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Autore: Red Raven    29/04/2016    0 recensioni
Portò le mani alla cinta, sulla scarsella: dalla tasca, estrasse un mazzo di carte bianche. Le scorse, e su ognuna di esse, per un attimo solo, appariva una figura diversa: uomini, donne, animali, paesaggi terrestri e celesti.
Ne scelse ventidue in tutto: non sembravano diverse dalle altre. Ora l’acqua nel bacile rifletteva di nuovo la luce delle stelle. Prese le carte, e le lasciò cadere nell’acqua, una per una: le carte affondarono nel bacile e sparirono.

Ventidue carte, ognuna corrispondente a un Eroe: una pazza, una barbara cieca, una piratessa senza scrupoli, una principessa con qualche chilo di troppo, uno gnomo troppo cinico, due elfi gemelli, un Imperatore codardo, un Cavaliere di Drago, un demone ninfomane, una cacciatrice senza memoria, una scrittrice inglese, una spia vanitosa, un carrettiere di belle speranze, una regina di dodici anni, una Sacerdotessa disillusa, un guerriero alcolizzato, un nano senza un occhio, un bambino muto, un'assassina Alchimista, un politico con un sogno, un mezzo-uomo mezza rana e una drag queen.
Ventidue Eroi, con il potere di salvare il mondo.
O di distruggerlo.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Incest
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Capitolo 1
Asso di Bastoni – L’inizio


Roland

Il sole splendeva glorioso su Esthaven: gli uccellini volavano nel cielo azzurro, solcato solo da qualche nuvoletta bianco latte; le fronde degli alberi si muovevano piano nella brezza mattutina e Roland avanzava per la strada portando il suo carretto ricolmo di beni, con stampato in faccia un sorriso a trentadue denti.
Era il gran giorno: finalmente avrebbe mollato quel benedetto carretto, fatto ciao ciao con la manina al suo datore di lavoro e abbandonato per sempre quella schifosa città, partendo alla volta del suo grande sogno. Quel giorno nulla poteva andare storto.
“Ehi, carrettiere, attento a dove vai!”
O quasi.
“Mi scusi, signore!” gridò Roland all’uomo che per poco non aveva messo sotto, e proseguì per la sua strada, fischiettando.
Oltrepassò un manipolo di guardie sfaccendate, rivolgendo loro un rispettoso cenno del capo, accelerò il passo di fronte all’osteria di Madame Chevalier, sia mai che lo vedesse e attaccasse bottone, salutò allegro un gruppo di ragazzi più piccoli che si rincorrevano per i vicoli. Alla fine si fermò: dalla bottega di fronte a lui proveniva l’allegro chiacchiericcio dei garzoni. Roland inspirò a pieni polmoni l’odore invitante di pane appena sfornato: lasciò il carretto di fronte alla porta d’ingresso ed entrò.
“Buon giorno!” disse, pieno di baldanza. Il fornaio si voltò a guardarlo e corrugò la fronte.
“Giovanotto” disse, lanciando uno sguardo ai suoi abiti consunti ”se non hai soldi, ti conviene smammare.”
“Vengo da parte di mastro Fidja” fece il ragazzo, alzandosi in punta di piedi per raggiungere il bancone.
“La mia farina?” fece il fornaio. Roland annuì.
“Ragazzino, ti rendi conto che il sole è sorto da almeno tre ore? Quando dovrei preparare il pane, secondo te, eh?” sbraitò il fornaio in faccia a Roland.
“Mi è stata consegnata in ritardo. Io ho fatto più in fretta che potevo” disse il ragazzino, ergendosi in tutta la sua scarsa altezza e guardando il fornaio dritto negli occhi.
“Non ci crederei neppure se me lo giurasse la Regina in persona!” gridò l’uomo, il volto sempre più paonazzo.
“E’ la verità!” gridò Roland a sua volta.
L’uomo lo squadrò da capo a piedi, gli occhi porcini ridotti a una fessura: ”In ogni caso, ora devi ripagarmi del ritardo, ragazzino. Fila nel retro!” berciò, indicandogli una porta dall’altro lato del bancone.
Roland gli lanciò uno sguardo assassino, ma non disse niente: si limitò a dirigersi nel retrobottega, sbuffando a più non posso.
“Louis! Metti al lavoro questo marmocchio!” gridò il fornaio a uno dei garzoni, un ragazzo alto e smilzo con gli occhi storti, prima di tornare al bancone.
Louis lanciò a Roland una lunga occhiata di disgusto, prima di apostrofarlo con tono seccato: ”Vedi di non esserci d’intralcio, tu”.
Roland continuò a tacere: se si fosse messo a parlare, altro che lavoro nel retrobottega, l’avrebbero ammazzato di botte. In fondo gli era anche andata bene.
Louis non si dimostrò affatto gentile: dopo avergli ordinato di scaricare la farina e di portarla in cucina, lo tartassò per tutta la mattina. “Versa l’acqua”,”Bada al forno”,”Impasta questo”,”Pulisci quello”: non faceva che dargli ordini e prenderlo a sberle sulla nuca se sbagliava qualcosa, e considerata la sua scarsa esperienza, si ritrovò ben presto con un mal di testa tremendo.
“Non prendertela troppo.”
Roland si girò, sorpreso: a parlare era stato un ragazzo, poco più grande di lui, che gli sorrideva con aria scaltra. Quel sorrisetto gli fece venire i nervi: ”Perché non dovrei, scusa?”
Il sorrisetto si allargò: ”Perché sprechi energie e basta: testa bassa e bocca chiusa, ecco quello che devi fare qui. Poteva anche andarti peggio, non credi?”
Roland non disse niente, per non dargli la soddisfazione di sentirsi dare ragione.
“Come ti chiami, amico?” fece l’altro, mentre si puliva le mani nel grembiule.
“Roland” (1)
“Roland, e poi?”
“Roland Lemaire”
“Ah” fece il più grande, sempre con quel sorrisetto sulle labbra, e gli tese la mano ”Joel Martin. Ma puoi chiamarmi Joe” disse, strizzandogli l’occhio.
Roland gli strinse la mano senza dire nulla: quel ragazzo era gentile, certo, ma per qualche motivo lo irritava profondamente.
“Che c’è?” fece Joel.
“Sto cercando di decidere se mi sei simpatico.”
Joel scoppiò a ridere.”Non hai peli sulla lingua, vedo” disse. E riprese a ridere.
Roland decise che no, non gli stava affatto simpatico: si lanciò a testa bassa contro di lui e sferrò un pugno diretto al suo stomaco -solo che non ci arrivò, al suo stomaco: una morsa di ferro si era chiusa sul suo polso e ora lo stava stritolando. Roland spalancò la bocca per il dolore e cercò di divincolarsi: per contro, la presa si fece più forte, strappandogli un gemito.
Guardò Joel: aveva ancora quel sorrisetto in faccia, e gli occhi assottigliati in un’espressione sadica. “Certo che ne hai di fegato” sussurrò “Ma ti consiglio di conservarlo per quando ti servirà davvero.”
Roland sbarrò gli occhi: quel tipo gli faceva paura.
“Che succede lì?”
Louis comparve alle loro spalle all’improvviso, e Joel mollò il suo polso di colpo.
“Non starete mica facendo a botte?” disse scrutandoli con i suoi occhi strabici.
Joel fece un sorriso e inclinò la testa, quasi a sembrare un agnello indifeso “Non potrei mai fare a botte: va contro gli insegnamenti di Heil” disse, riuscendo persino a sembrare convincente.
Roland gli rivolse un’occhiataccia e fece per ribattere, quando Louis lo prese per la collottola e lo trascinò via.
”Forza, moccioso, vedi di darti da fare” gli disse spedendolo dritto contro il forno, tale che quasi si ustionò, e rimanendo dietro di lui a controllarlo. Roland non ebbe altra scelta che obbedire, ma quando, approfittando di un attimo di distrazione del suo aguzzino, si volse verso Joel, questi lo osservò come una volpe osserva una gallina. Con un brivido lungo la schiena, Roland sperò con tutto il cuore di passare indenne quella giornata.
Alla fine rimase in quel forno per tutta la mattinata: verso mezzogiorno andò a portare le ultime pagnotte al fornaio, e questi fece un cenno di assenso.
“ Va bene, ragazzino, ora puoi andare. Ma di’ al tuo padrone che se arrivi con un altro ritardo del genere ti butto nel forno, sono stato chiaro?”
Roland annuì, e stava per andarsene, quando d’un tratto si voltò verso il fornaio, gli sorrise e gli fece una sonora pernacchia.
“Come ti permetti? Brutto…” gridò l’uomo alla scia di Roland, che ormai se l’era svignata.
Roland fece un sorriso al cielo terso: il sole splendeva, gli uccellini cinguettavano, e finalmente nulla si sarebbe più frapposto fra lui e il suo più grande sogno.

“Quindi te ne vai?” disse mastro Fidja.
“Già” fece Roland, intascando gli ultimi denari nella borsa.
“Peccato” sospirò l’uomo, accarezzandosi i baffi “speravo che avessi rinunciato a queste scemenze una volta per tutte.”
“Non rinuncerò mai” gli disse il ragazzo, un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
Mastro Fidja alzò le mani in segno di resa “Affari tuoi, ragazzo.”
Roland lo ignorò, chiudendo la cinghia della sua borsa.
“Aspetta un secondo” disse il mercante “ho una cosa per te.”
Il ragazzino osservò incuriosito mastro Fidja aprire un cassetto della scrivania ed estrarne una catena d’argento: in fondo c’era un grosso pendente, rotondo, pesante e decorato con un complesso disegno che non riusciva a cogliere. Al centro brillava un grosso rubino.
“Aprilo” gli disse, porgendogli la catena.
Rolando afferrò il pendente: era più pesante di quello che sembrava. Lo aprì con fatica, e all’interno scoprì una fiala di vetro contenente un denso liquido rosso.
“Che cos’è?” chiese il ragazzo.
“Sinceramente, ragazzo, non ne ho idea” disse Fidja “ma a quanto pare ha un certo valore. Io non posso smerciarlo, ma forse può tornarti utile.”
“Perché no?”
“Guarda bene il disegno” disse il mercante con un cenno della testa verso il medaglione.
Roland osservò il complesso intreccio con attenzione: in principio sembrava solo una serie di ghirigori disegnati in modo da intrecciarsi tra di loro senza un reale scopo, quando si rese conto che alcune incisioni erano più larghe di altre. Seguendole con il dito, riuscì, dopo un po’ di tempo, a discernere il contorno di…
“Un drago!” esclamò con gioia.
“Abbassa la voce, ragazzo” bisbigliò il mercante, seccato “non è il caso di farlo sapere a tutta la città.”
Roland continuò a guardare il disegno, estasiato: ora che era riuscito a vederlo, non faceva che balzargli agli occhi.
“Come facevi a sapere…”
“Che vuoi partire per Kratev? Non sei così furbo come credi, ragazzo” fece il mercante lisciandosi i baffi, pur tenendo la voce bassa “Tutte quelle domande sui draghi buttate lì, come per caso…e ho trovato una mappa con le indicazioni per Silmar nello zaino che hai lasciato qui la settimana scorsa.”
Roland non disse niente: si limitò a lanciarsi addosso all’uomo e abbracciarlo stretto.
“Ehi, ragazzo! Mi sgualcirai il vestito!” ridacchiò Fidja, ricambiando l’abbraccio.
“Grazie, capo” fece il più giovane, guardandolo negli occhi.
Il mercante sorrise: “Buona fortuna, giovanotto. E cerca di non farti scoprire a passare il confine.”

Roland amava i draghi da quando aveva memoria.
Quando, da piccolo, suo padre raccontava a lui e ai suoi fratelli le storie delle guerre contro Kratev, mentre gli altri inorridivano di fronte alle crudeltà del conflitto, lui fantasticava su come sarebbe stato vedere un drago da vicino.
I suoi genitori scuotevano la testa ogni volta che lui faceva domande sui draghi: era vero che Heilig e Kratev erano in pace da molti anni, ormai, ma ciò era possibile solo perché Silmar faceva da intercessore. Nessuno dei due imperi aveva contatti diretti ormai da trecento anni, e una vicinanza di qualsiasi tipo all’Impero dei draghi e al suo corrotto stile di vita veniva ancora visto con sospetto.
Inoltre, per quanto ne sapevano loro, i draghi potevano essere tutti morti.
Naturalmente Roland non si curava affatto di questi dettagli da poco: continuava a sognare dei draghi, a disegnarli, a chiedere informazioni a tutti quelli che conosceva, cosa che provocò lo scompiglio del loro villaggio più di una volta.
Con il tempo, il desiderio del ragazzo di vedere un drago non si attenuò: anzi, divenne sempre più forte. Così, in una sera di fine inverno, annunciò alla sua famiglia che partiva.
“Per andare dove? Sei troppo giovane!” gridò sua madre, in preda all’ansia.
“A Esthaven. Sono stufo di stare qui a mietere i campi: in una grande città potrò guadagnare abbastanza da affrontare il viaggio verso nord.”
Contro quella decisione non poterono né le lusinghe, né le minacce: nonostante la giovane età, Roland era irremovibile.
Tentarono allora di fermarlo con la forza: lo chiusero nella sua stanza, nascosero tutte le provviste che aveva raccolto, misero il primogenito di fronte alla sua porta, il secondogenito davanti alla finestra, il terzogenito in fondo alle scale, il quartogenito sul tetto e il quintogenito a dormire nella dispensa. Fu inutile: la mattina dopo, Roland era scomparso chissà come dalla sua stanza, insieme al suo zaino e alle provviste per una settimana. Sul muro della sua stanza, un disegno che lo mostrava salutare la sua famiglia e tanti cuori intorno.
“Almeno ha lasciato un saluto” fece il primogenito, mentre i due genitori si lanciavano in strada al suo inseguimento.
Questa scena si ripeté molte volte: al suo primo tentativo Roland non aveva fatto molta strada e venne preso e riportato in casa. Ma ogni volta che la famiglia cercava di fermarlo, in qualche maniera il ragazzino riusciva a sfuggire alla loro sorveglianza e a riprendere il viaggio verso nord, la mente rivolta a quell’unico sogno che sentiva con la forza di una vocazione.
Al sesto tentativo, i genitori si rassegnarono: gli diedero un po’ di cibo, una lettera di raccomandazione per un lontano parente che avrebbe potuto aiutarlo, e la loro benedizione. E così Roland partì alla volta della capitale.
Ora, dopo sedici mesi di fatiche e duro lavoro, era riuscito a mettere da parte abbastanza da affrontare il viaggio fino a Silmar. E da lì…destinazione: Kratev.
Fu con questi pensieri in testa, che entrò nell’ufficio di Michel Chevalier, il lontano parente a cui i suoi genitori si erano affidati perché lo tenesse al sicuro.
“Michel, dammi tutti i miei soldi!” gridò aprendo la porta.
Michel si girò a guardarlo da dietro la scrivania: era un uomo dall’aria affabile, le spalle larghe come un armadio e grandi occhi grigi che sembravano perennemente tristi. In testa aveva un ciuffo di capelli neri sottilissimi.
“Roland. Non trovo prudente entrare qui dicendo questo genere di cose ad alta voce” disse con tono dubbioso, come se non sapesse bene come spiegare a un ragazzino di tredici anni che urlare certe cose da un banchiere poteva attirargli addosso tutti i ladri della città.
“Hai ragiona, scusa” fece il ragazzino, chiudendo la porta dietro di sé e avvicinandosi a Michel.
“Comunque voglio tutti i miei soldi e le mie cose: partirò domani mattina!” disse, cercando di tenere la voce più bassa ma senza riuscire a contenere l’entusiasmo.
“Sei sicuro? Insomma, non pensi che sia il caso di aspettare e guadagnare ancora un po’, giusto per andare sul sicuro…” comincio a dire il banchiere con titubanza, ma Roland lo fermò.
“Michel, abbiamo già fatto tutti i conteggi possibili e immaginabili, ho preso abbastanza. E comunque, se ci fossero problemi, potrei sempre arrangiarmi lungo la strada” disse con sicurezza.
Il banchiere non replicò: si limitò a prendere un sacchetto di monete, borbottando qualcosa. Alla fine gli porse il sacchetto e un pezzo di carta con un sacco di scritte. Roland lo guardò senza capire.
“Cos’è?” chiese.
“E’ una lettera di cambio: quando arriverai a Silmar, cerca il nostro agente, ti darà il resto dei soldi in cambio di questa” disse annuendo piano, come a rassicurarsi che le cose funzionassero così.
“Ma non puoi darmi tutto adesso?” chiese Roland, un po’ deluso.
“E se per caso li perdi? O ti vengono rubati? Così è più sicuro” disse Michel con gentilezza.
“Se lo dici tu…” replicò il ragazzino, prendendo i soldi e la lettera e avviandosi alle scale, dove c’era la sua stanza.
Cominciò subito a preparare i bagagli, nonostante non avesse ancora pranzato, tanto era agitato: la voce gentile di Michel che lo chiamava a tavola lo colse in uno stato di totale frenesia, tanto che quasi si dimenticò di scendere.
Fu un pranzo strano: tra i due non si era mai stabilita una forte amicizia, nonostante vivessero insieme da più di un anno, e raramente avevano condiviso un pasto. Ciononostante fu piacevole: Michel non si comportava con lui come se fosse suo padre, piuttosto lo trattava, in modo piuttosto incredibile, come se fosse Roland quello adulto e sicuro di sé.
Di lui, Roland sapeva solo che era incredibilmente riservato, che era gentile con tutti e che aveva una sorella che non vedeva mai. E che faceva il banchiere: a parte questo, null’altro.
“Hai già qualche idea su come passare i Monti Barriera?” gli chiese con garbo.
“Ancora non lo so, ma di sicuro troverò un modo. Tu invece che farai, quando me ne sarò andato?” disse Roland con la bocca piena di pasticcio di carne.
“Io…” Michel esitò, con lo sguardo lontano “credo che partirò anch’io.”
“Ah sì?” chiese il ragazzo ancora masticando “E dove andrai?”
“Lontano, penso” fece Michel a voce così bassa che Roland dovette sporgersi per sentirlo. Era tentato di insistere, ma qualcosa, nell’espressione triste del suo padrone di casa, gli fece capire che era meglio evitare.
“Ti auguro buona fortuna, allora” disse con calore.
Michel lo guardò negli occhi e gli sorrise: “Anche a te.”
Finirono la cena in silenzio, lavarono i piatti e si augurarono la buona notte. Roland andò a letto talmente tanto eccitato che non riuscì a chiudere occhio: rimase sveglio tutta la notte, a guardare le stelle dalla finestra e a sognare draghi.


(1): si pronuncia alla francese, quindi Rolàn.


Note di Red: lo so, sono in ritardo sul ritardo. Mea culpa ç_ç Ho avuto una settimana sbalorditiva e non sono riuscita a sistemare il capitolo.
Anyway, questa volta siamo finiti ad Heilig, lo stesso paese dove la nostra Moony aveva tentato di vedere la regina, fallendo miseramente. Non temete, verrano scoperti gli altarini anche su quella questione, intanto vi ho voluto mostrare un’aspetto più quotidiano dell’impero più grande di Lance (ve l’ho detto che il continente si chiama Lance? No? Ve lo dico ora). Anche questo capitolo è piuttosto statico, ma dovevo introdurre una serie di elementi che torneranno nei prossimi capitoli.
E con questo vi annuncio due cose: uno, abbiamo ufficialmente terminato il primo capitolo (yeeeehh!), due, la settimana prossima avremo il grande ritorno di Hans-sono-troppo-gnocco-Kessler, quindi stay tuned! Come sempre ringrazio chi recensisce, chi mette tra preferiti, seguite e ricordate e anche chi legge e basta. Ci vediamo la settimana prossima!
   
 
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