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Autore: morrigan89    01/04/2009    5 recensioni
Anno 2191. Il pianeta Terra è stato devastato da una Guerra Nucleare. La città di Nuova Edo è sotto dittatura della potente Mishima Zaibatsu, la violenza è all’ordine del giorno, la libertà è un sogno destinato a pochi. Tra i resti di un mondo morente si intrecciano le vicende di alcuni personaggi, alcuni guidati dall’avidità, altri dall’odio, alcuni dai propri desideri innocenti, altri dai propri ideali.
-Perché non tutti i cuori sono morti-.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hwoarang, Jin Kazama, Kunimitsu, Ling Xiaoyu, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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4. Il segno della rivoluzione.
 




“Se la Squadra Speciale ti cerca, non c’è posto a Nuova Edo in cui tu possa essere al sicuro”. È questo che avevano sempre insegnato a Hwoarang, ed era per questo motivo che era così preoccupato per la sua amica con la maschera da volpe. Ma Hwoarang non sapeva che all’alba di quello stesso giorno Kunimitsu aveva lasciato la città.
 
6 marzo 2191
Ore 6:05 am
 
Un sole pallido e velato faceva capolino nell’immenso tunnel circolare del condotto d’areazione e la sua luce rosata veniva scomposta dal movimento di gigantesche pale metalliche.
Kunimitsu, nonostante la situazione, non poté che fermarsi anche per un solo istante ad ammirare quello spettacolo che la mole dei palazzi le aveva sempre nascosto. La prima alba della sua vita.
–Sarà anche l’ultima se non ti sbrighi!– urlò Yoshimitsu mentre le correva davanti, diritto a una piccola porta aperta nell’impalcatura metallica dell’areatore.
Kunimitsu si riscosse e cominciò a correre con la massima velocità che l’ingombrante tuta antiradiazioni le permetteva. Non pensò più a niente. Niente dubbi, niente rabbia, niente paura, niente sospetti, niente nostalgia, niente “e adesso che cazzo gli dico a Hwoarang”. Solo un conto alla rovescia, scandito dal suo battito cardiaco.
“5 minuti, 5 minuti, 5 minuti. Ti prego, fai che questa tuta funzioni”.
Yoshimitsu scomparve oltre il margine del tunnel, si aggrappò a una lunga scaletta di metallo e scivolò giù per una trentina di metri, finché il suolo polveroso arrestò la sua discesa.
–Fai attenzione!– gridò alla piccola sagoma bianca che  lo stava già imitando e che un secondo dopo era già accanto a lui.
I due ripresero a correre, lui davanti e lei dietro, attraversando l’immensa spianata che circondava la città verso un mucchio disconnesso di rocce e colline che si stagliavano in lontananza. Kunimitsu non avrebbe saputo dire a che distanza fossero, ma ciò che era certo è che erano lontante, troppo lontane.
Un giorno le avevano detto che se c’è una perdita di radiazioni in un reattore nucleare, basta starci vicino per una manciata di secondi per essere condannati. Bastò questo ricordo a ricacciare nella sua mente la paura. “Quante radiazioni ci saranno adesso, dopo tutti questi anni? In quanto tempo decade l’uranio? Tempo… quanto tempo  ho ancora? 4 minuti?”.
Quella figura che le correva davanti con la chioma rossa al vento e la giacca svolazzante divenne il suo unico punto di riferimento. Focalizzò la sua attenzione su di lui, perché lui l’avrebbe tirata fuori da quella situazione orribile, no?
Ormai non poteva più impedire a se stessa di abbandonarsi a pensieri sconnessi. “Cazzo, se muoio per colpa sua lo perseguiterò anche nell’aldilà. 3 minuti, 3 minuti, 3 minuti”.
Le sagome rocciose erano ormai vicine e davanti a loro si aprì quello che sembrava essere un piccolo canyon. Ci corsero dentro alla velocità della luce mentre le spesse mura di pietra grigia e cemento diventavano via via più alte e incombenti.
“Se muoio chi si prenderà cura di quel teppistello scansafatiche di Hwoarang? Chi lo prenderà a calci nel culo? Maledizione, solo 2 minuti”.
Yoshimitsu fece uno scarto è scatto a destra, cominciando a inerpicarsi con agilità sconcertante saltando da una roccia all’altra. Kunimitsu lo seguì come meglio poteva, impedita com’era dalla tuta ingombrante.
–Ci siamo!– urlò lui una volta che ebbero scavalcato la scarpata. Davanti a loro, riparato da uno sperone roccioso, era parcheggiato un veivolo alato, una via di mezzo fra un overcraft e una di quelle astronavi che si vedevano nei vecchi film di fantascienza.
Kunimitsu rimase a fissare per interminabili secondi l’uomo intento a trafficare con le tasche della sua giacca. Fra poco le radiazioni avrebbero corroso la barriera protettiva della tuta e si sarebbero fatte strada al suo interno.
–1 minuto!– urlò lei, allo stesso tempo spaventata, esasperata e arrabbiata. Finalmente l’uomo estrasse un telecomando e il portellone del velivolo si aprì.
Kunimitsu senza quasi rendersene conto si ritrovò scaraventata per terra all’interno di una cabina di vetro, senza sapere più quale fosse il sotto e quale il sopra. Si rialzò in piedi con l’aiuto dello strano tipo e in quel momento sentì il salvifico suono di un liquido che scrosciava dall’alto sulla superficie della sua tuta: il fluido antiradiazioni. Fortunatamente il veivolo era dotato di cabina di contenimento.
Uno Yoshimitsu completamente inzuppato l’afferrò per le spalle e cominciò a scuoterla. –Ce l’abbiamo fatta! Ahaha, ce l’abbiamo fatta!– esultò.
Kunimitsu, trascinata dall’adrenalina, non sapeva se mettersi a ridere o a piangere e se abbracciare quel tizio o prenderlo a pugni. Alla fine optò per una risata euforica intervallata da imprecazioni.
–Sì! Ahah, hai visto che roba? Eravamo due scheggie, cazzo, mai corso così! Pensavo che mi avresti ucciso, maledetto schizoide imparrucatto!–.
Yoshimitsu decise di ignorare anche quest’alta frase poco complimentosa, la terza in poche ore., e si limitò a rispondere con una pacca sulla spalla.
Ripresasi dall’attacco di ilarità, la kunoichi cominciò a togliersi la tuta affinché il benefico effetto del fluido potesse eliminare eventuali tracce di radiazioni che avessero raggiunto il suo corpo. Finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo.
 
*

Era circa l’una di notte e in quella strada al confine fra il centro della città e la zona residenziale l’unica anima viva che si scorgeva era una coppietta, un uomo e una donna, che se ne andavano tranquillamente a braccetto, e qualche gatto randagio. Quella notte sembrava che al mondo non esistesse nessun altro oltre a loro due e perfino i palazzi, quasi tutti bui e silenziosi per via dell’ora, sembravano disabitati.
Le uniche finestre illuminate erano quelle dei Laboratori Biotech che occhieggiavano di sbieco fra un edificio e l’altro. Si lavorava sempre fino a tardi lì.
–Uffa– sospirò la donna –mi fanno malissimo i tacchi… meno male che siamo quasi a casa!–.
L’uomo sorrise e prese a sbeffeggiarla bonariamente –Te l’avevo detto di metterti le scarpe basse, tesoro–.
–L’hai detto ma io so bene che in verità mi preferisci coi tacchi alti!– disse la donna con tono da finta offesa.
–Ops, mi hai scoperto!– se la rise lui.
I due continuarono a camminare in silenzio per un po’ finché, passando davanti ad una stradina a fondo chiuso, l’uomo sentì un brivido inspiegabile percorrere la propria schiena e avvertì il bisogno di fermarsi.
–Hai sentito?– chiese l’uomo.
–No, che cosa?– chiese lei.
–Quello strano verso…–mormorò lui guardando verso il vicolo cieco privo di illuminazione.
La donna si sporse a osservare nella stessa direzione del suo compagno. –Sarà stato un gatto–
L’uomo scosse la testa, un po’ preoccupato  –Non credo, sembrava più il lamento di una persona…–. Fece per andare verso la strada chiusa ma la sua compagna lo tirò per il braccio.
–Non vorrai mica infilarti in quel vicolo, vero? Dai, andiamo a casa…è tardi– si lamentò lei.
L’uomo appoggiò una mano sulla spalla della donna e disse: –Tu aspetta qui, io vado a vedere. Farò in un attimo–.
La donna trattenne a stento uno sbuffo mentre stava a guardare il suo compagno che si infilava inesorabilmente in quella zona buia, dove tutti i lampioni sembravano stranamente fuori uso: “Uffa, proprio un medico con la vocazione mi dovevo sposare!”. Era sicura che nel giro di un minuto sarebbe tornato indietro facendo spallucce e dicendole che aveva ragione, che in quella strada non c’era nessuno se non qualche gatto o magari un uomo ubriaco; era la cosa più probabile.
Non si immaginava che nel giro di qualche minuto avrebbe sentito quel suono orribile che, se mai avesse potuto sentire qualcosa del genere, avrebbe paragonato al verso emesso da un vitello quando viene sgozzato dal macellaio.
Il cuore le saltò nel petto, facendole morire in gola le parole. –…Ken? Va tutto bene?– chiese. Per alcuni secondi rimase paralizzata dalla paura in attesa di una risposta che non venne. –Forse si è già allontanato troppo– disse fra sé e sé, cercando di trovare una risposta razionale a quel silenzio. –Lo raggiungo–.
Inutile pensare a quel rumore strano, probabilmente non era niente.
E così anche lei imboccò la stradina buia in cerca del marito. Provò a chiamarlo di nuovo, ma l’unico suono che si sentiva era quello dei suoi tacchi sull’asfalto.
Aveva fatto una decina di metri quando vide davanti a sé la sagoma in controluce di un uomo chino su un’altra sagoma, questa stesa a terra nel bel mezzo di una piccola pozza traslucida.
A quella vista la donna si preoccupò e, indicando la persona stesa al suolo, chiese al marito: –Oh Dio! Che cos’ha?–.
L’uomo si alzò lentamente in piedi senza darle risposta e alla donna sembrò stranamente gigantesco. Molto più alto di suo marito.
Improvvisamente capì come stava la situazione, capì che, fra le due, la sagoma di suo marito era quella stesa a terra e che il liquido che luccicava sull’asfalto non era certo acqua.
La pagherete…– disse la voce rauca e impersonale del gigante, mentre questo si avvicinava alla donna con passi pesanti e strascicati, tanto lenti quanto inesorabili.
Dopo alcuni minuti l’unico suono a riecheggiare nella strada, non udito da nessuno, era quello di una lugubre e tonante risata.
 
 
*
 
Yoshimitsu scosse la parrucca ancora zuppa di fluido antiradiazioni e digitò velocemente alcuni comandi sull’ampio pannello di controllo. Il veivolo si alzò dolcemente in aria, fluttuando come se fosse privo di peso, e iniziò a scivolare fuori dall’incavatura rocciosa.
Kunimitsu, seduta sulla seconda poltrona di comando, osservava le manovre dell’uomo mascherato, esterrefatta per il semplice fatto che fosse ancora vivo dopo essere stato 5 minuti esposto ai residui.
–Beh, penso che sia arrivato il momento delle spiegazioni – osservò, squadrandolo –Tanto per cominciare spiegami cosa sei. Un essere umano non potrebbe resistere là fuori senza protezioni–.
Yoshimitsu ridacchiò mentre faceva scavalcare al veivolo una piccola collinetta. – Chissà, forse non sono umano–.
–Ah no, eh? Allora cosa sei? Un androide?– lo prese in giro lei. Accidenti quanto la irritavano le frasi a effetto di quello svitato!
–Beh, spero di essere un tantino più intelligente di un androide…– rispose lui con assoluta serietà.
Kunimitsu spalancò gli occhi. –Cosa vorresti dire? Che sei un cyborg?–. Lei non ne aveva mai visto nessuno ma in fondo non erano poi così rari. Sapeva che spesso venivano impiegati come medici per via della loro assoluta precisione o come soldati per via della loro inclinazione a non ribellarsi ai propri creatori. Sarebbe stato abbastanza plausibile.
L’uomo mascherato scosse la testa –No, nemmeno. Ma è un argomento che non vorrei affrontare adesso. Ne parliamo quando siamo arrivati, ok? –.
La ragazza dai capelli rossi annuì con un sospiro di rassegnazione, immaginando che non avrebbe potuto cavargli di bocca niente che lui non avesse voluto dire spontaneamente, e così ritornò a guardare fuori.
Fu solo allora che si rese conto che quelle sagome indistinte intraviste durante la sua folle corsa non erano semplici formazioni rocciose, ma ammassi di cemento e metallo dalle forme geometriche, ricoperti da uno strato di terra e detriti. Kunimitsu vide con orrore quelle lugubri costruzioni scheletriche scorrere davanti ai suoi occhi nel debole chiarore dell’alba, vide i palazzi sventrati dalle esplosioni di quarant’anni prima e crollati su se stessi a formare disegni grotteschi, unica reliquia della città popolosa che un tempo si estendeva al posto di Nuova Edo. Quella vista era fin troppo orribile anche per lei.
–Oh mio Dio…– disse in un soffio.
Yoshimitsu assunse un’espressione interrogativa, sorpreso dall’uscita inaspettata di quella ragazza che fino ad ora aveva solo sentito imprecare rumorosamente. –Oh, quello…– disse accennando al paesaggio desolato –Beh, immagino che faccia sempre questo effetto a chi non l’ha mai visto. Ma ci si abitua in fretta, purtroppo. O per fortuna–.
Kunimitsu non disse niente, provò solo l’istinto codardo di raggomitolarsi sulla comoda poltrona e distogliere lo sguardo mentre la dura realtà le scivolava inesorabilmente accanto. Ma non lo fece e continuò a riempirsi gli occhi di quell’orrore.
I due rimasero a lungo in silenzio mentre la navicella fluttuava su quella devastazione, accompagnati unicamente dal suono elettronico dei comandi.
Dopo un po’ di tempo la kunoichi decise che era meglio riprendere il tentativo di farsi dare delle spiegazioni.
–Se proprio ci tieni a fare il misterioso almeno parlami di mio nonno. Tanto questo non è un segreto, no?–.
L’uomo mascherato annuì e si schiarì la voce. –Dunque, vediamo… Come ti ho già detto sono stato allievo di tuo nonno durante gli anni passati nei bunker. Era un valente maestro di arti marziali e una brava persona. È stato molto generoso con me accettando di insegnarmi quello che sapeva senza aspettarsi nulla in cambio e forgiando una katana apposta per me–.
–Eppure lui non mi ha mai parlato di te, come mai?–.
–Immagino che abbia preferito evitare di parlare alla sua giovane nipote di una persona che si era data all’illegalità. Ed è buffo se si considera che è stato lui a regalarmi questa maschera per coprire la mia identità–.
Kunimitsu saltò quasi sulla sedia a quelle parole. Ora capiva come mai quella persona le sembrava così familiare, ed era perché aveva già visto una volta quella maschera. L’aveva vista nella vetrina che ospitava la collezione di maschere Noh di cui suo nonno andava così fiero, quella stessa collezione a cui apparteneva la sua.
Hannya e Kitsune, dopo tanti anni le due maschere si erano ritrovate.
–Oh beh, questo ha dell’incredibile!– osservò colpita dalle rivelazioni che le si presentavano davanti. Ora riusciva a focalizzare quel posto vuoto sullo scaffale, proprio accanto a quella che un giorno sarebbe diventata la sua maschera.
Yoshimitsu emise la sua solita risata metallica. –Non poi tanto, visto che ho iniziato a cercarti anni fa! Anche se probabilmente non ti avrei mai trovata se Marshall non mi avesse parlato di una esperta di ninjutsu che se ne andava in giro con la maschera di una Kitsune bianca!–.
–E qui ritorniamo alla domanda principale: perché diavolo mi stavi cercando?– insistette lei, stufa di ripetere la stessa questione.
–Potrei dirti che avevo voglia di rivedere l’unica parente ancora in vita del mio vecchio maestro, ma questa non è l’unica verità. La verità più importante è che sto cercando persone come te, Kunimitsu–.
L’uomo si fermò per trarre un sospiro, poi riprese a parlare con un tono insolitamente solenne per lui. –Persone che abbiano capito in che razza di ambiente si trovano a vivere, che si rendono conto che la legge che regna a Nuova Edo non corrisponde alla giustizia, che posseggano la volontà di non lasciarsi trascinare dalla massa e di non colare a picco insieme a questo cadavere di mondo. Ho bisogno di persone che abbiano la forza di lottare contro la Mishima Zaibatsu, per rovesciarla con le buone maniere o con la forza. Io penso che tu possegga tutte queste cose, Kunimitsu, anche se forse non te ne sei ancora resa conto. E tu?–.
Kunimitsu assistette con grande sorpresa a questo improvviso monologo e sentì che una qualche emozione, smossa da quelle parole che le dicevano ciò che aveva sempre provato e desiderato, si era improvvisamente staccata dal suo subconscio e aveva cominciato a volteggiare dentro di lei, trascinando con sé  una ragnatela di pensieri.
–Io… io…– balbettò, confusa. –Non capisco… Chi sei tu? Cosa mi stai chiedendo?–.
Io sono il leader del movimento ribelle Manji – disse lui, e anche se non poteva vederlo, la ragazza immaginò che in quel momento stesse sorridendo con convinzione –e quello che ti sto chiedendo è, Kunimitsu: vuoi unirti a noi?–.
Impossibile dire quali emozioni si risvegliarono in quel momento nell’animo della donna con la maschera sul volto. Stupore? Eccitazione? Euforia? Paura? Agitazione? Confusione? Rimpianto? Tutto ciò le impedì di rispondere immediatamente.
Yoshimitsu continuò a parlare e a dare quelle spiegazioni che aveva rimandato per ore, lasciando che la ragazza raccogliesse i propri pensieri.
–L’ideogramma Manji (卍), come saprai, per i buddhisti è il simbolo dell’armonia universale e del circolo della vita ma per il nostro clan è il segno della rinascita a cui aspirano quelli come me e te, se lo vorrai. Non siamo molti, per ora, 300 circa fra diplomatici, pensatori, guerriglieri, politici e chiunque altro abbia scelto di dedicarsi alla nostra causa, quella di portare la democrazia e la giustizia in questa città. Cosa ne pensi?–.  
Kunimitsu non stava più nella pelle dopo questa rivelazione. –Io… sapevo che doveva esistere per forza una resistenza! Le esplosioni di stanotte… erano opera vostra, vero?–.
Il leader del Manji annuì.
–Non ti preoccupare, avrai tutto il tempo che vuoi per pensarci. Ora guarda, siamo arrivati– disse indicando quel che rimaneva di un grattacielo, steso su un fianco come il relitto di un naufragio. Stranamente la facciata era ancora in buone condizioni ad eccezione di una voragine circolare in cui andò a infilarsi il veivolo.
–Ti piacciono le montagne russe?– chiese Yoshimitsu di punto in bianco –Beh, spero di sì…–.
Kunimitsu non fece nemmeno in tempo a dire “cosa?” che l’aereonave mise il muso in giù e iniziò a precipitare in picchiata nel buio delle rovine. La kunoichi si aggrappò ai braccioli mentre la forza d’inerzia la premeva con forza incredibile sullo schienale della poltrona.
Dopo pochi secondi di terrore il veivolo si raddrizzò con una brusca frenata e si udì il rumore dei sostegni che toccavano terra, seguito dal fragore metallico di un portellone che si richiudeva sopra di loro.
–Eccoci qua– disse il leader del Manji stiracchiando le braccia –Ancora pochi secondi e potremmo uscire… giusto il tempo di decontaminare il veivolo. Ti sei divertita?–.
Kunimitsu, ancora tremante per lo shock, si voltò lentamente verso di lui – Accidenti… a… te…–.
 
*
 
La dottoressa Chang tirò la leva dell’interruttore generale e un attimo dopo le luci dei corridoi della Biotech si accesero una dopo l’altra con un sonoro scatto. Benché l’orario di apertura fosse alle 8 e il sole fosse sorto da poco, lei era già là accompagnata solamente dall’eco dei suoi passi.
Julia era grata che il dottor Boskonovitch le avesse dato il permesso di accedere al laboratorio a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché in certi momenti quello era l’unico posto in cui si sentisse davvero a casa.
Entrò nel suo luogo di lavoro, la stanza degli esperimenti sulla riforestazione, e fu avvolta dalla tranquillizzante penombra in cui la stanza era perennemente immersa; l’unica illuminazione proveniva da qualche lampada e dalle colture biologiche: cilindri alti circa mezzo metro con dentro un po’ di terra raccolta fuori della città e un seme ciascuno illuminato da un fascio di luce. Quello che si cercava di far crescere in quella stanza non erano semplici piante, era la salvezza futura del pianeta.
Julia, munita di cartellina, passò in mezzo ai cilindri illuminati scrutandoli attentamente in cerca della più piccola foglia. “Niente da fare, anche questi non hanno dato risultati. Dovremo procurarci nuovi semi e altra terra radioattiva”. Aveva posato la cartellina e stava quasi per andarsene nel suo studio quando sentì un rumore che sembrava provenire dal piano inferiore, dove si trovava il laboratorio di ricerche  sul DNA. Trattene il fiato cercando di capire se per caso non fosse stata la sua immaginazione. Il rumore si ripeté.
“Strano” si disse “non dovrebbe esserci nessuno a quest’ora! Oh, forse è il dottore. Vado a parlarci…”.
La dottoressa scese velocemente al piano di sotto e si fermò davanti allo spesso portellone metallico su cui campeggiava la scritta “Ricerche Genetiche. Responsabile: Dr G. Boskonovitch”. Armeggiò con qualche pulsante e il portellone si aprì con uno sbuffo per poi richiudersi dopo il suo passaggio. Dentro sembrava non esserci anima viva, ma la luce era stranamente accesa.
–Dottore?– disse Julia a voce abbastanza alta poiché il suo superiore era un po’ duro d’orecchi. Nessuna risposta. “Strano, molto strano” pensò addentrandosi nell’ampio androne gremito di cavi, schermi, macchinari di ogni sorta e scaffali refrigerati che contenevano campioni di sangue di molte specie animali. Si guardò attorno, come sperduta. Possibile che se lo fosse solamente immaginata?
–C’è nessuno?–. La domanda si spense nuovamente nel vuoto, ma stavolta una voce posata e melliflua le rispose: –Vedo che qui alla Biotech siete molto mattinieri–.
Julia trasalì. Quella non era la voce del dottor Boskonovitch.
–Chi… chi c’è là?– domandò lei con tono insicuro.
Un uomo in camice, seguito da altri due uomini in giacca scura, comparve da dietro l’alto macchinario a forma di torre in cui erano immaganizzati migliaia di mappe genetiche. Julia non lo aveva mai visto prima d’ora ma riconobbe con un sussulto quell’uomo anziano e dal volto arcigno che le era stato descritto innumerevoli volte.
A quel punto non poté far altro che tentare di mascherare la propria tensione dandosi un’aria fredda, distaccata e professionale. –Non so come sia entrato ma lei non può stare qui. Dovrebbe sapere che i laboratori non si possono visitare prima dell’apertura, Dottor Abel–.
L’uomo tirò su l’angolo delle labbra assumendo un sorriso beffardo: –Questo potrà valere per le visite scolastiche ma non per il Consigliere Scientifico della Mishima Zaibatsu, signorina–.
Julia si sistemò gli occhiali con nervosismo –Dottoressa, prego–.
–Bene, dottoressa…– aguzzò la vista sul cartellino che pendeva dal camice di Julia – dottoressa Chang. Visto che lei è qui per farmi rispettare le regole con la sua solerzia tornerò un’altra volta, ma spero che prima accetterà di farmi un favore, vuole?–.
–Mi dica e io le dirò se sarà possibile–.
Il dottor Abel giunse le mani in un atto che poteva sembrare quello di una preghiera ma anche il gesto di chi si sfrega le mani con compiacimento.
–Bene, la prego di far sapere al Dottore che ho la sensazione che qualcosa di mio sia stato sottratto dai miei laboratori e che adesso si trovi da queste parti. Io sono favorevole alla collaborazione fra scienziati, ma il furto è un’altra cosa… non so se mi spiego. Pensa di poter riferire questo messaggio?–.
–Senza dubbio–.
–Perfetto, andiamo allora–. Il dottore fece un cenno ai due uomini e poi uscì dalla stanza passando accanto alla dottoressa.
Julia rimase perfettamente immobile finché non sentì rumore di passi sulle scale, poi si diresse verso una sedia girevole e vi si lasciò cadere come un corpo morto.
Le gambe le tremavano terribilmente.
 
*

I due avevano appena varcato il portellone a chiusura ermetica del rifugio quando Yoshimitsu si sentì arrivare un colpo tra capo e collo che per poco non lo mandò disteso per terra.
Kunimitsu si voltò assumendo istintivamente la posizione da combattimento e si ritrovò davanti un uomo alto e muscoloso, coi lunghi capelli biondi legati in una coda e il viso dai lineamenti occidentali incorniciato da una barba di parecchi giorni.
–Capo! È questo il modo di comportarsi?– esclamò il nuovo arrivato sgridando impietosamente l’uomo mascherato che ancora barcollava per il colpo inferto –Ci hai fatto preoccupare–.
–Ahi… ahi…– si lamentò Yoshimitsu mentre massaggiava il punto dove si era abbattuta la manata dell’altro uomo –Che dolore…–.
–Sono passate più di 24 ore dal nostro ritorno alla base e non ci hai mandato nemmeno un messaggio per dirci cosa stava succedendo in città! Angel ha delle notizie per te e ha cercato di contattarti tutto il tempo! Pensavamo che ti avessero preso– continuò imperterrito il biondo, squadrando Yoshimitsu a braccia conserte.
Poi, con grande sorpresa della ragazza, i due scoppiarono a ridere.
–Kunimitsu– disse il mascherato ancora ridendo –Ti presento Phoenix–.
L’uomo afferrò la mano di una titubante Kunimitsu e la stritolò con una poderosa stretta –Phoenix, come la fenice che rinasce dalla cenere, è così che mi faccio chiamare– disse lui ammiccando. “Strano” pensò lei mentre cercava di divincolarsi “anche questo tipo ha un’aria familiare”.
–Piacere– mormorò la kunoichi ritraendo la mano dolorante –Kunimitsu, come… beh, come la spada. E il fiore…–.
Phoenix diede un’occhiata più approfondita ai due e poi prese a grattarsi il mento barbuto, assumendo un’aria pensosa. –Ma cos’è, una nuova moda? Sembrate due cloni!–.
–Cosa!?– esclamò lei, evidentemente poco contenta di essere paragonata a quello squinternato, e avrebbe aggiunto altro se Yoshimitsu non si fosse messo provvidenzialmente in mezzo.
–Ehm... Phoenix, potresti accompagnarla nella “stanza degli ospiti”?–. Poi si rivolse a Kunimitsu –Sarai chiusa in una stanza personale finché non deciderai se sarai dei nostri o meno. Se decidi di unirti a noi potrai accedere al resto dell’edificio, altrimenti dovrai restare lì finché la situazione non si sarà calmata abbastanza da poterti rimandare  a casa senza problemi–.
La kunoichi lo guardò con stupore –Insomma volete mettermi in prigione?–.
–È solo una misura di sicurezza– la rassicurò lui –Potrai avere tutto ciò di cui hai bisogno nel frattempo–.
–Mm ok– tagliò corto lei. Tutto a un tratto si sentiva stanca, troppo stanca per discutere. Per il momento un letto le sarebbe stato più che sufficiente, anche se fosse stata la branda di una prigione.
–Vedrai, ti troverai bene– disse Phoenix dandole una pacca sulla spalla che le fece quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite –Seguimi–.
L’uomo e la ragazza si stavano già allontanado quando la voce di Yoshimitsu li fece fermare: –Kunimitsu, dimentichi niente?–.
–Io?– chiese lei senza capire, poi si portò la mano alla tasca e quasi le venne un colpo al cuore. La droga. Dopo tutto ciò che era successo il pacchetto era ancora là al suo posto. Kunimitsu si chiese con orrore se per caso se la fosse scordata davvero, o se invece avesse sempre saputo che si trovasse lì nella sua tasca, sperando che Yoshimitsu non se ne sarebbe ricordato.
–Dammela– disse lui tendendo la mano meccanica –Bisogna distruggerla…–.
–Oh… beh… certo– disse lei con tono titubante, e poi gliela porse.
Mentre attraversava il corridoio seguendo la sagoma massiccia di Phoenix non potè fare a meno di pensare con preoccupazione che ben presto avrebbe cominciato a sentire la necessità di quel pacchetto dall’aria tanto innocua.
 
 
La stanza di controllo era sempre buia ad eccezione della pallida luminescenza dei monitor e quasi sempre vuota ad eccezione di una una ragazza occhialuta che ora se ne stava rannicchiata su una poltrona con una tazza di caffè sintetico stretta nelle mani. Il suo vero nome era Asuka ma all’interno del clan era conosciuta come Angel, perché come un angelo custode vegliava sui suoi compagni dalla stanza di controllo.
Quando Yoshimitsu entrò nella stanza, la poltrona ruotò di scatto.
–Yoshi!– esclamò Angel, l’esperta informatica  –Che fine avevi fatto? È da ieri sera che aspettavamo un tuo messaggio! Sono stata sveglia tutta la notte!–.
Yoshimitsu sospirò. Quel giorno lo stavano sgridando e insultando un po’ tutti. –Mi dispiace Asuka, dovevo cercare una persona e poi ho avuto dei contrattempi–.
–Sì, l’ho vista quando siete entrati– disse la ragazza facendo cenno ai monitor collegati alle telecamere di sicurezza –Comunque sia, eravamo preoccupati. In più il Dottore ci ha fatto sapere che vuole parlarti il prima possibile–.
–Come? Vi ha detto perché?– chiese Yoshimitsu con apprensione.
La ragazza scosse la testa. –No, non era un messaggio lungo. Era solo un codice morse. Forse ha avuto paura di essere intercettato–.
Yoshimitsu scosse la testa. Per arrivare a contattarlo nonostante il rischio intercettazione il Dottore doveva trovarsi in guai seri.
–Andrò da lui appena possibile. Altre novità?–.
–Guarda tu stesso– disse Asuka digitando alcuni comandi sulla tastiera. Sul monitor più grande apparve un mandato d’arresto con l’identikit di Kunimitsu.
–Sì, lo so. E allora?–.
Asuka sospirò scuotendo la testa. –No. Guarda i motivi del mandato, aggiornati alle 4 di ieri pomeriggio–.
Il leader del clan Manji spalancò gli occhi. –“Sospettata terrorista…”. Ma cos…–.
–E guarda qui cosa ci ha mandato il nostro infiltrato della polizia?– chiese Asuka con malcelata compiacenza. Nonostante la pericolosità della situazione non poteva esimersi dal provare un po’ di orgoglio per aver svolto così bene il suo lavoro.
Sul monitor accanto a quello raffigurante l’identikit apparve una foto sfocata: alcune ombre immerse in una nuvola di fumo, e una persona mascherata che risaltava leggermente meglio delle altre.
Yoshimitsu strinse i denti, capendo la portata di quelle notizie e le loro conseguenze. Non gli importava nulla di essere stato visto dalla polizia perché sapeva che prima o poi gli sarebbe successo. Il problema era un altro.
–Pensano che lei sia te. Le danno la caccia al posto tuo– disse Angel, dando voce alle sue preoccupazioni.
L’uomo con la maschera da Hannya guardò l’identikit della donna con la maschera da Kitsune, scuotendo la testa con rassegnazione. –Quando lo verrà a sapere mi ucciderà…–.

*

Come ogni mattina le due inseparabili amiche e compagne di studi, Ling Xiaoyu e Miharu Hirano, percorrevano insieme la strada che conduceva alla Facoltà di Scienze. Le due si conoscevano da quando erano bambine e avevano sempre condiviso tutto con grande amicizia: scuola, amici, giochi, vestiti, sogni e tutto ciò che può occupare la mente di una semplice ragazza dall’asilo nido all’università. Fra loro non c’erano mai stati segreti, almeno fino a quel momento. Con che coraggio, infatti, avrebbe potuto dire alla sua migliore amica che il ragazzo dei suoi sogni, quello di cui amava fantasticare insieme a lei fin dal liceo, era una specie di mostro?
–Che ti prende Ling?– chiese Miharu di punto in bianco –Oggi mi sembri stranamente seria!–.
Ling si affrettò a sorridere e a sventolare la mano come per dare poca importanza alla faccenda  –Oh, niente niente! Sono solo un po’ stanca per via dello studio!–.
–Mah…– rifletté l’altra con poca convinzione –e da quando saresti diventata una secchiona?–.
La cinesina si voltò verso di lei e le fece una linguaccia scherzosa –Smettila di prendermi in giro! Guarda che fra noi due sei tu la più somara, o mi sbaglio?–.
Ma Miharu non rispose alla provocazione perché stava guardando diritta davanti a sé con gli occhi spalancati dalla sorpresa. Ling riportò lo sguardo sulla strada per vedere quale fosse la causa della sorpresa dell’amica e in breve assunse la stessa espressione.
Takeshi Kawamura, con la sua camminata sicura di sempre, stava andando dritto dritto verso di loro guardandole negli occhi; qualcosa di inconcepibile.
–Oh mio Dio– sussurrò Miharu senza quasi muovere le labbra –Ti sta guardando, sta venendo verso di te!–.
–Ma no, che dici!– rispose Ling cercando di dissimulare il terrore.
Ma Xiaoyu non poté convincersi a lungo che il ragazzo stesse facendo la stessa strada solo per caso, perché subito dopo si fermò davanti a loro costringendole ad arrestare il loro cammino.
Jin/Takeshi, senza nemmeno salutare e mantenendo la stessa espressione seria che lo caratterizzava, prolungò un attimo il suo silenzio e poi chiese con gran naturalezza: –Ling Xiaoyu, vuoi uscire con me domani?–. Nessuno notò che la mascella di Hirano aveva quasi raggiunto il marciapiede.
La ragazza con le codine, completamente sconvolta, poté a malapena annuire.
–Bene– disse Jin –Allora vediamoci domani sera alle 9 all’ingresso del Luna Park–. Detto questo voltò loro le spalle e se ne andò da dove era venuto.
Le due ragazze si guardarono strabuzzando gli occhi, l’una sorpresa perché mister silenzioso aveva rivolto loro la parola, l’altra perché non si aspettava un simile comportamento da un ragazzo che il giorno prima aveva visto trasformarsi in una specie di chissà–cosa.
–Oh mio Dio!– esclamò Miharu mettendosi a saltare per la felicità –Ti ha chiesto un appuntamento!!! Ti ha chiesto un appuntamento!!!–.
Anche Xiaoyu prese a saltellare trascinata all’euforia dall’amica, ma la sua felicità era più apparente che reale perché in fondo sapeva che quello non poteva essere davvero un appuntamento.
 
*
 
 La porta si aprì con un cigolio rugginoso e i due entrarono nella stanza buia. Phoenix accese la luce e Kunimitsu si ritrovò davanti a quella che sembrava una fotocopia del luogo in cui aveva abitato fino alla sera prima: una stanza quadrata, dai muri grigi senza finestre, non piccola ma spoglia, occupata solamente da una brandina e da un comodino a cassetti. In fondo c’era una porta che probabilmente si apriva su un bagno.
–Certo non è il Ritz…– scherzò Phoenix –Ma almeno è tutta tua e nessuno verrà a scocciarti mentre riposi–.
La kunoichi si voltò verso di lui con apprensione. –E dovrai chiudermi a chiave?–.
L’uomo si grattò la testa, un po’ imbarazzato. Certo, essere chiusi a chiave in una stanza non avrebbe fatto piacere a nessuno e lui si sentiva a disagio nel dover mettere qualcun altro in quella situazione.
–Ecco… sì, è così che facciamo sempre. Finchè non accetti se essere dei nostri o meno non possiamo permetterci che tu venga a sapere troppe cose sul nostro rifugio e sulle persone che ci abitano–.  
–Capisco…–disse lei. In realtà non aveva nessuna intenzione di essere chiusa lì dentro e quindi sperava di riuscire a persuadere quell’uomo, che le dava idea si avere un buon cuore, a non farlo. Non che avesse intenzione di ficcanasare in giro, ma, oltre al fatto che il trovarsi a sostenere degli obblighi la metteva in agitazione, aveva bisogno di recuperare il pacchetto di droga.
–Ma vedi…– continuò Kunimitsu, cercando di assumere un tono innocente e preoccupato –Io soffro di claustrofobia… ed è terribile l’idea di dover essere chiusa qui senza nemmeno sapere quando potrò uscire!–.
–Mi dispiace– disse Phoenix con aria contrita –Ma le regole sono queste…–.
–Non potresti lasciare la porta aperta? Giuro che me ne starò chiusa qui buona, ma il sapere che la porta non è chiusa a chiave aiuterebbe–.
Phoenix restò un attimo in silenzio a considerare l’ipotesi. In fondo se il capo aveva portato quella donna fin là doveva trattarsi di una persona affidabile, no? Per un attimo presere seriamente in considerazione l’idea di lasciare la porta aperta, poi il suo senso del dovere ebbe la meglio sulla sua gentilezza.
–Scusa, volpe. Ma non posso proprio, non oggi almeno–. Phoenix si scusò con un sorriso per poi indietreggiare e uscire dalla stanza. –Fra un po’ qualcuno verrà a portarti qualcosa da mangiare–.
Kunimitsu osservò l’uomo mentre tirava fuori un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni, il tutto come se scorresse al rallentatore. “È così che devono sentirsi i carcerati” pensò con rassegnazione lanciando all’uomo uno sguardo implorante che lui non poteva vedere..
Quando udì il rumore della chiave che girava nella serratura e i passi di Phoenix che si allontanavano per il corridoio lasciandola immersa nel silenzio, un brivido di freddo le percorse la schiena.
*
Quella mattina il Dottor Boskonovitch stava percorrendo la solita strada che portava ai laboratori Biotech quando qualcosa attrasse la sua attenzione: transenne bianche e arancioni, fosforescenti.
Il Dottore sgranò gli occhi e avanzò verso di esse con la massima velocità che le sue gambe stanche permettevano. Vide che su quelle strisce sospese all’inizio di una strada c’era scritto qualcosa in inglese: “do not trespassing”. Un agente della cyberpolizia faceva la guardia dall’altra parte.
–Prego signore, si allontani, non ostacoli il passaggio degli addetti– disse la guardia con voce impersonale.
–Che cosa è successo?– chiese Boskonovitch, un po’ affannato dalla corsa, cercando di vedere al di là delle robuste spalle del poliziotto.
–Un incidente. Ma la prego di allontanarsi, qui non c’è niente da vedere–.
Ma il Dottore aveva già visto abbastanza: aveva visto due lenzuoli stesi a coprire due corpi in una pozza di sangue.
Un brivido gli percorse la schiena mentre, meccanicamente, si voltava a guardare le finestre della Biotech che occhieggiavano fra i palazzi a veramente poca distanza.
“Troppo poca per essere una coincidenza”.
 

Quando entrò alla Biotech la prima cosa che il dottore fece fu quella di controllare la casella della posta nel suo ufficio. Probabilmente era uno dei pochi uomini a Nuova Edo a mantenere quell’usanza ormai soppiantata dai messaggi elettronici.
L’aprì ed era vuota come l’aveva lasciata. “Ma dove diavolo si sarà cacciato? “ si chiese con ansia. “Non è da lui non rispondere alle richieste di aiuto. Eppure sono passate molte ore…”.
La seconda cosa che fece fu quella di dirigersi verso una certa zona dei magazzini, quella a lui riservata, ben sapendo però che ormai non avrebbe trovato più niente.
“Non avremmo dovuto immischiarci nei loro piani” pensava con amarezza e preoccupazione “Volevamo fare del bene ma stiamo facendo più male che altro”.
Mentre era così assorto nei suoi pensieri la Dottoressa Chang lo intercettò nel corridoio. Boskonovitch fu stupito nel vedere quello sguardo di apprensione negli occhi della sua ricercatrice più determinata.
–Dottore, devo parlarle…– disse lei tormentandosi un lembo del camice.
–Sono un po’ impegnato in questo momento, Dottoressa Chang, ma se vuole può raggiungermi nel reparto di ricerche genetiche fra mezzora– disse lui, cercando di nascondere il proprio nervosismo sotto l’aria amabile che lo contraddistingueva.
Improvvisamente la dottoressa afferrò l’anziano superiore per una spalla. Un gesto impulsivo a cui nessuno dei due si sarebbe aspettato di assistere.
Julia Chang si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno e poi parlò a voce bassa, concitata. –Abel è stato qui. Stanotte. Ci accusa del furto di qualcosa… Dottore, che sta succedendo?–. Ora il suo sguardo era quasi inquisitorio.
Boskonovitch si sentì raggelato da questa notizia, ma non lo diede a vedere. al suo posto tentò di scacciare la preoccupazione di Julia con una risata, come se fosse cosa di poco conto. –Ha detto così? Oh, non si preoccupi Chang. Si tratta solo di un malinteso, mi occuperò io della questione. Torni pure a occuparsi dei suoi studi–.
Julia restò interdetta dallo sguardo sorridente del suo superiore. –Cosa? Ne è sicuro? –.
–Certamente, le ripeto di non preoccuparsi. Non è successo niente–.
Ma il dottore Boskonovitch sapeva bene che questa non era che una gigantesca bugia e la stessa Julia ne avvertì il sospetto una volta rimasta sola nel corridoio.








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Università... il nemico numero uno delle fanfiction.
Che dire, mi scuso per il ritardo... spero non sarà troppo difficile riprendere il ritmo del racconto e ricordarsi cosa era successo nei capitoli precedenti! Ma veniamo a questo capitolo...
Le cose, spero, cominciano a farsi più chiare. Le esplosioni e i furti avvenuti nel bel mezzo di Nuova Edo sono opera del clan Manji, che da gruppo di ladri in tekken sono diventati una schiera di cospiratori politici capitanata da Yoshimitsu, il quale, come ormai abbiamo capito tutti, è un grande fan di "V per Vendetta".
Nello stesso tempo però si pongono nuovi interrogativi: che cosa avrà in mente il nostro Jin? Kunimitsu entrerà nel clan? chi sarà il misterioso assassino che si aggira nei pressi della Biotech? E che cosa va farfugliando il dottor Boskonovitch? Ma soprattutto riuscirà morrigan89 a diventare puntuale e a smettere di fare domande a effetto?




Miss Trent: Grazie come sempre per la tua recensione accurata :) Spero che la coppia scoppiata Nina-Lee non turberà troppo la tua lettura! Comunque ti assicuro che Nina non si farà mettere facilmente i piedi in testa da quel figlio di buona donna
Dark Tranquillity: Ecco Paul! Capisci ora perché non avevo risposto alla tua domanda  :P Per quanto riguarda King penso che potrebbe fare qualche apparizione in futuro ma non avrebbe in ogni caso un ruolo fondamentale visto che ho già inserito un bel po' di personaggi principali e la storia è già abbastanza ingarbugliata per conto suo.
Angel Texas Ranger: ehm, se l'ultimo aggiornamento ti era parso tardivo che cosa dirai di questo? Chiedo perdono ç_ç








   
 
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