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Autore: __Armageddon__    26/03/2016    1 recensioni
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La presidente mi osserva, mi scruta con calma e cerca di leggermi l'anima con i suoi occhi di un colore che io stesso non sarei in grado di riprodurre su nessuna mia tela.
«Voglio sapere da che parte sta!» sibila. I gomiti poggiati sul tavolo di ferro, le mani strette come se stesse pregando, ogni tanto se le sfrega, quasi sentisse freddo.
«Lei è consapevole del fatto che tutti i suoi... “compari”... sono dietro quel vetro,assistendo così al suo mutismo?» chiede,pronunciando la parola “compari” in modo tagliente,quasi le facesse ribrezzo.
«RISPONDA!» grida esasperata e furente, battendo le mani sul tavolo con impeto e sporgendosi in avanti,come se volesse spaventarmi. Poi si blocca, osserva per un nano secondo lo specchio posto al fianco del tavolo, conscia di non essere sola, realizzando di avere gli occhi di tutti i miei amici puntati sul suo profilo.
Si risiede nella seggiola e si mette alcune ciocche di capelli dietro l'orecchio.
«Voglio sapere da che parte sta,Mellark.» sospira,con finta tranquillità.
«Avevamo un patto!» affermo inquieto.
«Lo so bene.» risponde lei, flemmatica.
«E allora perché Katniss è ancora a Capitol City, da Snow?!» sibilo a denti stretti, adirato.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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L'amore è quella cosa che ci fa sorridere quando siamo stanchi.”- Tommaso, 4 anni.





Mancavano pochi minuti alle 9 del mattino ed io ero diretto alla fatidica “Sala 34”. Riuscii a capire, grazie a dei ragazzi, che a quanto pare lì dentro si svolgeva una sorta di attività di gruppo per i giovani ed io , ovviamente, non avevo voglia di parteciparvi, ma dovevo e poi, ad essere onesti, non volevo farmi consumare dalla monotonia delle mie giornate.
Camminavo a capo chino con le mani in tasca e quando alzai lo sguardo vidi Boogs venirmi incontro con un sorriso mesto sulle labbra.
«Peeta, la Coin ti vuole al comando.» disse deciso, ed io senza aggiungere nient'altro annuii e lo seguii dalla presidente.
Non dissi nulla al comandante dentro l'ascensore, il mio sguardo era rivolto verso il basso. Contemplavo i miei scarponi color topo; il doppio nodo che avevo fatto alle stringhe anch'esse grigie mentre la mia mente andava piano piano in un'altra dimensione; il colore delle mie scarpe mi ricordava tanto quello che aveva il suolo del mio distretto, il colore della cenere. Avrei tanto voluto dimenticare la visione della mia vecchia vita andata in pezzi.
Vorrei non aver dovuto subire tutto questo.
Boogs aprì le porte dell'ascensore ed io, senza proferire parola, camminai lentamente verso le porte della stanza dove mi aspettava Alma Coin.
Più accorciavo le distanze più dentro di me si ponevano domande, quesiti alla quale nessuno aveva mai dato voce. Neppure io, fino ad allora.
«Come avete fatto?» chiesi a qualche metro di distanza dalla porta che ci separava dalla Presidente.
Avevo lo sguardo fisso in avanti e quando mi voltai notai Boogs che mi fissava con le sopracciglia aggrottate.
«A sopravvivere...Come avete fatto a sopravvivere? Pensavo non fosse rimasto nulla del 13.» precisai senza mai guardarlo negli occhi.
«Siamo soldati. Abbiamo imparato a vivere sottoterra, allenandoci in ogni istante della nostra vita. Per noi la guerra non è mai finita.» rispose, a pugni stretti, l'uomo accanto a me.
Con un cenno del capo mi intimò di continuare a camminare per quei pochi metri che ci separavano dalla sala riunioni poi poggiò una mano sulla maniglia e, con un sorriso divertito, mi ridisse la sua solita frase: «mantieni la calma!»
Gli sorrisi di rimando e, dopo aver preso un respiro profondo, gli diedi il consenso per aprire la porta.
La presidente era seduta su una seggiola di fianco a Plutarch Heavensbee. Quando mi vide entrare si alzò in fretta venendomi incontro, posò le sue mani sulle mie spalle e le strinse un po', quasi volesse darmi forza.
«Voglio che tu sappia che tutti noi ti siamo vicini! Capiamo quanto per te possa essere stata difficile questa situazione!» disse amorevolmente guardandomi dritto negli occhi, poi mi fece accomodare su una sedia mentre lei riprese il suo posto accanto a Heavensbee che scriveva senza sosta su un libretto nero.
«Immagino che tu abbia finalmente capito che il nostro è un nemico comune e spero che, dopo la visita al tuo distretto, tu possa comprendere la mia preoccupazione nei tuoi riguardi! Temevo che i giochi ti avessero distrutto; che non avresti retto il colpo, che la portata della notizia ti avrebbe devastato!» mi spiegò la presidente ed io la osservai pazientemente; i suoi occhi erano di un colore indefinito, le sue mani erano strette in preghiera sopra al tavolo in ferro.
«Per questo volevo, anzi volevamo, proporti...» iniziò prendendo aria nei polmoni e guardando fugacemente il primo stratega al suo fianco che annuì impercettibilmente in sua direzione per poi continuare a scrivere sul suo taccuino nero, ma la mia attenzione era completamente rivolta alla presidente. 
«.. O meglio chiedere, se tu volessi andare a delle sedute private dal Dottor Aurelius. C'erano anche delle attività di gruppo giovanili, ma per te abbiamo in mente solo degli incontri privati; così avreste più tempo a disposizione e, essendoci solo voi due in studio, tutelerai anche la tua privacy!» continuò Alma, sorridendomi benevola e se non fosse stato per i suoi primi approcci verso la mia persona le avrei anche creduto, avrei preso per vero quel suo sorriso e quella sua premura nei miei confronti. Ma non le credevo più. Quell'espressione strideva sul viso della donna che mi stava di fronte. Non poteva esistere amore in una persona così fredda, per lei ero solo una risorsa.
«Di che genere di sedute stiamo parlando?» chiesi veramente curioso.
«E' uno psicologo, Peeta.» concluse lo stratega senza troppi preamboli, guadagnandosi un'occhiataccia da parte della presidente per la sua troppa fretta e per il poco tatto.
«Uno... Psicologo..?» chiesi allibito.
«Si. Temiamo che tutto questo stress accumulato possa avere ripercussioni sulla tua psiche. So' e capisco che per te può sembrare... Come dire... Una “cosa” negativa, ecco, ma in realtà devi capire che queste attività potrebbero esserti d'aiuto per mettere in ordine i tuoi pensieri.» continuò Plutarch in modo neutro, come se una conversazione di questo genere fosse del tutto naturale. Gesticolava con la penna fra le dita e,di tanto in tanto, si accarezzava con la mano libera le guance paffute prive di barba.
«Rifletti attentamente sulla nostra proposta, hai tutto il tempo che ti occorre e poi, quando avrai ponderato necessariamente sulla nostra offerta, ci darai il tuo verdetto.» concluse l'uomo, le labbra strette in una linea sottile e le mani bene aperte sul tavolo.
Annuii alle loro parole e mi levai dalla sedia, seguito dai due presenti, strinsi la mano alla Presidente e al suo vice per poi uscire fuori da quella stanza senza mai guardarmi indietro.
Non feci molte cose durante la giornata. Restai in camera mia a dipingere; stesi le tempere con le dita riempendo le tele di colori. Mamma non me lo permetteva quando ero piccolo perché diceva che avrei sporcato tutto e, se sporcavo, me le prendevo. Quindi non lo facevo mai, non volevo tornare a scuola con i bernoccoli o con i lividi. Non avevo più bugie da raccontare ai maestri e, successivamente, ai professori che con il tempo smisero di credere alle fandonie stupide che raccontavo loro.
Papà restava sempre immobile mentre la mamma mi strillava contro. L'odio di mia madre, verso di me, era così ben radicato da essere difficile da estirpare. Certo, da bambino, avevo provato a farmi amare, ma non c'ero mai riuscito più di tanto.
Con le dita tracciai delle linee rosse. Rosso come il fuoco, le fiamme che avevano divorato il mio distretto e, con la mente, ripercorsi quelle strade, quelle vie.
Rosso come il sangue che mi era uscito dal labbro quando mia madre mi aveva tirato uno schiaffo sulla bocca, il sapore ferroso che avevo avvertito sulla lingua e gli occhi che mi si erano riempiti di lacrime.
Mi odiava davvero tanto mia madre, un odio viscerale che la spingeva a malmenarmi senza una reale motivazione. Rye e Ross erano l'incarnazione della perfezione mentre io ero solo uno dei tanti errori commessi per uno strano scherzo del destino.
Mia madre mi detestava perché mio padre, Darrell Mellark, le aveva rivelato solo quando era in mia dolce attesa che aveva amato per anni un'altra donna, ma che quest'ultima l'aveva rifiutato perché innamorata a sua volta di un altro uomo.
Mio padre rimase di sasso quando quella giovane donna gli diede il ben servito, rifiutando così ad una vita agiata per un ragazzo che non possedeva nulla che non fossero le sue mani sporche del carbone delle miniere.
Mio papà mi parlò per anni di quella donna bionda dagli occhi azzurri che aveva rinunciato alle ricchezze della sua famiglia per sposare un uomo dai capelli corvini e dagli occhi grigi come il cielo d'ottobre.
Ogni volta che il mio babbo mi raccontava, di nascosto, la sua storia d'amore tormentata non vi si presentava mai come protagonista della vicenda ed io, essendo stato all'epoca solo un bambino pieno di sogni, ammiravo il personaggio principale del suo racconto perché aveva lasciato andare quella donna solo per donarle una felicità che lui non avrebbe mai potuto darle.
Con il tempo, però, capii che quella storiella che mio padre mi narrava di tanto in tanto per farmi prendere sonno la notte era la sua storia. Il racconto del suo amore non corrisposto e, con il passare degli anni, venni a conoscenza del fatto che la donna dagli occhi azzurri che mio padre tanto amava non era che Beth, la figlia del farmacista, che inspiegabilmente si era innamorata di James, per gli amici Jimmy, Everdeen un uomo del giacimento: un minatore.
La figlia del farmacista venne ripudiata dalla propria famiglia per quell'amore proibito e Darrell Mellark osservò per anni la Bionda mentre passeggiava mano nella mano con una bambina dalla pelle olivastra, dai capelli color ebano e dagli occhi grigi così diversi da quelli di Beth, ma al contempo così simili a quelli del marito Jimmy, poi, un'altra bambina venne affiancata alla mora e quest'ultima, a differenza dell'altra, era uguale alla madre: la pelle era molto più chiara della primogenita, i capelli erano biondi e gli occhi erano azzurri.
Mio padre osservò per una vita intera Elizabeth Everdeen. La salutava appena, eppure l'amava; Dio se l'amava. E mia madre venne a conoscenza dei veri sentimenti di mio padre quando era incinta dell'ultimo discendente della famiglia Mellark, ovvero: me.
Io ero la rivelazione che tutto quello che c'era stato tra i miei genitori era solo una bugia. Tutti i “ti amo” di mio papà non erano mai stati reali e la colpa di tutto ciò venne affibbiata solo a me. E ormai era troppo tardi per abortire quindi Adeline Mellark fece la cosa che le venne più semplice fare: mi odiò quando ancora mi portava in grembo; mentre mio padre, a differenza sua, mi amava silenziosamente, anche più di quello che provava verso i miei fratelli, ma comunque taceva quando mia madre mi insultava. Non poteva fare nulla per difendermi perché era consapevole del fatto che la colpa, infondo, era sua. E immaginai spesso quanto mio padre sognasse di poter dire che io ero il frutto dell'amore tra lui e Beth, ma ogni volta la bolla di sapone in cui si rifugiava esplodeva grazie alle urla che mi lanciava mia madre contro oppure quando gli strillava in faccia quanto fosse bugiardo.
Adeline mi detestava anche perché somigliavo molto a mio padre, sia fisicamente che caratterialmente e sopratutto perché, a mia volta, ero follemente innamorato di Katniss che lei disprezzava per la sua povertà e, principalmente, per la madre da cui era stata messa al mondo; Beth.
Nessun vero Mellark sarebbe appartenuto per davvero ad Adeline.
Mi ridestai dai miei pensieri solo per la porta che si aprì di scatto, avevo le mani ferme a mezz'aria perché sporche di tempera. La tela era stracolma di colori e Johanna mi fissava, immobile sulla soglia della stanza.
«Salve Panettiere!» esordì Jo con un sorriso sghembo mentre mi si avvicinava per osservare la mia “creazione”.
«Dovrei cominciare a chiamarti “Falegname”, Johanna ?» le chiesi piccato e divertito contemporaneamente.
«Non mi interesserebbe comunque Peeta, lo sai!» rispose facendomi la linguaccia poi, come suo solito, si chiuse in bagno e cominciò a gridarmi quello che aveva fatto durante la sua giornata mentre si faceva la doccia ed io l'ascoltai senza tralasciare una virgola poi, finalmente, uscì e mi chiese cosa avessi fatto io a mia volta per tutto il giorno. Avrei voluto mentirle, dirle che avevo svolto i compiti giornalieri, che era stata una giornata ricca di avvenimenti, ma non lo feci. Le raccontai la pura e sana verità.
«Mi hanno chiamato al comando stamani.» la informai continuando a fissare i colori amalgamati sulla tela, lo sguardo di Johanna era fisso su di me ed io, nonostante ciò, finsi di non sentirmi trapassare le membra dai suoi occhi color nocciola.
«Vogliono che io vada da uno psicologo...» sbuffai.
«In pratica ti vogliono tenere d'occhio. Ancora non sanno che sei schizofrenico!» mi interruppe lei ridendo ed io annuii alla sua affermazione facendole una pernacchia.
Lei rise e poco dopo si sedette stoicamente sul letto. Era di fronte a me con le gambe incrociate, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa poggiata sulle mani.
«Non ci avevo pensato.» ammisi riferendomi alla sua prima affermazione.
«Mi pare evidente, vogliono capire se hai tutte le rotelle al posto giusto! Insomma: il distretto, i tuoi familiari, Katniss. So che è difficile da assimilare, ma loro devono vedere se sei in grado di aiutarli per davvero oppure se recuperando te, al posto della Ghiandaia, hanno commesso un'errore.» continuò la mia compagna di stanza contando tutti quegli avvenimenti con le dita ed io non osai obbiettare.
«Tu sei il loro catalizzatore, Peeta...» ammise sospirando mentre si grattava la testa.
«Mi sembra che tutti qui vogliano mettermi alla prova!» dissi in un sospiro e la mia confessione le fece abbassare il capo, lo pensava anche lei.
«Non so cosa fare, Jo! A volte mi chiedo se dimostrando di non essere adatto per questo ruolo correrebbero a recuperare gli altri vincitori... Poi, però, mi rendo conto che non potrebbero fare niente e mi arrendo al fatto che loro hanno scelto me. ».
«Neanch'io saprei cosa fare al tuo posto, Peeta... Forse dovresti semplicemente accettare la loro proposta e vedere come procede, come se fossi tu a metterli alla prova.» ipotizzò la mia amica. Annuii alle sue parole, forse aveva ragione, ma detestavo il fatto che tutti volessero mettermi sotto esame; mi infastidiva.
«Cosa sperano di ottenere?» chiesi retoricamente, la mia voce era un misto tra la rabbia e la curiosità.
«Lo sanno tutti Peeta! Tutti sanno cosa vogliono ottenere, ma adesso cerca anche tu di metterti nei loro panni!» non avevo mai visto Johanna spiegarmi le cose con calma di solito mi sbraitava contro, eppure adesso era stranamente tranquilla e capii la conversazione era seria perché continuava a chiamarmi per nome, forse non voleva farmi agitare ed io strinsi i pugni per non farlo, ma ogni flebile tentativo fu vano.
«Vuoi anche tu che vada da uno psichiatra per accertarti del fatto che sono mentalmente instabile, Johanna ?» le chiesi, ma il mio tono pacato stonava con la rabbia che trasmetteva il mio sguardo e che mi stava montando nelle vene. Perché nessuno riusciva a capire che volevo essere lascito in pace? 
«E' uno psicologo Peeta! Il mondo intero sa che tra psicologo e psichiatra c'è una differenza sottile, ma basilare.» mi rispose Johanna con il suo fare da saputella, ignorando volutamente la mia domanda.
Sbuffai in risposta, ma più che uno sbuffo mi sembrò un ringhio animalesco così le diedi la schiena e andai in bagno a lavarmi le mani sporche e utilizzai quella scusa per di cercare sbollire un po'.
Fissavo le mie mani che si ripulivano dalle tempere che mi si erano incrostate sulla pelle e, poco dopo, mi imbambolai con il vortice di colori che finivano nello scarico. Quando finii di asciugarmi le mani alzai l0 sguardo sullo specchio e ci vidi Johanna riflessa, poggiata contro lo stipite della porta. Finsi di ignorarla, ma non lo feci mai.
«Peeta, non ti sto contestando. Se potessi premere un pulsante e uccidere ogni essere vivente che sta dalla parte di Capitol City, lo farei, senza esitare! La domanda è: cosa farai tu?». Disse lei con fare esausto, strofinandosi gli occhi con le dita.
A conti fatti, era la domanda che aveva continuato a rodermi per tutto questo tempo e aveva sempre avuto una sola risposta possibile.
Cosa avrei fatto?
Respirai a fondo. Le mie braccia si sollevarono leggermente poi tornano lungo i fianchi.
Johanna mi fissò allungo poi si allontanò dallo stipite dicendomi di riflettere per bene sulla mia possibile decisione e poi uscì dalla stanza per andare a prelevare i vassoi del pranzo.
Rimasi da solo, solo con i miei dubbi.
«Cosa farò?», sussurrai alle pareti della stanza. Perché davvero non lo sapevo.
Quando Johanna ritornò consumammo il pranzo in un silenzio profondo. Le domande ed i dubbi  fluttuavano nell'aria mentre consumavamo i nostri pasti e le nostre menti ci riportavano a chissà quale periodo.
Finito il rancio uscii dalla camera senza fiatare e mi diressi verso l'ufficio della presidente. Forse avrei preso la decisione sbagliata oppure, la mia, sarebbe stata la scelta giusta.
Quando arrivai a destinazione bussai alla porta e solo quando mi diedero libero accesso varcai la soglia.
«Peeta, non pensavo di rivederti così presto! Dimmi pure.» disse Alma con un sorriso che pareva tutto tranne che sincero.
«Vorrei chiederle se è possibile incontrare il Dr. Aurelius, oggi stesso.» chiesi, la presidente mi sorrise poi andò incontro alla sua scrivania aprì qualche cassetto, controllò qualche scartoffia e infine mi informò che se avessi voluto dalle 15 in punto il Dottore avrebbe avuto la giornata libera ed io accettai di incontrarlo per l'orario stabilito.
Mancavano pochi minuti al mio incontro con lo psicologo. Ricordo che ero particolarmente ansioso. Un'ansia che difficilmente si dimentica.
Quando scoccarono le 15 bussai contro la porta in mogano che aveva attaccata una targhetta dorata con su scritto: “Dr. Magnus Aurelius”.
Non appena entrai nell'ufficio vidi un uomo che mi abbozzava un sorriso sincero. Non sarà stato molto vecchio, avrà avuto sui cinquant'anni. I capelli erano brizzolati e un pizzetto gli squadrava il volto rendendolo più professionale di quanto già sembrasse. Indossava camice in cotone bianco e degli occhiali da vista con le lenti molto spesse.
Reggeva una cartella clinica in mano che poggiò subito sulla scrivania non appena mi vide entrare nel suo studio, per poi levarsi dalla poltrona venendomi incontro per stringermi con vigore la mano presentandosi come: il Dottor Magnus Aurelius. E facendomi, infine, accomodare su una poltroncina comoda.
«Allora Peeta, posso darti del tu ?» Mi chiese meticoloso e non potei non annuire alla sua piccola richiesta di informalità.
«Sono davvero contento che tu abbia accettato di venire alle mie sedute! Sono sicuro che avrai valutato per bene i pro ed i contro della faccenda.» ammise, mentre un sorriso sornione gli incorniciava il viso.
«Si. Ci ho riflettuto per bene!» ripetei, sorridendogli di rimando. Non sembrava uno psicologo, non provavo del disagio in sua compagnia. Ero stranamente tranquillo.
«Come ti sei convinto a venire qui?» mi chiese.
«Non mi sono convinto: è una prova.» gli risposi sinceramente e lui mi sorrise ancora. Poi con un cenno della mano mi indicò un divanetto alle mie spalle con una sedia vicino.
«Bene Peeta, mettiti pure comodo! Che ne dici se, per iniziare, mi parli un po' di te?» propose Aurelius, mentre poggiava i gomiti sulla scrivania in legno. Osservava ogni mia mossa, ogni mio gesto, ogni mia espressione facciale. Mi stava studiando e per la prima volta non mi sentii giudicato.
«Non c'è molto da dire in realtà...» ammisi mentre mi distendevo sul divanetto, magnificamente comodo, posto di fronte alla scrivania in legno del Dottore.
«Io credo che, in realtà, ci sia molto da raccontare, più di quanto tu possa credere! Ad esempio: potresti elencarmi le prime cinque cose che ti vengono in mente per descriverti.» propose mentre riduceva gli occhi a due mezze lune seguendomi sulla sedia vicino al divanetto, così presi un respiro profondo.
«Okay: sono un pittore. Sono un fornaio. Mi piace dormire con la finestra aperta. Non metto mai lo zucchero nel tè. E mi annodo sempre due volte i lacci delle scarpe.» risposi tutto d'un fiato senza riflettere, mi voltai a guardare Aurelius che annuiva lentamente e prendeva appunti sulla sua cartellina.
«Sei un pittore hai detto...» ripeté lo psicologo sovrappensiero.
«...Come ti sei avvicinato a questa forma d'arte?» domandò alzando il capo, osservandomi dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. Presi un respiro profondo e,chiudendo gli occhi, iniziai a raccontare.
«Grazie a mio padre.».
Quando ero bambino adoravo guardare il mio papà mentre dipingeva. Era come se lui finisse in un mondo magico e piano piano la tela si riempiva di colori.
Disegnava di tutto mio padre; partiva dalle decorazioni per le torte e finiva a fare dei ritratti, oppure faceva delle vignette divertenti per me e per i miei fratelli.
Era bravo papà a dipingere, molto più bravo di me; io a confronto sono tutt'ora un principiante!
Gli piaceva dare sfogo alla sua vena artistica alla sera. Quando la mamma ed i miei fratelli dormivano, perché c'era silenzio. Una quiete così profonda da farci sentire l'eco dei forni rimbombare per tutta la casa.
Solitamente, alla sera, papà mi rimboccava le coperte e mi raccontava la storia della buona notte. Poi mi dava un bacio sulla fronte e se quella sera fosse andato nel suo studio per disegnare, mi faceva l'occhiolino di nascosto dai miei fratelli come segnale per restare sveglio, perché loro non avevano il gene dell'artista a suo dire e poi perché voleva condividere quella sua fetta di pace con me, solo con me.
Non ero molto grande. All'epoca avrò avuto su per giù cinque anni, ma lo ricordo come se fosse ieri, perché era iniziata da poco la scuola. Perché lei, Katniss, aveva cantato quella stessa mattina la canzone della valle in classe.
Ricordo che da bambino avevo paura del buio così papà, per farmi sconfiggere le mie paure, mi regalò un pupazzo. Me l'aveva comprato al vecchio forno ed era logoro, gli mancava un occhio e le cuciture per rattopparlo lo rendevano inguardabile agli occhi di Rye e Ross, ma per me era bellissimo. Il più bel pupazzo del distretto. Papà diceva che quel pupazzo mi avrebbe difeso da tutti i mostri quindi lo portavo sempre con me quando avevo paura di qualcosa, non me ne separavo mai.
In quegli anni ero poco più alto del tavolo, quella sera indossavo il mio pigiamino preferito e sottobraccio avevo il mio piccolo grande pupazzo che avevo voluto chiamare Leone, forse perché era l'unico nome degli animali che sapevo pronunciare bene, chissà.
Silenziosamente vagai per tutta la casa buia evitando di fare il minimo rumore per non svegliare nessuno e quando arrivai di fronte allo studio di papà bussai alla porta con le dita minute e lui, ovviamente, aprì subito la porta. Non mi faceva mai aspettare tanto perché conosceva la mia paura e il rumore che facevano i forni, al piano di sotto, non era d'aiuto a sconfiggere quel mio terrore infantile.
Ricordo che quella sera mi abbracciò forte. Mi strinse al suo petto con disperazione carezzandomi la schiena e i capelli poi prese uno sgabello e lo posizionò di fianco al suo, difronte alla tela.
«Adesso tocca a te Giovanotto, fammi vedere cosa mi sai disegnare!» affermò deciso e quella sua frase detta nel cuore della notte mi fa' sorridere ogni volta che ricordo questo nostro piccolo episodio perché, quella frase, ha decretato il vero e proprio inizio del nostro legame.
Aveva sempre un tono giocoso con me papà, mi faceva ridere sempre, anche quando avrei solo voluto piangere.
In risposta negai con la testa più e più volte: mi vergognavo. Lui era bravissimo mentre io disegnavo appena una casa stereotipata però, lui, mi sorrise teneramente scompigliandomi con la mano destra la mia zazzera bionda.
La stanza era illuminata da una luce fioca e calda, il camino era acceso per riscaldare la camera. Era iniziata la stagione della neve e quindi mamma mi faceva crescere i riccioli biondi perché diceva che erano belli quando la neve si poggiava sui miei boccoli.  Alla fine mia madre era pur sempre la mia mamma e, per quanto cercasse sempre di farlo, non mi odiava costantemente. Ero pur sempre suo figlio!
Papà mi sorrise, si avvicinò ancora di più a me e con dolcezza mi tolse dalle mani Leone, poggiandolo delicatamente sulla scrivania quasi non volesse fargli male.
«Sono sicuro che sei molto più bravo di me!» disse amorevolmente mentre si alzava per riempire la tavolozza di colori.
Non parlai e negai nuovamente con un cenno del capo senza fiatare perché avevo paura che, anche solo con la mia voce, la mamma si potesse svegliare.
Solitamente, io e papà, stavamo zitti durante quelle nostre serate; lui metteva il mio sgabello dietro di se ed io vedevo la sua schiena e le sue braccia muoversi con maestria mentre la tela, o il foglio, si riempiva di un'armonia che lui creava dal nulla.
Eppure quella sera mi aveva stretto a se con tanta enfasi e tenerezza, aveva posizionato lo sgabello di fianco al suo e mi aveva parlato. Non aveva lasciato che l'odore delle tempere si facesse spazio tra i nostri silenzi. Non aveva anche lui, come me, il timore di svegliare la mamma che possedeva sempre. Ma non volli pensarci, volevo godermi quella serata e mettere da parte la mia fifa.
Quando finì di riempire la tavolozza, papà, si rimise accanto a me sul suo sgabello.
Aveva in mano l’assicella sottile, rettangolare, sulla quale si dispongono i colori a olio, in mano e la poggiò delicatamente sul suo ginocchio coperto dal lungo grembiule che usava per non sporcare i suoi abiti.
«Dipingi per me, Peeta!» affermò dolcemente e mi sorrise con tanto amore quella sera. I suoi occhi erano contornati da piccole rughette che lo facevano sorridere ancora di più con lo sguardo e le sue labbra, chiuse, erano semplicemente incurvate verso l'alto.
«Se...Se mi sporco mamma si arrabbia...» risposi balbettando mentre le guance mi si imporporavano per l'imbarazzo. Speravo, in cuor mio, che lasciasse perdere e disegnasse da solo lasciandosi ammirare dai miei occhi.
Lui si alzò di scatto, un movimento così brusco che mi spaventò, mise la tavolozza sulla sua sedia e mi indicò con l'indice della mano destra, ridendo sornione.
«Ci hai provato, ma non mi freghi!» mi prendeva in giro e mi piaceva perché il suo tono giocoso mi faceva dimenticare le brutte cose successe durante la giornata poi, papà, si tolse il suo grande grembiule e me lo fece indossare, mi poggiò la tavolozza stracolma di colori sulle ginocchia e mi fece l'occhiolino ridendo divertito per via delle mie banali scuse.
Successivamente ritornò serio e prese un respiro profondo mentre mi guardava, io invece osservavo i miei piccoli piedi fasciati dalle babbucce calde che penzolavano perché lo sgabello era troppo alto.
Mi osservava mio padre, mi squadrava da capo a piedi, lo sguardo sembrava gridare che era fiero di me. Aveva gli occhi azzurri pieni di lacrime e m'amava, lo faceva in silenzio, in gran segreto ed io, ovviamente, amavo lui di rimando. Era il mio papà, il mio eroe.
Tirò su con il naso e mi sorrise scuotendo la testa per scacciare via le malignità e, il suo, fu' un sorriso vero, sincero, dolce e malinconico. Un sorriso che, con il passare dei miei giorni, non avrei mai più dimenticato. Che avrei visto rivolto solo a me per pochi anni e che, per colpa del tempo, non avrei mai più rivisto in nessun'altra persona, ma che avrei comunque continuato a cercare negli occhi degli altri.
Infine mi avvicinò, con lo sgabello, per bene alla tela e mi ripeté a bassa voce con tanto amore e tanto affetto la sua più grande richiesta:
«Dipingi per me, Peeta!».
Ed io, per lui, lo feci.
Riaprii lentamente gli occhi. Il divanetto dello studio di Magnus era divenuto terribilmente scomodo e le lacrime mi pungevano ai lati degli occhi mentre il groppo in gola mi faceva parlare a fatica.
Mi misi seduto, di fronte a me il Dottor Aurelius mi osservava fugacemente e annuiva mentre scriveva sulla sua cartella le nozioni più importanti del mio racconto.
Gli sorrisi imbarazzato per la mia sensibilità e lui ricambiò il gesto.
«Bene Peeta, possiamo concludere qui la nostra prima seduta!» annunciò pacatamente ed io mi alzai da quel divano annuendo e lisciandomi delle piaghe invisibili sui pantaloni per non farmi vedere commosso.
Lo psicologo mi seguì a ruota alzandosi dalla sua sedia e si tolse il camice bianco, poggiandolo sullo schienale della poltrona, per poi venirmi incontro. Mise un braccio sulla mia spalla e mi fece strada verso la porta del suo ufficio.
«Se vuoi, Peeta, possiamo incontrarci un'altra volta! La Coin ha stabilito che dovremmo incontrarci almeno tre volte a settimana, ma per me puoi venire quando più ti aggrada!» disse sorridendomi dolcemente ed io ringraziai con un sorriso e stingendogli con vigore la mano prima di varcare la soglia e ritornarmene nella mia stanza.
Ero stato lì dentro per più di un'ora, ma Magnus non mi aveva fermato. Era rimasto in silenzio ad ascoltarmi per tre ore consecutive, senza mai obbiettare; senza mai volermi fare smettere.
Camminai lentamente per tutto il corridoio e mi fermai qualche secondo dinnanzi alla porta della mia camera, poggiai la fronte contro di essa e sbuffai per scacciare la tensione, la tristezza che quei ricordi mi avevano recato.
Quando l'aprii trovai Johanna seduta sul letto con le gambe incrociate e lo sguardo furente.
«Dove. Cazzo. Sei. Stato?» tuonò infuriata ed io in risposta spalancai gli occhi e alzai le sopracciglia.
«Ti ho cercato ovunque! Pensavo ti fossi rintanato in chissà quale buco sperduto di questo distretto! E non eri in nessuno di questi perché, se te lo stessi chiedendo: si, Peeta! Ti ho cercato in ogni merda di armadio! Quindi se di grazia volesse dirmi dove si fosse nascosto, sarebbe un bene non solo per l'intera umanità, ma sopratutto per la tua incolumità!» continuò arrabbiata come un toro.
«Calma! Ero dal Dr. Aurelius.» risposi e lei spalancò gli occhi, stupita.
La sua rabbia sembrò scemare completamente con quell'informazione e sembrava fiera di me, anche se il suo sguardo continuava a essere cupo. Mi fissava con gli occhi ridotti a due mezze lune, quasi mi stesse studiando.
«Penso che ci ritornerò perché sono stato... Bene, cioè, ero a mio agio....» ammisi.
«Ottimo Peeta, davvero! Sono fiera di te!» affermò venendomi in contro e abbracciandomi ed io mi aggrappai a lei con forza.
Rimanemmo abbracciati per chissà quanto tempo, nessuno aveva il coraggio di mollare la presa.
«Hanno chiesto anche a me di andare dallo strizzacervelli...» ammise Johanna contro il mio petto.
«E che cosa hai intenzione di fare?» le chiesi, allontanandomi di qualche passo per guardarla in viso.
«Non lo so. So che vogliono aiutarmi, eppure malgrado ciò, li detesto. Ma io detesto praticamente tutti, ormai. Me stessa più di chiunque altro.» rispose Johanna a capo chino e la capivo, anch'io mi detestavo, perché ero al 13 al posto di Katniss e non me lo sarei mai perdonato.
«Pensaci bene, potrebbe esserti utile sfogarti! Così magari la smetterai di essere così apprensiva con me, manco fossi la mia mamma!» le consigliai ridendo per la presa in giro che le avevo regalato per smorzare la tensione e lei mi rispose facendomi una smorfia e il dito medio, che io le feci di rimando.
Quando ritornammo seri la guardai per un tempo indefinito e dopo averle sorriso mentre le accarezzavo il braccio, uscii dalla camera.
A volte sentivo la necessità di restarmene solo per fare quattro passi. Certe passeggiate bisogna farle da soli, ed io me ne andai da quella stanza senza dire nulla, i nostri silenzi valevano più di mille parole, più di mille domande.
Mi misi a camminare lentamente, ogni passo mi faceva sentire un po' più rilassato, poi il corridoio si riempì di persone che si dirigevano verso la mensa per l'ora di cena, ma non me ne curai continuando a marciare dalla parte opposta alla loro, fregandomene delle spallate che mi tiravano le persone, finché delle dita mi avvolsero il polso.
«Resta al mio fianco.» disse Johanna sottovoce, ed io mi voltai in sua direzione.
Eravamo l'uno di fronte all'altro, la sua mano che mi stringeva il polso e gli occhi carichi di lacrime fissi nei miei.
La guardai capendo il suo terrore. Il timore che aveva di aprirsi e di guardare tutti gli scheletri che aveva sotto al letto e dentro l'armadio. Non era una cosa semplice, tutt'altro. Per affrontare tutte le paure che si hanno bisogna possedere davvero tanto coraggio e noi, forse, l'avevamo esaurito tutto. Ma almeno eravamo assieme.
«Sono qui.» le risposi in tono sommesso, senza mai distogliere il contatto visivo e lei si lanciò tra le mie braccia. Io la strinsi a me con tutto l'amore che avevo in corpo, non me ne sarei andato per nessuna ragione. Non l'avrei abbandonata a se stessa; non l'avrei lasciata da sola ad affrontare la guerra che aveva dentro.
Poggiai la guancia sul suo capo e la strinsi nuovamente, sentendola respirare rumorosamente.
«Sono qui.» le ridissi in un sibilo che poteva udire solo lei.

 

                                                                                                                                   -Dedicato a tutti i papà, in particolar modo al mio.




N. D. A:
Ciao a tutti, vi chiedo scusa per avervi fatto attendere così tanto, ma ho avuto non pochi imprevisti quindi non sono mai riuscita a prendere sotto mano il capitolo per correggerlo.
In questo lunghe righe ho cercato di farvi capire perché la madre di Peeta detesti così tanto il suo ultimo figlio e ho tentato di farvi apprendere perché Mellark Senior, ovvero Darrell, sia oltre ad un marito succube della propria moglie anche la causa principale della rabbia di  Adeline , ma anche come costui ami suo figlio in modo molto profondo.
Alla fine Peeta, per i suoi genitori, è proprio la rivelazione della verità. E, Darrell lo ama perché finalmente si sente libero dalle sue bugie mentre, d'altro canto, sua moglie Adeline nella stragrande maggioranza del suo tempo odia Peeta proprio perché lui è la verità e lo accusa, ingiustamente, di essere il dito curioso che ha toccato la bolla di sapone dove lei viveva, facendola così esplodere. 
Ma non c'è solo odio nella prima giovinezza di Peeta perché alla fine Darrell, nonostante il comportamento da stronzo che ha avuto con sua moglie, si rivela sempre un uomo buono. Non si giustificano le sue azioni con Adeline, sia mai, ma comunque, seppur di nascosto, rimane sempre un buon padre.
Ringrazio Nicole per il suo supporto e per essere la mia ancora, Annie per aver letto pazientemente questo capitolo di ben 16 pagine e Giangi che mi sopporta ogni qualvolta io mi sfoghi con lui per via dei miei piccoli dubbi ed i tipici "blocchi dello scrittore". Ringrazio anche tutti coloro che hanno scritto qui su Efp per essere stati una mia grande fonte d'ispirazione nello scorso giugno, quando "Atlas" ebbe inizio. 
Vi chiedo ancora scusa per questa lunga attesa durata quasi 6 mesi.
Come sempre, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate di questo lungo e intricato capitolo con una recensione perché sono davvero curiosa di conoscere i vostri pareri! :3
Sono ben accette critiche e consigli cosicché  io possa migliorarmi con il proseguimento della storia :3
Grazie ancora a chi recensisce, a chi mette tra le seguite, le ricordate o tra le preferite. E, un grazie, anche a chi legge e basta. 
Buonanotte e buongiorno, a presto sognatori!

__Haaveilla__


 

  
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