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Autore: frown    14/05/2016    1 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Cocoa butter kisses

(4).


Amor et tussis non celantur



 





“Amor et tussis non celantur” recitava Ovidio.
L’amore e la tosse non si possono nascondere; e il dolore? Se dovessimo dar retta al poeta latino, il dolore si potrebbe nascondere, celare, evitare di manifestare. Non credo che quella sera la mia espressione non fosse tinta di dolore, penso che semplicemente nessuno scelse di accorgersi della mia amarezza, del vuoto che mi si stava formando dentro il petto.

E le vertigini...

Avevo consegnato Andreas a mia sorella.

E le vertigini…

La prima cosa che pensai quella sera fu che comprendevo perfettamente quel cavaliere medievale conosciuto come Orlando.
Ed era ironico, come in una situazione del genere, io trovassi la forza o la voglia di pensare ai poemi epici cavallereschi su cui avevo dato un esame il semestre prima.
“Soffrirai” mi disse mia nonna. “Soffrirai ancora, soffrirai sempre” mi ripeteva mentre piangevo. Ed era sempre stata così di conseguenza la mia vita; ad ogni gioia corrispondeva un dolore più grande.
Non seppi mai, se quel giorno, fossi stata davvero arrabbiata con Giselle, Andreas o con me stessa.
Avevo pensato per mesi che io lui fossimo come Rimbaud e Verlaine, ed invece non eravamo nulla.
Guardai Andreas e Giselle incamminarsi verso di noi, Giselle sorridente come una stella e con le movenze di una gazzella.
Bella di quella bellezza che hanno le spose quando escono dalla chiesa. E io non potei non sentirmi una schifezza.
Avrei voluto mettermi ad urlare, strappare tutti i capelli a mia sorella che non aveva ancora notato la mia presenza, a mia sorella che mi aveva portato via il ragazzo dei miei sogni. Il ragazzo giusto per me.
Andreas le disse qualcosa e lei alzò lo sguardo su di noi. Prima posò lo sguardo su Lysander, soffermandosi sulla sua figura e accarezzando maliziosamente il profilo con lo sguardo. Camminava affianco al ragazzo migliore che avessi mai conosciuto e si leccava il labbro come una iena guardando Lysander.
La vidi deglutire con pesantezza, prima di riscuotersi e guardare me.
E si fermò. “Elle?!” gridò come se avessi un'insegna luccicante sopra la testa che recitasse una filastrocca per bambini.
Giselle mi lanciò un'occhiata riottosa, come se non avessi diritto a stare lì. A condividere la sua stessa aria. “Che ci fai qui?”
Avevo dovuto attingere a tutta la forza che avevo in corpo, anche quella che credevo di non possedere. Decisi in quell’istante di soffrire e piangere quell’agonia in silenzio.
“Voi due vi conoscete?” chiesero Andreas e Lysander in contemporanea.
Esibii un sorriso storto e sarcastico, prima di allungarmi sul bancone, afferrare il bicchiere di Moscow Mule di Lysander e scolarmelo come una stripper, gettando il capo all'indietro. Sentii il liquido penetrarmi la gola, graffiandola e non mi pentii di aver bevuto la mia condanna.
“Ciao anche a te, sorellina” mugugnai fra i denti.
Non riuscii né a sentire né a vedere la reazione di Lysander, presa ad assistere a quella di Andreas, il quale sobbalzò sul posto, spalancò gli occhi e balbettò un “cosa?” talmente indignato da infastidirmi più del lecito.
“Che ci fai qui, Elle?” mi riprese lei, per poi schioccarmi le dita davanti al volto per ridestarmi, come se non averle risposto entro venti secondi la infastidisse a morte.
La fulminai con lo sguardo e provai a tacere, ma come avevo previsto non ci riuscì. “Bevo con i miei amici” dissi semplicemente e lanciai un'occhiata a Lysander e ad Andreas.
“Tu non bevi” mi accusò lei, assottigliando lo sguardo.
La imitai, cosciente che fra le due, avrei dovuto essere quella matura. “Cosa ne sai?” sospirai, “tu non sai niente di me”.
Lysander schioccò le dita in direzione del suo bicchiere vuoto ed eseguì il numero due con le dita a Magalì, la quale accorse a preparare due drink.
Giselle mi fulminò con lo sguardo. “Che ti prende, adesso? Non hai alcun motivo di essere sgarbata con me” disse con il tono lamentoso di chi non è bravo nemmeno a fare la vittima.
Gettai un'occhiata alla mia mela caduta al suolo, prima di alzare lo sguardo su Andreas, rosso in volto come un bambino sudato che gioca a pallone.
“E così, esci con la mia sorellina?” gli chiesi sorridendo afflitta e sconfitta.
Andreas aprì la bocca, poi la richiuse. Lo rifece e balbettò qualcosa di incomprensibile.
“Sorella e basta” mi corresse Giselle gelida. “Sono tua sorella maggiore” trafiggendomi con gli occhi truccati e sottili.
Aggrottai la fronte scandalizzata. “Oh, scusami!”
Ridacchiai istericamente, afferrai i successi due drink di Moscow Mule di Lysander e li trangugiai uno alla volta velocemente e avidamente come un buzzurro, per poi asciugarmi la bocca con la manica della cappotto. Lysander sospirò affranto.
“Sapete, ragazzi” iniziai la filippica. “A volte scordo di essere la sorella minore, dato che quella che fa la spesa a casa nostra sono io, quella che mette in ordine sono io, quella che paga le bollette sono io, quella che ha un lavoro sono io” la accusai, come non avevo mai fatto nella mia vita.
Giselle arrossì sinceramente imbarazzata. “Elle, che ti prende? Non sei mai stata così ostile” mi rimproverò con un tono carico di sottintesi e tensione. Andreas annuì, concordando con lei silenziosamente.
Andreas non fece in tempo a cogliere la mia espressione di disgusto che serrai la mascella e le palpebre più tesa delle corde di un violino. “Hai ragione” azzardai. “E infatti mi sono rotta il cazzo” e senza vergognarmi dell'eccessiva temerarietà delle mie parole presi la borsa abbandonata sullo sgabello e diedi ai tre le spalle, piantandoli lì, bruciando la distanza che mi separava dall’uscita come se avessi la peste alle calcagna.
Avrei voluto levarmi i vestiti e buttare tutto all'aria come Orlando, ma mi dispiacque per Magalì, le sarebbe toccato pulire tutto.
Così mi limitai a sfilare come i cattivi nel film, ancheggiando come solo una stronza sa fare.
Mi fermai in prossimità della porta. Mi girai di poco, infilai il pollice e l'indice in bocca e con un movimento di lingua abbinato a un soffio, fischiai fortissimo, come mio nonno mi aveva insegnato, attirando l'attenzione di molta gente. Non mi sentii a disagio, guardai Magalì e le dissi seria e brusca “Portami una bottiglia di assenzio, sono qui fuori” ed uscii. Senza ripensamenti.

Appena fui uscita, scoppiai a piangere come una sciocca.
Piansi il pianto di una bambina ma con la foga di un adulto, con i singhiozzi possenti che si incastravano nella gola. Gli occhi freddi e lacrimosi, le labbra gelate e socchiuse.
Non credevo che bisognasse fare una scenata per attirare l'attenzione delle persone e mentre mi allontanavo quella sera, non potei fare a meno di pensare ancora una volta, non potei non chiedermi perché ogni volta che me ne andavo, nessuno mi seguiva. Perché mi lasciavano sempre andare via?
A un certo punto, con gli occhi ancora pieni di lacrime, sorrisi e scoppiai a ridere sguaiatamente, continuando comunque a piangere finché qualcuno non spinse la porta del pub.
Mi girai di spalle, per asciugarmi gli occhi e le guance, senza smettere di ridere, probabilmente ero già ubriaca e iniziavo a sentirmi male.
Pensai fosse Magalì con la bottiglia di Assenzio che le avevo chiesto, traballante mi girai e scoprii fosse solo Lysander.
Mi fissò con un cipiglio serio e attento.
Avevo improvvisamente caldo, e non era di certo per lo sguardo severo di Lysander sulla mia figura. Avevo caldo nonostante il cappotto leggero e la fronte mi bruciava, così come lo stomaco e i polmoni.
“Sembri davvero molto scoraggiata” mi interpellò Lysander.
Risi. “Lo sono”.
Lui sembrò improvvisamente colto di sorpresa. Come se si aspettasse un patetico e lacrimante “sto benissimo”.
Le persone dicono sempre di stare bene ed ero stufa delle persone che stanno bene, sempre bene, sempre e solo bene.
“Se sto in silenzio nemmeno se ne accorge” esordii.
“Chi?”
“Mia sorella” scossi il capo e presi a guardarmi intorno. “Giselle”
“Non è possibile, Elena” replicò contrariato. “E' praticamente impossibile pensare che qualcuno potrebbe non accorgersi di te”
Risi ancor più forte. “Avevo quattordici anni, Lysander. Avevo quattordici anni ed ero arrabbiata moltissimo, con i miei genitori e” feci un gesto vago con la mano, come se non mi ricordassi il suo nome “Giselle”.
Dopo un pausa ripresi. “Ero molto arrabbiata e, decisi, come se vivessi in un film di una piccola e lentigginosa Lindsay Lohan di fare uno sciopero. Decisi per quello della parola”
“Creativo, sei così magra che puntavo a quello della fame”
“No” bofonchiai sgranando gli occhi. “Stetti zitta per due giorni, Lysander. Stetti zitta, scioperai per poco più di 48 ore, quindi in realtà sarebbero quasi tre i giorni”
Attesi di scorgere una qualche reazione da parte sua. “Non fiatai, non parlai per più di 48 ore e nessuno se ne accorse. Né Giselle, né mio padre, né mia madre. Erano tutti così presi da sé stessi o da Giselle, che non se ne erano accorti. Quando parlai per la prima volta, interrompendo lo sciopero, mia madre mi interruppe quattro parole dopo e sai che mi disse?” domandai.
Lysander scosse il capo.
“Zitta un po', parli sempre tu” imitai la voce di mia madre eccellentemente. “E chiese a Giselle come fosse andato il test di algebra”.
Lysander si schiarì la voce, deglutendo due volte prima di riprendere a parlare. “Gliene hai più parlato? Ai tuoi o a Giselle?”
“No” risposi prontamente prima di ridere di nuovo. “Che senso ha? Che senso ha fare uno sciopero della parola, se la gente nemmeno se ne accorge?”
Lysander annuii e borbottò qualcosa. “Sono degli ipocriti, mi dispiace. Sto parlando dei tuoi genitori e di Giselle, ma è tutto così, così, così. Non lo so. Se succedesse oggi, o domani, o tra una settimana, sarebbe così… così-”
“Utopico?” gli venni incontro con un sorriso sincero sulle labbra interrompendolo.
“Distopico” replicò lui e ricambiò il mio sorriso ebbro.
Mi animai un poco, pensando a quanto sarei stata male a poco e a quanto pare, i frutti dei miei errori si stavano già facendo sentire a giudicare dal bruciore alla fronte, allo stomaco e ai polmoni.
“Non c'è mai stata per me” e il fatto che ciò mi ferisse, mi faceva sentire così debole.
“Cerca di capirla” pensai che Lysander stesse per difenderla, ma “ha dovuto scegliere tra esserci e essere” disse semplicemente.
“Ha fatto la scelta giusta, allora” azzardai sorridendogli mesta.
“Non credo, non è riuscita né ad esserci né ad essere” fece di rimando.
Pensai al calore del pub e tirai fuori dalla borsa dei guanti di lana blu. La testa mi girava e le tempie pregavano soccorso per il dolore. “Devo andare” emanai con tono solenne, staccandomi dal muro e guardando la strada solitaria.
Improvvisamente Lysander si fece ansioso e aggrottando la fronte mi parlò come se fossi una bambina capricciosa. “E per dove, di grazia?”
“Non lo so ancora. La notte fa troppo chiasso nonostante si spengano le luci, sarà qualcosa di invisibile che si vuole far sentire, rendere visibile” esclamai rammaricata.
Lysander non si fece confuso, più che altro interessato alle mie follie notturne da ubriaca. “Vuoi vagabondare per tutta la notte per cercare cosa renda rumorosa la notte?” si informò quindi.
“Tu vuoi aiutarmi” conclusi, non rispondendo alla sua domanda.
“E' una domanda?”
“No. Tu vuoi aiutarmi, ma io voglio cercarla da sola” mugolai, prima di mettermi la borsa in spalla ed iniziare a camminare nella direzione apposta a casa mia.
“Sì? E dove ci rincontreremo?” urlò rincorrendomi.
Mi fermai di colpo, arrossata e barcollante.“Tu vuoi ricontrarmi?”
“Certo. Come farò a sapere se l'hai trovato o no?” domandò seriamente. Pensai fosse bravo a trattare con gli ubriachi.
Sorrisi. “L'utopia è il luogo dove ci rincontreremo” e me andai.


Vagabondai per tutta la notte a piedi, sorridendo agli estranei e cantando alla luna. Pensai al freddo e a quanto mi mancassero le notti d'estate, quelle gonfie di sesso anche se l'aria è spessa e pesante. Pensai al sesso d'estate, con le lenzuola grondanti di sudore e ai colli bagnati e, a quanto mi sarebbe piaciuto farlo sul materasso ad acqua che avevo a casa dei miei genitori con Andreas e mi immaginai le sue mosse fameliche e il suo sguardo greve.
Una strana sensazione di angoscia sembrava appesantirmi ad ogni passo, le ossa sembravano invece muoversi per conto loro, nonostante ciò, continuai a camminare roboticamente.
C'era qualcosa nelle stazioni che mi aveva sempre affascinata. Non erano come gli aeroporti dove ogni angolo era un teatro drammatico di addii commuoventi e ultimi baci. Le stazioni erano un posto per persone sole e, a riempire l'aria c'era sempre un fumo di nostalgia che mi si appiccicava addosso, stringendomi in una morsa affettuosa. Non cambiava nulla, se si trattava di una stazioni dei treni, degli autobus o della metro.
Scesi le scale ripide di una fermata centrale della metropolitana, una stazione, dove scavalcai i tornelli come un adolescente ribelle che pensa ancora ai voti in geometria. Mi sedetti per terra, senza superare la linea gialla e decisi di scrivere una lettera ad Andreas. Dieci minuti dopo era un poema che non rispettava alcuna regola di sintassi.
Venti minuti dopo stavo vomitando di tutto sui binari della metro, oltre la linea gialla. Invece di pensare alla mia stupidità e alla pessima scelta di qualche ore fa in fatto di superalcolici, pensai che se scivolavo e cadevo, sarei morta in modo davvero disgusto, con il mio vomito e il cuore spezzato.
Emettei un gemito di dolore e chiusi gli occhi strizzando forte le palpebre, come se chiudendo gli occhi, potevo cancellare il dolore che mi attanagliava. Un desiderio disperato di dormire e di strapparmi il ventre mi balenò per la testa.
Delle mani grandi d'artista e un corpo slanciato dal profumo intenso vennero in mio soccorso, le mani afferrarono i miei capelli e li raccolsero in fretta, scostandoli dal mio volto arrostato e contratto in una smorfia. Il corpo invece, si piegò con me, assistendo a uno spettacolo poco felice.
Quando ebbi finito, la mano di prima mi diede un fazzoletto, lo usai per pulirmi la bocca mentre il salvatore mi guardava preoccupato. “Ti riaccompagno a casa” proruppe atono.
Lo stomaco mi grugniva addosso imprecazioni, le tempie mi dolevano, la testa mi girava e un dolore ai reni mi prendeva ad intervalli regolari.
Lo fissai ammaliata. “Se avessi il coraggio ti chiederei di guardarmi, di vedermi” gli risposi, guardandolo meglio e arrossendo appena.
Lysander scosse la testa, un sorriso incerto a incorniciarli il volto. “Pensavo fossi una ragazza razionale e con i piedi per terra, poi spari certe frasi che ci resto lì” sussurrò con il respiro inquinato dalla nicotina. Ma resti lì dove?
Il ventre mi si contrasse disperato.
“Dai” spezzò il silenzio di nuovo con tono autorevole. “Ti riporto a casa, Elena”
Io alzai gli occhi prima di puntarli ovunque, tranne che su di lui. Sentii le lacrime iniziare a pungermi gli occhi come spilli e ogni stimolo percettivo esterno sempre più lontano e offuscato.
Presi un respiro profondo, come la dottoressa mi aveva insegnato, respirando a bocca aperta e cercando di scacciare via le lacrime, continuando a sbattere gli occhi.
Lo squadrai per un attimo prima di arricciare le labbra. “Se piango prometti di non dirlo a nessuno?”
 
 
 

 







 
   
 
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