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Autore: Placebogirl_Black Stones    29/03/2016    5 recensioni
Dopo la sconfitta dell'Organizzazione, tutte le persone che sono state coinvolte nella battaglia dovranno finalmente fare i conti con i loro conflitti personali e con tutto ciò che hanno lasciato irrisolto fino ad ora. Questa sarà probabilmente la battaglia più difficile: un lungo viaggio dentro se stessi per liberarsi dai propri fantasmi e dalle proprie paure e riuscire così ad andare avanti con le loro vite. Ne usciranno vincitori o perderanno se stessi lungo la strada?
"There's a day when you realize that you're not just a survivor, you're a warrior. You're tougher than anything life throws your way."(Brooke Davis - One Tree Hill)
Pairing principale: Shuichi/Jodie
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Jodie Starling, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Shuichi Akai
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Tomorrow (I'm with you)'
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Capitolo 3: Cuori infranti


L’immagine che lo specchio rifletteva non era delle migliori: capelli arruffati, viso pallido ed evidenti occhiaie nere. Non c’era da meravigliarsi troppo, dopo la notte insonne che aveva trascorso. Si era girato e rigirato nel letto come un’anima tormentata, mentre nella sua testa risuonava l’eco di quelle parole che lo avevano trafitto come la lama di una katana.

“Da questo momento in poi per te non sono più nulla. Non ti azzardare a venire a cercarmi, perché giuro che te la faccio pagare cara!”

Anche se l’aveva sempre criticata e se a volte non gli andava proprio giù il suo caratteraccio, Ai era diventata a tutti gli effetti la sua migliore amica, la sola persona che potesse comprendere quello che aveva passato ritrovandosi da un giorno all’altro in un corpo che non gli apparteneva. Il legame che si era creato fra loro era anche più forte di quello che aveva con Heiji o con qualsiasi altro amico avesse mai avuto: per questo non sopportava l’idea di averla persa.
Fissando la sua immagine riflessa, gli venne da chiedersi se per la prima volta in vita sua non fosse stato dalla parte sbagliata. Tuttavia, non riusciva ad incolpare Akai, che in quel momento doveva sentirsi forse anche peggio di lui.
Sospirando, si lavò la faccia, nella speranza di cancellare via i segni dell’insonnia. Si vestì e scese in cucina, trovandola deserta. Akai doveva essere ancora a letto, forse anche lui non aveva dormito e voleva recuperare almeno un paio d’ore di sonno. Così, in punta di piedi senza far rumore, uscì di casa diretto dal Dottor Agasa.

Si accorse che gli tremavano le mani mentre apriva il cancello di casa dello scienziato. Un tremore flebile, ma evidente ad un occhio attento come il suo. Era difficile ammetterlo, ma aveva paura, paura di vedere di nuovo quel volto dall’espressione carica di odio.
Suonò il campanello una volta sola: non voleva risultare insistente. Dopo qualche minuto la porta si aprì ed uscì la figura rotondeggiante del Dottore.

- Immaginavo fossi tu, Shinichi-

Pronunciò quelle parole a voce bassa, come se non volesse farsi sentire da Shiho, che probabilmente doveva essere in cucina a pochi metri da loro. La conferma di ciò arrivò quando socchiuse la porta dietro le sue spalle larghe.

- Come sta?- riuscì solo a chiedergli, sicuro che l’amico avesse capito il motivo per cui era venuto lì di primo mattino.
- Rispetto a quando è rincasata ieri si è calmata, ma se devo essere sincero questa calma apparente mi fa più paura del crollo che ha avuto lo scorso pomeriggio…- confessò, abbassando lo sguardo e mostrando tutto il dispiacere che provava nel vedere quella ragazzina, alla quale si era affezionato più del dovuto, soffrire così tanto.
- Pensa che stia solo fingendo di stare meglio?-
- Lo sappiamo bene come è fatta, non vuole mostrarsi debole ma tenendosi tutto dentro arriva al punto di scoppiare. E quando scoppia è difficile controllarla-
- Dov’è adesso?-
- Sta facendo colazione in cucina, a meno che non sia venuta alla finestra a spiare. Quando ha sentito il campanello ha pensato subito che poteste essere tu o Akai-san e mi ha detto di non farvi entrare per nessuna ragione- scosse la testa.
- Ma io devo parlare con lei!- strinse i pugni, tirando fuori quella grinta che sembrava aver dimenticato a casa fino a poco prima.
- Cerca di capire figliuolo, in questo momento dobbiamo lasciarle sbollire la rabbia senza farle pressioni: quando si sarà calmata vedrai che sarà lei a venire da te- cercò di farlo ragionare lo scienziato.
- No, non verrà mai! Ieri mi ha detto che non ne voleva più sapere di me…- abbassò lo sguardo.
- Lo ha detto perché era furiosa, è comprensibile che abbia reagito così. Eri pronto anche tu all’evenienza, sapevamo che non sarebbe stato facile per lei avere quel confronto-
- Non ha nemmeno lasciato che Akai-san le dicesse tutto quello che doveva…-
- Dici sul serio? Quindi non si sono chiariti fino in fondo?- si stupì.
- Purtroppo no, è scappata via prima che potesse dirle la cosa più importante. Non le ha detto nulla?-
- Quando è tornata era troppo sconvolta per parlare, ha pianto fino ad addormentarsi- scosse la testa - Poi si è svegliata per cena ma non ha quasi toccato cibo, e io non me la sono sentita di toccare l’argomento vedendo come stava. Stamattina ho provato a farle qualche domanda, ma è rimasta vaga e mi ha risposto che non aveva voglia di parlarne, così non ho insistito-
- La prego Dottore, cerchi di convincerla a parlare con me, anche solo per pochi minuti!- lo supplicò - Deve sapere che non ho mai tradito la sua fiducia!-

Non era da lui abbassarsi alle suppliche, ma era disposto a tutto pur di convincere l’amica che qualsiasi cosa avesse fatto, nel bene e nel male, non l’aveva fatta per ferirla. Non era, come lo aveva definito lei, un “ragazzino che non si curava dei sentimenti degli altri perché troppo preso ad elaborare i suoi piani”.

- Posso provare a chiederle se le va di uscire un momento o di farti entrare, ma non ti garantisco nulla- sospirò, chiudendo gli occhi - Non voglio obbligarla a fare qualcosa che non le va-
- La ringrazio- accennò a un lieve sorriso.

Lo osservò tornare in casa, cercando di contenere il nervosismo dell’attesa che si sommava a quello già presente per la situazione. Il Dottor Agasa era la sua ultima speranza, l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per non affondare, l’unica persona che poteva convincere Ai a ragionare. Si maledisse mentalmente per continuare a chiamarla con il suo pseudonimo, ripromettendosi di sforzarsi di usare il suo vero nome se avesse accettato di parlare con lui. Almeno questo glielo doveva.
Non vedendo il Professore tornare e impaziente di sapere, mosse qualche passo verso la porta, nella speranza di riuscire a sentire le voci all’interno della casa. Con sua grande fortuna, il Dottor Agasa aveva lasciato la porta socchiusa.

- Le ho detto che non voglio vederlo e non voglio parlarci!!!- udì distintamente la voce arrabbiata di Shiho.
- Coraggio Ai, cerca di fare uno sforzo…Almeno ascolta quello che ha da dirti, è davvero dispiaciuto per quello che è successo- cercò di convincerla lo scienziato.
- Non mi importa se è dispiaciuto, poteva pensarci prima!!! Per me può anche andarsene a casa, ma non voglio che entri e non voglio essere io ad uscire per vedere la sua brutta faccia mentre pronuncia qualche patetica scusa per giustificare il fatto che ha nascosto un assassino dentro casa sua e hanno complottato alle mie spalle!!!-

Sentì un tonfo, simile a qualcosa che batteva forte contro un tavolo. immaginò che Shiho avesse scaricato la sua rabbia sbattendo una tazza o qualunque cosa ci fosse sul tavolo per la colazione. Se si innervosiva così non era un buon segno. Ormai gli era sempre più chiaro che la sua visita mattutina non avrebbe portato a nulla, che sarebbe tornato a casa con la coda fra le gambe esattamente come era arrivato lì. La speranza si stava sgretolando davanti ai suoi occhi.

- Un assassino?!- restò scioccato da quell’appellativo -Adesso esageri, Akai-san non è affatto un assassino! Forse non è stato onesto a travestirsi da Subaru, ma lo ha fatto perché voleva proteggerti-
- Proteggermi?!- sottolineò duramente quella parola - Come può la persona che ha causato la morte di mia sorella venire a dirmi che voleva proteggermi!!! L’unica cosa che voleva proteggere è la sua coscienza sporca!!!-
- Akai- san è la causa della morte di tua sorella?!- ripeté il Dottore, sempre più incredulo a tutto ciò.

Il Dottor Agasa conosceva alcuni dettagli, come il fatto che Subaru fosse in realtà l’agente Akai e che vivesse in casa Kudo per poter sorvegliare da vicino Ai, ma non sapeva tutto. Alcune cose aveva omesso di dirgliele, sia per rispetto nei confronti delle faccende personali di Akai, sia perché temeva che il legame stretto che aveva con Ai lo portasse a non riuscire a mantenere certi segreti.

- Vedo con piacere che hanno tenuto all’oscuro di tutto anche lei, Professore!- ironizzò freddamente - Si guardi le spalle dalle persone di cui si fida tanto, potrebbero pugnalarla alle spalle quando meno se lo aspetta- si alzò dalla sedia, avviandosi verso la sua stanza.
- Aspetta Ai!- cercò di fermarla - Non vuoi almeno ascoltare Shinichi? Se è venuto fin qui di primo mattino pregandomi di convincerti a parlare con lui, è perché ci tiene davvero alla vostra amicizia-
- Doveva pensarci prima- fu la sua unica risposta, prima di chiudersi la porta della stanza da letto alle spalle.

Era finita. Non c’era più nulla che potesse fare, se non accettare il prezzo di ciò che aveva fatto.
Senza nemmeno attendere che il Dottore tornasse per comunicargli che non ci sarebbe stato nessun chiarimento fra loro, girò le spalle alla porta e si avviò verso il cancello per uscire.

- Shinichi! Dove vai? Aspetta figliuolo!- sentì l’amico chiamarlo.

Non si voltò, né proferì parola. Si limitò ad alzare una mano come per dirgli “Non si preoccupi, ho capito”, mentre si chiudeva il cancello alle spalle, diretto verso casa.



…………………………



Frugò con la mano nella tasca interna della giacca, alla ricerca del suo portamonete. Dopo ore passate a controllare ed archiviare scartoffie e documenti vari in preparazione al rientro in America, le ci voleva una pausa. E cosa c’era di meglio di un bel tè fresco per rilassarsi e scaricare la tensione accumulata durante quella lunga caccia all’Organizzazione?
Si avviò lungo il corridoio della “sede” che l’FBI aveva tenuto nascosta alle autorità giapponesi, diretta alla macchinetta delle bibite in lattina. James le aveva appena comunicato che, con tutte le probabilità, avrebbe dovuto prendere parte anche lei al processo che si sarebbe svolto contro Sharon Vineyard, in quanto testimone e vittima di uno dei suoi misfatti: questo aveva fatto sì che il nervosismo già presente in lei aumentasse. Aveva cercato per anni la resa dei conti, ma ora che era arrivata si sentiva tesa, forse per timore che quella criminale che le aveva portato via tutto potesse ancora una volta farla franca. Desiderava solo avere giustizia, per lei e per suo padre.
Si aggiustò gli occhiali che le erano scivolati fin quasi sulla punta del naso, mettendo a fuoco le immagini dietro le lenti: fu allora che lo vide distintamente. In piedi davanti alla macchinetta, a pochi passi da lei, c’era Shuichi. Non sapeva spiegarsi come fosse possibile che, dopo tutti quegli anni trascorsi dalla loro rottura, il cuore le battesse forte ogni volta che lo vedeva, proprio come una ragazzina alla sua prima cotta. Eppure la risposta era molto semplice: non aveva mai smesso di amarlo. Segretamente, silenziosamente, senza chiedere nulla in cambio, continuava ad amare quell’uomo che si era guadagnato un posto speciale nel suo cuore. Aveva cercato più volte di negarlo, di cancellare quei sentimenti inopportuni, di odiarlo per il modo in cui l’aveva scaricata, ma ogni sforzo era stato vano. Non poteva provare rancore per qualcuno che amava così tanto. Così si era dovuta accontentare di essere solo una collega, o al massimo una vecchia amica. Tuttavia, non mancava di preoccuparsi in modo evidente ogni volta che lo vedeva cacciarsi in una brutta situazione o quando lo trovava visibilmente stanco per il troppo carico di lavoro che si assumeva sulle spalle. Era più forte di lei, il suo modo per fargli capire “Sono qui, Shu, sono qui per te”.
Lo affiancò alla macchinetta, osservando la lattina appena presa che stringeva nella mano sinistra.

- Caffè nero come sempre- gli sorrise, cercando di sembrare anche un po’ ironica in quell’accenno alle sue vecchie abitudini.
- Ah, sei tu- rispose distrattamente, girandosi a guardarla.

Aggrottò le sopracciglia, stranita dal suo comportamento. Shuichi era sempre stato vigile in ogni momento, specie sul lavoro; invece in quel momento sembrava così distratto da non essersi nemmeno accorto che si era fermata a pochissimi centimetri da lui. Inoltre, nella sua espressione c’era qualcosa di strano, di diverso dal solito: lei lo conosceva bene, si accorgeva subito dei suoi cambiamenti di umore o dei suoi sguardi. Forse anche lui era provato da tutta quella situazione, il fatto che fossero arrivati alla fine non implicava che tutto venisse automaticamente cancellato con un colpo di spugna.

- Va tutto bene Shu?- gli chiese, cercando di scoprire cosa non andasse.
- Sì, tranquilla- rispose nuovamente in modo distratto e vago.

A volte non sapeva come comportarsi con lui, non sapeva come farlo sbloccare. Aveva la cattiva abitudine di tenersi sempre tutto dentro, di volersi mostrare al mondo come un eroe invincibile la cui corazza non poteva essere scalfita da niente e da nessuno; così finiva col risultare freddo e insensibile, quando in realtà dentro di sé nascondeva molte più emozioni di quante non volesse provare. Più di una volta le era capitato di pensare che se Shuichi avesse avuto l’opportunità di diventare una macchina programmata per non sentire nulla, di sicuro avrebbe accettato. Questo la rattristava molto, perché desiderava con tutta se stessa che lui si lasciasse andare e mostrasse più spesso ciò che sentiva. E voleva che lo facesse con lei, che si fidasse di lei.
Rimase in silenzio, sapendo che era inutile insistere: se non aveva voglia di parlare non gli avrebbe cavato fuori una parola di bocca. Sospirando, aprì il portamonete e vi cercò all’interno alcuni spiccioli per il suo tè freddo. Non appena li trovò, si avvicinò alla macchinetta e li inserì, digitando il numero corrispondete alla sua scelta. Il tonfo metallico della lattina che cadeva nel vano, seguito da quello della lattina di caffè che Shuichi aveva aperto, ruppero quel triste silenzio che si era creato fra loro. Lo osservò con la coda dell’occhio sorseggiare la bevanda, con lo sguardo fisso su un punto indefinito. La voglia di sapere cosa lo affliggeva era tanta, quasi incontenibile: non perché fosse curiosa, anche se in effetti lo era di natura, ma perché soffriva nel vederlo tormentarsi interiormente senza poter fare nulla per aiutarlo.

- Sei sicuro di stare bene Shu? Sembri sovrappensiero e hai l’aria stanca…- non riuscì a trattenersi.
- Non ho dormito molto-

Di nuovo una risposta fugace, come se gli desse fastidio avere una conversazione. Un senso di rabbia l’assalì improvvisamente: possibile che fosse così egoista da non rendersi conto che con quel suo atteggiamento faceva soffrire le persone che tenevano a lui?! Perché non si sforzava almeno di fingere di apprezzare le premure che gli venivano rivolte?!
Aprì la lattina di tè, bevendo una lunga sorsata nel tentativo di calmarsi. Sapeva benissimo che era fatto così, arrabbiarsi era inutile.

- C’è qualcosa che ti preoccupa?- provò di nuovo a farlo parlare, quando il liquido ambrato appena deglutito le rinfrescò la gola e placò quell’improvvisa arrabbiatura.

Rimase in silenzio per qualche secondo, nel quale bevve ancora un sorso di caffè nero. Come facesse a bere quella cosa così amara restava un mistero, e di certo l’assenza totale di zuccheri non lo aiutava ad addolcirsi.

- Mi sono messo a leggere e ho perso la cognizione del tempo-

Una bugia, una malcelata bugia inventata sul momento. Se era arrivato a tanto, significava che non c’era speranza di sapere cosa gli stesse passando per la testa, perché non voleva in nessun modo rivelarlo. Doveva essere qualcosa di strettamente personale per farlo reagire in quel modo, e dentro di lei immaginava cosa fosse.
Non era arrivata nemmeno a metà della lattina di tè, ma il nodo allo stomaco che le si era formato a quel pensiero le impediva di buttare giù qualsiasi cosa. Anche deglutire era diventato doloroso. Eppure stava lì, con gli occhi bassi e lo sguardo triste, senza muoversi di un passo, perché l’amore che provava per quell’uomo era più forte del dolore che le causava.

- Capisco…- si limitò a rispondere, rinunciando a proseguire nei suoi tentativi di dialogo.
- Torno al lavoro- la salutò, gettando la lattina di caffè ormai vuota nel cestino accanto alla macchinetta.

Senza aggiungere altro, si avviò lungo il corridoio a passi lenti e con le mani in tasca, nella sua consueta e stoica posizione, lasciandola lì da sola in quell’angolo deserto. Irremovibile come una montagna, questo era Shuichi Akai. Le venne spontaneo chiedersi cosa l’avesse fatta innamorare a tal punto di lui, e l’unica risposta che riuscì a darsi fu che nei suoi giorni migliori era piacevole stare in sua compagnia, oltre al fatto che fosse un uomo coraggioso e con dei valori. Forse c’era anche dell’altro, qualcosa che andava al di là della razionalità. Al cuor non si comanda, come diceva il famoso proverbio, e le ragioni del cuore non possono essere analizzate con la mente. A lui poteva perdonare tutto, anche l’essere scaricata senza troppi giri di parole e nessun preavviso. Anche se continuava a ripetersi che le andava bene così, che lavorare ogni giorno al suo fianco era sufficiente a renderla felice, in realtà c’erano giorni in cui il desiderio di abbracciarlo, baciarlo o anche solo uscire a bere qualcosa con lui era più forte della sua convinzione, specie quando passeggiando per i marciapiedi all’uscita del cinema dove le piaceva tanto andare s’imbatteva in coppiette felici che si tenevano per mano. La consapevolezza di non poter lottare per riprenderselo era pesante da mandare giù. Lei aveva fatto di tutto per fargli capire che i suoi sentimenti non erano cambiati, a volte esponendosi anche più del dovuto: adesso stava a lui lottare per lei, se voleva riaverla. E forse la risposta era anche troppo ovvia. C’era ancora quell’ombra in mezzo a loro e a un possibile riavvicinamento, l’ombra di quel fantasma che occupava i pensieri di Shuichi.
Deglutì faticosamente, cercando di sciogliere quel nodo che le si era formato in gola. Era probabile che fosse quello il motivo per cui era così pensieroso e taciturno, come lo era stato tante altre volte. Forse, nonostante fosse riuscito ad ottenere finalmente quella vendetta che tanto aveva agognato e il suo nemico storico fosse stato eliminato, per lui non era ancora abbastanza. A volte la vendetta non arreca soddisfazione. Anche togliendo di mezzo l’Organizzazione, Akemi non sarebbe mai più tornata indietro, come non sarebbe tornato nemmeno suo padre, e non c’era nulla di cui gioire in questo.
Si tolse gli occhiali non appena sentì che i suoi occhi si erano fatti umidi, infilandoli con cura nella tasca della giacca. Estrasse un fazzoletto finemente ricamato in un angolo e si asciugò velocemente gli occhi, prima che qualcuno passasse per il corridoio e la vedesse. Non poteva mostrarsi fragile, non sul posto di lavoro, altrimenti avrebbe dovuto dare spiegazioni e chiaramente non poteva dire che “soffriva per amore”. Non aveva quindici anni, ne aveva ventotto, quasi ventinove: era una donna matura che doveva essere in grado di gestire le sue emozioni.
Ripose il fazzoletto in tasca, rimettendosi gli occhiali e cercando di affievolire tutti sentimenti che stava provando, per poter tornare a lavorare con la testa sgombra. Si accorse di non aver ancora finito quella lattina di tè, ormai diventato tiepido nella sua mano calda. Ne aveva davvero voglia quando lo aveva preso, ma adesso non si sentiva di mandar giù nulla.

- Jodie, sei qui- sentì la voce di James alle sue spalle.
- Oh, James, sei tu- si girò di scatto, colta alla sprovvista, cercando di apparire il più normale possibile.
- Non tornavi più e così sono venuto a vedere dove ti eri cacciata. Le tue pause sono sempre troppo lunghe…- la rimproverò, anche se senza cattiveria.

James era molto più di un capo per lei, era una sorta di secondo padre che il destino le aveva dato quando Vermouth l’aveva privata del suo. Si era preso cura di lei in tutti quegli anni, tanto da arrivare a conoscerla meglio di chiunque altro. Sapeva esattamente cosa stava provando solo guardandola negli occhi, ed era questo il motivo per cui all’epoca era stato il primo a sapere della sua storia con Shuichi. Sapeva che James aveva capito che il suo amore non se n’era mai andato, ma nonostante tutto non le aveva mai fatto domande, un po’ per non sembrare una sorta di padre impiccione, un po’ perché sapeva che lei stessa non voleva parlarne troppo. Aveva sempre apprezzato questo suo modo di comportarsi con lei.

- Mi dispiace- si scusò - Avevo bisogno di un momento per me-
- Sei preoccupata per il processo?-

Come non detto: aveva notato che qualcosa non andava.

- Diciamo che sono un po’ nervosa- lo assecondò.

Se James pensava che la sua preoccupazione fosse Vermouth meglio così, glielo avrebbe fatto credere. Era la scusa perfetta per nascondere il vero motivo per cui la sua faccia in quel momento non era delle migliori.

- Cerca di restare serena, non c’è ragione per cui Vermouth possa essere scagionata dalle accuse. Dopo tutto quello che ha fatto, nemmeno un miracolo potrebbe salvarla dalla galera- cercò di rassicurarla.
- Lo spero- annuì.
- Forza, adesso andiamo a finire. C’è ancora parecchio lavoro da fare prima del rientro negli Stati Uniti- le fece cenno di seguirlo nel suo ufficio, mentre aveva già mosso alcuni passi per andarsene.
- D’accordo-

Sospirò, sollevata di aver scampato domande inopportune. Si apprestò a seguirlo, quando si accorse di avere ancora in mano quella famosa lattina piena per metà. La voglia di finirla non le era tornata, così come non era andato via quel senso di tristezza che probabilmente l’avrebbe accompagnata per il resto della giornata. Senza troppi ripensamenti, la gettò nel cestino dei rifiuti, a far compagnia a quella di Shuichi.



……………………………..



Passeggiava lungo il viale tinto di arancione dai colori caldi del tramonto, reso ancora più suggestivo dai ciliegi nel pieno della loro fioritura, che liberavano nell’aria danzanti petali rosa, simili alle ali di tante delicate farfalle. Uno scenario romantico che scaldava il cuore, decisamente poco intonato al suo umore. Non era ancora riuscita a togliersi di dosso quella sgradevole sensazione che le era nata dentro quando aveva notato il malessere di Shuichi ed era stata incapace di aiutarlo, finendo lei stessa per soffrire; per questo motivo aveva declinato l’invito di James di riaccompagnarla al suo appartamento in macchina, preferendo una bella passeggiata nella speranza che quest’ultima le avrebbe giovato. Aveva già percorso parecchi metri, ma ancora non sembrava funzionare: più si immergeva in quello scenario poetico e più la malinconia accresceva.
Una giovane coppia, all’incirca dell’età degli studenti liceali a cui per qualche tempo aveva insegnato inglese sotto copertura, le passò a fianco mano nella mano, sorridente e spensierata. Finse indifferenza, come se non li avesse visti, ma in realtà provò un senso di invidia per quella loro felicità pura e ignara di quanto fosse difficile l’amore una volta diventati adulti. Per un attimo desiderò anche lei poter passeggiare sotto i ciliegi in fiore mano nella mano con Shuichi, mentre si confidavano l’uno con l’altro, consapevoli di potersi fidare. Voleva disperatamente che lui capisse che poteva fidarsi di lei, che qualunque cosa gli andasse di raccontarle, anche la più piccola sciocchezza, lei lo avrebbe ascoltato.
Sospirò, respirando la dolce aroma dei fiori di ciliegio. Le sarebbe mancato il Giappone, così diverso dagli Stati Uniti ma al tempo stesso affascinante in ogni sua particolarità.
Immersa nel suo flusso di pensieri, si accorse della figura seduta su una delle panchine poste ai lati del viale solo quando si trovò a pochi metri da essa. Le sembrava familiare a primo impatto, quindi cercò di metterla a fuoco dietro le lenti degli occhiali: capelli ramati lunghi fino a metà del collo, fisico longilineo ed espressione seria sul volto. C’era una sola persona che corrispondeva a quelle caratteristiche, fra tutte quelle che aveva conosciuto in Giappone: l’ex scienziata dell’Organizzazione diventata poi un’alleata da proteggere, Shiho Miyano. Come tutti anche lei faticava ad abituarsi a quel aspetto fisico fino ad ora sconosciuto, tendendo sempre a guardarla e riguardarla cercando le tracce di quella bambina che si faceva chiamare Ai Haibara. Osservandola attentamente non era poi così difficile ritrovare quei tratti tipici che la caratterizzavano, come il naturale colore di capelli insolito per un giapponese, oppure quegli occhi pungenti che ti scrutavano da cima a fondo nel tentativo di comprendere se doveva considerarti un nemico oppure no.
Non poté fare a meno di notare che la ragazza aveva un’aria piuttosto affranta, mista a qualche altro sentimento che a giudicare dal modo in cui stringeva i pugni doveva essere rabbia. Cosa ci faceva tutta sola su una panchina al calar della sera e per di più triste e arrabbiata? Possibile che quel giorno nessuno di quelli che conosceva (e lei compresa) fosse felice?! Che diavolo stava succedendo?! Dovevano festeggiare, tirare finalmente un sospiro di sollievo: l’Organizzazione era stata distrutta, lei e Shinichi avevano riavuto indietro le loro vere identità e tutti avrebbero potuto ricominciare a vivere senza la paura di diventare vittime di quei criminali. Invece se ne stavano lì, con quelle facce tristi, assorti in pensieri tutt’altro che sereni. La loro vittoria aveva un sapore amaro, non c’era nemmeno soddisfazione nel gustarsela. A cosa serviva vincere se poi ci si sentiva esattamente come si sentono i perdenti?
Le fece tenerezza vederla così, fragile e indifesa. Quella ragazza le ricordava tanto lei quando era più giovane: sicura di sé all’apparenza, ma con un cuore fragile tipico di ogni donna. Questo pensiero la fece sentire meno sola, come se la sofferenza che stava provando potesse essere condivisa. Quando siamo tristi pensiamo che nessuno possa capirci o sentirsi come noi, invece basta girare l’angolo per trovare qualcuno che si trovi esattamente nella stessa situazione. Allora, egoisticamente, ci sentiamo sollevati nel non essere i soli a soffrire. Lei però non era egoista per natura, al contrario era una donna molto altruista e se vedeva qualcuno a cui teneva in difficoltà non esitava a correre in suo aiuto, mettendo da parte i suoi stessi problemi. D’altra parte era logico, con il lavoro che faceva.
Così, archiviando nei cassetti del cuore il suo amore non corrisposto, si diresse verso quella panchina.



ANGOLO DELL’AUTORE

Ed ecco che è arrivata anche Jodie! Cosa succederà adesso? In realtà all’inizio avevo programmato di mettere in questo capitolo il dialogo fra Jodie e Shiho, ma poi la parte iniziale con Shinichi si è dilungata più del dovuto e non ho voluto fare un mega capitolo, perciò nel prossimo ci sarà appunto questo confronto fra le due donne. Cosa pensate che si diranno?
Per i fan della coppia come me, c’è stata anche quella piccola parte fra Jodie e Shu. Ok, ora direte “ma non è andata affatto bene!”, e avete ragione, ma è una cosa voluta proprio per aumentare la suspence del momento in cui invece le cose si aggiusteranno! ;) Ovviamente per rispettare la veridicità dei fatti e dei tempi, Jodie e Shuichi non possono saltarsi addosso subito, prima si devono sciogliere diversi nodi.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, è meno avvincente degli scorsi ma proprio perché è una scena transitoria che porterà al dialogo del prossimo capitolo.
Grazie come sempre a chi legge, segue e recensisce! I vostri incoraggiamenti sono preziosi! ;)
Per chi volesse discutere su Detective Conan o altro ancora, vi invito a visitare il mio portfolio: troverete tutte le mie fanfiction e le mie passioni! Se vi va potete fermarvi e scambiare due chiacchiere con me!
 «Place's 707 Room»
Bacioni
Place
   
 
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