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Autore: Aleena    11/03/2016    1 recensioni
C'è una strada che conduce alla libertà e una che porta alla morte,
Sono rosse, come le foglie d'Autunno. Come il sangue.
E io le sto seguendo entrambe.
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[Contest:
1a Classificata al contest "Sfumature d'amicizia" indetto da Red Wind e The_Grace_of_Undomiel
2a Classificata alcontest "Immaginazione e pacchetti CONTEST" indetto da halfblood22
3a Classificata al contest "ART TALK - Un contest olio su tela" indetto da ellie158
4a Classificata al contest "Momenti&Emozioni" indetto da DonnieTZ
7a Classificata al contest "Autumn winds" indetto da Chaotic Alaska e giudicato da DarkElf]
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IL SOGNO DELLA DONNA ROSSA



 

 

 

 
Capitolo II – Il Cimitero
  

 
  C'era una vaga foschia che aleggiava alle pendici dei primi alberi, serpeggiando. “Gli spettri delle foglie” la chiamavano un tempo le vecchie signore – e chiudevano le imposte, scuotendo il capo e raccomandando ai bambini di aspettare che si diradasse prima di andare a raccogliere funghi o castagne.
Erano tempi diversi, quelli. Più silenziosi, più antichi, più profumati e carichi di superstizione. Takrin li rimpiangeva con una forza che andava al di là di qualsiasi amore avesse mai provato.
Una parte di lei viveva ancora in quell'epoca appena precedente al conflitto, e sempre più spesso si trovava a vagare lì con la fantasia, sognando che un semaforo fosse un lampione dai vetri colorati e le auto solo carrozze. Allora chiudeva gli occhi e si domandava cosa la tenesse ancora lì, perché avesse scelto quella vita.
Era il viso tondo e sorridente di Astrea che rivedeva, allora. La sentiva ridere e cantare, la rivedeva seduta accanto a lei, i piedi penzoloni oltre una finestra che non esisteva più, nel vuoto che le separava dalla piazza. Chiacchieravano per ore di tutto e di nulla e Takrin si sentiva bene, anche se non poteva saperlo.
Non ancora.



  Crescere in un monastero condizionava la mente in modi che nessun devoto avrebbe mai compreso se non ne fosse uscito.
Takrin si alzava la mattina e cantava le lodi ai Cinque Aspetti della materia, tracciando stelle e simboli sacri nell'estasi del canto. Poi si vestiva, mangiava velocemente, si sciacquava volto e mani nel fiume e scendeva nel chiostro, dove le venivano impartiti i rudimenti dell'Arte. Poi pranzo, cena, bagno nel fiume e a dormire con le stelle. Avrebbe vissuto così tutta la vita se, una mattina, Astrea non le avesse proposto di accompagnarla al mercato.
Era più grande di lei di diciassette anni, Astrea – il che voleva dire che erano praticamente coetanee. Aveva una lista di piccoli animali che doveva procurarsi per rifornire i recinti del monastero e le serviva un aiuto. Takrin, con cui l’Elfa condivideva la camera da quando, meno di novant'anni prima, era fuggita dall'Underdark, aveva accettato di buon grado non appena aveva visto chi altro avrebbe fatto parte del gruppo.
Siryo era vicino al carro, intento a controllare le cinghie che tenevano legato il cavallo da tiro. L'elfo era quanto di più bello Takrin avesse mai visto, e Astrea era d'accordo: tante erano state le notti in cui avevano fantasticato su Siryo, immaginando gli amori e le avventure che ognuna di loro avrebbe vissuto con lui. Non c'era gelosia, non ancora: quelle sarebbe arrivata anni dopo.
Era stata una mattinata di una tranquillità che aveva del meraviglioso: avevano scherzato come solo vecchi amici sanno fare, scambiandosi battute e commenti maligni. Poi qualcosa aveva catturato lo sguardo di Takrin e la ragazza si era allontanata, abbandonando la mano di Siryo senza quasi accorgersene.
C'era un uomo che sedeva fra i cadaveri impalati di tre serpenti putrefatti, che esibivano alla luce del giorno l'osso bianco e spezzato che li aveva tenuti in vita. L'uomo agitava le mani e recitava una litania in una lingua che Takrin non aveva mai sentito, ma che trovava familiare in un modo sconcertante e disgustoso.
Si fece largo fra la folla assiepata fino alla prima fila e osservò, curiosa come non era mai stata. L'uomo terminò di recitare l'incantesimo e sparse sui rettili una polvere fine e maleodorante, che avvolse i cadaveri lentamente, come fosse dotata di vita propria. Questi presero a contorcersi immediatamente, sibilando furiosi e sputando goccioline di veleno.
La gente gridò, indignata, e Takrin si mosse in avanti, strappando senza accorgersene il pugnale che l'imprigionava dalla più vicina delle bestie, una serpe verde.
Quando le chiesero perché l'avesse fatto, rispose solamente che aveva avuto pena dell'animale; ma non era così e i Druidi lo capirono.
Il serpente, libero, si volse e attaccò la ragazza, che mise le mani davanti al volto per proteggerlo, offrendo il polso alla bestia. I canini che, gravidi di veleno, affondavano nella carne tenera furono un dolore che le frustate delle Matrone non avrebbero mai potuto eguagliare. Il veleno si diffuse, gelido e caldo a un tempo, attraverso le vene e fino al cuore, bruciandolo.
E mentre il serpente si avvolgeva attorno al braccio di Takrin, succhiando tutta la vita che gli occorreva per rigenerare il corpo morto, parte di quella nera fine che aveva incontrato contaminò l'anima della mezzadrow, cambiandola.



  L'aria era umida nella macchia, carica dell'odore di funghi e foglie muffite. Contorti scheletri di spini e bassi arbusti sorgevano dai cumuli di fogliame e humus come sentinelle che ammonissero i viaggiatori, mettendoli in guardia sui pericoli della boscaglia. Takrin non li degnava che di una misera occhiata, ben attenta a dove metteva i piedi: la stradina era diventata un sentiero sterrato, coperto di foglie umide e terra bagnata. Qua e là, dove qualche temerario aveva tentato di condurre un veicolo, c'erano piccole buche colme di acqua stagnante, che mantenevano umida la terra e la costringevano a camminare lungo il ciglio. Non c'era più altro rumore, ormai, che il cinguettare di qualche uccello e il crepitio del legno secco.
E, più oltre, il lamento nostalgico e armonico del vento.



  Una veste nera, da apprendista. Ancora una volta Takrin subiva il peso di non avere scelta.
Era nella Torre da ventisei anni, ormai, e sospettava che l'uomo che l'aveva condotta lì avesse commesso il più grave degli errori. Takrin non si sentiva in grado di operare la "magia grezza", quella forma di Arte che non richiedeva tramiti o amuleti, attingendo direttamente dalla forza vitale dell'incantatore che la evocava. Non era mai riuscita a richiamare nemmeno una stilla di acido, e quello era uno dei trucchi che insegnavano ai bambini.
Ai bambini, per gli dei!
Le avevano fatto credere di essere diversa... speciale! E lei, Takrin, aveva lasciato ogni cosa per seguirli in quel nero anfratto troppo simile all'Underdark, dove ogni cosa puzzava di fiori secchi ed erbe vecchie. Aveva abbandonato tutti quelli che conosceva, tutta la sua vita... e per cosa?
Siryo la disprezzava. Gliel'aveva detto quando, ad appena un anno dall'iniziazione, era riuscita a ottenere mezz'ora di libera uscita. "Sei la negazione di tutto ciò che è sacro, e lo accetti senza preoccupartene. Sputi sulle mani che ti hanno riportata alla vita e dici a te stessa che è la cosa giusta!" le aveva sussurrato, guardandola come se davanti a lui ci fosse qualcosa di oscenamente disgustoso.
Non che l'opinione comune fosse poi differente: il cittadino sputava ai piedi dei Necromanti, additandoli come ladri di cadaveri e profanatori di tombe. Che idioti! Come se la sua Arte fosse limitata a quello... ma si sa, gli esseri umani non vedono al di là di quello che il primo strillone gli urla in faccia!
Anche le altre genie non erano da meno: i pochi non-umani rimasti in città gestivano le scuole di Ars e i templi degli Dei Minori, e rinnegavano ogni legame con gli adepti della Torre Nera.
Siamo i reietti senza casta e dignità, pensava spesso Takrin. Senza amore. Come possiamo non amare l'odio?
Nella Torre non riportavano in vita i morti. Non usavano i cadaveri per oscuri riti agli Dei della notte o per mantenersi giovani e potenti nel tempo. 
Non così spesso, almeno. 
Semplicemente studiavano il buio e le forze sconosciute che dominavano la morte, cercando di plasmare la notte e l'aldilà, piegandole al loro volere. Takrin stessa aveva stillato gocce di veleno dalle vene nere che si estendevano, attraverso portali di tenebra, dalle oscure braccia della morte fino alle grandi sale in cima alla torre, dove nessuna luce era in grado di prevalere.
Non c'era nulla di malvagio in questo, era vero: ma l'esposizione a così tanto vuoto, a quel nulla gravido di presagi, era in grado di segnare chiunque. Persino Takrin, che non era stata molto più che un'assistente fino a quel momento.
Il ribrezzo per i luoghi sacri era il primo sintomo, quello per cui si diceva che i Necromanti fossero maledetti. Cominciava con un fastidio al petto, che diveniva oppressione quasi fisica e poi compressione alla testa e ai polmoni. Molti ne erano morti, finendo schiacciati dalla loro stessa tenebra.
Come spiegare al cittadino comune, magari umano, che tenebra e male non sono sinonimi? Come far capire che la luce è simbiotica alla vita, e l'oscurità alla morte? Impossibile.
Aveva provato a spiegarlo a Siryo e ad Astrea, ma non avevano capito. Le erano rimasti vicini, dapprima con il timore naturale che si ha verso chi abbandona un'idea comune, poi con quella familiarità distaccata che la lontananza bastava ampiamente a giustificare.
A Takrin stava bene. In effetti, quello che le importava era continuare ad avere una confidente... e a sperare che Siryo ingoiasse definitivamente l'orgoglio del quasi-Druido ferito e si accorgesse di lei, di come l'aveva sempre amato.



  Non ci furono brusche interruzioni nel panorama d'alberi spogli, o cambi di rotta repentini. Semplicemente la strada si allargò via via da un lato, dilatandosi come il rumore della risacca. L'odore della salsedine cominciò a emergere dall'umidità prima timidamente, poi con una prepotenza che solo l'oceano poteva avere – ma era ancora la terra, ancora il bosco a irretirla.
Poi la radura si aprì alla sua destra, e Takrin seppe di essere arrivata.



  «Mi ha detto che mi disprezza» disse Takrin con distacco, appoggiando il pesante bicchiere di vetro sul piano irregolare del tavolo.
«Siryo?» le chiese Astrea, per nulla spiazzata dal brusco cambio di argomento.
«Già.» Takrin aveva il volto segnato dalla stanchezza; le profonde occhiaie nere e una cera ancora più pallida del solito contribuivano ad amplificare il suo naturale colorito, rendendola quasi cadaverica, malaticcia. «Gli avevo detto che... che sentivo la sua mancanza. Che volevo... volevo... Lui mi ha detto che non riusciva a guardarmi più negli occhi. Ha detto che non credeva che... che sarei arrivata fino in fondo. Credeva che avrei rinunciato. Che non avrei accettato la carica di Maestra. Come poteva pensarlo?» Takrin aveva la voce rotta, quasi rantolante: sembrava sul punto di svenire, tanta era la fatica con cui le parole le uscivano dalla gola.
«Non riesce a capire come possiamo esserci allontanate tanto dalla via druidica. Anche con me ha tenuto il broncio, quando ho deciso che la mia strada era l'esercito» disse Astrea, osservando il volto dell'amica. I suoi occhi guizzavano veloci, squadrando ogni cosa nella stanza con la stessa rapida tenacia di un'animale in gabbia.
«Il broncio?» disse Takrin, abbassando la voce di un'ottava. Sibilava, tagliente come una lama. «Ci senti bene, Astrea? Sei ancora in grado di capire una frase o l’addestramento ti ha già atrofizzato il cervello? Mi. Odia. Non riesce a guardarmi in faccia. Credi che sia tenere il broncio, questo?»
«Non ti ha mai odiata, Takrin. Lui...»
«Mi ama, forse? Andiamo, sappiamo entrambe chi è che desiderava. Alle battute di quale delle due rideva. Chi ha scelto.»
«Non ho mai veramente avuto interesse per Siryo, e lo sai...» cominciò Astrea, sulla difensiva.
«Ah, ma questo non cambia nulla. Nulla! Lui vuole te, ha sempre voluto te! E ora mi punisce perché ho scelto la mia strada senza pensare a lui... a lui! Che non riesce nemmeno a guardarmi in faccia! Cosa ho che non va? Dimmelo!» il tono di Takrin si era abbassato ancora, indurendosi come ghiaccio. Ogni sua parola aveva lo scopo di ferire, e i bersagli erano Takrin stessa e Astrea. «Ho chiesto un bacio e una notte, non di più. Un bacio e una dannatissima notte, per gli Dei! E lui...»
«Se l’amore lo cerchi in un bacio o nel sesso ti sbagli, Takrin. È negli occhi. Perché gli occhi sono la prima cosa con cui l'hai trovato e l’ultima con cui ti vedrà. E i suoi occhi sono pieni d'amore e desiderio, quando si posano su di te.» disse Astrea, incapace di tacere oltre il segreto che conservava da anni.
«Che poeta che sei diventata nell'esercito» sibilò Takrin, beffarda. Batté perfino le mani, un suono vuoto e lugubre. «E comunque, che vorrebbe significare? Vorresti dire che sono cieca?»
«No, che non riesci a capire. Non gli hai dato possibilità, nessuna possibilità. Finché continuerai a credere a questo stupido triangolo, non avrai speranze.»
«Io credo nei fatti, non negli occhi, Astrea. E il fatto è questo.» Takrin scosse il capo e si alzò, rassettandosi la lunga giacca rosso fuoco che indossava sopra gli abiti civili. «È stato... beh, bello, immagino, parlare con te.»
«Vai già?» domandò Astrea, dispiaciuta.
«C'è una guerra che si avvicina, amica mia. Affila bene la tua lama, e comincia a pensare che padrone vuoi servire. Al prossimo anno.»



  Il cimitero era come lo ricordava: piccole lapidi mezzo corrose dalla salsedine e affondate nel terreno morbido segnavano la posizione in cui i corpi riposavano, coperti da un soffice strato di terra e fogliame.
Era un luogo antico, quello: molti dei nomi incisi nella pietra in lingue perdute erano spariti da tempo, così come i discendenti di quelle anime dimenticate. Il bosco lo circondava quasi per intero, nascondendolo al mondo, proteggendolo come una cosa preziosa.
Sbucando dagli alberi il sentiero tornava visibile, bianco e pulito come fosse stato appena calpestato – e in qualche modo così era, perché Takrin poteva vedere le anime che lo affollavano, passeggiando, cercandosi, chiacchierando.
Non era un luogo per vivi, quello, ma guardandosi intorno non lo si sarebbe mai potuto dire: il sole, sorgendo dal mare, filtrava attraverso i rami delle piante e illuminava ogni cosa con la sua luce chiara e sicura, mentre il rumore della risacca e il soffio melodico del vento davano un senso di sicurezza che, nel mondo di macchine e suonerie che Takrin si era lasciato alle spalle, difficilmente si poteva trovare. Nemmeno il baratro che separava il promontorio dall'oceano poteva spaventarla.
Takrin ricordava come fosse ieri la prima volta che aveva visto il mare. Era stato lì, in quello stesso cimitero, il giorno in cui avevano sepolto Siryo. Con gli occhi che si ostinavano a restare asciutti, Takrin si era allontanata dalla sacerdotessa e si era affacciata a guardare giù, verso l'acqua. L'aveva trovata bellissima e, nel tumulto ribollente dell'oceano tempestoso, aveva riacquistato un po' di pace e di distacco – quel che le serviva per affrontare lo sguardo carico di rabbia e dolore di Astrea.
Era stata l'ultima volta che si erano viste fuori dal campo di battaglia. L'ultima in cui si erano guardate sapendo esattamente cosa si agitava nell'animo dell'altra e provando pietà per quel dolore.
L'ultima, prima della sua morte.



  Takrin non sopportava i luoghi sacri, ma per lui avrebbe sofferto mille volte quella pena.
La cerimonia era stata veloce: dodici anime erano state legate al piccolo terreno, e dodici volte tante attendevano al limite del bosco che i carri venissero a ritirare i loro corpi per portarli all'ultima dimora.
Takrin li aveva visti fermi lungo la strada come sentinelle dolenti, intenti a cantare i loro stessi inni funebri in decine di lingue. Li aveva salutati e loro avevano fatto altrettanto, augurandole buona fortuna. Non c'era nessuna ostilità che sopravvivesse alla morte. Takrin lo trovava meraviglioso e confortane insieme: era la parte più bella dell'aver sviluppato quel dono – la capacità di comunicare con le anime dei caduti.
Siryo non era stato fra loro, né Takrin l'aveva ritrovato al cimitero: sembrava che la evitasse. 
Non aveva mai più visto l'elfo da quell'ultima notte. Sospettava che stesse nascondendosi in qualche luogo lontano, o che avesse trovato il modo di raggiungere quel paradiso in cui lo attendevano i suoi dei. La ragazza non poteva biasimarlo: l'aveva vista lottare all'ultimo sangue con la donna che amava e colpirla ripetutamente, senza alcun briciolo di pietà o rimorso, e quell'immagine era stata l'ultima che i suoi occhi avevano registrato prima che un incantesimo lo colpisse in pieno petto, dilaniandolo.
Non gliel'avrebbe mai perdonato, Takrin lo sapeva.
Nemmeno Astrea c’era e questa era stata la sorpresa più grande: Takrin pensava che nulla al mondo l'avrebbe fatta mancare al funerale dell'Elfo che l'aveva amata così tanto. Dunque perché non era lì?



  Si era fermata davanti alla lapide di Siryo, a rendere omaggio. Nonostante i dissapori sapeva che lui l'avrebbe apprezzato, dovunque fosse.
La lapide dell'Elfo era scheggiata alla base, dove qualcosa di pesante l'aveva colpita. C'era scritto il suo nome completo e l'elenco dei titoli di cui, in vita, si era fatto vanto. Takrin non degnò loro nemmeno di un'occhiata: si avvicinò alla pietra con uno svolazzo della lunga giacca rossa e si accucciò, spostando qualche foglia mezza marcia e un piccolo fungo bianco dalla base, indirizzando un pensiero antico a colui che aveva sempre amato.

 

  «Avevi deciso tu per la guerra, vero?» domandò Astrea con voce bassa. Le era arrivata alle spalle senza che Takrin se ne rendesse conto, ma questo non la colpì poi molto: non era difficile farsi sorprendere da qualcuno che ormai viveva su un piano diverso dal proprio.
«Si.»
«L'hai fatto per Siryo.» Non era una domanda e Takrin non si sforzò di negare – non ne sarebbe valsa più la pena.
«L'ho fatto per te. O meglio, a causa tua. Non avresti dovuto sfidarmi» disse Takrin con distacco, osservando il mare come ipnotizzata – il suo odore la catturava, trasportandola lontano da quel dolore... da ogni dolore.
«Volevo solo la pace!» protestò Astrea a voce troppo alta. Qualcuno, fra gli uomini che assistevano al rito funebre, si voltò a guardarle.
«E io volevo il mio potere... e Siryo» disse con rammarico Takrin, avvolgendosi nella giacca vermiglia. Faceva freddo, lì... un freddo mortale – e lei sapeva il perché di quel gelo e del loro incontro.
Era Samhain e Astrea doveva sapere che in quella notte, secondo le antiche credenze druidiche, gli spiriti dei defunti erano slegati dalle costrizioni delle ossa nella bara e potevano vagare liberamente per la terra. Per questo era lì.
«Lui ti ha sempre amata» disse Astrea, stancamente, avvolgendola con le braccia gelide.
«Tornerai qui l'anno prossimo?» le domandò Takrin dopo un po', slegandosi dall'abbraccio.
«Se ci sarai» le disse Astrea, sorridendo tristemente.

 

  «Ancora qui?» disse una voce divertita alla sua destra. Takrin non si voltò immediatamente: finì di mormorare una preghiera troppo simile a delle scuse e poi si spostò, lasciando tacitamente il posto all'amica. Non parlarono mentre Astrea rendeva omaggio: quello era uno di quei momenti in cui anche un sussurro avrebbe potuto dividerle per sempre.
Si alzarono quasi all'unisono e passeggiarono.
«Come hai passato questo anno?» chiese Astrea e Takrin alzò le spalle, attaccando a raccontare di quanto odiasse il mondo che c'era là fuori e invidiasse gli spettri del cimitero. Una tiritera vecchia, l'antico adagio che ogni anno si ripeteva, immutato. Astrea sorrise tristemente e scosse il capo, ma non replicò. Non lo faceva mai.
«E tu?» domandò Takrin, rallentando il passo. L'amica si adeguò alla sua andatura e, con la naturalezza di un copione già recitato, le disse che la sua vita non era poi granché. Che si sentiva bloccata, sola e dispersa, incapace di andare avanti. Non aggiunse altro, perché erano arrivate alla piccola lapide che era la loro destinazione. 
Fu a quel punto che entrambe cominciarono a rilassarsi, quasi si fossero tolte un gran peso dalle spalle.
Senza che nulla potesse impedirglielo, entrambe iniziarono a ricordare.
Takrin aveva lo sguardo lontano, perso fra le foglie e i pensieri. Astrea sapeva che, nonostante la calma e la forza che amava ostentare, dentro di lei si agitava lo stesso tumulto che gravava sulla sua anima – un misto di vuoto e rassegnazione, e la malinconia che solo in un cimitero si può davvero provare. Eppure lì erano libere, due anime nude e fiere che non avevano timore di parlare di tutto e di nulla. E così fecero mentre, intorno a loro, sulla terra calava una lenta oscurità.

 

  Takrin non avrebbe saputo dire quante ferite fossero state aperte nella sua carne, tanta era l'adrenalina, l'odio e la pena che le scorrevano nelle vene. Poteva valutare l'entità dei danni riportati solo attraverso il sangue che vedeva scorrere dai tagli sul corpo di Astrea.
Era stato un combattimento alla pari, nel corso del quale entrambe avevano lottato come se dall'esito dello scontro dipendesse l'esistenza stessa del loro credo. La loro morale.
Ora erano allo stremo, le membra schiacciate dallo stesso sfinimento. Come due riflessi gemelli allo specchio colpivano e paravano, cadevano e si rialzavano, stringendo i denti.
Una sola di loro era però vicina alla resa ed entrambe ne erano consce. L'esito dello scontro, della battaglia, dell'intero mondo era già stato deciso, e ben presto colei che apparteneva al passato sarebbe caduta.
Astrea scivolò al suolo, incapace di reagire. Le membra, ancora scosse dalla vibrazione dell'ultimo colpo, tremavano violentemente, annaspando lungo la pelle esangue di Takrin – che la sovrastava, stringendo fra le mani coperte di sangue i suoi vestiti, aggrappandovisi come fossero l'unica ancora di salvezza in mezzo al caos della battaglia.
«Abbiamo perso» disse Astrea in un rantolo fievole.
«I tuoi amici hanno ucciso i mei» ribatté Takrin, scivolando in avanti.
«No... noi. Noi non umani. Noi tutti abbiamo perso.» Ora Astrea e l'amica avevano il volto a meno di dieci centimetri l'una dall'altra.
«Già» disse Takrin, annuendo. In mezzo a tutta quella morte, a un passo dalla più grande perdita che avesse mai subito, tutto le sembrava più chiaro, più vero.
Più inutile.
«Takrin io... non voglio lasciarti.» disse Astrea, tossendo. Gocce di sangue le imperlavano la fronte, così simili a gioielli alla luce del tramonto.
«Va tutto bene» le disse Takrin, sforzandosi di sorridere. Nulla andava bene, ma alcune bugie andavano dette. Sopratutto alla fine. «Non ti lascerò sola» disse, senza riflettere.
«Non fare promesse che non... che non puoi mantenere» l'ammonì Astrea con un sorriso furbo. Sangue fresco le colava fra le mani, scivolando lungo il metallo della spada per metà infilata in quel corpo ancora acerbo. Astrea avrebbe voluto trattenerlo, arrestare quella morte che le avrebbe divise per sempre, ma non poteva. Era stanca, troppo stanca.
«Guardami, hey, guardami! Noi ci vedremo, mi hai capito? Samhain, ricordati Samhain! Ci vedremo dove... dove poggeranno il corpo» la voce di Takrin era rotta, adesso. Mille schegge di vetro, cariche di un dolore che era tutt'uno con la morte, la ferivano. Intimò «Resisti, per gli dei!» e poi crollò a terra, piangendo come mai aveva fatto in vita sua. «Fra un anno ancora, amica mia. Fra un anno...»
Ma nessuno più poteva sentirla, ora.

 

  «Ci vediamo l'anno prossimo, amica mia» disse Astrea con un mezzo sorriso, carico in egual misura di tristezza e speranza.
«Già. Il prossimo anno...» disse Takrin, senza muoversi. Pareva riluttante ad abbandonare quel luogo – ma la notte stava per calare e il loro tempo era finito. Non era giunto il suo momento di riposare lì. Non ancora.
«Non puoi restare, Takrin» disse Astrea con quella dolcezza che l'aveva sempre contraddistinta, allungando la mano per afferrare la giacca rossa dell'altra.
Non poté farlo: il loro attimo era agli sgoccioli e già la sua figura cominciava a svanire.
«Mi cercherai?»
«Finché sarò...» disse Astrea, ma non riuscì a finire la frase: il velo sottile del tempo, che per quell'intera giornata le aveva unite, cominciava a ispessirsi.
Il bosco era silenzioso ora. Nessuna anima sussurrava più: tutti erano tornati alle loro dimore, a piangere la vita perduta. Persino il vento era calato.
Sorse la luna e Takrin si alzò. «Non è ancora il mio tempo» disse, con un sospiro rassegnato e si voltò a osservare la tomba.
C'era un ultimo omaggio che avrebbe dovuto rendere. Col cuore gonfio di angoscia, portò la mano al volto e poi al petto, allungandola infine verso la pietra tombale. Così protesa, assurdamente simile a un innamorato che tenda un fiore verso la sua amata, si chinò in ginocchio e toccò le parole incise nella pietra, vecchie e sbiadite dai secoli. 
«Al prossimo anno» disse, poi si alzò e se ne andò, svanendo ben presto nella tetra oscurità della notte, lasciando dietro di sé una pietra tombale fredda che segnava il luogo in cui le ossa non avevano mai riposato.
Le foglie rosse si mossero al vento, ricoprendo le impronte lasciate sul suolo morbido. La coltre dell'autunno si stese sulla terra senza corpo e, per un attimo, ricoprì l'incisione scavata dal tempo, scivolandovi sopra come una carezza di fuoco e morte, come una promessa.
Quando infine i raggi della luna bagnarono il cimitero, c'era un velo di condensa a illuminare le due sole parole:

 
 

 
Piccolo spazio-me: bene, eccoci alla fine. Spero che questa nuova versione sia migliore della precedente, priva di tutte quelle incongruenze e più fluida :) 
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vi piacerebbe vederla diventare una long (incentrata sul periodo precedente alla morte di Takrin, ovviamente).
Alla prossima!
 
Mi trovate anche qui > RELEESHAHN
 
Credits: MilyKnight - Las-t - Kyoux (fateci un salto, ne vale la pena!)
 
  
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