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Autore: Aledileo    11/05/2016    1 recensioni
Ultimo capitolo della saga di Avalon: dopo il risveglio dei Progenitori, i Cavalieri dello Zodiaco e tutti i loro alleati, di Asgard, dell'Egitto, dell'Olimpo, e di tutti gli altri regni divini, si recano nel deserto del Gobi per assediare il Primo Santuario, forzando gli Dei Ancestrali a scendere in campo per l'ultima guerra.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cygnus Hyoga, Dragon Shiryu, Pegasus Seiya, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga di Avalon'
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CAPITOLO TRENTADUESIMO: UNITI CONTRO L’OMBRA.

 

“Ti aspetto Cristal! Torna da me!”

 

Furono queste parole a risvegliare il Cigno.

 

Si tirò su e vide un’immensa onda nera dirigersi contro gli Olimpi, simile a quella che, da bambino, avrebbe considerato la forza del possente Kraken, prima di scoprire che ben più perigliosi mostri si nascondevano nelle tenebre del mondo.

 

Scosse Andromeda, disteso accanto a lui, e Pegasus, aiutandoli a rimettersi in piedi proprio mentre gli Heroes venivano disintegrati e Zeus e gli altri Dei scagliati lontano, con le corazze danneggiate e i corpi massacrati. Avrebbero dovuto aspettarselo, avendo già affrontato Erebo ad Asgard, eppure, vederlo adesso, vedere la facilità con cui si era sbarazzato di quelle che avevano sempre considerato le più grandi potenze del mondo, li fece rabbrividire. Sospirando, Pegasus tirò uno sguardo verso il suolo, dove Atena giaceva ancora stordita, lieto che non fosse con suo padre. Lieto che non fosse stata travolta da una simile massa di energia che, in vita sua, aveva sperimentato soltanto una volta, proprio per volontà di Erebo.

 

“Sembra che gli Dei di Grecia siano caduti!” –Commentò quest’ultimo, voltandosi verso i Cavalieri di Atena. –“Volete provare voi, nuovi Dei di quest’epoca? Oh, non fate quella faccia, sono consapevole dei vostri poteri. Ne sono consapevole più di voi, che ancora faticate a rendervene conto e a farne buon uso. Vi darò un consiglio, uno semplice, proprio come me. Desistete!” –Sogghignò, espandendo il cosmo oscuro. –“Poiché per quanto possiate provare, non supererete il cosmo di un Progenitore. Per quanto sfavillante la vostra luce possa essere, è soltanto la luce di tre ragazzini che giocano con qualcosa che non possono comprendere a pieno. Cosa potrebbe fare di fronte alle tenebre ancestrali in cui è stato immerso il mondo fin dalla sua fondazione? Io sono quelle tenebre, io esistevo prima ancora che questo suolo fosse fecondato dalla vita! E voi, patetici vertebrati su due zampe, siete nullità di fronte alla mia imperiale potenza!” –E scatenò una tempesta di daghe nere, che costrinse i tre compagni a bruciare al massimo il proprio cosmo.

 

Andromeda animò la catena nella sua ultima configurazione, tentando di opporre uno strale a ciascuna lama di tenebra; Cristal, rivestitosi di uno strato di ghiaccio, liberò una corrente glaciale per rallentare l’attacco avversario, e Pegasus, stanco più di quanto credesse, poté soltanto concentrare il cosmo sul pugno destro, per colpire ogni daga che gli pioveva contro. Ma erano troppe e presto il gelo del Cigno andò in frantumi, le nocche di Pegasus sfrigolarono di dolore e le catene di Andromeda presero a schiantarsi, finché, con un’ultima raffica, i tre amici non furono travolti e martoriati, e scaraventati indietro, grondando sangue e sconfitta.

 

Pegasus fu il primo a tirar su la testa, e Erebo non ne fu stupito.

 

“Ti è andata bene, in fondo. Morire per mano di Chimera non sarebbe stato all’altezza della tua fama! Gliel’avevo detto, a quell’idiota, che non sarebbe riuscito a sconfiggerti, ma non desiderava altro, da quando quel tuo antenato, com’è che si chiamava? Bellerofonte di Pegasus? Sì, credo fosse lui. Pare che gli abbia soffiato la donna, di cui entrambi erano innamorati, e Chimera non la prese bene. Era un Cavaliere Celeste all’epoca, ci crederesti?” –Disse, fermando il ragazzo con una morsa mentale. –“Si scontrò con Bellerofonte e si uccisero a vicenda. Vergognandosi di quell’atto sacrilego, Zeus lo maledisse e ordinò a Efesto di distruggere la sua armatura, ma credo che, troppo orgoglioso dei suoi lavori, il fabbro gibboso non l’abbia fatto, nascondendola in qualche anfratto lercio della sua fucina, soltanto per farsela rubare sotto il naso. E dire che è proprio grosso quel nasone! Chissà quant’è sporco! Ahu ahu ahu!” –Sghignazzò Erebo, mentre il suo cosmo nero si allungava fino a generare uno spadone di energia, a prolungamento del braccio destro, che puntò al collo del Cavaliere.

 

“No!” –Gridò una voce di donna, sorprendendo il Progenitore, che vide Atena rialzarsi e porsi a difesa del ragazzo, con l’Egida che vibrò sotto il suo attacco.

 

“Di nuovo scegli un Pegaso, Atena!”

 

“Non ucciderai più nessuno, Erebo, né ora né mai!”

 

“Mai? Un concetto troppo astratto per chi, come me, è un tipo piuttosto concreto. Inoltre, se me lo concedi, vorrei smontare la tua tesi, uccidendo proprio te!” –E mosse il braccio, conficcando lo spadone di tenebra al centro dello scudo dorato, trapassandolo e raggiungendo la Dea a un fianco. Sussultò, Erebo, nel vedere la smorfia di dolore di Atena, nel sentire l’armatura divina (quella brutta e ridicola campana che Efesto doveva aver costruito un giorno in cui era di cattivo umore, magari quando aveva scoperto che Afrodite lo aveva cornificato con Ares!) schiantarsi e il sangue divino ruscellare fuori. Ritirò la lama di tenebra e si leccò le dita, imbrattate da qualche goccia di ichor. –“Delizioso. Sei davvero la più divina tra le Dee, Atena. Le cronache riferiscono che ti sei tenuta vergine, a dispetto dei tanti pretendenti. Un vero spreco. A meno che tu non l’abbia fatto aspettando me!”

 

“Falla finita, idiota!” –Avvampò subito Pegasus, scattando avanti, nonostante le grida di Atena. E infatti, sfinito per lo scontro con Nyx e per essere stato prosciugato da Echidna, il Cavaliere barcollò dopo pochi istanti e il suo attacco si perse alle spalle di Erebo, che invece ne approfittò, portandosi alla sua destra, con gli artigli di tenebra già pronti per colpire.

 

“Muori, Pegasus!” –E affondò.

 

Ma in quel momento la Catena di Andromeda scattò verso il suo braccio, afferrandolo e tentando di torcerlo, mentre il gelo della Siberia lo investiva dall’altro lato. Anche Atena si unì ai suoi Cavalieri, spostando Pegasus con una spallata e colpendo Erebo con l’Egida. Senza riuscire a smuoverlo neppure di un passo.

 

“Una puntura, una brezza e una carezza. Ecco quel che mi avete offerto!” –Ghignò, mentre il suo cosmo oscuro turbinava attorno a sé, spazzando via ghiaccio, catena e scudo. –“Lasciate che ricambi il favore. Lasciate che vi faccia dono della mia gratitudine! Dies irae!” –Tuonò, sollevando le braccia di colpo e liberando una potente esplosione di cosmo.

 

Atena, vicinissima, venne investita in pieno e scaraventata indietro, con l’Egida che andava in frantumi, investita dalle stesse schegge della sua difesa, che le tagliarono le braccia e il volto, fino a schiantarsi molti metri addietro, mentre Pegasus, travolto allo stesso modo, gridava il suo nome disperato, allungando le braccia pur senza raggiungerla. Anche le catene di Andromeda si schiantarono, prima che il Giorno dell’Ira arrivasse per lui e per Cristal, gettandoli a terra, pesti, logori e con le corazze danneggiate.

 

Ma fu di nuovo su Atena che Erebo si concentrò, avanzando a passo deciso verso di lei. Gli era appena sovvenuto che Emera non era riuscito a possederla, disturbato da quel damerino impostato del fratello, ma Atena… oh beh, lei l’avrebbe piegata e fatta sua prima di sprofondarla nelle tenebre infernali. Poteva anche proporle di essere la sua consorte ma già sapeva come avrebbe risposto e un rifiuto, quello no, non avrebbe potuto accettarlo. Non di fronte a tutti quegli orecchi. Ma delle grida disperate, delle invocazioni supplichevoli di pietà, quelle le avrebbe offerte volentieri allo stanco pubblico che giaceva nella polvere della propria rovina.

 

Così torreggiò su Atena, il bel volto lacerato dai frammenti dell’Egida e macchiato di sangue, sollevandola con un impercettibile movimento della mano fino a costringerla a guardarlo negli occhi. E in quel momento si tolse la maschera che gli copriva il volto, lasciando che lei lo vedesse realmente.

 

“No… non è possibile…” –Mormorò la Dea, inorridita. –“Tu non puoi essere… Com’è possibile?” –Strillò Atena, sorprendendo i suoi Cavalieri per quella perdita di controllo. La prima volta in tanti anni di battaglie.

 

Erebo non disse alcunché, limitandosi a indossare di nuovo la maschera e ad avvampare nel proprio cosmo oscuro.

 

“Volevo soltanto che tu sapessi chi ti ha ucciso!” –Ghignò, levando il braccio destro al cielo, avvolto in una spirale di nera energia. –“Il tuo primo amore.”

 

Galoppo dell’Unicorno!” –Esclamò allora una voce, mentre una meteora di argento si abbatteva sull’arto del Progenitore, distraendolo. In quello stesso istante un ammasso di corallo gli ricoprì le gambe e due luci dorate piombavano su di lui, da entrambi i lati. –“Meteora pungente! Cobra incantatore!”

 

“Sul serio?” –Sibilò Erebo, voltandosi a malapena. Scaraventò via Asher con una sberla volante prima di voltarsi (e, nel farlo, distruggere il ridicolo trucchetto di Titis) e posizionare Atena davanti a sé, godendo nel vedere gli attacchi delle due Sacerdotesse andare a segno, nel suo ventre già ferito.

 

“Atena!!!” –Gridò subito Castalia, frenando l’assalto. –“Per gli Dei! Perdonaci! Noi volevamo…”

 

“Soltanto morire!” –Concluse Erebo, scagliando la Dea contro i Cavalieri d’Argento e gettandoli tutti a terra. –“Lo capisco. Lo vorrei anch’io al posto vostro, piuttosto che continuare a trascinarmi, vuoto e inutile, in una vita che da un momento all’altro potrebbe finire. Meglio una decisione immediata e immutabile. E io, Boia delle Tenebre, accetto la vostra supplica, donne. Io adesso vi uccido!”

 

“Non ci provare!” –Esclamarono tre voci maschili, schizzando verso di lui che, sollevando lo sguardo oltre le fanciulle abbattute, vide una cometa d’oro lucente, una lancia di folgori e un gorgo d’energia acquatica unirsi in un unico assalto. Che fermò semplicemente spalancando il palmo della mano.

 

Ioria, Toma e Nikolaos osservarono sconcertati il vanificarsi delle loro tecniche, prima che Erebo gliele rinviasse contro, notevolmente potenziate.

 

“Dovrebbero scegliersi paladini migliori le vostre donne!”

 

“E tu dovresti parlare meno!” –Commentò una voce, prima che il Progenitore si accorgesse del cerchio di fuoco che era sorto attorno a lui. Un cerchio di luce ben più ardente di quella di Efesto, simile a quella, forse, che il Fabbro Olimpico aveva dimostrato in gioventù, prima di ingobbirsi, infiacchirsi e intristirsi. –“é-khul-khul!” –Disse Sin degli Accadi, apparendo alle sue spalle e incitando le fiamme a sollevarsi e ad avvolgersi attorno al corpo di Erebo, quasi fossero braccia decise a stringerlo in un mortale abbraccio. –“Se la Casa della Grande Luce non l’hai trovata accogliente, cosa farai nella Casa di Gioia? Io, nel vederti bruciare, riderò di certo!”

 

“Allora, ragazzino, riderai ben poco!” –Tuonò Erebo, spalancando le braccia e disperdendo le fiamme con un mulinello di oscura energia. –“Anzi, ti farò piangere e poi ti farò mangiare quei ridicoli capelli blu prima di sgozzarti! Danza di daghe!” –Ma quando mosse il braccio per falciarlo con i suo strali neri, Sin non era più davanti a lui.

 

Per la prima volta sorpreso, Erebo riuscì a porsi mille domande, valutando ogni possibile opzione e dandosi tutte le risposte che reputò ovvie, in quella frazione di secondo che passò tra la comparsa dello stupore sul suo volto e la stretta di fuoco che lo cinse allo stomaco.

 

“Sin!!!” –Esclamò Shen Gado, da lontano, zoppicando verso i due contendenti, uniti adesso in un abbraccio fiammeggiante. E più Sin stringeva e più le fiamme divoravano entrambi, levandosi alte verso il cielo, calde, luminose e vive. Come il Capitano dei Seleniti non aveva mai visto il Custode del Cerchio di Marte.

 

Anche Pegasus le vide, disteso a terra dolorante e esausto, e ripensò alle parole scambiate col Dio durante l’assalto alla Porta della Notte.

 

“Io vivo per la guerra. Essa è la mia fiamma vitale!” –Gli aveva detto.

 

“Fa che non ti consumi, Sin!” –Aveva risposto Pegasus. E la stessa frase si ripeté in quel momento, mentre il cosmo del Selenite di Marte raggiungeva il parossismo e i due combattenti si sollevavano, sfrecciando in cielo in una cometa di fuoco celeste.

 

“Folle!” –Gridò Erebo, mentre già il suo cosmo oscuro si espandeva, infettando le fiamme e piegandole alla sua volontà. –“Coraggioso ma folle. Riposa assieme agli Dei già caduti!” –Aggiunse, liberando una violenta esplosione di cosmo che distrusse l’armatura del Selenite, precipitandolo a terra, tra le macerie della Porta delle Tenebre. Quindi, con un colpo di reni, il Progenitore si capovolse e si fiondò al centro di quel che restava delle forze dell’Alleanza.

 

Con un solo sguardo li osservò, sgomenti e smarriti, impotenti di fronte al riverbero infernale che aveva diretto loro contro, ma ancora decisi a sbarrargli il passo. Ancora decisi a morire combattendo piuttosto che attendere, vuoti e stanchi, la fine.

 

“Di ciò mi compiaccio!” –Gridò, sollevando il braccio destro, avvolto in una nube di cosmo, proprio mentre i Cavalieri Celesti scattavano all’assalto. Li travolse e li inforcò più volte, sbattendoli a terra, con le corazze in frantumi e il sangue che andava a bagnare l’arido suolo del Gobi. Poi si voltò verso i Cavalieri di Bronzo, Argento e Oro che, sia pur claudicanti, si stavano preparando a un attacco congiunto, ma li anticipò, non avendo la benché minima voglia di osservare il loro patetico e fallimentare tentativo, scatenando un’onda di energia nera.

 

“No!!!” –Esclamò Pegasus, rialzatosi e schieratosi a difesa di Asher e degli altri. –“Vi proteggeremo!” –Aggiunse Andromeda, affiancandolo assieme a Cristal e facendo brillare i loro cosmi. Di più, sempre di più, fino a riflettere la luce delle stelle e diventare loro stessi tre stelle.

 

“Soffia, Nebulosa di Andromeda! Danza, Cigno di Ghiaccio! Corri, Pegasus di Luce!” –Gridarono i tre amici, unendo i loro assalti, cui Erebo oppose l’emanazione del suo cosmo oscuro. Ma in quel momento qualcosa lo colpì alla schiena, attirando la sua attenzione, la punta di un’arma che non era riuscita ad andare oltre la superficie della corazza. Sufficiente però per strappargli un gemito di fastidio. Fisico e soprattutto morale.

 

“Nettuno…” –Sibilò, osservando l’Imperatore dei Mari entrare nel suo campo visivo, il cosmo già intriso di azzurra energia. –“E sia! Ti spazzerò via assieme ai tuoi vecchi nemici! Dies irae!!!”

 

Quella volta la potenza dell’attacco di Erebo fu tremenda, un ruggito di energia che fece tremare l’intero deserto del Taklamakan, generando frane sui Monti Kunlun, a sud, e sul Tien Shan, a nord. I tre Cavalieri di Atena vennero scaraventati indietro, con le armature di mithril che si schiantavano in più punti, e i loro compagni, che avrebbero voluto proteggere, subirono la stessa sorte.

 

Nettuno, capendo di non poterla evitare, non la morte, non quella volta, chiuse gli occhi, pensando che avrebbe rivisto a breve Tritone e tutti i suoi Generali degli Abissi, dai tempi di Arel Kevines in poi. Fu con l’ultimo guizzo di lucidità che vide una figura snella balzargli davanti e afferrarlo, facendogli da scudo.

 

“Mio signore!” –Disse Titis. E furono le sue ultime parole, prima che l’esplosione del cosmo di Erebo la disintegrasse, scaraventando indietro anche Nettuno.

 

Quando tutto finì, non era rimasto nessuno in piedi. Nemmeno Erebo.

 

Respirando a fatica, si era chinato su un ginocchio, la mano destra premuta sul cuore, che gli batteva, pulsando come mai prima di allora. E, dall’interno, credette quasi di vedere barlumi di luce bianca penetrare l’armatura di tenebra e spruzzare fuori, prima che, rialzandosi e controllando il proprio respiro, non ritornò padrone delle proprie forze. Era stato un attacco devastante, ben più di quanto avesse creduto, ben più potente di qualunque assalto avesse scatenato prima di allora; il doppio, forse il triplo, più forte di quello con cui aveva abbattuto Zeus, Alexer e Pegasus ad Asgard. E lui sapeva perché.

 

Sogghignando, si sfiorò il cuore, tornato nero come il cielo sopra di lui, certo di non essere più uno. Adesso era trino.

 

Dando le spalle a Pegasus e ai Cavalieri di Atena, si avviò verso l’abbattuta Porta delle Tenebre, solo per rendersi conto che c’era ancora qualcuno a sbarrargli il passo. Per un momento gli parve di vedere un grosso leone, poi un’idra con nove teste, infine una cerva dalle corna d’oro che correva verso di lui. In realtà era soltanto Eracle, avvolto nel suo cosmo, che gli piombava addosso e lo colpiva con un pugno secco sulla guancia.

 

Sbilanciato, il Progenitore barcollò di lato, l’osso della mandibola che si troncava, al pari della maschera nera, rivelando il suo volto al figlio di Zeus. Che anziché colpirlo di nuovo, approfittando di quell’istante in cui una breccia poteva essere aperta, rimase attonito a osservarne il viso. Un viso in cui così tante volte si era specchiato, fin da quando l’aveva vinta a Calidone, e che in seguito, dopo la sua apoteosi e il suo ritorno sulla Terra, aveva invano cercato, conscio ma al tempo stesso impossibilitato ad ammettere che non l’avrebbe più ritrovata.

 

“Deianira…” –Mormorò.

 

In quel momento Erebo piantò i piedi a terra, evitandosi di cadere, e mosse il braccio destro dal basso verso l’alto, colpendo Eracle con un diretto in pieno petto, che gli mozzò il fiato, facendogli sputare saliva e sangue, e gli crepò la corazza. Un secondo colpo, stavolta sulla spalla destra, lo piegò a terra, distruggendo il coprispalla.

 

“Non ci sono più i tuoi Heroes a proteggerti. Cosa farai adesso? Chi sacrificherai per portare a termine la tua crociata di gloria?”

 

“Io…” –Eracle, per un momento, non seppe che dire, limitandosi a fissare Erebo con sguardo perso. Quell’Erebo che, ai suoi occhi, non era più tale, soltanto un doloroso ricordo.

 

“Anche gli Dei non possono avere quel che vogliono, vero, Eracle?” –Sibilò il Nume, travolgendolo con un calcio e scagliandolo lontano. Proprio ai piedi di Zeus che intanto si era rimesso in piedi.

 

“Pa… Padre…” –Mormorò il Campione di Tirinto, mentre Zeus lo sollevava, invitandolo a resistere.

 

“Combatteremo assieme, figlio mio. Sei pronto?”

 

“Aspettavo questo momento da tutta una vita e tu sai quanto sia stata lunga!”

 

“A sufficienza per permetterci di arrivare qua!” –Annuì il Signore dell’Olimpo, voltandosi verso Erebo, che ormai era a volto scoperto. –“Co… Cosa? Vasteras?” –Il viso, che immaginava fosse quello di un mostro, gli parve invece quello di un vecchio centenario, con pochi capelli grigi e occhi verdi e profondi, intrisi di quell’aria da rimprovero che spesso gli aveva rivolto durante tutto il tempo in cui l’aveva servito.

 

“Come?” –Esclamò subito Eracle. –“Padre? Cosa stai vedendo?”

 

“Non lo ricordi? No, forse tu non l’hai mai conosciuto. Vasteras, fedele e prezioso quanto inascoltato consigliere. Morì durante la Titanomachia ucciso da Crio.”


“Io vedo Deianira…” –Confessò Eracle, stupendo Zeus, prima che la sottile risata di Erebo li richiamasse.

 

“Sembra che abbiate scoperto il mio piccolo inganno. Non che la qual cosa sia importante, adesso che siete rimasti soltanto voi due, adesso che sto per spazzarvi via dall’universo. Buffo vero, Zeus? Da giovane uccidesti tuo padre, che a sua volta aveva ucciso Urano. Scommetto che, in cuor tuo, hai sempre temuto di essere fatto fuori da uno dei tuoi figli? Con tutti quelli che hai sparso per il mondo, sei stato piuttosto coraggioso. O stupido. Ahu ahu ahu!”

 

“Taci, mentitore! Perché hai le fattezze di Vasteras?”

 

“E di Deianira?”

 

“Faccia diversa, sentimenti diversi. Scommetto che se fosse Nettuno a guardarmi, vedrebbe suo figlio, quel Tritone che non è stato in grado di salvare dall’inabissamento di Atlantide. E se fosse Efesto, la mia faccia butterebbe fiamme perché sono certo che ci vedrebbe Ares!”

 

“Dunque è così che funziona? Mostri a ognuno le nostre paure?”

 

“Molto più delle vostre paure, Zeus! Io sono il Signore delle Tenebre e ciò che vedete è la tenebra stessa della vostra anima, l’oscurità che trattenete e che mai avete liberato!” –Disse Erebo, scattando avanti, avvolto nel suo nero cosmo. –“Io sono il rimpianto del tempo perduto, l’ultima parola non detta. Io sono il gesto che vi ha frenato e a cui più non potete recuperare. Io sono la persona che avete amato e deluso di più, quella che avete cercato per tutti i mondi, rovinando la vostra stessa esistenza. Io sono la maledizione che vi affligge, il tormento del cuore, la droga che inquina la vostra solarità!” –Aggiunse, piombando tra entrambi e gettandoli indietro, in direzioni diverse. –“Guardatemi in faccia e quel che vedrete sarà l’abisso che è dentro di voi, la tenebra che non avete il coraggio di affrontare!” –E si voltò verso Eracle, colpendolo con un calcio al petto, là dove già lo aveva ferito, spingendolo a terra, prima di piroettare verso Zeus, che stava evocando una selva di fulmini, e zigzagarvi in mezzo. –“Io… sono… voi!” –Sibilò, poggiando la mano sul pettorale della Veste Divina e infondendovi la propria oscura energia.

 

Con un’esplosione improvvisa, l’armatura di Zeus vibrò, schiantandosi laddove Erebo l’aveva sfiorata, gettandolo a terra, proprio mentre il Progenitore gli balzava sopra, allungando le dita a guisa di daghe e calandole sul suo collo. Ma Eracle, ripresosi, gli balzò addosso, gettandolo a terra, afferrandogli il braccio e torcendolo, rotolandosi confusamente al suolo per molti metri.

 

“Bestia! È così che hai affrontato il Leone di Nemea e il Cinghiale di Erimanto? Ma vedi, Eracle, io di quelle bestie da giardino sono molto più pericoloso!” –Disse Erebo, espandendo il cosmo e sbalzando via il Campione di Tirinto, spaccando un altro pezzo della sua Glory.

 

“È l’ora, padre!” –Esclamò Eracle, ricevendo in risposta un cenno d’assenso. –“L’ora in cui cielo e terra suoneranno al nostro passaggio. Oh che morte gloriosa sarà, al fianco del Dio a cui ho voluto assomigliare per tutta la vita! Per tutte le mie vite!”

 

“Neppure io avrei potuto chiedere di meglio! Tranne forse la caduta di questo mostro!”

 

“E cader lo faremo!” –Ruggì Eracle, bruciando al massimo il suo cosmo, che scintillò fulgido, mescolandosi a quello del Signore dell’Olimpo. Per un attimo gli parve di non essere più solo, come si era sentito per molto tempo (ed era stato proprio per lenire quella solitudine che aveva istituito le legioni degli Heroes, sebbene lo avesse compreso soltanto in seguito), bensì sostenuto da tanti cosmi. Troppi per riconoscerli tutti.

 

C’erano gli Heroes alle sue spalle, a proteggerlo, a combattere con lui, a vivere assieme lo stesso afflato di vita, come era stato nel Mondo Antico, con la Primissima Legione, poi a Tirinto duecentocinquanta anni prima, e infine adesso. E c’erano tutti, da Iro a Chirone, da Marcantonio alla bella Alcione. C’erano i suoi genitori adottivi, Anfitrione e Alcmena. Inoltre c’era Ebe, la povera Ebe, colpevole soltanto di averlo amato troppo, anche quando lui amava un’altra donna. Ebe, che si era sacrificata per lui nel Vigneto di Dioniso. Ebe che gli aveva dato tre figli. E anche loro erano lì, con le mani sulle sue spalle, a donargli la forza di cui aveva bisogno.

 

Aniceto, l’Invincibile, gli donò la potenza d’attacco. Alessiare, colui che rifiuta la guerra, gli donò protezione. Infine Alessiroe, unica femmina, gli confermò di essere nel giusto.

 

“Lancia, scudo e frecce. I miei figli sono con me!” –Ruggì Eracle, mentre la sua aura veniva pervasa da migliaia di scintille di energia, che presto assunsero la forma di fulmini azzurri. Gli stessi che danzavano attorno al braccio di Zeus e che Zeus gli aveva concesso in dono nel Mondo Antico. –“Keraunos! In nomine tuo, padre!”

 

“Insieme, figlio mio! Folgore Suprema!” –Tuonò il Signore dell’Olimpo, unendo il proprio cosmo a quello di Eracle e lasciando che scintillasse verso Erebo in un solo potentissimo fulmine.

 

“Stolt…” –Mormorò il Progenitore, avvolgendosi in un globo di cosmo oscuro su cui l’attacco impattò, venendo respinto. Questo, quantomeno, fu quel che pensò per un momento, prima di accorgersi di una crepa nella sua barriera, e di una susseguente incrinatura nella sua corazza, proprio all’altezza della scritta sul petto.

 

“Ce l’abbiamo fatta, padre! Hai visto? Possiamo vincerlo!” –Esclamò Eracle, euforico, prima che Erebo sollevasse lo sguardo su di loro, furioso come mai prima di allora. Quello che a uno pareva Deianira e all’altro Vasteras divenne una fiammata nera, dentro cui il Progenitore si sciolse poco dopo, scivolando sul terreno e circondando le due Divinità con un oceano di vampe oscure, e in quell’oceano c’erano migliaia di mani che li agguantarono, li strattonarono, li tirarono a sé, e bocche che si allungavano, denti che mordevano, zanne che artigliavano e spade che colpivano, lame che affondavano, frecce che martoriavano i loro corpi, finché, quasi si fosse riformato dalla tenebra stessa, Erebo ricomparve in mezzo a loro.

 

Afferrò Zeus per il collo, tirandolo su, avvolgendolo in una spirale di cosmo nero, che schiantò in più punti la sua corazza, la più bella mai creata da Efesto, senza che le sue folgori potessero alcunché, poi, quando Eracle fece per accorrere in suo aiuto, facendo esplodere il cosmo e distruggendo la marea d’ombra, Erebo mosse il braccio verso di lui, continuando a guardare Zeus in faccia.

 

“Guarda anche tu!” –Gli disse soltanto, prima di affondare la lama di tenebra nel cuore del Campione di Tirinto.

 

“No! Nooo!!! Eracle!!!” –Gridò il Signore dell’Olimpo, mentre il cosmo oscuro del Progenitore lo avvolgeva completamente, scaraventandolo in alto in una spirale che pareva allungarsi fino al cielo. Non lo raggiunse, fermandosi e scomparendo in un istante, e di un altrettanto istante abbisognò Zeus per precipitare al suolo e lì schiantarsi, novello Icaro della sua stirpe divina.

 

Quando riuscì a rimettersi in piedi, arrancando nella fossa da lui stesso scavata, trovò il corpo distrutto di Eracle sul bordo, che a fatica si stava trascinando verso di lui. Lo prese per mano, lo fece voltare, di modo che potessero guardarsi un’ultima volta e infine lo lasciò morire.

 

“Non piangere, padre. Ho mantenuto la mia promessa. Ho combattuto al tuo fianco.”

 

“Possa non trascorrere troppo tempo prima di abbracciarci di nuovo!” –Rispose Zeus, prima che un battito di mani lo costringesse a rialzarsi, e a riportare l’attenzione su Erebo.

 

“Una bella dichiarazione. Devo presumere che tu ti sia arreso, grande Zeus?”

 

“Mai!”

 

“Era quello che volevo sentirti dire! Ahu ahu ahu!” –Sghignazzò il Progenitore, muovendosi per travolgerlo. E ritrovandosi a sbattere contro un muro invisibile che lo gettò a terra, gambe all’aria, un’espressione di genuina sorpresa sul volto, identica a quella che sfoderò Zeus. –“Che trucchetto è mai questo?”

 

“Nessun trucco. Solo un semplice esercizio di sapienza e strategia.” –Parlò allora una placida voce, apparendo a pochi passi dal Nume.

 

“Cavaliere di Virgo…” –Mormorò Zeus, mentre, alle spalle del biondo, anche Ioria del Leone si rimetteva in piedi, sputando sangue e un dente.

 

“Divino Zeus, ve ne prego. Porgete voi, ad Atena, le nostre scuse. Sono certo che lei non approverebbe!” –Disse il semidivino, le mani giunte attorno a un bagliore dorato.

 

“Non so come tu abbia fatto, ma credi davvero di potermi bloccare? Di poter bloccare le tenebre infernali?” –Ringhiò Erebo, liberando la propria aura oscura che avanzò di qualche metro fino a bloccarsi, racchiusa in una rozza circonferenza che, notò il Nume, era marcata in terra da dodici simboli tracciati in rosso.

 

“Il sangue degli Dei. Atena, Zeus, Nettuno, Efesto, Ermes, Euro, Eracle e anche Amon Ra, Horus, Vidharr, Eir e Idunn. Poche gocce ma servono allo scopo.”

 

“E sarebbe?”

 

“Darci una possibilità.” –Commentò placido Virgo, avanzando di un passo e entrando all’interno del cerchio protettivo, mentre tutto attorno a sé lo spazio iniziava a mutare, di fronte agli occhi attoniti di Zeus e di Erebo stesso.

 

“Virgo! Cosa vuoi fare?” –Urlò Ioria alle sue spalle.

 

“Quel che va fatto.”

 

“E sia!” –Disse il compagno, oltrepassando i sigilli a sua volta. Si avvicinò a Virgo e a Erebo, che scattò subito verso di loro, e poi il cosmo della Vergine esplose in un riverbero abbagliante che costrinse Zeus a coprirsi gli occhi.

 

Quando la luce scemò di intensità, non era rimasto nessuno. Il Signore dell’Olimpo si guardò attorno stordito, senza comprendere dove fossero finiti.

 

***

 

Rantolando, Anhar scivolò nell’oscurità.

 

Aveva provato più volte a salire in superficie ma ogni strada pareva riportarlo lì, nel sotterraneo dove Echidna aveva riposato a lungo, nutrendosi dell’energia di chiunque riuscisse a raggiungere con i suoi tentacoli. Anche di lui, che infatti aveva creduto (e forse persino temuto) che l’avrebbe prosciugato fino all’ultima stilla.

 

Invece la Madre lo aveva lasciato in vita. Se di vita, quel suo errare come un’ombra da uno stanzone all’altro, poteva trattarsi.

 

Perché? Si chiese, per l’ennesima volta in pochi minuti. E perché non riusciva ad andarsene? Una sensazione, quella dello smarrimento, tipica di chiunque osasse addentrarsi nel Primo Santuario, ma che né lui, né i Progenitori, avevano mai provato. Cos’era successo, adesso?

 

Se lo stava ancora chiedendo quando udì dei passi poco distanti. Passi controllati, di un’armatura; passi che si fermarono all’ingresso dello stanzone, attirando la sua attenzione. Chi mai poteva scendere là sotto, mentre fuori infuriava l’ultima battaglia? Prima ancora di rispondersi, percepì il suo cosmo. Più vasto di qualunque concezione avesse mai avuta di vasto.

 

Quando Biliku gliene aveva parlato, in quell’oscura caverna delle Andamane, Anhar era stato felice di diventare l’araldo dell’ombra, felice di essere colui che avrebbe aperto le porte al ritorno di Caos. Ma adesso che Caos era lì, a pochi passi da lui, e lo fissava da dietro quell’orribile elmo che gli copriva il volto, Anhar capì che tutto quello che aveva pensato su di lui, tutto il potere che aveva creduto disponesse, era soltanto una parte di ciò che poteva fare. Una parte incommensurabilmente piccola che lo fece sentire insignificante, portandolo a rincantucciarsi in una breccia nel muro, quasi sperando di non essere notato.

 

“Alzati!” –Parlò Caos, con voce atona. E l’ombra che un tempo era stato l’Angelo della Terra si rizzò, strisciando fino a portarsi di fronte a lui. –“Mi servi ancora!” –E infilò una mano nell’oscura evanescenza… afferrandola.

 

Per la prima volta, nella sua immortale esistenza, Anhar fu invaso dal terrore, ma non poté nemmeno gridare. Poté soltanto rimanere immobile mentre Caos si nutriva di lui.

 

   
 
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