti lasciavo perché mi saresti mancata troppo. Ti lasciavo perché ti amavo. Che cosa squallida.
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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III parte

 

La nostra danza

 

 

 

 

Succedeva spesso, sai.

Nei miei sogni intendo. 

Di immaginare come sarebbe stato se fossi tornato a vivere qui.

I primi mesi in città sono stati terribili e la capacità di fantasticare sulla mia vita
quotidiana qui, era principio di sollievo per me. 

Ora che mi sento parte di tutto quello che desideravo riesco a capire quanto mi sia mancato realmente. 

Sono cambiate tantissime cose, certo.

Sono cambiate le attrazioni, i visi dei bambini accaldati dalle corse.

È cambiato il semplice piacere di star seduti in compagnia a ridere, sostituito dalle mille preoccupazioni della vita odierna. 

Sembra tutto così superficiale, addirittura rumoroso, non pensi?

Passeggio lentamente, attento a non perdermi nessun particolare, nessuna sfumatura di colore, con il sacchetto delle caramelle gommose che amavo – amavamo – tanto. 

- George! Ehi!- è Frank che mi fa segno di avvicinarsi al suo tavolo.

Ne sono stati disposti una dozzina, in fila indiana. 

Sono di legno scuro e sopra una candela a forma di fiore funge anche da anti-zanzare.

Solo quando mi avvicino al tavolo riesco a riconoscere le persone sedute intorno. 

C’è Mary, i tuoi genitori, Paul e Julia nostri ex compagni di scuola, che si alzano per salutarmi e farmi le condoglianze per mio padre.

Ma tu non ci sei. E questo è quel che fa più male. 

Non voglio credere che ti sia persa la festa che amavi più di ogni altra.

La agognavi talmente che eravamo sempre i primi ad arrivare, prima ancora del proprietario delle giostre. 

No, per nulla al mondo saresti mancata.

Neanche per me. 

Per questo sono confuso nel non vederti.

Senza neanche che me ne accorga, mi ritrovo sazio di una bistecca alla brace, cotta a puntino. 

- Mary è una gran cuoca!- sta dicendo Frank, facendo arrossire la moglie.- Non è vero, George

Lei gli tira una sberla sul viso.

-Ah, smettila di parlare a vanvera. Non potrei mai competere con uno chef.

-Un quasi-chef- precisa.- e scommetto che il vitello come lo fai tu, non sa neanche che sapore abbia!- afferma Frank e lei arrossisce ancora.

- La bistecca era buonissima.- dico, sorridendole.- Mi sa che Frank ha ragione! Mi piacerebbe assaggiare il tuo vitello…

- Beh…s-sa-rebbe un piacere…f-fartelo assaggiare…- dice, imbarazzata.

Poi all’orecchio del marito sento che sussurra: - Grazie.

 

Siamo in fila, stretti nel rettangolo che si è venuto a creare per lo spettacolo delle majorette che inizierà tra pochi minuti. Accanto al muro è ferma la banda, sempre in quel terribile abito tradizionale blu e giallo.

Mi viene da ridere e lo faccio, sperando un attimo dopo che tu faccia lo stesso, ovunque tu sia.

Che tu sia felice quantomeno.

Ed è in quel momento che i miei occhi si poggiano su di te.

Hai un bel sorriso, che ti illumina il volto, sei all’angolo opposto del rettangolo e parli con un uomo di molto più grande di te.

Ha i capelli brizzolati, ma uno sguardo vivace.

 Non ho il tempo di informarmi di chi sia da Frank o di avvicinarmi che comincia lo spettacolo e vengo distratto.

 Le ragazze sono brave, e qualche volta mi concedo uno sguardo veloce dalla tua parte e tu sorridi, le guardi rapita.

Noto con sollievo, piacere e nostalgia, un sacchetto di carta bianca simile a quello che ho in tasca.

Le caramelle gommose. 

Il numero non è ancora finito quando l’uomo ti tira per un braccio e tu ti lasci trasportare via dal rettangolo.

La mia mente lavora in fretta, ma il mio corpo è più veloce. 

Con Frank non c’è mai stato bisogno di spiegazioni, così basta un’occhiata e lui sa che vengo a cercarti.

A cercare te.

A tornare da te. 

Mi guardo intorno con furia, preoccupato da dove tu possa essere, da cosa tu possa fare.

Poi vi vedo, seduti entrambi ad uno dei tavoli di legno scuro. 

Tu ascolti in silenzio, mastichi caramelle e annuisci ogni tanto.

Lui parla animatamente e gesticola, senza mai staccare gli occhi dai tuoi. 

So perfettamente quanto sia difficile farlo.

Sarebbe come cercare di venir fuori da un pozzo. O da un buco nero. 

Mi avvicino.

- Scusate.- dico educatamente, interrompendolo. 

Tu sembri sorpresa, e un po’ infastidita.

- Avrei bisogno di parlarti. 

- Non mi sembra il momento, George. C’è la festa.

- Lo so. – dico soltanto, e spero che basti. 

Mi guardi perplessa e per nulla convinta.

Ma resto immobile, e capisci che non scherzo.

- Torno subito.- avverti l’uomo, con un sorriso. 

Ci siamo allontanati già di qualche passo quando mi rendo conto di ciò che sta accadendo.

Mi rendo conto che se non dico le cose giuste, tutte le cose giuste, rimpiangerò questo momento per il resto della vita. 

Vorrei che potessi leggere nel mio pensiero 

Vorrei che potessi vederli, tutti i momenti di nostalgia, che percepissi le sensazioni al ricordo del tuo sorriso.

Vorrei che potessi capirlo da te quanto mi sei mancata, perché non immagini quanto sia difficile spiegarlo, facendo in modo da non tralasciare niente.

 - George? Cosa c’è?- mi chiedi ora, un po’ preoccupata, visto che mi sono fermato di scatto.

Alzo gli occhi nei tuoi, illuminati dalle luci che provengono dalla piazza. 

Riesco a distinguere perfettamente la confusione, anche al di sotto di quel ciuffo che continua a coprirli, sospinto dal vento.

- Ti prego, chiudi gli occhi un attimo. 

Corruga la fronte, ma non credi che ti stia prendendo gioco di te.

- D’accordo.- sussurri quasi. 

- Prova ad immaginare di avere una sola possibilità per fare qualcosa che non avresti mai pensato di poter fare. Immagina di aver aspettato quel momento per così tanto tempo, che cominciava a sembrarti soltanto un sogno, una pallida utopia. Ed ora sai di non poter sbagliare, perché è il momento perfetto. Perché hai aspettato dieci anni solo per quegli occhi che ora hai davanti. Quelli che hai deluso, e che ora non vorresti fare altro che rivederli illuminarsi, a contatto con i tuoi. Come glielo fai capire che ti sono mancati?

Il mio silenzio è scandito dal tamburo della banda, che fa da sottofondo allo spettacolo degli sbandieratori.

 Resto immobile.

Tu hai ancora gli occhi chiusi, e dalle increspature che sono nate sulle tue labbra so che trattieni le lacrime.

 E in un certo senso, lo spero.

 - Jane?- ti chiamo.

 Ed è così strano pronunciare il tuo nome ad alta voce, dopo tutte le volte soltanto a sognarlo, a pensarlo, a bisbigliarlo al buio.

 Apri gli occhi e noto che sono umidi.

 - È passato così tanto tempo… - dici, quasi come se cercassi una scusa.

 
Ehi, Jane, non ce n’è mica bisogno?

Siamo solo noi due, ricordi? 

Solo io e te.

 
- Lo so.

Poi cambia la tua espressione. Diventa vaga, insicura. 

- Mi ha fatto davvero piacere rivederti George, ma penso… penso che debba tornare alla festa per il momento. Ho… sono confusa.

E cos è un momento soltanto confrontato a dieci interi anni? 

Resto immobile quando mi passi accanto, portandoti via il tuo profumo.

- Non hai comunque risposto alla mia domanda.- le ricordo però. 

- Quale?

- Come glielo faresti capire?

- Se ho avuto così tanto tempo per pensare, qualcosa troverò. 

Sento il rumore di un tuo passo sull’erba. Poi il tuo incedere si blocca di nuovo.

- Lui è il mio editore. Io… sto scrivendo un libro. Te lo dico perché mi sei sembrato un po’… sconvolto. Temevo che la storia si ripetesse. 

Non parlo e questa volta i tuoi passi non si fermano più.

Temevo che la storia si ripetesse. 

Capisco subito cosa intendeva dire.

 

Quell’ultima sera passata da amici – se mai lo siamo stati - litigammo.

Ricordo perfettamente che m’innervosii per qualcuno che era troppo vicino a te. 

E così volevo portarti via, ma tu ti rifiutasti di seguirmi.

Ero così geloso che capii quanto in realtà pendevo dalle tue labbra in tutto e per tutto. 

E quanto mi desse fastidio che anche gli altri potessero farlo.

Che potessero capire ciò che capivo io di te, che in fondo il rapporto che avevamo potesse essere uguale a mille altri.

Lo è stato, Jane? L’hai mai reputato tale?

 

Ed ora la tua frase. Cosa intendevi dire?

 Temevi potesse ripetersi la mia ira?

 O i dubbi sull’esclusività del nostro rapporto?

 O su ciò che ne è derivato.
 
Non mi è piaciuta quella frase, sai?

 

Il vento si è levato prepotente.

Con violenza, portando granelli di terra fin nei miei occhi, li costringe a lacrimare.

 Vedo la mia casa da lontano – la casa della mia vita -  e provo un moto di sollievo.

 Tutto ciò che vorrei in questo momento è potermi stendere e trovare il familiare buio dietro le mie palpebre.

Ma so già che sarà più dura di quanto pensassi. 

Il rosso ricordo di te è più forte di qualsiasi cosa.
 

Le mie narici sono invase del profumo della mia infanzia.

Tolgo subito le scarpe, e mi dirigo senza esitazione verso la camera da letto. 

Mi sono appena appisolato che qualcosa mi sveglia.

Un rumore secco e deciso contro la finestra. 

L’impellente bisogno di te, mi fa vedere cose che non ci sono, e sentire rumori e sensazioni che…

Di nuovo, lo stesso rumore.

Sono costretto ad alzarmi ed è stupendo vederti sotto casa, china a cercare una pietra per terra, come facevi quando eri piccola e ti piaceva questo gioco di segreti e spie che facevamo.

 Mi fai battere il cuore talmente forte che ho paura possa rimetterci la vita.

 Ma non accade.

 Lui si calma, e mi permette di respirare regolarmente.

 Scendo con la sola velocità che mi possano permettere le mie gambe tremanti.

 Tu sei lì.

Tu sei qui.

- Jane…- ti richiamo, dal portico. 

Ti volti di scatto, quasi come fossi sorpresa di trovarmi lì.

- Oh…- esclami imbarazzata, ravviandoti i capelli scomposti dal vento – Sei sveglio…

 Ti rivolgo un sorriso affettuoso.

 Non era forse il tuo scopo?

 - Dai, vieni dentro, che c’è un vento pazzesco.

 - Sì, sì…- avanzi incerta, attenta a non rivolgermi mai il tuo sguardo.

 Entri in casa, e nel momento in cui chiudo la porta, un peso mi cade sul cuore, come un macigno.

 Ho paura, Jane.

 Dì qualcosa tu.

Perché non parli, continui a guardarti intorno, sospiri?

Perché c’è questo terribile silenzio?

Neanche il vento si sente più così bene.

Neanche lui vuole aiutarci.

Tocca a noi. 

Finalmente ti volti e scopro un sorriso sulle tue labbra, e la paura nei tuoi occhi.

Non sono mai stato bravo ad individuare stati d’animo da uno sguardo.

Ma il tuo non mi lascia dubbi.

Sei terrorizzata, ma punti ugualmente i tuoi occhi nei miei.

- Sai… ho pensato alla domanda che mi hai fatto prima e… penso che se fossi stata in te… sarei andata a cercarla, anche a costo di svegliarla a suon di pietre contro la finestra della sua camera da letto.- tenti una risata nervosa, che non ti riesce. 

Mi avvicino velocemente, senza pensare - senza darti la possibilità di pensare.
 

Ti bacio. 

Ed è come se non fosse passato un minuto da quando ti ho lasciato così tanto tempo fa.

Noi siamo rimasti così, anche se la vita è passata sotto i nostri piedi.

Il sole è cambiato, la terra è cambiata, i suoni e i colori sono cambiati. 

Noi no.

Come le lucciole.

 

Eccola. 

Ora riesco a sentirla.

La nostra musica. 

Ti tengo stretta, impaurito che tu possa fuggire - che io possa fuggire, di nuovo.

E la nostra danza, accompagna il vento che frusta il grano dei campi. 

E sono convinto che non mi stancherò mai del tuo viso dinnanzi al mio, così vicino, di nuovo, così perfetto, ancora, così incredibilmente bello. 

Così pieno di me.


 

Il vento si è calmato.

Fa caldo adesso sul portico in legno. 

Le lucciole non ci sono.

Non danzeranno più per noi, Jane. 

La loro magia si è fermata, perché sei tornata da me.

E sai una cosa?

È la prima volta, in tutta la vita, che sono felice di non vederle.

 

Okay, finita questa infinita canzone.
Un amore che non avrei mai creduto di poter raccontare.
Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta.
Una dedica speciale a Lei. So che ci sei.

   
 
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