4 – Vedi Cara
È
difficile parlare
dei
fantasmi di una mente
[…]
Quando
rido senza muovere il mio viso
Quando
piango senza un grido
Quando
invece vorrei urlare.
-
Francesco Guccini
-
Davvero, Kit, mi stai chiedendo di concedere un colloquio a una ragazza
solo
perché è amica tua? – David mi guarda
esalando una nuvoletta di fumo. È tardo
pomeriggio, abbiamo appena finito di girare ed è quello
strano momento rilassato
della giornata in cui alcuni di noi sono ancora in costume di scena,
altri si
sono già cambiati, lo staff rimette le cose a posto e i
registi riguardano le
riprese. Lavorano tutti, ma lenti ed esausti, e
c’è una sorta di allegorica
tranquillità. Per quanto mi riguarda, sono ancora in costume
di scena. Rose,
vestita da bruta, passa poco lontano da noi parlando e ridendo con
Hannah
Murray, lasciando dietro di sé una scia di malinconia che
punta verso di me
come una freccia.
- Kit? Sei su questo
pianeta? – La voce di
David mi riporta al momento presente.
-
E’ una gran lavoratrice. Te lo chiedo come favore personale,
David. Per favore.
Ne ha bisogno.
Stringe
gli occhi come se dubitasse delle mie parole, poi schiaccia la
sigaretta nel
posacenere accanto a lui. Io ne ispiro una boccata.
-
L’hai già fatta venire qui e sta aspettando, vero?
– Insinua. Sorrido nervoso.
-
Dopo quattro anni mi conosci fin troppo bene.
Si
gratta la barba, tira fuori un’altra sigaretta dal pacchetto
e se la infila in
bocca squadrandomi come se volesse scavarmi un buco al posto del naso.
-
È quella ragazza che Richard ha addocchiato due minuti fa?
Il
cuore mi cade nello stomaco. – Aspetta, che?!
Mi
giro sulla sedia per guardare dietro di me, le piume sintetiche del
mantello
che mi volano in bocca. Qualche metro lontani da noi, Sara sta a
braccia
incrociate con la schiena appoggiata al muro, e fissa con lo sguardo
Richard
che la osserva accucciato dietro a una scrivania. Lei sembra essere coi
sensi
allerta per tenerlo d’occhio, oppure concentrata con tutte le
sue forze per
venire risucchiata all’interno del muro. Non so quale delle
due opzioni sia la
più probabile.
-
Che cos’ha di strano che non mi convince? – Domanda
David, in piedi accanto a
me, seguendo il mio sguardo. La sigaretta che poco fa teneva in bocca
ora sta
dietro l’orecchio.
-
Si guarda le spalle – rispondo automaticamente.
-
Ecco, sì: è guardinga. Sei sicuro che non sia
immischiata in qualcosa di
illegale? Cosa mi stai nascondendo, Kit?
Sospiro
tra i denti. – Sta passando un brutto periodo: è
stata sfrattata e non ha i
soldi per pagarsi un posto per la notte, e starà da me per
un po’. Ha bisogno
di guadagnare. Spero solo che tu mi faccia questo favore, Dave.
Mi
guarda. – Sta al piano di sopra?
Annuisco.
-
Beh, vediamo che posso fare.
Si
incammina nella direzione di Sara, che si volta verso di lui non appena
entra
nel suo campo visivo. Poi, esitante, gli stringe la mano con un sorriso
tirato.
David la conduce nella mia direzione mentre Rick la segue con lo
sguardo da
dietro la scrivania, e io le cedo la mia sedia. Mentre lei passa sento
un vago
odore di lavanda provenire dai suoi capelli.
Mi
allontano, fingendo discrezione, e mi ritrovo accanto proprio la Faccia
Da
Chiappe Richard.
-
Credevo che una donna non sarebbe mai stata capace di farmi sentire uno
scolaretto col cappello da asino con un solo sguardo, ma mi sono
ricreduto.
Ridacchio.
– Hai provato a presentarti?
-
Le sono arrivato da dietro. Mi stupisce che non sia arrivata ad
appendersi al
lampadario. Non le hai mai detto di rilassarsi?
-
Ci ho solo provato.
-
Allora – la voce profonda di Dave, intento a leggere un
foglio scritto a metà,
interrompe la nostra conversazione. – Sara Vitali, nata a
Genova il 21 marzo
1988. Come mai c’è scritto poco più di
questo nel tuo C.V.?
Trattengo
il respiro: le danze sono cominciate. Sara si torce le mani.
– Non sono molto
brava a scrivere.
Dave
si toglie gli occhiali. – Credi che ti darò un
incarico, qualsiasi incarico, in
questa crew… solo perché Kit Harington mi ha
chiesto di farlo?
-
Assolutamente no.
-
Che cosa sai fare?
-
Ho quasi conseguito una laurea in fisioterapia. Ho lasciato pochi esami
prima
della fine.
-
Che cosa sai fare che potrebbe essere
utile?
Incrocia
le braccia, assumendo un’aria di sfida. – Posso
fare qualsiasi cosa: costumi,
trucco, luci, scenografia, segretaria… basta che ci sia
qualcuno che mi dica
che cosa fare. Imparo in fretta.
Dave
prende in mano la sigaretta da dietro l’orecchio. Tra i due
si instaura un
gioco di sguardi degno di un film western.
-
Ci manca solo che estraggano le pistole dalle fondine –
mormoro. Richard
ridacchia.
-
Se tu non fossi nelle grazie di Kit Harington e fossi venuta qui con un
curriculum inconcludente a chiedermi di darti un lavoro qualsiasi
all’interno
della crew del Trono di Spade ti avrei buttato fuori di qui a calci,
che questo
sia ben chiaro.
Sara
non risponde. Dave posa il foglio sul tavolo dietro di lui e si alza
dalla
sedia. – Devo un favore a Kit: comincerai domani. Assistente
costumista.
Sara
si alza e sorride apertamente, stringendogli la mano.
-
Ti farò trovare un contratto entro la fine della settimana.
Ah, Vitali… hai
parecchio da dimostrare.
Qualcosa
la ferma. Abbassa lo sguardo e comincia a torturarsi una ciocca di
capelli. –
Posso seguirvi in Islanda?
David
la guarda come se fosse pazza. – Questo dipende da quanto ti
riterremo
indispensabile per la produzione.
Qualche
istante di silenzio, poi si stringono di nuovo la mano.
-
Allora a domani.
-
Non ci credo, non ci credo, ho un lavoro! – La voce sorpresa
di Sara oltrepassa
la porta del mio camerino, mentre all’interno sto togliermi
il costume il più
velocemente possibile: fuori dalla stanza c’è
Richard insieme a lei e ho paura
di quello che potrebbe uscirgli dalla bocca. Vedasi
“argomento Rose”.
Non
credevo che il risultato del colloquio potesse renderla capace di
saltellare su
e giù per gli Sudio come un pupazzetto a molla, o di
ripetere per cinquanta
volte di fila sempre la stessa frase. Semplicemente avevo escluso
comportamenti
simili dal suo carattere.
Questo
dimostra il fatto che tutto ciò che conosco di lei
è solo la superficie.
Coi
vestiti “normali” addosso esco dal camerino
trovando Richard sorridente
appoggiato al muro e Sara che sta cercando di legarsi i corti capelli
in un
moccetto in cima alla testa.
-
Andiamo? – Propongo. Mi avvicino a Richard dandogli una pacca
sulla spalla. Lui
mi sorride, affascinante come il Principe Azzurro di Cenerentola.
-
Solo un secondo, ho lasciato la giacca sulla sedia! – Sara
quasi scompare.
-
Ci vediamo domani, amico – dice. – Mi sa che
stasera avrai da fare!
-
Nulla di quello che stai pensando, Rick.
-
Oh, e andiamo! – Ride. – Nemmeno un bacetto?
-
La vuoi piantare? Smettila! Tu non sai quello che ha passato.
-
Io no – ribatte. – Ma tu neppure.
Ammutolisco,
colpito e affondato. Richard mi arruffa i capelli, e
sa che lo odio.
-
Ti adoro, Kituccio. Ci vediamo domani!
-
A domani, Rick.
Sara
torna proprio mentre lui se ne va. La raggiungo mantenendo le distanze
e ci
incamminiamo come due sconosciuti che camminano fianco a fianco per
puro caso,
senza degnarci di uno sguardo. La sorpresa che riempiva la sua voce
fino a un
paio di minuti fa sembra completamente svanita, o risucchiata nella sua
corazza. Per quel che ne so, potrebbe essere animata da un interruttore
ON –
OFF.
Io
questo interruttore non so dove sia, per cui devo soltanto aspettare
che si
riaccenda da sola: che mi permetta di conoscerla, di mostrarle che
può avere
fiducia in me, che posso difenderla da quel suo ex, qualunque cosa le
abbia
fatto… essere suo amico, il suo amante, qualunque cosa.
Non
posso costringerla a fare niente. Posso soltanto aspettare.
Dalla
padella nella brace, da Rose a Sara. Sono proprio sfigato in amore!
Forse
dovrei andare a rinchiudermi in un convento, o pensare seriamente di
unirmi ai
Guardiani della Notte.
Sto
cercando di usare decentemente una rotella per tagliare la pizza da
asporto in
fette, assorto nei miei pensieri.
Sto
cominciando a perdere davvero la speranza… di essere felice.
Se non posso
esserlo con Rose o con qualsiasi altra persona su questo pianeta, come
posso
sperare di esserlo con me stesso?
-
Ciao.
Tiene
un piede sospeso fra l’ultimo gradino della scala e il
pavimento, tenendosi
all’angolo del muro con una mano. I capelli bagnati le
circondano il viso ed è
avvolta da un maglione sformato rosa pallido. Il silenzio tra noi
è quasi
pesante.
-
Ciao. – Poso la rotella sul bancone. – Come stai?
-
Bene. Ancora non ci credo di avere un lavoro.
-
Non è stato un colloquio molto felice, però.
-
No, non lo è stato – sospira avvicinandosi.
Tamburella le dita sul balcone,
fermandosi proprio davanti a me e la pizza. Tira un profondo respiro,
poi alza
lo sguardo su di me.
-
Il mio vero nome è Sara Cerbiatto. Questo – prende
in mano una ciocca di
capelli – non è il mio vero colore. In
realtà ce li ho sul ramato. Sono
scappata dall’Italia perché il mio ex mi
perseguita. Ma questa… persona, quella
che non ride e non si fida delle persone… non sono io. Io
non sono così.
Senza
abbassare lo sguardo, completamente colto di sorpresa, faccio il giro
del
balcone e mi avvicino a Sara.
-
Che cosa ti ha fatto? – Mormoro, quasi temendo la risposta.
Lei
cerca di non far scendere le lacrime che le riempiono gli occhi e,
quando
parla, un nodo alla gola le rende la voce molto più grave
del solito.
-
Da dove comincio? – Sdrammatizza. – Si chiama
Matteo della Francesca. Lui… non
è normale.
“Ma
va?”.
-
Mi trattava male. Mi diceva che senza di lui non ero nessuno e che
sarei
rimasta sola come un cane. Aveva il brutto vizio di alzare il gomito, e
quando
lo faceva… beh, lasciamo perdere. Ma quello era il meno.
-
In che senso era il meno? – Sto faticando a parlare dal
disgusto che provo.
Sara
si volta e si allontana, stringendosi nelle spalle. Rispetto la
distanza che ha
messo tra di noi.
Un
dubbio si insinua nella mia mente, un pensiero così meschino
che mi fa venire
il voltastomaco e mi fa sentire sporco dentro.
-
Ti ha violentata?
Sempre
di spalle, annuisce più volte.
Vorrei
avere quel bastardo fra le mani, levargli per sempre la voglia di
riprovarci.
-
E tu che hai fatto?
-
L’ho lasciato. Ma poi è andata sempre peggio. Ha
cominciato a seguirmi
dovunque, a chiedermi di tornare assieme a lui e a dirmi di essere
cambiato, di
dargli un’altra possibilità. Più non lo
ascoltavo, più diventava pressante:
migliaia di messaggi pieni di insulti al giorno, telefonate notturne,
persino
foto infilate sotto la porta di me, e della mia famiglia.
“Mia o di nessun
altro”. Alla fine sono andata alla polizia, a denunciarlo. Ho
aspettato due
settimane e lui continuava a starmi alle calcagna. La polizia non si
è fatta
vedere. Sono tornata da loro, e mi hanno liquidata con la scusa che non
avevo
portato nessuna prova concreta. Stavo per tornare una terza volta con
le foto,
i messaggi, le registrazioni delle telefonate… quando Matteo
si è messo a
spaccare le finestre di casa in pieno giorno. Abitiamo al secondo
piano, e papà
si è quasi preso un macigno in testa. È stato
allora che ho deciso di scappare.
Sono
a Belfast da qualche mese, mi tengo in contatto coi miei genitori, non
ho più
un cellulare… ma lui continua a tormentarmi. E
io… mi sento sola, troppo sola…
Mi
avvicino piano a lei, mettendole le mani sulle spalle e facendola
voltare verso
di me.
-
Se non ha già avuto la buona creanza di sparire
all’inferno sarei felice di
accompagnarcelo.
Tossisce
una risata.
- Compreso il periodo in cui siamo stati insieme, sono quasi due anni.
-
Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa, che possa fare
per te… devi soltanto
chiederlo.
Tira
su col naso. – Mi hai già dato un posto dove
vivere e un lavoro decente, ma…
Oh, Kit, potresti essere mio amico? Ho bisogno di essere me stessa e di
abbassare la guardia, per una volta. Potresti…
ecco… ti dispiacerebbe
abbracciarmi?
La
avvolgo subito tra le braccia, nascondendole il volto nel mio petto.
Lei mi
circonda la vita con le braccia e fa dei respiri profondi frammentati
da dei
singhiozzi, e io affondo il viso nella sua spalla.
-
Non dovresti neanche chiederlo. – Bisbiglio, cullandola.
Non
so per quanto tempo rimaniamo così: un secondo, un minuto,
un’ora… so solo che
quando lei scioglie l’abbraccio e alza lo sguardo,
c’è un sorriso dipinto sul
suo volto. Un dolce, fragile e bellissimo sorriso.
-
Grazie – Sussurra quasi in una scusa.
-
Non c’è di che – le sistemo una ciocca
bagnata dietro l’orecchio. – Tanto per
cominciare, potrei chiamarti Fawny.
-
Fawny? Come… tipo…
“cerbiattina”? – Non scioglie le mani
dalla presa.
-
Non solo per quello*.
Sorride,
e mi abbraccia di nuovo.
*
“Fawn” in inglese vuol dire
“cerbiatto”, ma anche “mostrare affetto,
gioia”,
oppure indica il colore ramato dei capelli di Sara.