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Autore: feffyna22    12/04/2016    5 recensioni
Seguito di Dandelion In The Spring - Dal capitolo 15b [Everlark]
Katniss è l'unica vincitrice dei 74esimi Hunger Games. Adesso è un mentore e Snow proverà a sfruttare la popolarità della ragazza. Ma Katniss ormai non è più la stessa, si è smarrita nell'arena e adesso combatte per ritrovarsi. Come si evolveranno le cose tra lei e Peeta? E la rivolta nel distretto 12?
"Not all those who wander are lost", cit. J.R.R. Tolkien
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Black Pearl'
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CAPITOLO 2b  -   I miei occhi




 
Dev’esserci ancora un senso di me, altrimenti non si spiega la rabbia che provo ogni volta che quei due entrano nella mia stanza.
E poi ho queste percezioni: percepisco, ad esempio, che nessuno sta facendo quello che fa per il mio bene.
Quindi, la mia capacità di giudizio è più che conservata.
Poi, sì, non riconosco il mio viso nello specchio. Una gran bella rogna, non faccio che spaventarmi ogni volta che vedo il mio riflesso nel vetro delle finestre.
Dato che non sto migliorando, hanno cambiato strategia. Dicono che hanno bisogno di me, che il presidente ha bisogno di me. Che è passato un mese dalla fine dei giochi e mai nella storia si è atteso tanto per vedere la vincitrice.
Quindi, per fare un piacere al presidente in persona, devo rimettermi in pari. Mi mostrano alcuni filmati delle passate edizioni degli Hunger Games. Per loro è divertente, ridono e scherzano e spettegolano a volontà. Mi è chiaro che li disturbo ogni volta che vomito o che mi lamento, costringendoli ad interrompere la visione. Ma non so impedirlo, veder morire tutti quei ragazzi in modi così violenti mi dà la nausea.
 
Oggi ho visto finalmente l’ultimo filmato, i miei giochi. La grassona dice che è stata la parte facile della mia riabilitazione. Che riabilitazione non è, perché non mi ricordo un cazzo.
Ecco la parte difficile: passerò le prossime quarantotto ore a collegare nomi alle foto di gente che dovrei conoscere.
Ma parliamo di Caesar Flickerman: per la prima volta nella storia ha concesso al vincitore di conoscere le domande dell’intervista con ben due giorni di anticipo. Una leccornia. Gli avranno detto che mi si è bruciato il cervello.
Permetterà così ai due ebeti di insegnarmi cosa dire e quali espressioni adottare davanti al pubblico. Per non sembrare proprio completamente matta.
Non sono molto preoccupata per le quattro frasi che imparerò a memoria, quanto più per l’intensità dei miei sguardi. Da quando mi sono risvegliata ho provato due o tre emozioni al massimo. E nessuna di quelle compare sul mio viso, teso in un’unica, prevedibile espressione.
Mi insegnano quali muscoli facciali muovere per sorridere, come governare le rughe della fronte, da corrugare nei momenti drammatici.
L’idiota aveva ragione, è davvero difficile. Nonostante ciò, in due giorni sono pronta. Devo dire che è molto semplice esistere adesso: non mi è chiara la storia degli hunger games, non ci capisco molto di politica e non sono convinta di ricordare tutte le cose che hanno detto sul mio passato, ma non me ne importa nulla. Perché non conosco davvero nessuno, nemmeno me stessa. Così, mentre dietro le quinte lo staff sa e teme, io salgo sul palco spavalda e, credetemi, è stata una delle interviste migliori di sempre. L’hanno detto tutti.
 
Ammetto di esserci rimasta male, in stazione nel distretto 12 trovo solo altri pacificatori ad attendermi. Ma, siccome la nuova me è nata quindici giorni fa, posso dire di aver creato con loro il rapporto più intimo ed intenso che ho mai costruito in tutta la mia vita.
Stucchevoli pensieri, proprio mentre mi spintonano nella mia casa nuova di zecca. Mi buttano a terra e richiudono la porta. Molto intimo.
Trovo una lettera da parte del capo del distretto, molte parole di conforto. Su un bigliettino a parte, un piccolo elenco dei miei morti. Riconosco di sfuggita quello che dovrebbe essere il nome di mia madre, non provo nulla ma non voglio comunque sapere: lascio cadere il biglietto per terra ed inizio a guardarmi intorno.
Il giorno dopo i pacificatori mi scortano in comune, mi viene letto il nuovo regolamento del distretto.
A pranzo mi mettono in mostra davanti a tutta la piazza ed io faccio la parte della brava capitolina, pronunciando con cura ogni singola parola del discorso preparato da Effie. Nemmeno l’arrivo di Haymitch riesce a distrarmi.
Perfetta.
Sono perfetta.
E arriviamo a me. Al presente. A cosa è successo adesso.
Sì, insomma. Scendo da quel palco e torno a casa.
Brividi squassanti e il delirio e il calore sulla fronte.
Non so cosa sia, so solo che è il mio biglietto per poter, con molto molto dispiacere, rinunciare alla festa del villaggio.
Davvero un peccato.
Sì, la festa mi preoccupava: voglio dire, rivedere in massa tutte quelle persone che pensano di conoscermi, di aver condiviso qualcosa con me in passato.
E sono piuttosto convinta, dopo aver visto il video dei miei giochi, di non essere stata prima molto diversa da come sono adesso.
Detto ciò, appunto, il presente.
Nonostante il coprifuoco e la mia disciplinata condotta, mi ritrovo alle quattro del mattino davanti alla panetteria del villaggio.
Ora, potrei dilungarmi su come ho fatto ad eludere l’attenta sorveglianza di quei due carciofi secchi delle mie guardie, ma invece la vera domanda è: perché sono qui?
E’ come quando mi viene in mente una cosa da dire e la dimentico all’improvviso. La cerco, la cerco e la ritrovo solo se ripercorro i miei passi. Ma a volte l’ho persa e basta, mi resta la sensazione sgradevole per qualche minuto e poi scompare.
Se sto qui, davanti alla porta del retro della panetteria, è per ripercorrere i miei passi o mi sono già smarrita?
E’ una faccenda buffa, quella della speranza. Parlo a non so chi, non ho un ricordo né un guizzo di genuino interesse verso gli altri. E, nonostante tutto, penso davvero di poter recuperare ciò che ero.
Ero qualcosa in questo posto.
Ma forse non sono pronta ad affrontare questa parte di me, me ne rendo conto all’improvviso, mentre sento il rumore della porta aprirsi e vedo comparire un uomo sulla quarantina nel cortile della casa. Mi guarda e, dopo qualche secondo di rigidità, mi corre incontro.
“Katniss!”, urla, “Katniss!”, ancora. Ne parlate tutti, ma io non so perché mi chiamate così.
Appena incontro i suoi occhi, sento i miei roteare all’indietro e cado a terra.
“Aiutatemi! Portiamola dentro!”
 
“Ciao”, mi dice. Non è la voce di prima.
 Ho gli occhi aperti ma non riesco a vedere nulla.
“Non vedo”, dico senza agitazione. E davvero non sono agitata: insomma, per essere spaventata dovrei avere qualcosa da perdere.
“Dove sono?”, continuo.
“Sei a casa, ti abbiamo portato prima che il sole sorgesse, i pacificatori temevano di essere puniti per essersi addormentati durante il turno di guardia, non diranno nulla. E’ venuto il dottore a visitarti poco fa, dice che è colpa delle sostanze inalate nell’arena, che devi disintossicarti. Va tutto bene?”
Me lo chiede perché non dico una parola? Me lo chiede perché sono innaturalmente tranquilla? O forse perché ha notato che il mio torace si abbassa e si innalza con sorprendente regolarità?
Non so se è davvero pronto, ma io così proprio non ce la faccio. Cerco nel vuoto il suo viso.
Lui comprende le mie intenzioni e mi porta una mano sulla sua guancia. Inizio ad esplorare, scopro una lieve peluria sul mento ed intorno alle labbra, avverto i lineamenti spigolosi della mandibola sui polpastrelli, accarezzo le tempie e sfioro appena i capelli.
Sento che sorride e so che gli calpesterò il cuore.
“Chi sei?”, sussurro.
Lui si irrigidisce e, dopo qualche secondo, sento la sedia graffiare il pavimento. E sento i suoi passi. Allontanarsi.
Il signor Mellark, evidentemente presente nella stanza già da prima, si alza immediatamente e chiude la porta. Si avvicina al mio letto e si presenta. E anche il nome della sua famiglia non mi dice nulla.
E’ molto gentile, mi accorgo che per tutto questo tempo ho avuto ragione e che non ho mai avuto a che fare con persone gentili da quando mi sono risvegliata.
Mi chiede molte cose ed io anche gli pongo qualche domanda. Siamo entrambi sinceri e tendo l’orecchio in un certo momento, quando mi sembra di avvertire addirittura un poco di commozione nella sua voce.
Comunque, ricevo molte più risposte in questi minuti che non nell’ultimo mese.
Ed ecco che, mentre l’uomo inizia a parlarmi di mia madre, di com’è stata giustiziata e della morte di mio padre, torna uno dei miei ricordi, uno di quelli che proprio non riuscivo a recuperare.
 
Rivolta
 
E’ solo una parola, la pronuncio sottovoce. Ma basta questo, lui non parla più e trattiene il respiro.
Mi accarezza i capelli ed io spontaneamente ricerco ancora la sua mano, anche se il mio cuore continua ad essere addormentato o morto.
“Provo a convincere Peeta a tornare da te, ok?”
“Ok.”
Sa che non me ne importa, un ok mi sembra un’ottima risposta.
Peeta.
Uno dei ragazzi che mi avevano mostrato in foto?
Non una persona importante, non secondo la grassona: altrimenti ricorderei il suo nome. Ricordo a memoria i nomi delle persone che dovrei amare.
Però, è da Katniss proteggere i suoi cari e poi mi sono ritrovata in panetteria per una qualche ragione. Sono quasi del tutto convinta che Peeta potrebbe davvero essere importante per lei, a questo punto.
Sento altri passi e mi rendo conto che è tornato.
“Mi dispiace”, dico, ma non lo penso sul serio. Cioè, non provo dispiacere, ma Katniss di sicuro sì. Le farei un torto se non glielo dicessi. E fare un torto a Katniss, a quanto ho capito, equivale a farne uno a me stessa.
“So che non ti dispiace. Mio padre mi ha detto tutto.”
Ah, è il padre.
“Immagino che a Katniss sarebbe dispiaciuto”, dico senza troppi giri di parole. E la risposta che ricevo mi congela il sangue.
“Cazzo. Com’è possibile che non ti rendi conto che sei tu Katniss?”
Bella domanda.
Bella domanda.
“Bella domanda.”
Così smetto di fingere. E non so se sia, almeno in parte, paragonabile ad un’emozione. Di certo, mi sembra di non aver mai finto con lui. Di essere sempre stata Katniss. Ed è molto strano, perché non ho la più pallida idea di chi siano, lui e Katniss.
Mi parla, mi chiede delle cose, mi rivela dei segreti.
Lui sa che mi rilassa.
E davvero sono più serena adesso, mentre mi accarezza il viso e i capelli.
Quando la sirena del coprifuoco suona, tutta la casa si accende. Si alza, mentre il padre ci raggiunge salendo le scale velocemente. Lo richiama e scappano entrambi giù dalle scale.
Avverto per la prima volta un nodo alla gola, mi rendo conto che mi sento sola, una sensazione che conoscevo bene e che riscopro solo ora.
In men che non si dica, piombo nel mio disgustoso silenzio, vorrei almeno poter immaginare il sole sorgere. Dicono che sia uno spettacolo stupendo. Ma non ricordo com’è l’alba, l’ho vista solo nei filmati. Non è strano che sia arancione? E la luce che filtra appena attraverso le finestre? Non è una cosa davvero bizzarra? E non è strano che, anche se non me la ricordo, io lo so che è bellissima?
 
Sono sola.
 
E poi, la portafinestra, l’altra porta, le assi del pavimento, le scale, la mia stanza, il suo respiro. Alzo gli occhi.
Dio, quanto vorrei poter vedere adesso.
Lui si china su di me, mi bacia sulle labbra.
Ha l’affanno, il suo alito è caldo e vivo. Ed io, allora, lo sono: allora io sono viva!
I suoi capelli ricadono sulla mia fronte e la punta del suo naso incrocia il mio, lasciandomi una lacrima o forse una goccia di sudore. Ricordo che non dovrebbe trovarsi qui ed un’ondata di ansia e paura si impossessano dei miei muscoli.
Lo ricaccio indietro, concentrando tutte le mie forze sulle braccia.
“Non devono trovarti qui, non devono!”, urlo e mi dimeno, perché (e non so il perché) è fondamentale che non lo trovino qui. E’ fondamentale per me e per lui e Peeta sa che non mento. Così lo sento correre via, di nuovo.
Scompare ogni cosa di lui ed io decido di non pensarci più.
 
 
 
 
   
 
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