III parte
La nostra
danza
Succedeva
spesso, sai.
Nei miei
sogni intendo.
Di
immaginare come sarebbe stato se fossi tornato a vivere qui.
I primi mesi
in città sono stati terribili e la capacità di
fantasticare sulla mia vita
quotidiana
qui, era principio di sollievo per me.
Ora che
mi sento parte di tutto quello che desideravo riesco a capire quanto mi
sia
mancato realmente.
Sono
cambiate tantissime cose, certo.
È
cambiato il semplice piacere di star seduti in compagnia a ridere,
sostituito
dalle mille preoccupazioni della vita odierna.
Sembra
tutto così superficiale, addirittura rumoroso, non pensi?
Passeggio
lentamente, attento a non perdermi nessun particolare, nessuna
sfumatura di
colore, con il sacchetto delle caramelle gommose che amavo – amavamo – tanto.
- George!
Ehi!- è Frank che mi fa segno di avvicinarsi al suo tavolo.
Ne sono
stati disposti una dozzina, in fila indiana.
Sono di
legno scuro e sopra una candela a forma di fiore funge anche da
anti-zanzare.
Solo
quando mi avvicino al tavolo riesco a riconoscere le persone sedute
intorno.
C’è
Mary, i tuoi genitori, Paul e Julia nostri ex compagni di scuola, che
si alzano
per salutarmi e farmi le condoglianze per mio padre.
Ma tu
non ci sei. E questo è quel che fa più male.
Non
voglio credere che ti sia persa la festa che amavi più di
ogni altra.
La
agognavi talmente che eravamo sempre i primi ad arrivare, prima ancora
del
proprietario delle giostre.
No, per
nulla al mondo saresti mancata.
Neanche
per me.
Per
questo sono confuso nel non vederti.
Senza
neanche che me ne accorga, mi ritrovo sazio di una bistecca alla brace,
cotta a
puntino.
- Mary
è
una gran cuoca!- sta dicendo Frank, facendo arrossire la moglie.- Non
è vero,
George
Lei gli
tira una sberla sul viso.
-Ah,
smettila di parlare a vanvera. Non potrei mai competere con uno chef.
-Un
quasi-chef- precisa.-
e scommetto che il vitello come lo fai tu, non sa neanche che sapore
abbia!-
afferma Frank e lei arrossisce ancora.
-
La bistecca era
buonissima.- dico, sorridendole.- Mi sa che Frank ha ragione! Mi
piacerebbe
assaggiare il tuo vitello…
-
Beh…s-sa-rebbe un
piacere…f-fartelo assaggiare…- dice, imbarazzata.
Poi
all’orecchio del
marito sento che sussurra: - Grazie.
Siamo
in fila,
stretti nel rettangolo che si è venuto a creare per lo
spettacolo delle
majorette che inizierà tra pochi minuti. Accanto al muro
è ferma la banda,
sempre in quel terribile abito tradizionale blu e giallo.
Mi
viene da ridere e
lo faccio, sperando un attimo dopo che tu faccia lo stesso, ovunque tu
sia.
Che
tu sia felice
quantomeno.
Ed
è in quel momento
che i miei occhi si poggiano su di te.
Hai
un bel sorriso, che ti illumina il volto, sei all’angolo
opposto del rettangolo e parli con un uomo di molto più
grande di te.
Le
caramelle gommose.
Il
numero non è ancora finito quando l’uomo ti tira
per un braccio
e tu ti lasci trasportare via dal rettangolo.
La
mia mente lavora in fretta, ma il mio corpo è più
veloce.
Con
Frank non c’è mai stato bisogno di spiegazioni,
così basta
un’occhiata e lui sa che vengo a cercarti.
A
tornare da te.
Mi
guardo intorno con furia, preoccupato da dove tu possa essere,
da cosa tu possa fare.
Poi
vi vedo, seduti entrambi ad uno dei tavoli di legno scuro.
Tu
ascolti in silenzio, mastichi caramelle e annuisci ogni tanto.
Lui
parla animatamente e gesticola, senza mai staccare gli occhi
dai tuoi.
So
perfettamente quanto sia difficile farlo.
Sarebbe
come cercare di venir fuori da un pozzo. O da un buco nero.
Mi
avvicino.
-
Scusate.- dico educatamente, interrompendolo.
Tu
sembri sorpresa, e un po’ infastidita.
-
Avrei bisogno di parlarti.
-
Non mi sembra il momento, George. C’è la festa.
-
Lo so. – dico soltanto, e spero che basti.
Mi
guardi perplessa e per nulla convinta.
Ma
resto immobile, e capisci che non scherzo.
-
Torno subito.- avverti l’uomo, con un sorriso.
Ci
siamo allontanati già di qualche passo quando mi rendo conto
di
ciò che sta accadendo.
Mi
rendo conto che se non dico le cose giuste, tutte le cose
giuste, rimpiangerò questo momento per il resto della vita.
Vorrei che potessi leggere nel mio pensiero
Vorrei
che potessi vederli, tutti i momenti di nostalgia, che
percepissi le sensazioni al ricordo del tuo sorriso.
Vorrei
che potessi capirlo da te quanto mi sei mancata, perché non
immagini quanto sia difficile spiegarlo, facendo in modo da non
tralasciare
niente.
Alzo
gli occhi nei tuoi, illuminati dalle luci che provengono
dalla piazza.
Riesco
a distinguere perfettamente la confusione, anche al di
sotto di quel ciuffo che continua a coprirli, sospinto dal vento.
-
Ti prego, chiudi gli occhi un attimo.
Corruga
la fronte, ma non credi che ti stia prendendo gioco di te.
-
D’accordo.- sussurri quasi.
-
Prova ad immaginare di avere una sola possibilità per fare
qualcosa che non avresti mai pensato di poter fare. Immagina di aver
aspettato
quel momento per così tanto tempo, che cominciava a
sembrarti soltanto un
sogno, una pallida utopia. Ed ora sai di non poter sbagliare,
perché è il
momento perfetto. Perché hai aspettato dieci anni solo per
quegli occhi che ora
hai davanti. Quelli che hai deluso, e che ora non vorresti fare altro
che rivederli
illuminarsi, a contatto con i tuoi. Come glielo fai capire che ti sono
mancati?
Il
mio silenzio è scandito dal tamburo della banda, che fa da
sottofondo allo spettacolo degli sbandieratori.
Siamo
solo noi due,
ricordi?
Solo
io e te.
Poi
cambia la tua espressione. Diventa vaga, insicura.
-
Mi ha fatto davvero piacere rivederti George, ma penso…
penso
che debba tornare alla festa per il momento. Ho… sono
confusa.
E
cos è un momento soltanto confrontato a dieci interi anni?
Resto
immobile quando mi passi accanto, portandoti via il tuo
profumo.
-
Non hai comunque risposto alla mia domanda.- le ricordo però.
-
Quale?
-
Come glielo faresti capire?
-
Se ho avuto così tanto tempo per pensare, qualcosa
troverò.
Sento
il rumore di un tuo passo sull’erba. Poi il tuo incedere si
blocca di nuovo.
-
Lui è il mio editore. Io… sto scrivendo un libro.
Te lo dico
perché mi sei sembrato un po’…
sconvolto. Temevo che la storia si ripetesse.
Non
parlo e questa volta i tuoi passi non si fermano più.
Temevo
che la storia
si ripetesse.
Capisco
subito cosa intendeva dire.
Quell’ultima
sera passata da amici – se mai lo siamo stati -
litigammo.
Ricordo
perfettamente che m’innervosii per qualcuno che era troppo
vicino a te.
E
così volevo portarti via, ma tu ti rifiutasti di seguirmi.
Ero
così geloso che capii quanto in realtà pendevo
dalle tue
labbra in tutto e per tutto.
E
quanto mi desse fastidio che anche gli altri potessero farlo.
Che
potessero capire ciò che capivo io di te, che in fondo il
rapporto che avevamo potesse essere uguale a mille altri.
Lo
è stato, Jane?
L’hai mai reputato tale?
Non mi è piaciuta quella frase, sai?
Il
vento si è levato prepotente.
Con
violenza, portando granelli di terra fin nei miei occhi, li
costringe a lacrimare.
Ma
so già che sarà più dura di quanto
pensassi.
Il
rosso ricordo di te è più forte di qualsiasi cosa.
Le mie narici sono invase del profumo della mia infanzia.
Tolgo
subito le scarpe, e mi dirigo senza esitazione verso la camera
da letto.
Mi
sono appena appisolato che qualcosa mi sveglia.
Un
rumore secco e deciso contro la finestra.
L’impellente
bisogno
di te, mi fa vedere cose che non ci sono, e sentire rumori e sensazioni
che…
Di
nuovo, lo stesso rumore.
Sono
costretto ad alzarmi ed è stupendo vederti sotto casa, china
a cercare una pietra per terra, come facevi quando eri piccola e ti
piaceva
questo gioco di segreti e spie che facevamo.
-
Jane…- ti richiamo, dal portico.
Ti
volti di scatto, quasi come fossi sorpresa di trovarmi lì.
-
Oh…- esclami imbarazzata, ravviandoti i capelli scomposti
dal
vento – Sei sveglio…
Perché
non
parli, continui a guardarti intorno, sospiri?
Neanche
il vento si sente più così bene.
Tocca a noi.
Finalmente
ti volti e scopro un sorriso sulle tue labbra, e la paura nei tuoi
occhi.
Ma il
tuo non mi lascia dubbi.
Mi avvicino
velocemente, senza pensare - senza darti
la possibilità di pensare.
Ti bacio.
Ed
è
come se non fosse passato un minuto da quando ti ho lasciato
così tanto tempo
fa.
Il sole
è cambiato, la terra è cambiata, i suoni e i
colori sono cambiati.
Noi no.
Come le
lucciole.
Eccola.
Ora riesco
a sentirla.
La nostra
musica.
Ti tengo
stretta, impaurito che tu possa fuggire - che
io possa fuggire, di nuovo.
E la
nostra danza, accompagna il vento che frusta il grano dei campi.
E sono
convinto che non mi stancherò mai del tuo viso dinnanzi al
mio, così vicino, di nuovo,
così perfetto, ancora,
così incredibilmente bello.
Così
pieno di me.
Il vento
si è calmato.
Fa caldo
adesso sul portico in legno.
Le lucciole
non ci sono.
Non
danzeranno
più per noi, Jane.
La loro
magia si è fermata, perché sei tornata da me.
E sai
una cosa?
È
la prima volta, in tutta la vita,
che sono felice di non vederle.
Okay,
finita questa infinita canzone.
Un amore che non avrei mai creduto di poter raccontare.
Ci ho
messo un po’, ma ce l’ho fatta.
Una dedica
speciale a Lei. So che ci sei.