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Autore: Halley Silver Comet    15/05/2016    5 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 17



- Capitolo Diciassettesimo -
Vento di Reazioni




L
a porta dell’ufficio si aprì dopo le solite tre mandate, svelando un corridoio buio e silenzioso che stupì non poco Gerardo e Vittoria, entrambi certi che avrebbero trovato Marcello, intento a lavorare come il solito.
«Sei sicuro che potessi prenderti questa giornata di libertà? Non è che oggi era il tuo turno, per caso?» chiese dubbiosa la ragazza, precedendo il fidanzato all’interno e dirigendosi subito verso le finestre per aprirle e far entrare un po’ di luce.
«Certo che no!» replicò lui, leggermente offeso. «Marcello ed io eravamo rimasti d’accordo che ieri e l’altro ieri non sarebbe venuto nessuno, mentre oggi sarebbe toccato a lui e lunedì a me, visto che in questo momento possiamo svolgere gran parte del lavoro da casa» spiegò, posando le chiavi sulla sua scrivania e guardandosi poi intorno, come se si aspettasse che l’amico saltasse fuori da un momento all’altro: era andato al lavoro anche con la febbre, come era possibile che si assentasse senza nemmeno farglielo sapere? Era pur sempre il suo socio!
Intanto Vittoria, dopo aver spalancato le persiane, lasciò la finestra socchiusa e si avvicinò al fidanzato con aria pensierosa, come se anche lei stesse pensando la stessa cosa. Infatti, poco dopo, gli domandò: «Davvero non ti ha detto che si sarebbe assentato?»
In risposta, il giovane negò col capo ed alzò le spalle.
«Io ne so quanto te» affermò, perplesso, incrociando poi le braccia. «Magari, ha semplicemente avuto un contrattempo ed arriverà con un’oretta di ritardo».
«È probabile» concordò la ragazza, poggiando una mano sulla scrivania e abbassando il mento fino a toccare la spalla sinistra, assumendo così un atteggiamento meditabondo. «Comunque, tornando a noi, perché siamo venuti qui, anche se oggi avevi promesso di stare tutto il giorno con me
Gerardo notò l’espressione piccata di Vittoria e, non reputandolo un buon segno, si affrettò a rispondere: «Mercoledì mi sono dimenticato di prendere il numero di un collaboratore con cui stiamo lavorado dietro esplicita richiesta di un cliente».
«Qualcuno che conosco?» domandò, allora, la ragazza, incuriosita, alzando la testa.
«Il cliente o il collaboratore?» chiese a sua volta il giovane, sfogliando accuratamente la propria agenda, in cerca dell’appunto che gli occorreva.
«Il collaboratore, ovvio!» esclamò lei, facendo il giro della scrivania per avvicinarsi a lui. «Spero sul serio che non sia Ascanio!»
Il ragazzo, che nel frattempo si era ricordato di aver appuntato il numero su un foglietto ed era passato a cercarlo tra le cartelline che aveva davanti a sé, lasciò perdere per un attimo plichi e bustine di plastica trasparente e la guardò con aria grave.
«Non lavorerei con lui neanche morto!» insorse, infastidito solo dal sentir nominare quell’essere. «In realtà, non penso che tu lo conosca... Sai, lui e la moglie sono tornati in città dall’estero solo qualche mese fa, anche per far nascere qui il loro bambino. Si chiama Lorenzo Corsini e, per quello che ho avuto a che fare con lui finora, sembra una brava persona e un commericalista molto competente».
Vittoria parve soddisfatta di quella risposta e, dopo avergli regalato un sorrisetto compiaciuto, senza chiedere il permesso si accomodò sulla sua poltrona, poggiando i gomiti sui braccioli, apparentemente talmente a suo agio, che lui le lanciava ogni tanto un’occhiata, ritrovandosi a prestarle più attenzione che alla sua ricerca. D’altra parte, però, alla ragazza non sfuggì questo particolare, giacché, dopo essersi voltata nella sua direzione, si abbandonò sensualmente contro lo schienale ed accavallò con naturalezza le gambe, sollevando di qualche centimetro la gonna, mettendole bene in mostra.
«È questo che si prova ad essere un uomo di potere?» gli domandò, inclinando appena la testa da un lato.
A quel punto, pur sapendo di essere il destinatario di quello spettacolo, Gerardo fu vinto dall’imbarazzo e si affrettò a distogliere lo sguardo, arrossendo fino alla punta dei capelli e raddoppiando i suoi sforzi per trovare il famoso foglietto, sperando nel frattempo di non perdere la lucidità.
«Marcello lo è molto più di me, visto che, tra noi due, è lui il più capace» si schermì, riuscendo a parlare solo dopo aver deglutito a vuoto un paio di volte.
«Be’, avrai pure tu fatto qualcosa, no?» si stizzì lei, arricciando il naso. «Da quel che so, vi dividete equamente i compiti, perciò... non sentirti sempre inferiore!» concluse, con una leggera nota di rimprovero nella voce.
Sorpreso da quella reazione, il ragazzo la fissò nuovamente.
«Sono solo obiettivo» le fece notare. «Tuttavia, devo ammettere che il nostro è un lavoro di squadra ed anch’io faccio la mia parte».
«Così va già meglio» commentò lei, ammorbidita.
«Be’, lo sai che funzioniamo solo perché c’è sintonia tra di noi» aggiunse lui, scorgendo finalmente il biglietto e tirandolo fuori da sotto una pila di incartamenti.
«Come tra te e me?» gli domandò, allora, a bruciapelo Vittoria, costringendolo così a voltarsi verso di lei e riservandogli un sorriso malizioso.
Preso in contropiede, Gerardo arrossì per la seconda volta e, mentre si metteva il foglietto nella tasca interna della giacca, evitando di guardarla, cercò di organizzare una frase che avesse un senso: «Oh, ecco... tra Marcello e me c’è un’affinità nel senso di amicizia e... lavorativa, invece tra me e te è più una cosa... diciamo, sentimentale e...»
«D’attrazione?» gli suggerì prontamente la ragazza, protendendosi verso di lui e facendolo deglutire di nuovo. In quel momento, gli sembrò di avere il cervello completamente annebbiato, poiché le esplicite provocazioni di Vittoria non lo lasciavano indifferente, anche se il suo carattere timido gli rendeva molto difficile reagire di conseguenza.
Tuttavia, mentre temporeggiava in cerca di una risposta che non fosse banale e non gli facesse fare la figura dell’idiota, la ragazza spostò lo sguardo sulle scartoffie che erano poggiate sulla scrivania e, di colpo, la sua espressione divenne di pietra. Poi, con un gesto rapido, prese una busta da lettere che spuntava da sotto un fascicolo e gliela mise sotto il naso.
«Questa la conservi come reliquia?» gli domandò, lasciando trapelare dal tono di voce una certa irritazione, mentre il giovane, inebetito, si ritrovò ad osservare la partecipazione di nozze che gli avevano inviato Colonna e Maria Luisa,
maledicendosi subito dopo per non aver seguito l’esempio del suo amico, gettandola via non appena gli era stata recapitata.
«Certo che no!» esclamò, sottraendogliela di mano e stracciandola in innumerevoli pezzi. «Non sapevo dove fosse finita, ecco perché ancora non l’avevo buttata!» spiegò, ma quella risposta non dovette convincere molto la fidanzata, dato che assottigliò immediatamente lo sguardo e lo squadrò con i suoi occhi nocciola, critica e sospettosa allo stesso tempo.
«Quindi, non parteciperai al matrimonio della tua vecchia fiamma?» gli chiese, leggermente minacciosa. «Anche perché, se ci andassi, saresti l’unico di noi tre, sai?»
«Assolutamente no!» si affrettò a rispondere lui, sperando che lei non si ingelosisse per quella svista. «Già ero contrario prima... ma, dopo quel che mi avete riferito tu e Marcello sugli intrighi di Carter, Miller e Colonna, ci ho messo definitivamente una pietra sopra! Anche se ammetto che sono un po’ dispiaciuto per Maria Luisa».
«Ah sì?» fece lei, increspando leggermente le labbra e mostrandogli così tutto il suo disappunto.
«Non si trova in una bella situazione» spiegò allora Gerardo, buttando i coriandoli in cui aveva ridotto la partecipazione nel cestino sotto alla scrivania. «Chiunque con un po’ di sensibilità lo farebbe. E poi, sai bene che l’unica donna che abbia mai amato sei tu» concluse.
A tali parole, Vittoria sorrise intenerita e, dopo essersi protesa nuovamente verso di lui, gli sussurrò: «Sei davvero dolce, ma ciò non basta per farti perdonare, quindi ti suggerisco di inventarti qualcos’altro».
«Ehm, ad esempio?» domandò lui, sbattendo le palpebre e sentendo che il proprio battito cardiaco cominciava ad aumentare, proprio quando lei, divertita dalla sua espressione, lo afferrò improvvisamente per la cravatta e lo attirò a sé.
«Sono sicura che qualche idea ti verrà» mormorò, poco prima di cominciare a baciarlo con trasporto. Da parte sua, Gerardo rimase per qualche secondo intontito; poi, però, riuscì a ricambiare il bacio, arrivando perfino a mettersela in braccio e accomodandosi a sua volta sulla poltrona e cingendole delicatamente la vita.
La ragazza apprezzò talmente tanto l’iniziativa, che non tardò a manifestare la propria approvazione solleticandogli il collo con la punta delle dita e mordicchiandogli leggermente il labbro inferiore. Così stuzzicato, il giovane si sentì diviso tra due sensazioni molto diverse tra loro: da una parte la felicità di trovarsi in atteggiamenti così intimi con lei e
dall’altra la consapevolezza di essere ancora molto impacciato in quei gesti, unita al timore che le desse fastidio il suo essere così inesperto.
Infatti, percepiva l’abisso che c’era tra l’approccio di lei ed il suo, ammettendo anche che non sapeva proprio da dove cominciare per essere all’altezza della sua elegante sensualità.
All’improvviso, però, lei smise di baciarlo, allontanandosi di qualche centimetro.
«Gerardo, che cosa c’è?» gli chiese, scrutandolo a fondo, come se avesse percepito i suoi pensieri, e lui la guardò a sua volta, ma, non riuscendo a sostenere il sguardo dell’altra, abbassò rapidamente il proprio.
«Niente» bofonchiò, malinconico.
Non soddisfatta della risposta, Vittoria gli sollevò il mento ed incalzò: «Non dire bugie, sento che sei distante... non ti piace baciarmi, forse?»
Sorpreso da quella assurda considerazione, il giovane spalancò gli occhi ed esclamò: «Certo che mi piace, anche troppo, a dire il vero!»
La giovane, allora, lo guardò dubbiosa, ma non aggiunse altro, limitandosi a guardarlo con una punta di severità, come se si aspettasse che lui si convincesse a dirle la verità. Cosa che, infatti, accadde qualche secondo dopo.
«In realtà, è proprio questo il problema: io non sono bravo come te, io sono imbranato» sbottò infine lui, intristito, non riuscendo più a mentirle e, a quel punto, Vittoria sospirò, tradendo subito dopo un sorriso divertito.
«A me non dispiace affatto questo lato di te, sai?» gli disse, passandogli una mano tra i capelli e lasciandola poi scivolare lungo il collo. «Però, se ti mette così tanto a disagio, cerca di essere più rilassato: vedrai che il resto verrà da sé».
Annuendo appena, Gerardo sospirò a sua volta, accarezzandole una guancia: la felicità di averla finalmente tra le sue braccia aveva fatto nascere dentro di lui anche l’irrazionale paura che, se avesse fatto qualcosa di sbagliato, lei lo avrebbe lasciato. Tuttavia, non avrebbe potuto continuare a lungo in quel modo, giacché era stato proprio per i suoi timori di essere rifiutato che non le si era dichiarato prima, facendo soffrire entrambi.
«Facciamo così, va bene? Chiudi gli occhi» gli propose inaspettatamente Vittoria. «E promettimi che non li aprirai finché non avremo finito».
«Avremo finito... cosa?» domandò il ragazzo, imbarazzato e confuso.
Lei, però, non soddisfò la sua curiosità, limitandosi a sorridere, birichina, spiegandogli: «Non vale se te lo dico, perciò non credo che tu abbia scelta, se non quella di fidarti di me».
Non del tutto convinto, Gerardo le lanciò un’occhiata perplessa, ma fece comunque come gli aveva detto, senza sollevare ulteriori obiezioni.
Passarono solo pochi secondi prima che il ragazzo avvertisse che riprendeva a baciarlo, anche se, quella volta, lo fece in maniera più dolce, accarezzandogli i capelli, mentre lui, invogliato a ricambiare con la medesima delicatezza, le appoggiò una mano sulla schiena, sfiorandola con gentilezza. Allora, Vittoria approfondì il bacio, passandogli le braccia intorno al collo e Gerardo, come di riflesso, le mise le mani intorno ai fianchi, stringendo leggermente la presa.
Aveva appena cominciato ad assaporare meglio la piacevolezza di quelle effusioni, quando, all’improvviso, lei gli prese una mano e, spostando appena la stoffa della gonna, la mise sulla coscia, mozzando il respiro del giovane e dandogli l’impressione di aver perso le proprie viscere, sprofondate chissà dove.
«Visto che non era tanto difficile?» ridacchiò la ragazza, baciandolo ancora una volta.
Gerardo, a quel punto, si sforzò di non aprire gli occhi pur sentendosi andare a fuoco, mentre il cuore sembrava sul punto di scoppiargli da un momento all’altro; tuttavia, si sorprese quando si accorse di provare anche un forte desiderio di esplorare con il tatto quella parte del suo corpo, tanto che esercitò dapprima una lieve pressione, per poi, man mano che prendeva confidenza, affondare le dita nella coscia soda di lei, la quale, non volendo essere da meno, gli allentò la cravatta fino a sfilargliela e gli aprì i primi bottoni della camicia, accarezzandogli infine il collo ed il petto.
Diviso tra l’imbarazzo dettato dal timore che non lo trovasse attraente per via dei pettorali non particolarmente muscolosi, e l’euforia data da un momento di passione con la donna che amava, il giovane si sorprese a pensare che, alla fine, a Vittoria piaceva esattamente per quello che era.
Allora, schiuse lentamente le palpebre e la trovò, a sua volta, intenta a guardarlo ad occhi socchiusi.
«Non direi che sei poi così imbranato, sai?» commentò lei,
solleticandogli il mento e sorridendogli compiaciuta.
Il ragazzo rispose incurvando le labbra e spostandole i capelli dal collo, per poterlo accarezzare. Trascorsero così qualche minuto, traendo piacere dallo stare l’uno tra le braccia dell’altra.
«Hai deciso se andare a Dublino o no, la settimana prossima?» le chiese poi, ricordandosi con un certo dispiacere che, probabilmente, si sarebbero dovuti separare per due settimane, non potendo lui accompagnarla per via del lavoro.
«Non vuoi proprio che stia lontana da te, eh?» lo provocò lei, ridendo. «Scherzi a parte, non andrò da nessuna parte, perché Leandro non merita la mia presenza alla sua conferenza. Alla fine, non si è minimamente impegnato per venire alla mia mostra, anche se poi è stata un completo disastro».
Poi, si sistemò la gonna e scosse la testa, come per scacciare un pensiero molesto, assumendo l’espressione irritata che compariva sempre sul suo volto, quando era costretta a parlare del fratello. Gerardo sapeva che lui la trattava molto male, reputandola una ragazza sciocca e senza capacità, e questo lo aveva sempre portato a pensare che fosse una vera fortuna per Leandro che non si fossero mai incontrati, altrimenti gliene avrebbe dette certamente quattro.
«Inoltre, ho troppe cose da fare qui, non posso lasciare Beatrice da sola ad affrontare gli esami di ammissione alla maturità e nemmeno quella ragazza con cui ho appena iniziato il percorso terapeutico» aggiunse Vittoria, poco dopo.
«La ragazza che soffre di anoressia? È tornata per chiederti aiuto?» le domandò il giovane, sinceramente incuriosito, ma anche ben contento di poter cambiare argomento, giacché si era sentito in colpa per averla fatta inavvertitamente inquietare.
E, in quel momento, con sua grande sorpresa e piacere, la ragazza parve illuminarsi.
«Oh, sì, e non sai come sono contenta per questo!» esclamò, entusiasta. «Si è ricordata di tutto quello che le avevo detto e che le sarei stata vicino, se lo avesse voluto!»
«Avrà certamente capito che sei una psicologa davvero in gamba e in grado di aiutarla» le disse lui, in risposta, dandole un buffetto sulla guancia.
Sentendo quelle parole, Vittoria sorrise, mostrando compiacimento unito ad un leggero imbarazzo, poi si alzò. Gerardo subito la seguì, riabbottonandosi la camicia e dirigendosi verso lo specchio nel corridoio per rimettersi anche la cravatta.
«È passata quasi un’ora da quando siamo qui, ma Marcello ancora non è arrivato» le disse, in tono abbastanza alto, affinché lei lo potesse sentire dall’altra stanza.
La ragazza, allora, si affacciò in corridoio e, appoggiando una mano sullo stipite della porta, ammise: «L’ho notato anche io e per questo comincio ad essere preoccupata sul serio».
«Chiamiamo a casa, magari riusciamo a parlare con lui e a sapere se è successo qualcosa, cosa ne dici?» propose il ragazzo, raggiungendo in poche falcate il telefono e sollevando la cornetta. Compose subito il numero dell’amico e poi attese che qualcuno, dall’altra parte, alzasse il ricevitore, anche se, purtroppo, non successe; così, dopo una decina di squilli, decise di riattaccare.
A quel punto, alzò lo sguardo su Vittoria e, dopo aver dato una scrollata di spalle, la informò: «Non risponde nessuno».
«Nemmeno Ottavia?» replicò lei, incrociando le braccia sul petto, parecchio incupita.
«No» mormorò Gerardo, strofinandosi il mento con fare perplesso. Non gli piaceva quel silenzio ostinato, soprattutto perché conosceva molto bene l’amico e sapeva che non sarebbe mai sparito nel nulla così misteriosamente. Per giunta, il fatto che a casa sua non rispondesse nessuno portava a pensare che fosse successo qualcosa di veramente grave.
«Vogliamo andare a vedere di persona?» domandò dopo qualche secondo di riflessione il giovane alla sua compagna, non trovando altra alternativa, e lei, avendo compiuto un ragionamento analogo, fu subito d’accordo.
«Sì, credo proprio che non ci sia altro da fare» rispose.
***

Mentre aiutava Tiberio a riporre le valigie nel portabagagli, evitando accuratamente di rivolgergli la parola, Marcello si ritrovò a pensare per l’ennesima volta che non riusciva proprio a credere che quella situazione fosse reale, avendo l’impressione di essersi ritrovato a vivere, suo malgrado, la vita di un’altra persona. Infatti, se da una parte trovava difficile riuscire ad accettare tutto quel dolore, dall’altra riteneva impossibile dare ad esso una spiegazione razionale.
«Mamma, abbiamo finito con i bagagli, possiamo andare!» annunciò proprio in quel momentoTiberio, strappandolo brutalmente da quei pensieri ed avvicinandosi alla Matrona, che aveva dispensato per tutto il tempo consigli su come sistemare meglio le valigie, senza però alzare nemmeno un dito.
«Meno male, cominciavo a temere che avremmo perso il volo!» esclamò lei, alzandosi da una delle due panchine vicino alla scalinata d’ingresso e lisciandosi le pieghe del vestito.
«Impossibile, ho calcolato tutti i tempi, siamo perfino in anticipo!» ribattè il figlio, annuendo con fare saccente, mentre Marcello cercava in tutti i modi di trattenersi dal dargliele di santa ragione: il fratello, infatti, si era offerto di accompagnare i genitori a Fiumicino e lui gli aveva lasciato il ruolo di primadonna senza obiettare, non volendo armare una discussione anche per quello, poiché sapeva bene che meno interagiva con Tiberio, meglio era per tutti.
«Sbrigarsi non è mai uno sbaglio» sentenziò la signora Claudia, avanzando impettita verso l’auto e piazzandosi davanti ad essa, in attesa che il figlio maggiore le aprisse lo sportello per farla accomodare sul sedile posteriore.
Come sempre, Tiberio capì al volo ciò che desiderava e si adoperò per soddisfarla, mentre il signor Giancarlo li osservava con un sopracciglio alzato ed un’espressione perplessa sul volto.
«Marcello, ti dispiacerebbe darmi una mano?» chiese allora, gentilmente, alzandosi a sua volta con grande fatica e cominciando ad avanzare molto lentamente.
«Papà, ti aiuto io!» si offrì, però, l’altro figlio, richiudendo lo sportello e scattando in avanti nel tentativo di anticipare il fratello; tuttavia, il padre lo fermò prima, alzando una mano.
«No, non ti preoccupare, figliolo» gli rispose, pacatamente. «Tu comincia pure ad andare ad aprire il cancello grande, mi aiuterà Marcello».
Dopo queste parole, il ragazzo rimase spiazzato per qualche istante, per poi ricomporsi piuttosto rapidamente ed eseguire, anche se non prima di aver lanciato un’occhiata risentita al fratello, borbottando qualcosa tra sé e sé.
A quel punto, il biondo si affrettò a raggiungere il padre, offrendogli il braccio come appoggio per camminare, tuttavia, l’uomo, prima di accettare quella cortesia, lo osservò attentamente per qualche istante.
«Cosa devi dirmi? Quando mi guardi così devi sempre dirmi qualcosa di importante» gli chiese, gentile.
«Avrei preferito venire anche io» rispose di getto l’altro, sostenendolo saldamente mentre camminava.
«Marcello, ne abbiamo già parlato, mi accompagnerà solo tua madre, perché sarebbe inutile andare tutti. Io tornerò qui con le mie gambe» affermò il signor Giancarlo, mantenendosi fermo nel tono, nonostante l’andatura incerta. «E poi, sai bene che la signorina dell’agenzia ha faticato parecchio per trovare anche solo due biglietti aerei in così poco tempo».
«Almeno, chiama quando puoi».
«Oh, sai bene che tua madre chiamerà sempre, anche quando non potrà» commentò bonariamente l’uomo.
Non dubitando nemmeno per un istante che le cose sarebbero andate proprio così, Marcello sospirò e mormorò, in modo tale che solo il padre potesse sentirlo: «Io voglio sentire te, però».
Quello, allora, si arrestò proprio dinnanzi all’auto e lo guardò, tra il serio ed il divertito.
«Mi sentirai» lo rassicurò, battendogli affettuosamente una mano sulla spalla. «Non ho intenzione di morire prima di aver visto il mio nipotino. O la mia nipotina, ovviamente. Anche se forse sarebbe meglio un maschietto, sai? Una principessina basta e avanza».
Il ragazzo, che si era proteso per aprirgli la portiera, nel sentire ciò si fermò immediatamente e si voltò verso il genitore, con un’espressione alquanto stralunata.
«Ortensia è di nuovo incinta? Perché nessuno mi ha detto niente?» gli domandò, sbattendo le palpebre.
A quel punto, il signor Giancarlo alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi alla portiera ed aprendola con qualche difficoltà.
«Fino a prova contraria, non è solo Tiberio che può darmi dei nipoti» notò, dopo essersi accomodato sul sedile anteriore. «Non è forse vero che ho due figli?»
Marcello, avendo finalmente capito cosa intendesse l’uomo, avvampò e fece per ribattere, tuttavia, proprio in quel momento, sopraggiunse Tiberio, che spinse via il fratello e, con fare dispotico, ordinò: «Dobbiamo andare via immediatamente, non abbiamo tempo da perdere!»
Dopo di che, chiuse con un colpo secco lo sportello del padre e fece il giro, per andare a sedersi al posto di guida.
Evitando accuratamente di fargli presente che aveva contraddetto ciò che aveva detto poco prima, l’altro gli lanciò un’occhiataccia; poi, attraverso i vetri dell’auto, augurò buon viaggio ad entrambi i genitori, riservando, però, solo al padre un sorriso pieno di speranza.

Non appena il resto della sua famiglia ebbe lasciato la villa, Marcello sospirò, affranto, per poi andare a chiudere il cancello, mentre una bolgia di pensieri negativi gli scoppiava in testa, offuscandogli la mente: si sentiva come se uno dei pilastri sui quali si era sempre poggiato si stesse sgretolando sotto ai suoi piedi, minacciando l’equilibrio al quale era abituato e gettandolo in una strana agitazione.
Con molta fatica, fissò a terra un’anta del cancello e stava per chiudere anche l’altra, quando si sentì richiamare improvvisamente. Tuttavia, dopo che ebbe rialzato la testa, ci mise qualche istante a mettere a fuoco Gerardo e Vittoria, che lo stavano salutando dall’altro lato della strada.
«Cosa ci fate qui?» domandò loro, perplesso, non appena furono abbastanza vicini da sentirlo senza che alzasse la voce, visto che non aveva né voglia, né forze sufficienti per urlare.
Il tono con cui aveva posto la domanda insospettì subito l’amico, che si soffermò a guardarlo, sulla fronte una ruga che esprimeva tutta la sua preoccupazione.
«Non ti sei presentato al lavoro, allora abbiamo chiamato a casa, ma non ha risposto nessuno» rispose quello, riassumendo tutto in poche parole. «Così siamo passati a vedere come stai».
«Ci è sembrato strano che non rispondesse nemmeno Ottavia» aggiunse la ragazza, anche lei visibilmente in apprensione.
Marcello li guardò entrambi, vedendo riflessa sui loro visi la stessa inquietudine che avvertiva dentro di sé, ma ci mise un po’ per capire davvero quello che gli avevano detto, impiegando pertanto parecchio tempo anche per rispondere.
«Oggi è domenica, perché eri in ufficio?» fu tutto quello che riuscì a dire, appigliandosi all’unico dettaglio che lo aveva colpito.
«No, oggi è sabato» lo corresse l’altro, sempre più preoccupato. «E, per giunta, toccava a te andarci».
Improvvisamente, fu come se nella mente del giovane si fosse acceso un barlume di lucidità, facendogli capire cosa gli avessero effettivamente detto.
«Oh, hai ragione...» mormorò, spaesato, facendo vagare lo sguardo sui suoi amici, ma senza soffermarsi su nessuno dei due in particolare. «Scusami sul serio, Gerardo. La verità è che non ci sto molto con la testa...»
I due ragazzi, nel sentire la sua risposta, si scambiarono un’occhiata nervosa ma, poco dopo, fu solo Gerardo a riprendere la parola: «Figurati, non è successo niente. Piuttosto, stai bene? Sembri molto provato».
A tale affermazione, Marcello chiuse gli occhi e sospirò, consapevole che fosse arrivato il momento di dire loro la verità, nonostante per lui fosse un grandissimo sacrificio dire ad alta voce cosa stava succedendo a suo padre, poiché significava eliminare ogni dubbio sul fatto che quella fosse la realtà. Sapeva bene che quello non era un comportamento razionale, eppure, dopo una lunga riflessione, era arrivato alla conclusione che dovesse trattarsi di uno strano meccanismo innescato dalla sua mente per autoproteggersi.
«Tiberio sta accompagnando mamma e papà all’aeroporto, perché sono in partenza per Zurigo» buttò fuori, tutto d’un fiato, sperando di non dover essere costretto a ripeterlo.
«Per Zurigo?» ripeté Gerardo, stranito.
«Sì, ecco...» ricominciò il biondo, incerto, prima di rendersi conto che quello non era il luogo più adatto per parlare di una questione tanto delicata. Era certo che i suoi amici non avrebbero preso bene la notizia e lui stesso sentiva di aver bisogno di sedersi.
«Marcello, per l’amor del Cielo, sei pallido e sembri stravolto!» esclamò all’improvviso Vittoria, che a quella reticenza non era riuscita più a trattenere la sua inquietudine. «Cosa è successo? Parla!»
Lui la guardò e, finalmente, con tono rassegnato, sussurrò: «Venite dentro. Così saprete tutto».

Le lacrime di Vittoria e lo sgomento di Gerardo resero Marcello ancora più triste, anche se il ragazzo era cosciente che non si sarebbe potuto aspettare una reazione diversa da parte loro, dato che conoscevano il signor Giancarlo da quando erano bambini e gli erano incredibilmente affezionati.
Quando il giovane finì di parlare, erano entrambi seduti sul divano della biblioteca, mentre lui affondava nella poltrona di fronte, raccolto su se stesso, nel tentativo di rassicurarsi da solo.
«Oh, n-non... non p-può....» singhiozzò la ragazza, mentre il fidanzato tentava di consolarla, accarezzandole i capelli. Qualche istante dopo, quello si voltò verso l’amico e, riservandogli un’occhiata mesta, gli chiese: «Però, non è ancora detta l’ultima parola, giusto?» 
L’altro sospirò per l’ennesima volta: trovava molto difficile parlare della malattia di suo padre, ma sapeva che i due ragazzi volevano solo fargli coraggio, come era successo quando avevano rapito Beatrice, e lui non poteva non apprezzare tale gesto, per questo si sforzò di rispondergli: «Sembra che dipenda tutto dall’esito di questo intervento. Ho parlato con il dottor Conti, un amico di papà, ma ammetto che, quando ha cominciato a blaterare di percentuali di sopravvivenza a cinque anni... non ho voluto più sentire altro».
Gerardo annuì, intristito, stringendo più forte a sé Vittoria, la quale era ormai aggrappata a lui, singhiozzando sommessamente.
«Lo s-so che non t-ti aiuto piangendo... scusami, non devo comportarmi come se fosse tutto deciso» disse, a bassa voce, quando riemerse dall’abbraccio del suo ragazzo, forse rivolta più a se stessa che a Marcello. Qualche secondo dopo, però, aggiunse: «
V-Vuoi... che restiamo con te?»
Tuttavia, lui scosse la testa, sorridendo dolcemente: «No, tranquilli. Non ce ne è bisogno».
La ragazza aggrottò appena la fronte, non del tutto convinta.
«Sicuro?» insistette, lasciando definitivamente la presa su Gerardo e voltandosi completamente verso l’amico, il quale rimase a fissarla per qualche secondo, cercando le parole giuste per esprimere ciò che provava. In quel momento, dentro di sé sentiva soltanto una gran confusione e trovava difficile capire cosa lo avrebbe davvero quietato, pertanto non trovava giusto obbligarli a rimanere, sapendo che poi, magari, sarebbe stato colto da una forte smania di voler restare solo e avrebbe intimato loro di andarsene su due piedi. Conosceva il lato tremendamente solitario del suo carattere, soprattutto nel dolore, e sapeva che la possibilità che accadesse non era poi così remota.
«
Apprezzo il pensiero» disse, lentamente, «ma adesso non so nemmeno io di che cosa ho bisogno».
La ragazza annuì, anche se non mancò di aggiungere: «Se dovessi cambiare idea, però, chiamaci, capito? Anche di notte!»
«Vittoria ha ragione, non ti fare problemi proprio ora» aggiunse Gerardo, mostrandosi fermo nell’appoggiare la fidanzata.
Nel vederli così partecipi e attenti, Marcello sorrise, riconoscente. Sapeva di essere davvero fortunato ad avere due amici come loro, pronti a sostenerlo sempre, senza forzarlo, facendogli capire allo stesso tempo che per lui ci sarebbero stati in qualunque momento.
«Grazie».
A quel punto, i due ragazzi si alzarono dal divano ed esortarono l’amico ad accompagnarli alla porta, più per distrarlo e per farlo stare ancora un po’ in loro compagnia, che perché ne avessero effettivamente bisogno, dato che conoscevano a memoria tutti i corridoi e le stanze della villa.
«Beatrice lo sa?» domandò Vittoria all’improvviso, quando giunsero nell’ingresso.
Nell’udire quel nome, la mente di Marcello percepì dei pensieri positivi, abbassò le difese e si dimostrò più collaborante, permettendogli di organizzare una risposta senza troppe difficoltà.
«Non ancora, io stesso l’ho saputo due giorni fa...» spiegò. «Tu, però, non farne parola con lei, voglio essere io stesso a dirglielo. D’accordo?»
«Credo sia anche giusto così» commentò Gerardo.
Pochi minuti dopo si congedarono e, in quel momento, i due abbracciarono entrambi Marcello con trasporto, facendogli percepire ancora una volta quanto ci tenessero a lui e il giovane, nonostante la sua abituale ritrosia a manifestare troppo i suoi sentimenti, ricambiò con vigore, deciso a far capire loro, almeno con i gesti, quanto fosse loro grato, in quell’occasione più che mai, che fossero suoi amici.

Una volta lasciatosi alle spalle la porta chiusa, il giovane avvertì distintamente un velo di malinconia depositarsi su di lui e su tutto ciò che lo circondava, come se una sorta di potente incantesimo fosse sceso su tutta la villa.
Perfino Ottavia, Annetta e le altre tre cameriere, data la situazione, si erano ritirate nelle loro stanze, perciò l’unica compagnia che gli era rimasta era il suo stesso silenzio, che lo seguiva nel suo vagare per i corridoi, poiché non riusciva a pensare ad un’attività che lo avrebbe distratto abbastanza, che fosse accendere la televisione o leggere un libro, a causa della poca concentrazione di cui disponeva. Quando giunse davanti al balcone della sala, quello che dava sul giardino posteriore, lo sguardo del ragazzo si perse nel fitto della vegetazione che, sotto la fioca luce del crepuscolo, sembrava addormentata a sua volta.
Fu proprio allora che capì perché non riusciva a liberarsi di quell’opprimente angoscia che lo perseguitava: per la prima volta da quando aveva memoria, si stava sentendo solo.
Non aveva mai sofferto la solitudine, anzi, era successo molte altre volte che si trovasse solo in casa per parecchi giorni ed era stato benissimo unicamente in compagnia di se stesso; tuttavia, sentiva che quella volta era diverso, giacché l’inquietudine che lo opprimeva era persino più profonda di quella provata quando era stata rapita Beatrice.
Subito dopo, poggiò le punte delle dita contro il vetro, ma quello, nonostante il tepore di fine aprile, gli risultò freddo, costringendolo a ritrarsi immediatamente, mentre avvertiva chiaramente che l’unico modo per spezzare quell’oscuro sortilegio era uscire da quella casa e parlare con qualcuno che avrebbe potuto confortarlo.
Immediatamente, i suoi pensieri si rivolsero alla fanciulla e il desiderio di passare un po’ di tempo con lei cominciò ad alimentare in lui una piccola speranza di trovare un attimo di pace. Infatti, nonostante Gerardo e Vittoria gli avessero offerto il loro aiuto, Marcello sapeva benissimo che l’unica che poteva dargli il conforto di cui aveva bisogno era proprio Beatrice.
Così, rinfrancato dalla prospettiva di rivederla, il ragazzo diede una rapida occhiata all’orologio da polso, accorgendosi che erano solo le nove meno un quarto; allora, tamburellò pensieroso le dita contro il telaio della finestra, facendo un rapido calcolo del tempo che ci avrebbe impiegato per raggiungere la casa di Vittoria e stimando che, prendendo l’auto di suo padre e con il modesto traffico della tarda sera, gli sarebbe occorsa un’oretta.
A quel punto, si chiese se, in quel periodo, Beatrice stesse studiando fino a tardi; se non ricordava male, infatti, la ragazza avrebbe dovuto sostenere gli esami di ammissione alla maturità verso la metà di maggio, perciò, temendo di disturbarla, Marcello tentennò per qualche istante, indeciso.
Tuttavia, si scoprì incapace di rinunciare alla possibilità di vederla, anche solo per qualche istante, così si decise ad andare comunque, ripromettendosi di non distrarla oltre il necessario.
***

Tra gli indubbi vantaggi che gli avevano dato anni di frequentazione di casa di Vittoria, c’era anche quello di conoscere a memoria tutti i punti deboli della recinzione, a cominciare dalle aste di ferro non fissate bene, che potevano costituire un ottimo punto d’accesso senza il bisogno passare dal cancello.
Non appena si era formata nella sua mente l’idea di andare da Beatrice, era sorta contemporaneamente anche l’intenzione di non suonare il citofono, giacché non voleva che gli abitanti della villetta sapessero che era andato lì, desiderando che la sua visita rimanesse privata. Infatti, se nei mesi precedenti era stato stancante vedere la fanciulla di nascosto, adesso dover essere costretto ad informare mezza città, ogni volta che voleva parlare con lei, era anche peggio.
Nonostante il buio, comunque, il giovane si mosse con sicurezza in quel giardino così familiare, procedendo con cautela fino ad arrivare sotto al balcone della stanza di Beatrice, notando che, attraverso la finestra, si intravedeva qualche tenue riflesso luminoso sul muro, segno che la ragazza non stava ancora dormendo. A quel punto, però, gli si presentò il problema di come richiamare l’attenzione di lei senza svegliare l’intero quartiere.
Quando era andato a trovarla nottetempo a casa della zia, infatti, era stato fortunato, poiché lei era uscita per puro caso proprio nel momento in cui era arrivato davanti al cancello, ma sapeva che una tale fortuita circostanza non si sarebbe ripresentata tanto facilmente, pertanto decise di optare per la soluzione più ovvia: arrampicarsi fino al balcone usando il graticcio di legno per il gelsomino come appoggio, sfruttando il fatto che la camera fosse situata soltanto al primo piano.
In realtà, non era la prima volta che si cimentava in una simile impresa, anche se, fino ad allora, lo aveva fatto sopratutto da piccolo, giocando con Vittoria e Gerardo; inoltre, aveva una buona resistenza fisica, così giunse sul balcone in un batter d’occhio. Non appena ebbe poggiato entrambi i piedi a terra, intravide attraverso la finestra la ragazza di spalle, intenta a scrivere qualcosa, soffermandosi di tanto in tanto per pensare senza, però, distogliere la testa da ciò che aveva davanti.
Allora, sorridendo, il giovane decise di bussare subito al vetro con delicatezza, augurandosi che Beatrice, nel vederselo comparire così all’improvviso, non si spaventasse troppo e, per fortuna, fu proprio ciò che accadde.
Infatti, non appena il ragazzo ebbe finito di battere il secondo colpo, la ragazza rizzò la schiena, voltandosi immediatamente nella direzione da cui era provenuto il rumore; nel vederlo, aveva spalancato gli occhi per la sorpresa, ma senza gridare, alzandosi invece in piedi e avvicinandosi al balcone.
«Ciao, Beatrice» la salutò dolcemente Marcello, nello stesso istante in cui lei aprì la finestra.
«Marcello... oh, che tu ci fa’ qui?» esclamò lei, lasciando trapelare tutta la sua sorpresa, facendo saettare di continuo lo sguardo da lui al parapetto, forse domandandosi come fosse arrivato fin lì.
«Volevo vederti» rispose semplicemente il giovane, sussurrando.
«Davvero?» chiese la fanciulla, ancor più sorpresa, arrossendo all’istante. Tuttavia, poco dopo assunse un’espressione confusa e, guardandosi attorno, fece, anche lei a bassa voce: «Ma... perché non se’ passato dalla porta?»
«Perché non volevo che nessuno sapesse della mia visita» replicò lui, sincero. «Sai, non sopporto più di dover rendere conto a destra e manca ogni volta che voglio parlarti!»
Corrugando la fronte, la ragazza lo fissò per qualche secondo, per poi lanciare uno sguardo oltre la sua spalla e, avendo dedotto tutto alla perfezione, esclamò: «Ah, ora capisco come hai fatto, ti se’ arrampicato su per il graticcio!»
L’altro stava per rispondere affermativamente, ma quella non gliene diede modo perché, dimostrando di aver apprezzato particolarmente la sua iniziativa, aggiunse: «Oh, siamo quasi come Romeo e Giulietta!»
«Sì, però, se noi restassimo vivi, sarebbe meglio» commentò, allora, Marcello, che non voleva certo prendere in considerazione l’eventualità che lui e Beatrice facessero la stessa macabra fine degli amanti di Verona.
«Oh, ma l’è ovvio che non intendevo in quel senso!» si difese lei, stizzita. «Come se’ poco romantico!»
A quell’osservazione, lui scrollò le spalle e considerò: «Sai, ho sempre avuto il sospetto di non essere stato il primo della fila, quando distribuivano il romanticismo».
Sconsolata, la ragazza, a quel punto, sospirò e scosse la testa, anche se poi lo invitò comunque ad entrare nella stanza, avvolta dalla penombra; la prima cosa che notò il giovane, non appena vi mise piede dentro, però, fu la gran quantità di oggetti poggiati sulla scrivania: c’erano almeno quattro tra libri e quaderni aperti, illuminati da una lampada da tavolo, diverse penne e matite colorate, alcune gomme per cancellare, una calcolatrice, un bloc-notes e una tazza vuota.
«Stavi ripassando qualcosa, per caso?» si informò, avvicinandosi al tavolo per dare un’occhiata più da vicino.
«Non posso fare altro» ribatté lei, improvvisamente incupita. «Il quindici m’aspettano gli esami d’ammissione, ma non sono tanto quelli a preoccuparmi, quanto più il programma di fisica: ho scoperto solo qualche giorno fa che l’è raddoppiato».
Il ragazzo annuì, poi prese in mano il libro con gli esercizi e cominciò a sfogliarlo per studiarne attentamente il contenuto, trovandolo di livello abbastanza avanzato.
«Come te la cavi in questa materia?»
«Ehm, sinceramente?»
Marcello non rispose, limitandosi ad alzare lo sguardo dal libro per fissarlo su di lei che, dal canto suo, arrossì e chinò la testa, ammettendo con un sospiro: «Un disastro».
Poi ci fu qualche istante di silenzio dopo i quali Beatrice, ormai visibilmente in preda all’ansia, riprese a parlare un po’ troppo velocemente: «E in matematica non vado meglio. Tra l’altro
, la prima prova è fissata per il ventidue1 e, considerando che i privatisti comincian gli orali prima di tutti, ho pochissimo tempo... praticamente poco più d’un mese e mezzo per fare un miracolo! Purtroppo, io odio le materie scientifiche, non sono un asso come te!»
Nel sentirla così agitata, il giovane inclinò appena la testa da un lato, perplesso: se fosse andata avanti così, la ragazza sarebbe caduta nella psicosi, pertanto trovò sensato cercare di rassicurarla. Così, rimise nuovamente il libro sulla scrivania, riportandolo alla pagina cui era prima e si avvicinò alla ragazza, optando per un approccio delicato.
«Immagino sia stata Vittoria a dirti che i numeri non mi dispiacciono» le disse, lanciandole uno sguardo tra l’intenerito ed il divertito. «Comunque, se vuoi una mano, posso aiutarti io».
A quella proposta, Beatrice lo fissò stupita e a lui parve che si fosse già in parte ripresa.
«Lo faresti sul serio?»
«Tu che ne dici?» replicò lui, scrutandola mentre increspava appena le labbra, incrociando le braccia sul petto. «E poi, te l’avevo già proposto tempo fa, non ricordi?»
Non potendo più obiettare, la ragazza gli sorrise, timidamente riconoscente, riprendendo posto alla scrivania, subito seguita da Marcello che, in mancanza di un’altra sedia e non potendo uscire dalla stanza per andare a recuperarne una, fu invitato ad accomodarsi sul letto, posto accanto.
«C’è qualcosa in particolare che non ti è chiaro?» domandò subito lui, riprendendo tra le mani il libro e leggendo il titolo del paragrafo che la fanciulla stava studiando prima del suo arrivo: Differenze e similitudini tra il campo magnetico ed il campo elettrico.
«Sì!» esclamò Beatrice, risoluta, come se non aspettasse altro che quella domanda. «Nella vita, a cosa mi serviranno tutte queste formule?!»
Quella risposta lasciò Marcello talmente basito da restare a fissarla con il libro in mano, sbattendo le palpebre, prima si scoppiare a ridere, sentendo che il peso che portava sul cuore si stava pian piano alleggerendo.
«Be’, forse tu non le userai mai nella vita» le spiegò, ancora con il sorriso sulle labbra, mentre le rimetteva
davanti agli occhi il tomo di fisica, «ma a qualcun altro che, magari, vuole fare l’ingegnere potrebbero tornare molto utili, quindi la scuola deve dare un’infarinatura di tutto».
Lei lo guardò scettica e sbuffò sonoramente, appoggiando i gomiti sulla scrivania e puntando i pugni contro le guance; rimasero a fissarsi così per circa un minuto, alla fine del quale la ragazza cedette e, dopo aver tirato un sospiro di rassegnazione, disse: «Credo che sia meglio cominciare dai vettori di campo».
Annuendo, Marcello si allungò per farsi dare carta e penna, così da poter cominciare a spiegarle quel concetto, per poi passare a formule sempre più complesse, scoprendola un’allieva attenta e partecipe, bloccata solo dalla paura di non essere all’altezza della prova che l’attendeva; quando il giovane ebbe finito di parlare, le consegnò la penna e le fece ripetere tutto quello le aveva spiegato, trovandosi ad intervenire solo un paio di volte per rettificare in minima parte le sue parole.
«Adesso sì che l’è tutto più chiaro» disse ad un certo punto Beatrice, soddisfatta. «Se’ molto bravo nello spiegare».
«Forse non studierai mai ingegneria, ma almeno affronterai la maturità con più serenità» replicò il ragazzo, stiracchiandosi appena per sciogliere i muscoli, un po’ irrigiditi dopo essere stati molto tempo nella stessa posizione.
Quando tornò a guardare Beatrice, la vide ricambiare lo sguardo di sottecchi con un’espressione pensierosa, come se stesse cercando di prendere coraggio per dirgli qualcosa, che, infatti, non tardò ad esprimere poco dopo: «Marcello, io... ecco... lo so che ti chiedo tanto, ma... m’aiuteresti a ripetere fino all’esame? Se mi confrontassi con te, sarei più tranquilla».
Vedendola così tesa, lui si addolcì non poco e
non poté fare a meno di sorridere.
«Se può esserti d’aiuto, molto volentieri».
«Anche con la matematica?»
Aspettandosi che sopraggiungesse anche quella richiesta, il giovane inclinò appena la testa e annuì, ricevendo in cambio un gran sorriso pieno d’entusiasmo.
Osservando la delicatezza con la quale la ragazza si muoveva per mettere a posto le cose sparse sulla scrivania, Marcello si sentì pervadere da un senso di calma che non credeva possibile in quel momento, considerata l’angoscia che si portava dentro: quando si trovava con Beatrice, però, si sentiva davvero bene, era come se avesse raggiunto un nuovo equilibrio che non sarebbe più potuto esistere senza di lei. Pur non sapendolo, lei l’aveva aiutato a sopportare meglio la sua precaria situazione familiare, pertanto pensò che sarebbe stato giusto aiutarla ad alleviare l’angoscia che le stava dando la preparazione per gli esami.
«L’otto maggio è il tuo compleanno, giusto?» le domandò, all’improvviso.
«Oh, te ne se’ ricordato...» fece quella, sorpresa, stringendo tra le mani le matite che stava radunando, mentre le sue guance si colorivano di un rosso tenue, «volevo dire, sì, è l’otto. Perché me l’hai chiesto?»
«Ti ricordi che volevo portarti a fare un giro nei dintorni di Roma? Potremmo farlo in quest’occasione».
«Oh, sarebbe fantastico!» esclamò lei, contenta. «Solo che preferirei fare dopo il quindici, sai, con l’ansia per gli esami d’ammissione potrei rovinare la giornata».
«Mi sembra giusto» le concesse lui, d’accordo.
Stava per aggiungere qualcos’altro, quando, improvvisamente, Beatrice si andò a sedere accanto a lui, puntandogli contro uno sguardo severo.
«Non m’hai detto, però, perché sei venuto qui di fretta» gli disse, poi, con una punta di rimprovero. «Anche se per colpa di questa maturità sto sfiorando l’isteria, mi son accorta che se’ preoccupato, sai? Solo che non m’hai ancora detto perché».
Meravigliato che la fanciulla, nonostante i suoi sforzi, avesse capito che c’era qualcosa che non andava, Marcello rimase interdetto. Tuttavia, ben presto sentì prevalere in lui un forte senso di tenerezza verso di lei e le avvicinò una mano al viso, accarezzandolo.
«Non ti si può proprio nascondere niente» le sussurrò, con dolcezza.
«Come hai visto, no!» ribatté lei, decisa incrociando le braccia sul petto.
A quel punto, il giovane sorrise e si avvicinò ulteriormente a lei, dandole un bacio sulla guancia che, però, lo lasciò insoddisfatto. Avvertendo di desiderare qualcosa di più, si spostò dolcemente all’angolo della bocca ed infine sulle labbra, in un crescendo di intensità, ma, al tempo stesso, assaporando ogni attimo di quella serenità rubata: per qualche misero istante voleva scrollarsi di dosso ogni preoccupazione e ogni ansia. Così, affondò anche una mano tra i capelli ramati di lei, facendo scivolare lentamente l’altra sul fianco.
Dal canto suo, Beatrice gli appoggiò le proprie sulle spalle, ricambiando il bacio con partecipazione e facendogli percepire tutto il suo calore, mentre con delicatezza lo invitava a stendersi comodamente con lei sul letto, senza staccarsi da lui nemmeno per un istante. Lo fecero solo molto tempo dopo, rimanendo però abbracciati a scambiarsi carezze.
«Se mi prometti che questo sarà il premio che mi spetterà per ogni esercizio risolto bene, forse la fisica potrebbe anche cominciare a piacermi...» gli sussurrò Beatrice, strappandogli ancora un bacio a fior di labbra.

Marcello, allora, le spostò una ciocca dal viso, sfiorandola appena e soffermandosi a contemplarla nella sua semplice bellezza. Non voleva caricare d’angoscia anche lei, ma costretto a dirle cosa era successo, sia perché ormai non poteva più nasconderlo, sia perché trovava giusto che fosse lui stesso ad informarla della situazione.
«Due giorni fa ho scoperto che mio padre sta molto male» le disse, ricominciando a passarle una mano tra i capelli.
A tale affermazione, la ragazza spalancò i suoi occhi blu e, incredula, domandò: «Il tu’ babbo? Cos’ha?»
Il ragazzo trovò estremamente difficile ripetere ancora una volta cosa affliggeva il signor Giancarlo, soprattutto perché gli sembrava che, ogni volta, la situazione diventasse più concreta.
«Ha un linfoma gastrico» mormorò, concentrandosi sul movimento delle ciocche di lei tra le sue dita per non cadere di nuovo vittima di orribili pensieri. «Lo sapeva, ma non ce l’aveva detto. Ed ora è a Zurigo, in attesa di essere operato».
«Cosa..?» fece Beatrice, guardandolo con un’espressione sconcertata; poi, inaspettatamente, lo abbracciò forte, senza aggiungere altro, lasciando che lui percepisse semplicemente la sua presenza e la sua vicinanza. Il giovane le fu talmente grato che le avesse dimostrato affetto, anziché compassione, che ricambiò la stretta, affondando il viso nella sua chioma e lasciandosi cullare dal suo profumo di fresca lavanda. Rimase a farsi confortare da lei per più di un’ora e, se fosse stato per lui, non si sarebbe più mosso da quella posizione, ma, purtroppo, sapeva che non era possibile, anzi, era certo di essersi intrattenuto con lei anche più del previsto.
«Forse è ora che vada, devi andare a riposare, visto che domani devi studiare nuovamente» le disse, avvertendo, però, che il suo corpo non la pensava alla stessa maniera, giacché sembrava che ogni singola fibra si rifiutasse di muoversi, malgrado i suoi sforzi.
Lei, allora, si staccò, riservandogli un’occhiata mesta e dolce allo stesso tempo.
«Perché, invece, non... resti a dormire qui... con me?» gli domandò, timidamente. «So che hai un carattere forte, ma, magari, in queste condizioni non vuo’ restare solo in casa...»
Marcello socchiuse appena gli occhi, provando un dolore sordo al petto: avrebbe accettato volentieri, perché gli sarebbe piaciuto farla addormentare tra le sue braccia, ma sapeva che non era possibile.
Infatti, anche se non si sarebbe mai permesso di metterle le mani addosso, rimanere lì non sarebbe stato comunque corretto nei confronti dei genitori di Vittoria, che avevano accolto Beatrice sotto la loro protezione e avevano sempre trattato lui al pari un figlio, fin da quando era piccolo; si era già introdotto in camera furtivamente, pertanto passare la notte lì sarebbe stato troppo, nonostante bramasse la serenità che lei sapeva infondergli come acqua nel deserto.
«Ho detto ad Ottavia che sarei rincasato tardi, ma che sarei comunque tornato. Non voglio farla preoccupare» le rispose, dandole un ultimo bacio sulla fronte ed alzandosi finalmente dal letto, sapendo solo lui quanto gli era costato farlo.
«Ah, va bene» fece la ragazza delusa, mettendosi seduta e stringendo le spalle, mentre il giovane pensò che, ormai, la loro situazione non sarebbe potuta andare ulteriormente avanti in quella maniera, giacché non doveva interessare a nessuno con chi lei passasse ogni notte.
Fu così che, mentre la salutava e usciva fuori sul balcone, prese una decisione ferrea: seguendo il consiglio di suo padre, le avrebbe chiesto di sposarlo.
***

Appoggiata contro il muro accanto alla sala professori, Beatrice fissava pensierosa il pavimento, stringendo tra le braccia il Rocci2, in attesa che la chiamassero per dirle come erano andati gli scritti e per farle il colloquio finale sulla maggior parte delle materie umanistiche, mentre, per matematica, fisica, inglese e storia dell’arte (l’unica ventata d’aria fresca in mezzo a quell’ecatombe) avrebbe dovuto aspettare il giorno successivo.
Purtroppo, quella mattina ancora non c’era stato modo di conoscere i professori della classe alla quale era stata abbinata, giacché sembrava che fossero tutti troppo impegnati per presentarsi e, addirittura, quello di italiano e greco aveva lasciato le tracce delle prove di ammissione alla segretaria, che poi le aveva presentate a lei.
A pochi passi di distanza, c’erano due ragazzi della seconda3 D, uno basso e minuto ed uno decisamente robusto, messi in punizione dal loro insegnante e sfruttati come testimoni durante lo svolgimento delle prove; stavano parlottando tra di loro, come avevano fatto per tutto il tempo, senza rivolgerle la parola nemmeno una volta e facendola sentire più a disagio di quanto già non fosse, mentre era impegnata a rimuginare su quanto aveva fatto durante la mattinata. Infatti, nonostante fosse piuttosto sicura di aver tradotto bene il passo dell’Apologia di Socrate, aveva qualche dubbio sullo svolgimento del tema sulla violenza nella società, perché avrebbe voluto scrivere molte più cose, perciò non era sicura di aver selezionato quelle più importanti.
Mentre si arrovellava il cervello con questi pensieri, passò davanti a lei un uomo alto e molto magro con i capelli brizzolati, che si fermò poco prima di entrare in sala professori, apostrofando i due ragazzi: «Righetti e Noldi, vedo che anche quest’anno avete deciso di soggiornare perennemente in presidenza!» commentò.
«In realtà, professore, saremmo potuti andare via ore fa, ma ci hanno incastrato per fare da testimoni alla privatista» rispose quello basso e minuto, indicando Beatrice con un cenno del capo e lei, sentendosi chiamata in causa, si staccò dal muro, pronta a ribattere che non era colpa sua se, per legge, durante lo svolgimento delle prove dovevano essere presenti due testimoni. Tuttavia, nel vedere l’occhiata piena di superbia che le lanciò l’insegnante, le parole le morirono in gola.
«Ah, sei tu, allora» fece quello, squadrandola con un sorrisetto beffardo. «La signorina che non ha voluto frequentare la scuola come tutti i comuni mortali».
Irritata da quel commento, la ragazza socchiuse gli occhi, ma non osò rispondere per le rime, non sapendo chi fosse e che poteri avesse quell’uomo, poiché, se già aveva quei pregiudizi verso di lei senza nemmeno conoscerla, sarebbe stato poco saggio alimentare quella diffidenza.
«Allora, restate qui. Quando vi chiamerò, entrerete tutti e tre» ordinò poi quello, secco, prima di entrare nella stanza.
Beatrice si riappoggiò subito al muro, corrugando appena la fronte, per nulla rassicurata da quell’insegnante che aveva già mostrato una palese riserva nei suoi confronti, solo perché stava affrontando l’esame di maturità senza aver frequentato l’ultimo anno di scuola come tutti gli altri ragazzi della sua età. Magari, se avesse saputo quanto aveva dovuto faticare per studiare, lottando contro la volontà di quella megera di sua zia, forse non sarebbe stato dello stesso avviso.
«Sei proprio sfigata, rossa» le fece ad un certo punto il ragazzo che aveva interagito con il professore. «Sei capitata nella classe di Bellocchi!»
«E di Bellocchi-bis!» gli fece eco l’altro. «Porti anche fisica, per caso? Anche se ho sentito dire che quest’anno è esterna, quindi forse potresti salvarti».
Non avendo capito granché di ciò che le avevano detto, visto che era la prima volta che metteva piede in quella scuola e non sapeva assolutamente nulla dei professori che insegnavano lì, la ragazza si limitò a rispondere: «Presentandomi da privatista, devo portare tutte e quattro le materie, non solo due».
«Più sfigata di te non si può essere, allora!» commentò il primo che aveva parlato, mettendosi a ridere subito dopo e contagiando l’altro.
Mentre quei due quasi si rotolavano a terra dalle risate, la ragazza li guardò furente, perché non c’era bisogno davvero che le ricordassero quanta poca fortuna avesse avuto, da quando erano morti i suoi genitori. Anche se era vero che l’aver conosciuto Marcello era un risarcimento abbastanza soddisfacente...
«Righetti, Noldi e Tolomei, dentro!» proruppe improvvisamente Bellocchi, richiamandoli tutti e tre per esortarli ad entrare in sala professori.
Beatrice seguì gli altri due in silenzio, ritrovandosi in una sala ampia, circondata da scaffali in metallo pieni di faldoni e cartelline schedate, al centro della quale si trovava un enorme tavolo di legno scuro con diverse sedie intorno. Ad un angolo, erano seduti tre adulti: il professore che aveva appena conosciuto, una donna dai capelli biondi frisè e un uomo panciuto che stava leggendo il giornale.
I due ragazzi si andarono a sistemare sull’unica panca addossata al muro, mentre la donna fece cenno alla fanciulla di avvicinarsi a loro.
«Siediti pure, cara» le disse, sorridendole affabile. «Io sono la professoressa Valenti e assieme al professor Bellocchi e al professor Tavelli, ti farò qualche domanda per verificare la tua preparazione. Ti hanno spiegato come funziona? Se non ho letto male, hai avuto un insegnante privato».
«Oh, sì, il professor Rossiglione» rispose prontamente Beatrice, mentre appoggiava a terra il vocabolario di greco e si sedeva di fronte al terzetto. «Insegna al liceo di Tivoli».
«Ah, sarà per questo che non l’ho mai sentito nominare» commentò l’altra, sempre sorridendo.
«Beatrice Tolomei, la nostra privatista...» esordì allora Bellocchi, con tono di scherno, sbattendo sul tavolo un plico di fogli e sfogliandolo con fare distratto. Poi, lesse sottovoce qualcosa e subito dopo alzò lo sguardo sulla fanciulla, fissandola intensamente. «Che, fino all’anno scorso, ha frequentato il Dante4 di Firenze».
Lei, ricambiando l’occhiata, annuì, ma non si azzardò a far uscire una sola parola dalle labbra.
«Provenendo da un liceo simile e con il nome che porti, come minimo mi aspetto che tu sappia tutta la Divina Commedia a memoria» proseguì il professore, sfoderando un ghigno sottile. «Come mai non sei rimasta a casa tua e sei venuta a concludere gli studi qui, senza degnarti di frequentare una scuola?»
«Ho avuto qualche problema in famiglia» tagliò corto Beatrice, senza staccare gli occhi da quell’uomo che, con il suo atteggiamento di sufficienza, la stava seriamente indisponendo: si sarebbe mozzata la lingua piuttosto che raccontargli la sua storia, anche perché era certa che non le avrebbe mai creduto, anzi, probabilmente avrebbe pensato che gli stesse dicendo un mucchio di frottole per impietosirlo e farsi promuovere.
Bellocchi, allora, socchiuse appena le palpebre, come se avesse percepito l’astio che aveva scatenato nella ragazza, per poi continuare a punzecchiarla crudelmente: «Secondo questo pezzo di carta, risulti regolarmente promossa fino alla seconda classe liceale con voti passabili».
Indignata, la giovane strinse i pugni: passabili? I suoi otto e nove, costati ore e ore di studio, erano passabili?
«Luca, non essere così severo! Beatrice ha un ottimo curriculum» intervenne a quel punto la Valenti, che pareva sinceramente risentita per il comportamento che stava avendo il collega. Poi, si voltò verso Beatrice e la rassicurò: «In storia e filosofia hai degli ottimi voti, perciò sono convinta che andremo d’accordo».
«Dai compiti che ha fatto stamattina, però, non sembrerebbe, Lorena» osservò lui, prendendo i fogli che aveva in mano e buttandoli malamente davanti alla ragazza, la quale, con suo sommo orrore, notò che erano pieni di segnacci rossi e blu.
Passi pure le correzioni sul tema, la cui valutazione rimaneva pur sempre soggettiva, ma aveva imparato la traduzione dell’Apologia quasi a memoria, non poteva averla sbagliata tutta!
«Sei troppo condiscendente con i ragazzi» insistette l’uomo, dubbioso, lanciando alla professoressa uno sguardo commiserevole.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui i due insegnanti si guardarono in cagnesco, facendo percepire a Beatrice che dovesse esserci tra di loro una qualche rivalità più o meno latente, come spesso accadeva tra colleghi di una stessa scuola, per le più svariate ragioni.
Quel momento di tensione, però, fu rotto improvvisamente da un colpo di tosse di Tavelli che, però, riprese subito a leggere il giornale, voltando pagina come se si fosse trovato da solo nella stanza, così Bellocchi, approfittando di quella casuale intromissione, tornò al suo interesse preferito del momento: torchiare Beatrice.
«I miei ragazzi hanno un’ottima preparazione e mi aspetto che tu, anche se non fai parte della terza C, non mi faccia fare brutte figure con i commissari esterni, di qualunque materia. Sono stato chiaro?» le sibilò, velenoso.
«Quanto sei pesante... dovresti incoraggiarla, invece!» sbottò la Valenti, incrociando le braccia sul petto e lanciando all’altro uno sguardo obliquo, mentre Tavelli continuava ad ignorarli tutti, facendosi i fatti propri.
«Io premio solo le eccellenze, Lorena, e questa ragazza si mantiene a malapena a galla» affermò il professore, convinto della sua tesi. Poi, si voltò nuovamente verso Beatrice e, dopo averle lanciato uno sguardo intimidatorio, le disse: «Comunque, domani vedremo il punteggio complessivo, anche se non credo che tu possa essere promossa... Il professore di fisica è mio fratello e non è certo più magnanimo di me».
La ragazza, nell’udire ciò, non fece una piega, essendo ormai abituata ad interagire con persone che non mostravano il minimo rispetto nei suoi confronti e che sembrava traessero un particolare piacere dal prendersela con lei. Pertanto, sostenne lo sguardo di Bellocchi e serrò le labbra, decisa a fargli vedere cosa era in grado di fare: aveva bisogno a tutti i costi di quel diploma e, in un modo o nell’altro, se lo sarebbe preso.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto che mi sostiene sempre.
***
[N.d.A]
1. fissata per il ventidue: nel 1987, gli esami di maturità si sono svolti davvero il 22 e il 23 giugno (prima e seconda prova), mentre gli orali si sono svolti dal 27 in poi (il 26 per i privatisti);
2. Rocci: per chi non avesse fatto degli studi classici, è così che viene comunemente definito per metonimia il dizionario di greco (scritto da Lorenzo Rocci). Io ammetto che avevo il GI della Loescher, tuttavia, poiché non esisteva negli anni ’80, mi sono adeguata a quello che, nella mente di molti studenti del classico, è l’emblema dello studio (faticoso) del greco antico;
3. seconda: la numerazione delle classi segue quella del liceo classico, quindi sarebbe il quarto anno, come la terza classe sarebbe il quinto anno, eccetera;
4. Dante: è il liceo classico più antico del capoluogo toscano.
***


Bentrovati, dunque.
Vi annuncio ufficialmente che mancano otto capitoli alla fine di questa storia (più l’epilogo).
Ringrazio chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, Aven), chi continua a leggere questo racconto, chi l’ha messo tra le storie seguite/preferite/ricordate, chi mi darà un feed-back (di qualsiasi genere) in futuro.
Come il solito, per chi vuole, lascio il link alla pagina facebook, dove, nei prossimi giorni, troverete un’anticipazione del prossimo capitolo e qualche piccola sorpresa.
A presto!
Halley S. C.

  
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