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Autore: Deich_    27/05/2016    3 recensioni
La solita storia, con gli stessi protagonisti, nel solito bar.
Semplicemente uno sguardo nell'intricata rete di relazioni di chi nell'Underworld ci vive da sempre, le solite storie, le solite sensazioni, il solito trambusto generale di chi, come me, gestisce una locanda in questo posto dimenticato da Dio.
Le osservo da dietro il bancone e riporto qui, solo per voi, alcune delle storie più interessanti che si sono consumate al Grillby's.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Burgerpants, Grillby, Mettaton, Napstablook, Un po' tutti
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: Furry
Capitoli:
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ATTENZIONE! IMPORTANTE!
Innanzitutto ringrazio di cuore chiunque stia leggendo anche questo secondo capitolo. Ma bando alle ciance, vorrei avvisarvi che in questo secondo capitolo, con protagonisti questa volta Napstablook e Mettaton, compariranno ad un certo punto degli asterischi (*) due in realtà, verso la fine. Al primo asterisco corrisponde una canzone che consiglio caldamente di mettere in sottofondo, idem per il secondo.
Qui allego i link delle due canzoni, consiglio a chiunque legga di spendere quei due secondi per far partire le canzoni, poichè quella parte della storia è stata costruita basandosi anche su quella musica specifica, quindi potrebbe non rendere granchè se letta nel totale silenzio.

Grazie per l'attenzione! <3

Link delle due canzoni: 1 https://www.youtube.com/watch?v=8iAeb9i9EMY

2 https://www.youtube.com/watch?v=Obx3e7MfEaI&list=PLDfKAXSi6kUZczwycO8UcABjn-w3WJ_71&index=4







«Come… Ti senti?» Le voci sembrano lontane, metalliche, alterate dalle vibrazioni dei nuovi padiglioni auricolari.
Sollevare un braccio verso il soffitto è forse più difficile che portare a termine un pensiero completo: c’è solo fatica e confusione, quella confusione abissale del tentare di fare cose perfettamente normali e trovarle difficili. Il braccio si stende, si allunga, la tensione raggiunge finalmente le dita intorpidite che, davanti ai tuoi occhi increduli si stiracchiano una dopo l’altra, lentamente.
Sono bellissime. Bianche e bellissime.
 
Voltare la testa – è questo che significa avere una testa?- verso i tuoi interlocutori è ancor più difficoltoso, perché non ti hanno insegnato a farlo; segui il rumore confuso delle loro voci, spostando a scatti quel capo così pesante - ma vanno in giro tutti con questo peso insopportabile?- come se stessi testando le ruote oliate di una bicicletta nuova.
 
« Napstablook? Riesci a sentirmi?» E’ indubbiamente la voce di Frisk. Sarai anche incapace di muovere quel corpo, ma riconoscere suoni e timbri vocali è un’abilità che non si scorda così facilmente.
Specie se è l’unica cosa che sono in grado di fare…
 
Non rispondi semplicemente perché aprendo le labbra sottili tutto il meccanismo vocale si mette in moto, incominciando a pompare impulsi elettrici dal cervello alla cassa toracica, ai due grandi compressori che catturano e liberano l’aria necessaria a far circolare l’energia.
 
Potremmo definirlo il tuo ‘primo respiro’? Da fantasma non ti eri mai interrogato granchè sul meccanismo di respirazione degli esseri viventi: dopotutto tu non ne avevi certo bisogno. E anche domandandoselo, cosa potevi fare? Chiedere a qualcuno “ ehi…. Com’è respirare?"
Si fa e basta.
E farlo, seppur in maniera non-biologica, per la prima volta è tanto bello quanto destabilizzante. Non ascoltavi granchè mentre Alphis ti spiegava il funzionamento dei compressori e del necessario riciclo di energia aiutato dall’aria; in più, è sempre perché non la stavi ascoltando che non sai che inizialmente il progetto doveva essere alimentato dall’energia solare, ma vivendo nell’Underground era un’alternativa impossibile.
 
Che cosa comica che sarebbe stata: Napstablook, il fantasma delle caverne e degli antri scuri, colui che vive là sotto, giù, giù dove esiste solo il nero e dove solo i ragni osano avventurarsi, alimentato dall’energia solare. Se avessi avuto un minimo senso dell’umorismo, l’avresti trovata una contraddizione divertente.
 
 
Brucia quel corpo, brucia da fare schifo. Ma perché brucia? Dopotutto non è vera pelle, vero pelo, vera carne, sono solo parti metalliche messe assieme da un complesso sistema vitale che sembra campato fuori dalle favole.
Eppure, senti.
Sorridi appena, mentre il liquido autopulente ti inonda gli occhi celesti – è così che piangerò d’ora in poi?- e gocciola lungo le guance perfettamente modellate, perfettamente lisce, perfettamente ovali.
« Sento, dottoressa. Sento bruciare tutto. E’ così... Bello».
 
-
 
Una volta messo a sedere, la dinosaura ti guarda con apprensione, asciugandoti le lacrime con un fazzoletto di cotone. E’ tesa come una corda d’arco.
 
«E così…» Mormora scostandoti una ciocca di capelli di plastica dagli occhi « Sono diventata madre una seconda volta». Sorride mostrando i dentoni aguzzi, mentre le squame s’increspano.
E’ visibilmente euforica, nonostante i suoi sorrisi assomiglino di più a delle coliche.
 
Ti ha definito “il suo più grande successo” ma la cosa non ti piace granchè: il suo più grande successo dovrebbe essere Mettaton, ed essere messo un gradino sopra di lui non ti piace, ti fa sentire sbagliato, fuori posto, superbo addirittura.
 
« Ora sono anche io un androide…?» La voce è ancora ridotta ad un sospiro, fai decisamente fatica a riconoscerla come tua.
 
 
« Meglio, molto meglio Napstablook». Una scintilla le attraversa gli occhi, rendendo ancora più evidente la sua malcelata euforia. Ti fa sentire a disagio.
 
« Tu sei un cyborg» Il silenzio comune nella stanza, quel silenzio che tenta di coprire l’implicita incomprensione generale, sembra far spazientire Alphis che, piccata, si risistema gli occhiali sul muso squamoso.
 
« Un androide è un robot con sembianze umane. Un cyborg è un robot con parti biologiche e processi vitali simili alla realtà.
Tu sei quanto di più vicino c’è ad un vero essere vivente».

« Ma quindi…»
« No, Mettaton non è un vero essere vivente. Tu sei più-»

« Adesso basta, la prego……» Gemi stringendo il capo pieno di capelli tra le braccia, il processo di respirazione accelerato e gli occhi nuovamente lucidi.
Lasciarsi trasportare dalle emozioni era molto semplice quando eri sottoforma di fantasma, quando non possedevi un corpo pronto a reagire in un modo tutto suo alle ansie, all’agitazione, alla paura ed al disagio; semplicemente accadeva e soffrire non era poi un tale impegno quanto un’abitudine malsana, mettersi nelle mani di una sensazione e permettere all’ectoplasma di volteggiare nell’aria annegando nei dispiaceri era forse un modo per ricordare alla tua generale apatia di essere ancora al mondo.
Adesso è tutta un’altra storia.
La testa pulsa, il centro del petto è come schiacciato da pareti immaginarie e un sapore cattivo, indistinguibile incomincia a salire dal fondo della gola. Quanto fa schifo provare tutto questo.
 
La piccola mano tiepida di Frisk si appoggia sulla tua coscia nuda, placando la tua prima emicrania con la facilità con cui una campana di vetro spegnerebbe una fiaccola; non apre gli occhi, non li apre quasi mai, ma il suo viso sereno appena nascosto dal caschetto di capelli scarmigliati è un’infusione di tranquillità dritta nelle vene. Come al solito, dopotutto.
 
« Non parliamo di Mettaton» Lui lo sa. Lui c’era, che è forse più importante, quando hai messo da parte le lacrime per qualche secondo, giusto il tempo di sbattere la porta in faccia a Mettaton quel giorno – quand’è stato? Dio, sembra passata un’eternità- di qualche settimana prima.
 
Era tornato così: bello come il sole e scintillante come una berlina, bussando alla tua porta con un sorriso dalle pennellate melliflue e tante belle parole, parole agrodolci che nelle tue ipotetiche orecchie avevano assunto un suono simile a quello delle unghie che si spezzano: fastidioso, non ritmato, vuoto.
 
Con ancora incise a ferro e fuoco nella memoria le parole che il – sangue del tuo sangue…?- aveva scritto sui suoi diari, nessuna depressione sulla faccia della terra è stata abbastanza grande da impedirti di schiantare la porta a pochi centimetri dal suo viso sorridente, la lingua annodata ed il fluttuare incerto di quel corpo -che corpo non era- scosso dai tremori.
 
« Bl… Napstablook, aprimi la porta».
Non la sentivi nemmeno la sua voce leggermente incrinata, per la prima volta da che ne avevi memoria, leggermente allarmata, le parole trovate nei suoi diari da Frisk incominciavano a vorticarti davanti agli occhi in una danza mesta, angosciante, sfiancante.
 
“ Oggi anche l’ultimo ha lasciato la fattoria per ricevere un corpo. Quello sciocco di Napstablook mi ha chiesto se anche io avessi intenzione di andarmene. Come potrei mai lasciarti indietro, Blooky?”
 
« Non possiamo… Parlarne? Non  è divertente».
 
“ Tanto non troverò mai il corpo che desidero davvero”.
 
« Ti prego, aprimi… Sono sempre… Io».
 
“ Scusami Blooky, ma niente può più mettersi tra me ed i miei sogni".
 
 
 
E’ Alphis a riportarti a galla dopo un bagno tra quei ricordi soffocanti, un bagno in una vasca più profonda di un crepaccio nel mare..
 
« Proviamo ad usarle quelle gambe?» Suggerisce con quell’imbarazzo di chi si sente almeno in minima parte artefice del ‘grande dramma’. Probabilmente è grazie a quella fastidiosa colpevolezza mescolata con quella sua inquietante attrazione per la scienza e per l’addizionare la vita altrui con le provette in vetro, che ha accettato di farti un corpo.
 
E’ una notte da lupi dove i cuccioli si nascondono sotto le coperte, una di quelle spettrali dove il buio sembra di un nero ancora più denso, una notte in cui sale quell’odore di solitudine e dove i più religiosi intonano una preghiera in più per sicurezza: una notte perfetta quindi per muovere i propri primi passi come essere corporeo su questo mondo pieno di cose strane e orpelli luccicanti.
 
Inspirando ed espirando velocemente, ordini mentalmente a quelle protesi bianche come la schiuma sopra il caffè di svegliarsi dal torpore, ma in risposta hai solo il nulla. Sarà una cosa lunga.

 
-
 

Fa freddo.
‘Fa freddo’ sono due semplici parole, una semplice frase, verbo e aggettivo, il soggetto è perfino sott’inteso. C’è freddo, fa freddo, caspita che freddo che fa, sono tutte frasi di una semplicità infinita, da manuale, che ti vengono spesso in mente quando non sai come riempire gli spazi vuoti in un discorso tipo:

« Come stai?»

« Benino grazie, e tu?»

« Bene»

« Eh, fa proprio freddo, vero?»
E via dicendo, il discorso fila poggiando le sue rotaie sul solido cemento delle discussioni meteorologiche fino a prendere nuovi svincoli, nuovi spunti, tipo :

« Eh è proprio con un tempo del genere che una volta sono uscito e, caspita, non ci crederai mai ma ho visto un tizio con le mutande in testa» eccetera eccetera eccetera.
 
Ma vi siete mai chiesti come possa essere il non sentirlo mai il freddo?
Come possa essere il non sentire mai nemmeno il caldo, l’afa o il polline che svolazza nell’aria?
 
 
Poter dire per la prima volta con decisione “ fa proprio freddo!” ti fa sentire più vivo che muovere i primi passi avvolto nel grosso panno di lana calda che il gentilissimo venditore di gelati ti ha appena regalato.
Inspiri ed espiri, sentendo montare un orgoglio non indifferente per la facilità con cui hai imparato a far funzionare i polmoni, stringendo le dita sottili nella coperta, le gambe immerse nella neve di Snowdin e i lunghi boccoli chiari scarmigliati sul viso.
Nessuno parla.
Li ringrazi mentalmente.
 
Hai chiesto a Frisk di portarti subito a Snowdin non appena usciti dal laboratorio perché /dovevi/ sentire subito il freddo, e lui non ha fatto domande, né ha storto il naso. Lui comprende il tuo bisogno di sentire.
 
La neve scende con grazia dalle fessure nella roccia, improvvisa una danza ritmata davanti ai tuoi occhi, accompagnata dall’aria fresca; i fiocchi gelati ti sfiorano il viso, ti salutano, ti danno il loro personale benvenuto al mondo baciandoti le guance. E’incantevole. Muovendo qualche passo ancora incerto senti tutto quel bianco soffice schiacciarsi sotto i tuoi piedi nudi, infilarsi tra le dita, raffreddarti tutti i sensori. Se è questo che tutti possono provare ogni volta che scende la neve, allora è un’ingiustizia, una vera ingiustizia! pensi ricordando a tratti quelle serate passate al centro di Snowdin tentando ti afferrare i fiocchi di neve senza che essi si curassero minimamente della tua presenza.
 
Ti lasci cadere in ginocchio affondando fino alla vita, mentre i capelli dai grandi boccoli bianchi incominciano un passo a due con il vento.
Rivolgi ai tuoi accompagnatori uno dei tuoi sorrisi migliori.
 
Frisk solleva il pollice all’insù, tenendo la mano a NiceCream Guy, che ti sorride a sua volta: è simpatico, dopotutto. Frisk deve avere proprio un buon occhio per gli amici: si è precipitato fuori dal suo alloggio per portarti quella coperta, nonostante tu sia sempre stato troppo timido o troppo triste per andargli a chiedere che gusto avessero i gelati.
Ma adesso puoi rimediare.
 
E’ infatti proprio il coniglio a tenderti la zampa ricoperta di pelliccia, sbattendo i suoi grandi occhi liquidi « Adesso hai voglia di mangiare qualcosa?» Esclama con le orecchie ricoperte da piccoli fiocchi brillanti, ammiccando in direzione del Grillby’s.
 
No, non hai fame e probabilmente mai l’avrai, ma il pensiero di essere ad un passo da una nuova sensazione mai provata ti fa vibrare le corde del cuore.
 

-
 

 
« Oh insomma, Burgerpants! E’ stata la cosa più eclatante della tua vita, non puoi tenertela per te!» Le lamentele di Catty rimbombano per tutto il locale, dal bancone dove sono seduti fino alla porta d’ingresso.
Grillby sospira, continuando a risciacquare i bicchieri ancora sporchi, leggermente provato dalla serata movimentata: da quando Burgerpants era entrato nel locale con un sorriso che andava da orecchio ad orecchio nessuno era più riuscito a contenere il livello della voce.
 
« Racconta, racconta!» esclamano Bratty e Catty in tono di supplica, ma lui non sembra voler cedere. Se ne resta lì, con i gomiti incollati al bancone ed un sorriso da sfinge stampato sul muso, rifiutandosi di raccontare qualsiasi dettaglio della sua serata precedente passata in compagnia del tanto sospirato venditore dei gelati.
 
« Ma quindi verginello, hai finalmente scoperto il magico mondo del sesso?» Sans lancia il suo amo e resta pazientemente ad aspettare, mentre la faccia del felino si trasforma in un puzzle di espressioni incomprensibili, il pelo improvvisamente irto come un pungitopo.

« COSA DIAVOLO STAI DICENDO?!» Ulula scattando in piedi, facendo sobbalzare Grillby e decretando così la dipartita del bel bicchiere scintillante che teneva in mano.
« Ci siamo solo baciati!»

« QUINDI VI SIETE BACIATI?!»
 
« Buonasera!» NiceCream Guy spalanca la porta di legno del locale, aiutandoti ad entrare. Ha deciso per partito preso che sprecherà il suo tempo con te; non sai esattamente perché, insomma “passare una serata con Napstablook” non è mai stata una delle attrazioni più in voga dell’Underworld, né sai come ringraziarlo per questo supplizio, ma prima o poi ti verrà in mente. Frisk vi segue trotterellando.
 
Sollevi lo sguardo appena in tempo per restare congelato dallo sconforto: tutti vi stanno guardando, ed è calato il silenzio.
Ci sono degli ottimi presupposti per scappare subito dal locale, poiché questa volta gli sguardi degli altri non possono passarti attraverso.
 
« B-buonasera……..» mormori con un filo di voce, abbassando immediatamente gli occhi e tentando di metterti al riparo dietro ad un ciuffo di capelli.
 
Se non ti fossi lasciato sovrastare dalla vergogna e non avessi distolto lo sguardo dal bancone, probabilmente avresti visto Burgerpants strozzarsi con la bibita alla vista del tuo nuovo amico azzurro, non ne avresti capito il motivo ma sarebbe stato comunque interessante.
Non tanto interessante quanto per Sans, che soffoca una risata sul nascere facendo appello a tutte le forze che gli restano in corpo.
 
In realtà nessuno sta facendo caso a te, tutti sono troppo concentrati ad osservare le unghie del commesso dell’MTT Emporium che schizzano fuori dai foderi per piantarsi nel bancone, con somma felicità di Grillby.
 
Il coniglio di Snowdin sembra essersi accorto solo ora della presenza di Burgerpants « Ehilà!»
 
Gli angoli della sua bocca s’increspano in un mezzo sorriso mentre qualcosa che proprio non sapresti descrivere invade la stanza; è una sensazione strana, ma potresti giurare di aver sentito un'onda di calore dipanarsi dai gesti meccanici di NiceCream Guy e di Burgerpants, un calore rilassante quanto frizzante, mentre il resto del locale rimane unicamente in ascolto.
 
E’ questione di pochi secondi, pochi battiti di ciglia, non ti era mai capitato di far caso ai canali di energia che intercorrono tra gli individui. E di questo calore tanto articolato quanto semplice, tanto antico quanto banale, ti piacerebbe averne ancora, magari farne parte. Resti con tanto d’occhi a misurare le tue sterili emozioni precedenti con queste, chiedendoti se oltre ad un corpo nuovo la dottoressa ti abbia oliato anche il cuore.
 
« E tu chi saresti?» Grillby spezza la magia, facendo fuoriuscire dalla stanza la marmellata in cui tutti si stavano muovendo a rallentatore.
Sta parlando con te.
 
Oh no…
 
« Ma come, non lo riconoscete? E’ Napstablook!» Tutti gli occhi ti piovono addosso come uno sciame di frecce appuntite.
Oh no…
 
Cori di “ohhhh!” e “cooosa?” si sollevano assieme al frastuono delle sedie rovesciate, sempre in pochi battiti di ciglia ti ritrovi circondato da visi sinceramente interessati, vagamente perplessi, elettrizzati dalla novità.
Al centro di questo cerchio di respiri e frasi mescolate che non riesci nemmeno ad ascoltare, l’aria viene a mancare, non sai come comportarti né come si fronteggia quel bisogno spasmodico di sparire in una bolla di sapone.
 
« Ma dai non è possibile che sia lui».
« Napstablook chi?»
« E’ stata la dottoressa Alphis a farti questo corpo?»
« Ma Napstablook chi?».
« Cosa farai ora?»
« Ahhh quel Napstablook! No, non lo conosco».
« E’ un corpo di tutto rispetto, sembri un vero essere umano a parte… A parte tutto quel bianco ecco.»
 
Porti istintivamente una mano alla base del collo, piegando la testa in basso. Dovresti rispondere ad almeno qualcosa, provare a liquidarli, provare a prendere parte all’entusiasmo comune ma tutte le parole sembrano incollarsi alla parete della gola, non escono, non vogliono uscire, continuano a mancarti, respira, con calma, come si faceva? Con calma.
Incominci a parlare prendendoti tutto il tempo del mondo, lasciando uno spazio di quasi tre secondi tra una parola e l’altra, cercando di mantenere il sangue freddo e senza guardare nessuno negli occhi.
 
« Ho… Chiesto alla dottoressa… Di costruirmi un… Corpo e lei ha… Accettato» La coda della frase è quasi sussurrata, ma sei sicuro che tutti abbiano capito perfettamente.
 
« E Mettaton lo sa?» Interviene Catty inclinando appena la testa, gli occhi felini che tentano di sondare il tuo bianco sfiancante. Sapevi che la domanda sarebbe arrivata, come poteva essere il contrario?
 
« Oh insomma, lasciatelo in pace. Sciò, sciò! » Probabilmente la soglia di sopportazione del barista è stata sfondata prepotentemente dopo l’ennesimo schiamazzo, benché le orecchie non le abbia – o forse si?- .
 
« Tornatevene a farvi raccontare da Burgerpants delle sue avventure notturne. Vieni Napstablook, immagino che con uno stomaco nuovo di zecca tu abbia fame» Inclini la testa con tanto d’occhi, incuriosito. Proprio non riesci a capire come mai Burgerpants si stia contorcendo con il muso nascosto tra le zampe.
 
 
-
 
 
La notte artificiale dell’Underworld passa così, ti scivola dalle mani senza far rumore. Non ti è mai piaciuta la notte perché la solitudine ha un odore maleodorante, di notte; quando tutte le luci sono spente darsi una buonanotte da solo, tutte le sere fino alla fine dell’eternità ha un che di sadico, di masochistico, mentre di giorno puoi sempre osservare gli altri mentre vivono o provano a sopravvivere, introducendoti nelle vite altrui come un ladro senza ascoltare troppo il rumore assordante del tuo silenzio.
 
Questa notte è diversa. Questa notte non ti soffoca come un piumino in Agosto, questa notte ti accompagna con luci e risate squillanti, è una notte che passi accovacciato sulla cassapanca del bar, nudo in una coperta color panna ad assaggiare per la prima volta tutti i sapori possibili.
E’ una notte nella quale puoi respirare senza sentire la tua solitudine maleodorante.
Ed è bello.
 
Nessuno sembra volersene andare dal bar, nemmeno quando l’ora di riaccendere le luci è a pochi giri di lancette di distanza:  la notte, quella notte impazzita, diversa, sembra averli posseduti tutti, sembra aver fatto nascere in ognuno dei mostri che ti circondano il bisogno degli sguardi e delle parole altrui, accompagnate da un buon bicchiere di vino.
 
E la cosa più strana è che ascoltano perfino quello che, con estrema lentezza, hai da dire. Le parole non ti escono con scioltezza dalle labbra sporcate di azzurro brillante, ma piano piano incominciano a camminare da sole, senza che l’ansia mozzi loro le gambe.
Una volta scalfito il duro cristallo del tuo mutismo, a luci abbassate e tutti stretti al tavolo riveli ai loro musi animaleschi alcune pennellate grigie della tua patetica esistenza, mettendo particolare enfasi in quelle cose che trovi estremamente interessanti come sdraiarsi in terra e sentirsi spazzatura o osservare in silenzio la neve che ti attraversa fingendo che ti stia parlando assieme al vento, ma per qualche arcana motivazione nessuno di loro sembra condividere il tuo entusiasmo.
Si lanciano continue occhiate l’un l’altro, sguardi imbarazzati, colpevoli, le labbra strette e nessuna frase di circostanza interrompe il tuo monologo. Ma non capisci.
Perché dovrebbero sentirsi colpevoli?
E’ normale che alcune creature siano destinate a vivere da sole, no? Loro non avevano obblighi nei tuoi confronti, dopotutto tu non stai simpatico a nessuno, sei l’appendice triste di  una comunità a tratti folle a tratti mostruosa. Non è così?
 
« Napstablook hai detto che… Che ti piace fare musica, non so esattamente come sia il termine giusto per dire quello che fai, ma suoni qualcosa, vero?» Il coniglio gentile dei gelati ti parla con una nota di tristezza profonda nella voce. Sembra non sentirsi troppo bene.
 
« Beh… Si insomma… Ho l’attrezzatura e di tanto in tanto mi piace suonare musica elettronica…»
 
« Perfetto. Allora che ne dici Grillby di farlo suonare nel tuo locale?» Non puoi vederlo perchè NiceCream Guy è seduto al tuo fianco, ma l’occhiata che lancia al barista davanti al suo muso è uno sguardo da cui l’irrequietezza e l’angoscia gocciolano lungo le guance; è uno sguardo che sott’intende un senso di responsabilità, una leggera vergogna e la consapevolezza di essersi sempre rincuorato del suo lavoro poiché portava il sorriso a tutti, a tutti tranne che all’essere più triste dell’Underworld.
 
 
-
 
 
Di lamentele ne hai fatte. Di lamentele ne hai fatte tante.
Hai provato a darti alla macchia, a darti per indolenzito, ammalato e poi morto, ma non c’erano stati né se né ma: la tua consumata parte dello sconsolato fantasma delle caverne non è servita a nulla, se prima perfino tu avevi problemi a ricordarti di esistere, ora nessuno sembra pensare ad altro.
Probabilmente mossi da quei fastidiosi sensi di colpa che hai infilato nei loro occhi come un ciglio fastidioso che proprio non riesce a scivolare via dalla palpebra, tutti sembrano aver deciso di comune accordo di recuperare anni di mancate attenzioni senza lasciarti nemmeno il tempo di qualche malmostoso pensiero circa la tua possibile dipartita.
 
« Non intendo farlo!» Non credevi di essere capace di urlare.
 
« Esci da quel bagno, non fare lo scemo! Bratty e Catty hanno impiegato ore per renderti presentabile non metterti a rovinare tutto con le lacrime!»
 
« Ma io devo piangere!» Frigni avvolgendoti un ricciolo sull’indice, leccando la fibra dei capelli con gli occhi sbarrati alla ricerca di qualche via d’uscita del bagno.
Non ce ne sono, logicamente; il bagno del Grillby’s è un bugigattolo senza finestre da cui per scappare dovresti come minimo scavare una buca nel pavimento con le piastrelle di ceramica.
 
« Sono pronto a stanarti con il fumo, non costringermi» .
Non c’è modo di fuggire, non più. Non immaginavi nemmeno lontanamente quanto potesse essere difficile avere un corpo fisico con fisiche responsabilità e problemi. Rotolando fuori dal bagno ed empatizzando con un condannato a morte sulla forca, cammini a passo dinoccolato verso le luci soffuse della sala del Grillby’s, dove al tuo arrivo tutti si zittiscono.
 
Non potresti spiegare con chiarezza ad un osservatore esterno la tua atavica angoscia nello startene lì, fermo sotto le deboli luci del palchetto di fortuna allestito nel locale, con la paura di cogliere negli occhi del tuo pubblico del compatimento, incomprensione o peggio, la tua immagine riflessa.
Te ne stai lì con le ginocchia nuove che già non senti più, con quelle pulsazioni che proprio non capisci perché siano così accelerate; c’è qualcosa di vagamente poetico nella tua schiena ricurva come un salice piangente seccato dal tempo nell’oscurità del piccolo locale, la tua postazione da disc jokey come ultima difesa da quel silenzio innaturale e da quel fiume di sguardi torvi, incuriositi, forse famelici.
Forse quest’ultimo aggettivo te lo sei sognato, come forse ti sei sognato di essere al centro dell’attenzione. Insomma, come è possibile?

Frisk solleva il pollice in segno di approvazione. E’ seduto su uno degli sgabelli del bar assieme a Sans, mentre Bratty, Catty, Burgerpants e NiceCream Guy sono a pochi metri da te, elettrizzati, pronti a muoversi sotto il palco, il resto del tuo pubblico se ne sta seduto ai tavolini a mangiarti con gli occhi, sorseggiando un drink.
Oh, come mi dispiace dovervi deludere…
 
Non ti presenti, non credi che a nessuno interessi, non fai cenni, incominci a smettere di respirare. Un nodo alla gola, un macigno sullo stomaco.
E’ normale che il corpo faccia così? E’ difettoso?
La gola è talmente secca che hai perfino dimenticato il sapore dell’acqua, sempre che ne abbia mai avuto uno.
 
Suoni. Suoni esattamente come hanno chiesto.
Ad una domanda logicamente corrisponde una risposta.
Se ne pentiranno. Le dita corrono sul mixer, i piatti girano e le casse logore incominciano a gracchiare musica.  (*)
 
E’ una musica ingrigita, forse scura, la musica che avrebbero gli angoli sudici delle cantine se solo gli angoli sudici delle cantine avessero una musica. Lenta come un’influenza che nasce dai bassi, quei bassi che tremano contro il pavimento di legno, la tua prima canzone si appiccica alle pareti, ai mostri, alle corde delle loro anime.
Non hai mai pensato a cosa significhi esattamente per te suonare, né che genere di sentimento potessi trasmettere suonando dinnanzi a qualcuno, poiché produrre “rumore” è sempre stato necessario per non vivere nel silenzio, non un vero e proprio modo per comunicare qualcosa.
 
 Non c’è poi da stupirsi se, dopo tutto quel tempo passato a fluttuare nel buio senza un’anima a cui chiedere uno stupido parere sulle condizioni meteorologiche, la prima musica che le tue nuove dita vanno a cercare attraverso i battiti, gli scricchiolii ed una chitarra bassa, sia una bandiera della solita vecchia vita.
Le note tremano appena prima di far esplodere nell’aria tutta la tua insofferenza, come piccoli palloncini pieni di sangue.
Attraverso le grosse cuffie tutto sembra al suo posto, tieni gli occhi chiusi e misuri i battiti al minuto a labbra strette, muovendo appena le dita sui piatti. Sei al sicuro, così va bene.
Uno scricchiolio, l’ennesima nota bassa.
E’ rilassante il suono delle cose scure, delle situazioni sbagliate, dell’inquietudine, esorcizza le tue angosce. Sarà così anche per gli altri, sicuramente. Perché non dovrebbe? Ascoltare qualcosa di scomodo, cacofonico e sbagliato non li aiuta a vedere la vita con maggiore speranza?
Assaporare cosa sia la solitudine non dovrebbe aiutarli ad apprezzare di più la compagnia di chi siede loro accanto?
 
Ti concedi appena di aprire una fessura tra le piccole ciglia folte, ed è subito il disastro.
 
 Tutti ti stanno fissando con tanto d’occhi, nessuno si muove ma soprattutto il disagio generale è talmente ampio che potresti toccarlo con mano.
I mostri seduti ai tavoli si lanciano occhiate di smarrimento, altri di pura compassione. La tua musica scura sembra essergli piovuta addosso come piccole palline di marmo: è pesante da sostenere.
Perché quel buio che c’è dentro Napstablook è pesante da sostenere. Le voci rauche, simili a ììguaiti che emergono di tanto in tanto da quella litania che è la tua esibizione sembrano tentare di trascinarti dalla loro parte, ricordandoti le lunghe nottate di pioggia passate solo in loro compagnia; se riuscissi ad avere una visuale sul panorama esterno sei certo che riusciresti anche questa volta a vedere le gocce d’acqua.

Ansia.
 
Uno screetch prolungato interrompe l’esibizione, facendo desincronizzare il mixer ed i piatti.
 
« S-scusate…» La voce che c’è nel microfono non assomiglia per nulla alla tua.
 
Qual è il problema? Hanno deciso di guardare nel pozzo troppo scuro e non gli è piaciuto quello che hanno visto? O forse sei tu quello che preferisce essere legato a doppio nodo con tutto ciò che è buio?
Sei forse tu l’essere platonico che non vuole spezzare le catene per assaporare la vita vera?

Non lo sai.
Non lo sai e sicuramente non è questo il momento migliore per porsi simili domande esistenziali. Mettaton direbbe “ Lo spettacolo deve andare avanti” o qualcosa di simile.
 
Ma se la tua esibizione di poco fa ha iniettato la tensione e l’inquietudine che ti porti dietro a tutta la sala, come potresti piacergli? Che cosa dovresti fare? Come si fa? Qual è la risposta? Come si fa a far si che nessuno resti deluso? Come si piace agli altri?
 
Non sai nemmeno questo.
Non puoi saperlo, altrimenti stare al mondo non sarebbe più interessante. Una volta scoperto l’assassino, il libro non lo leggerebbe più nessuno.
C’è solo una cosa a cui riesci a pensare: la calma. Ad uno spasmodico bisogno di calmarti.
 
« Chiedo… Di nuovo scusa» Sussurri questa volta tentando di aprire per bene gli occhi, scostando con una mano il ciuffo di capelli bianchi che ti stava nascondendo il viso.
Questa volta le tue dita incominciano a sfiorare i piatti con delicatezza, quasi volessero accarezzarli dopo una lunga corsa piena di sudore, quasi volessero invitarli a ballare dopo un litigio violento. (*)
 
Sono leggere pennellate musicali quelle che componi con il mixer, un beat lento, basso e qualche voce dolce come il miele e fresca come l’alba, che incominciano ad allagare la stanza, lavando via la tensione. Non sei mai stato un maestro di Downbeat, anzi, non l’hai mai trovata una cosa che potessi permetterti ma per stasera si può fare anche uno strappo alla regola.
 
Il clima sereno della tua nuova musica elettronica, lentamente, in punta di piedi chiede il permesso di conquistare il tiepido sorriso  dei presenti, tingendolo con pennellate solari. Restano in silenzio. Questa volta tutti ti ascoltano, ma non si guardano. Ti guardano mentre in realtà guardano il sole, il tramonto, le stelle, il mare profondo o il cielo visto attraverso lo specchio cristallino del mare profondo o qualsiasi cosa la tua musica stia evocando davanti ai loro occhi. E tu continui a dipingerglielo, leggermente più sereno, le cuffie nascoste dai grandi boccoli bianchi e le dita che corrono continuamente sui piatti e sulla tastiera, rapide come dita di un pianista sui suoi tasti lucidi.
 
Inspiri ed espiri.
E forse, un pochino anche tu lo senti, quel leggero calore che incomincia a sprigionarsi dalla tua prima musica colorata.
Qualcuno potrebbe dire che senza un corpo non saresti mai riuscito a dipingere una musica così variopinta, e sicuramente nelle note dolci che sfuggono alle casse ci sono nascosti anche tutti quei nuovi sentimenti e sensazioni provati negli ultimi giorni, come bagnarsi le punte dei piedi nell’acqua gelida, toccare la neve che cade o sentire il frusciare dell’erba contro le guance quando ci sei sdraiato sopra per guardare il panorama; tuttavia non sarei d’accordo.

Sono sicuro che tutto ciò ci fosse già dentro di te, solo non ti sentivi autorizzato a lasciarlo sfuggire.
 
Passano i minuti, nessuno sembra intenzionato a parlare, le lancette girano indignate ma, appunto, nessuno sembra voler dar loro troppo peso.
 
 
Dopo un tempo che ti sembra infinito scandagli nuovamente il tuo pubblico con lo sguardo, osando perfino a sentirti sicuro che questa volta questa dannatissima esibizione sarebbe andata bene.
Resti ghiacciato.
Un brivido simile al morso di un leone ti afferra la schiena, senza la minima intenzione di lasciarla andare. Dell’aria ti dimentichi molto alla svelta.
La musica continua a colorare l’aria, ma tu non riesci più a curartene come dovresti dall’esatto momento in cui dal fondo della sala Mettaton compare con le braccia conserte ed un sopracciglio sollevato con aristocratico sospetto.
Non sapresti dire cosa si dovrebbe provare ad indossare dei vestiti in fiamme, ma sei quasi sicuro che la sensazione non sia così lontana da quella che stai provando ora a guardarlo dritto negli occhi.
 
Ci sei tu, ora nuovamente ricurvo con le mani che incominciano a tremare e c’è lui, statuario, sicuro sui tacchi e rigido in quella posizione che tutto promette tranne che pacche sulla spalla e festeggiamenti di ogni sorta; il resto del mondo potrebbe anche uscire dalla stanza, non ha importanza.
 
Lui ti guarda con i suoi occhi taglienti, carichi di trucco, tu lo guardi con le code degli occhi che incominciano a pizzicare per colpa delle lacrime: a separarvi ci sono giusto quei sei metri dal palco all’entrata del locale, eppure ti sembrano fiumi insuperabili, crepacci scuri come la notte, una distanza incolmabile anche per le tue nuove gambe lunghe. O almeno, così ti sembra mentre il suo silenzio e la sua espressione indecifrabile ti riportano alla mente il frastuono della porta che gli hai sbattuto in faccia e le nottate passate a piangere da solo ricordando le parole scritte sui diari che teneva in segreto.
 
Ferito, abbandonato e ingannato, questo è quello che sei, e questo dovrebbe farti sentire in diritto di interrompere l’esibizione e riprenderti anni di solitudine lanciandogli in piena faccia almeno una delle due vecchie casse. Dovrebbe esserci della rabbia da qualche parte, quella rabbia nella quale ti eri bagnato le labbra quando lo avevi scacciato da casa tua.
Eppure qui della rabbia non c’è nemmeno l’ombra.
 
Riesci solo a renderti conto del buco che hai nel cuore un buco scavato e lacerato che ha la forma perfetta di Mettaton, un buco che hai provato ad ignorare ricoprendolo di assi e terra bagnata ma che non ha fatto altro che approfondirsi fino a rompere il petto, le ossa e l’anima stessa.
Riesci solo a sentire l’imbarazzo e la vergogna del farti vedere così, impacciato e sgraziato su quel palco, con quel corpo che non ha nemmeno mai visto. Ti senti nudo perfino con tutti i vestiti addosso.
Quello che non riesci a vedere, o che non puoi sapere, è quanto, proprio in quel preciso momento, lui ti trovi perfetto.
 
Riesci a vedere solo i tuoi difetti, i tuoi capelli troppo lunghi e la tua incapacità di muoverti in maniera corretta, non riesci a vedere con i suoi occhi.
 
Non puoi sapere di quell’orgoglio che gli sta attanagliando lo stomaco, né che la tua stessa paura di muovere un passo falso su quel lago ghiacciato di sguardi colpevoli sta paralizzando anche le sue gambe così sicure, non puoi sapere che, forse solo per quella manciata di secondi, forse per tutti i secoli a venire, Mettaton è riuscito a provare qualcosa di molto simile all’amore per qualcosa che non è più solo se stesso.
Non puoi sapere quanto ti trovi incantevole nella tua goffaggine, chino sulla tua musica con quella cascata di boccoli per criniera e quelle mani così sottili che lentamente accarezzano i piatti, non lo potresti immaginare nemmeno nei tuoi sogni più sfrenati, sarebbe davvero troppo immaginare che tale vastità di sensazioni stia sconvolgendo perfino l’essere più sconvolgente dell’Underground.
 
Te ne resti lì, incapace di aprire bocca e incapace di capire come rompere quel muro di cristallo che vi divide, pregando a labbra strette che almeno per una volta un miracolo ti venga in aiuto, una volta ed una sola.
Lui muove un passo, facendosi spazio tra gli spettatori.
Gli altri continuano a fissarti senza accorgersi del tornado che ti sconvolge, che ti squassa come i rami di un salice mossi dal vento.
E’ per questi e tanti altri fattori che solo tu puoi conoscere che nemmeno ti riconosci quando sussurri appena nel microfono « Mi dispiace» un mi dispiace che sei sicuro che nessun altro abbia nemmeno colto, talmente leggero e fragile che solo chi sa leggere al meglio gli spartiti della tua anima avrebbe potuto decifrare.
E quel qualcuno si sta avvicinando al palco.
 
Continui a suonare, questa volta concedendoti un passo a due col ritmo rilassante della canzone, questa volta senza lasciare che ognuno immagini quello che preferisce immaginare, ma raccontando tu stesso tutto quello che di te si potrebbe conoscere attraverso le parole mute della musica.
 
I piatti ti accarezzano le dita, le note si incastrano al posto giusto e quello che componi secondo dopo secondo è il risultato della tua tristezza utilizzata per raccontare di quanto in realtà ti piaccia esistere.
 
Forse per raccontare qualcosa non hai davvero bisogno di parlare a voce alta, né di produrre i suoni scuri, dando voce agli angoli scuri. Forse potrebbero essere proprio quegli angoli scuri a raccontare di quanto siano felici quando un raggio di sole li accarezza per sbaglio.
 
 
Il tuo beat prosegue senza intoppi, con un ritmo lento e rilassante che vorrebbe descrivere quei tramonti di cui Frisk ti ha tanto parlato, quelli del mondo di sopra. E con le tue poche parole, puoi provare a raccontarli anche agli altri, anche a Mettaton.
 
Con tuo grande stupore la super star dell’Underground si siede al tavolo a te più vicino, non sale sul tavolo né interrompe l’esibizione, si siede e accavalla le lunghe gambe, mentre Frisk gli avvicina un bicchiere ricolmo di liquido rosa.
E’ proprio con quel bicchiere che Mettaton cerca di nascondere il piccolo sorriso che gli sta nascendo sulle labbra, senza staccarti gli occhi di dosso.
 
E questo ti basta. Ti contagia in una frazione di secondo, giusto il tempo della caduta di un altro fiocco di neve.
 
Sorridendo a tua volta con la testa china e i lunghi capelli che ricadono disordinatamente sul mixer continui a suonare assaporando un’altra nuova sensazione: un confortante ed allo stesso tempo bruciante calore nel petto, all’altezza del cuore, ed una spiazzante leggerezza alla bocca dello stomaco che proprio non sai come spiegare.

Ma dopotutto non ti importa cosa sia, l’importante è semplicemente sentirla.
  
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