XXIX - BOOM
Isabelle,
doveva ammetterlo, aveva fatto molti errori nella sua vita: alcuni per
semplice incoscienza, altri perché voleva provare sulla
pelle il brivido della libertà. Fino a qualche tempo prima,
niente era più bello e soddisfacente di vedere lo sguardo di
disapprovazione di sua madre, sapere che non stava agendo come lei, che
non si sarebbe ritrovata incastrata in un matrimonio con un uomo
assurdamente bigotto e che invece avrebbe potuto essere capace di fare
esattamente ciò che voleva. Era una bella aspirazione,
certo, ma era quella dell'adolescente che era stata fino a poco tempo
prima: le acque avevano iniziato ad agitarsi fin dal momento in cui
Clary era piombata in tutte le loro vite, anche se all'epoca non era
ancora stata pronta per vedere - figurarsi accettare - il cambiamento.
Poi però le cose erano andate decisamente più
avanti, fino a ritrovarsi incastrata in qualcosa che non aveva mai
voluto: l'ultima scelta.
La Nephilim si staccò da Jonathan, malvolentieri, certo, e
prese un profondo respiro guardando appena le belle labbra gonfie che
baciava fino ad un attimo prima: "Aspetta", disse, facendo a sua volta
forza su se stessa per non ritornare alla piacevole attività
precedente: "Ho da mettere in chiaro qualcosa".
Il Cacciatore alzò gli occhi al cielo, lo sguardo si fece
appena più freddo: "Fammi indovinare, ci stiamo solo
divertendo. Dovresti proprio mettere ordine alle tue idee, Izzy cara".
Isabelle sbuffò: "Ma perché devono
piacermi tutti così idioti?", sussurrò a nessuno
in particolare, per poi fissare gli occhi in quelli dell'altro: "Fammi
finire di parlare. Quello che volevo mettere in chiaro è
questo: tu sei un assassino psicopatico e io sono la ragazza facile che
esce con i Nascosti, almeno agli occhi della maggioranza".
"E su questo non ci sono dubbi. Davvero stiamo parlando di questo
quando potremmo essere coinvolti in ben più piacevoli
attività?", domandò sarcastico lui. Anche
connesso fin troppo strettamente ad una di loro, Jonathan era piuttosto
certo che non sarebbe mai riuscito a capire una donna. Be', poco male:
un altro problema che poteva imputare tranquillamente a Jocelyn, no?
"Sì, certo, con tuo figlio qui nella stanza. Raziel,
perché non puoi fare a meno di interrompermi?!
Zitto e ascolta."
"Sissignora."
"Jonathan!"
L'albino le lanciò un'occhiata impertinente da sotto le
lunghe ciglia, e stava già per aprire di nuovo la bocca e
ricominciare a parlare quando Isabelle lo interruppe: "Quello che
voglio dire è che sono abbastanza certa che nessuno di noi
due è semplicemente l'etichetta che ci hanno dato,
però purtroppo la cosa ci limita molto lo stesso. E
diciamoci la verità, agli occhi degli altri saremmo una
coppia assolutamente assurda."
"E ritorniamo inesorabilmente al solo divertimento."
osservò pacatamente il mezzo demone.
"No! Zitto!", gli impose ancora lei: "Lascia da parte per un singolo
secondo il tuo essere un sarcastico bastardo disfattista e dimmi
sinceramente chi è che oltre a me si è dimostrata
interessata a te..."
"Cosa staresti insinuando?! Che sono un'opera di carità?!",
e questa volta la scintilla irata negli occhi di lui era più
che ben visibile.
"... E, se mi avessi lasciato finire, avrei aggiunto: e lo
stesso è tristemente valido per me",
ringhiò Izzy, sfoderando uno dei suoi migliori sguardi
intimidatori: "Il punto è che, comunque, già da
soli non è che siamo proprio ben visti, insieme mal
accettati a dire poco. Ma anche se io non fossi interessata a te, e tu
non lo fossi a me - e non osare negare, hai una spada angelica nella
tasca o sei solo contento di avermi praticamente seduta addosso a te?
-, avremmo davvero tanta altra scelta? Per cui quello che ti sto
chiedendo è semplicemente di tentare entrambi di
fare le cose sul serio e per bene, prima perché sappiamo
entrambi che è la soluzione più giusta, poi
perché Ian ha sicuramente bisogno di qualcun altro oltre a
te e per quanto sia amaro ammetterlo per me è ora di
crescere e infine perché, be', - e sappi che mi sto
esponendo davvero tanto nel dirlo, quindi tieniti stretta questa
fiducia - non è che le possibilità che io
m'innamori di te col tempo o che la cosa stia succedendo gradualmente
siano remote, eh". Isabelle prese un lungo respiro, più
profondo del precedente, mentre sentiva il sangue affluire alle guance
e arrossirle inesorabilmente: Raziel, era probabilmente una delle cose
più difficili e umilianti che avesse mai fatto, inserendo
nell'elenco anche le molteplici battaglie degli ultimi anni.
Volse lo sguardo verso Ian, sorridendo con affetto all'angelo biondo
addormentato, quasi pronta ad assecondare l'istinto primordiale di
scappare via e tentare di non incrociare mai più la strada
del biondissimo Morgenstern, ma qualcosa la blocco: no, non
sentimentalmente parlando.
La mano di Jonathan raggiunse la sua, accarezzandole pigramente il
dorso, ma con la stessa attenzione con cui probabilmente passava
l'indice su una lama, facendola voltare.
Lui aveva la testa appena inclinata di lato e un sorriso sornione sul
volto: "Sai, Isabelle, tu non finisci mai di stupirmi.", disse,
ridacchiando appena, mentre lei restava a guardarlo nel dubbio: lo
odiava, odiava essere così impotente e alla mercé
di qualcun altro, proprio lei che si era sempre erta fiera contro tutto
e tutti.
"Anche se, devi ammetterlo, nemmeno io stavo scherzando su questo
quando ti ho detto che Ian potrebbe -anche se magari adesso
è meglio usare il termine deciderà
e abbandonare il condizionale - convincersi che tu sei
realmente sua madre. Quindi, be', stiamo sostanzialmente girando
intorno allo stesso argomento.", dichiarò con tutta la
serietà del caso, ma trattenendo una risata: "E so benissimo
che tu non mi ami e io, be', non ti amo, miei problemi e scompensi
emozionali a parte, ma concordo con te nel dire che questa non
è certo solo una situazione di semplice profitto personale,
per cui...", Jonathan sorrise: "Vuoi che vada a prendere adesso
l'anello o possiamo iniziare con un semplice appuntamento come tutti e
far finta di non aver programmato da persone assolutamente
anormali tutto il nostro futuro?"
Dire che Isabelle rischiò di soffocare con la sua stessa
saliva era dire poco, ma la frase rappresentava bene il concetto di
base: "Oh, per me possiamo anche prendercela comoda e fingere di capire
il concetto di normalità, certo", sogghignò lei,
quando si fu sufficientemente ripresa.
"Ottimo. Quindi, concordato questo...", lo Shadowhunter si
leccò le labbra, gli occhi straordinariamente carichi di
malizia, per poi sistemarla meglio fra le sue braccia, dalle quali si
era precedentemente allontanata per parlare, e
iniziò a baciarle morbidamente il collo con tutta la cura e
la dovizia possibili.
"C'è Ian!", fece notare lei, rabbrividendo alla sensazione
delle labbra di lui contro la sua pelle.
Lui sbuffò: "Potremmo andare in camera mia".
"Frena, Casanova, magari ora siamo estremamente collegati ma, sai
com'è, la strada per le mie mutandine te la devi guada...",
Isabelle non poté fisicamente continuare la frase.
E, questa volta, non per colpa del biondissimo, frustratissimo ed
eccitatissimo Morgenstern, no. Fu questione di un istante: il
pavimento, il letto e tutti i mobili tremarono come se qualcuno avesse
sradicato l'intera villa da terra, i suppellettili caddero a terra, e
quella che doveva essere l'onda d'urto più forte del
millennio fece ballare pericolosamente i vetri nelle giunture delle
finestre, che s'incrinarono a tempo record e si spaccarono in ancor
meno, letteralmente volando ovunque.
Jonathan spinse Isabelle a terra, mentre lei strisciava alla massima
velocità umanamente possibile sotto il letto, e poi si
lanciò su Ian, cercando di fargli da scudo contro i vetri
che volteggiavano nell'aria mentre il bambino si svegliava di
soprassalto.
Jean
si aggrappò ansimante ad una delle pietre che sporgevano dal
muro della casupola, cercando di riprendere fiato, o almeno di
resistere in apnea quel che bastava per raggiungere la Piazza
dell'Angelo.
"Ci siamo quasi, Jean, ci siamo quasi!", lo spronò Magnus,
facendo passare un braccio del Cacciatore attorno alla sua spalla e
cercando di spingerlo in avanti: "Ti avevo detto che avrei potuto fare
io quel dannato incantesimo, avresti perfino potuto stendere quelle
guardie con un dannato pugno!", sbottò, mosso dalla
preoccupazione più che dal rancore.
Il Nephilim si accasciò contro di lui, nel tentativo di
racimolare la forza per parlare: "Hai bisogno della tua magia per il
piano B, Magnus... E non avrei potuto farlo, non in quel momento,
l'avrei ucciso senza... senza rendermene conto.", sussurrò,
stremato.
A quella risposta, lo stregone rimase in silenzio: sapeva benissimo
tutto quello anche da solo, ma non ci aveva certo pensato in quel
momento.
"Andiamo, ci siamo quasi.", borbottò, trascinando in avanti
l'altro come poteva: di certo Jean non era più alto di lui,
ma era anche innegabilmente più muscoloso.
Giunsero alla loro destinazione con l'aria di due condannati appena
sfuggiti alla gogna, ed il Cacciatore si lasciò cadere per
terra, con la schiena contro il basso muretto al centro della Piazza.
"Devi andare, Magnus, non possiamo permettere che questo vada storto!
C'è troppo in gioco, io ho messo
troppo in gioco e certo non posso permettermi di perdere.", disse,
reclinando il capo all'indietro. Detestava tutta quella situazione.
Il Nascosto s'inginocchiò accanto a lui, pensando al da
farsi: per fortuna in giro non c'era un anima viva, ammassati com'erano
tutti quanti vicino alle barriere crollate. Non riusciva ad immaginare
quanto fosse difficile e mortale combattere l'orda di ibridi che stava
arrivando fin nel cuore di Alicante, ma lui non era assegnato a quella
parte del piano: no, se tutto fosse andato bene lui avrebbe dovuto
salvare il culo a tutti. Ma come poteva lasciare lì Jean,
ridotto in quello stato?
"Vai!", ordinò imperioso il Nephilim, cercando di
trasmettergli una forza che non aveva. Nonostante questo, fece leva
sulle braccia e si rialzò in piedi, concentrandosi sul
rimanere in posizione eretta.
"Non preoccuparti per me! Io... uhm, io...", il ragazzo si
guardò intorno per un attimo, spaesato: "Io andrò
a nascondermi lì fin quando non mi riprenderò,
okay?", affermò, indicando col mento una scalinata di pietra
che a quanto pareva portava al terrazzo di una delle case raggruppate
attorno alla Piazza e alla fontana.
Se lo ricordava, quell'edificio, lo rammentava perfettamente, in
realtà: solo che l'ultima volta che l'aveva visto aveva
quella stessa bianca scalinata tinta di scarlatto, e non per la
vernice. Non era difficile tenerlo a mente: tutto, o quasi tutto, oltre
a quei gradini e quelle quattro mura, era parzialmente crollato o del
tutto raso al suolo. Poi Jean non aveva mai più
messo piede lì, ma se gli Shadowhunters erano bravi in una
cosa, oltre che a combattere, be', quella era molto sicuramente il
leccarsi le ferite per ergersi all'apparenza più forti di
prima, per poi crollare come un castello di carte al vento a causa
dell'essersi presi cura delle ferite più evidenti, ma non di
quelle interne.
C'era stato un tempo in cui ancora sognava una bella carriera nel
Consiglio, ancora aveva il pensiero di diventare Inquisitore, ancora
credeva che nessuno potesse semplicemente nascere cattivo, ancora era
convinto che nonostante tutto, con un pizzico di fantasia e un po' di
buona volontà, sarebbe potuto perfino diventare Console. Non
che poi avesse assunto una carica molto diversa da quella, vero, ma era
completamente un altro discorso.
Trovava estremamente ironico il fatto che i Nephilim avessero distrutto
la sua vita, e nonostante questo lui li stesse aiutando - e fin troppo.
L'arrivo lì, le mosse tattiche dopo, tutto quello che aveva
dovuto dannatamente sopportare, tutto era il progetto di una vita o
quasi. E per questo non poteva permettere che andasse a monte
così facilmente, perché non avrebbe avuto una
seconda opportunità, pasticciare come aveva fatto era
già pericoloso una volta, ma due era un suicidio.
Il ragazzo si strofinò il volto, un po' per cercare di
riordinare le idee ed un po' per evitare di vedere ciò che
fluttuava davanti ai suoi occhi: perché dopo la stanchezza
destabilizzante, ovviamente, ci mancavano soltanto le allucinazioni.
Ma quelle non lo erano, no, erano molto di più: ricordi.
Riusciva a vedere come se fosse accaduto ieri Regina e Cristopher
seduti con aria terrorizzata e confusa nella fontana, per
metà zuppi d'acqua che zampillava e per l'altra
metà del sangue che stava venendo versato a litri. Assurdo
che non si fossero accorti di loro, tanto più che Cristopher
stringeva testardamente Sebastian, spaventato e piangente come non mai.
Jean ricordava bene cos'aveva fatto dopo, senza nemmeno un rimpianto:
aveva falciato tutti quelli sulla sua strada e preso in braccio il suo
fratellino più piccolo, per poi cercare di far correre i
gemelli al riparo. Non era stato facile, non mentre era praticamente un
morto ambulante a sua volta, con ciò che era successo prima,
no.
Ma comunque, era ancora fattibile, il livello di difficoltà
era schizzato alle stelle soltanto quando quei cani avevano preso a decorare
la fottutissima Piazza con loro, letteralmente.
Erano impressi nella sua testa, i pezzi di corpi sparpagliati ovunque
ma ancora ben riconoscibili, i busti che facevano straboccare la
fontana e le braccia ben disseminate sugli alberi, come pallidi e
amorfi festoni che si agitavano al vento della sera mentre le gambe
sembravano fare da tappeto al resto assieme alle foglie cadute, e
quella era forse la parte più tranquilla - o semplicemente
meno rivoltante, meno dolorosa - da accettare,
perché niente, niente era mai stato così duro
come guardarli negli occhi, ormai spenti e privi di vita. Quelle bestie
bastarde glieli avevano aperti, certo, ma tutti i lineamenti del viso
erano distesi nella pace del sonno, e non della morte, e ciò
nonostante non bastava.
Ci hai lasciati uccidere, dicevano quelle teste, ci
hai lasciato morire! Colpa tua, colpa tua!
Jean si riscosse, tremando visibilmente e rendendosi conto di essere
già a metà della scalinata, mentre il compagno
d'avventura era ancora fermo dove lo aveva lasciato: "Andiamo! Magnus,
quello che devi fare è più importante! Ho
sacrificato la mia intera vita per questo, va bene?!",
strillò con tutta l'aria che aveva nei polmoni: "Non puoi
rendere vani i miei sforzi solo perché sei preoccupato per
me! Lo capisco, ma adesso vai!".
Barcollò appena in avanti ma rimase in piedi, finalmente
sulla sommità del terrazzo, osservando l'altro andarsene e
scomparire velocemente prima fra le case e poi fra gli alberi.
Finalmente, si distese sul pavimento piastrellato con aria tranquilla,
che decisamente non si addiceva alle grida straziate dei Cacciatori che
morivano in battaglia contro gli ibridi a pochi chilometri da
lì. Ma non importava, tutto sarebbe andato bene, tutto doveva
andare bene, Noah l'aveva visto.
Peccato che non avesse minimamente calcolato la persona ammantata di
nero che improvvisamente torreggiava su di lui e che lo
afferrò per la testa, battendola con forza contro il
cemento.
Poi tutto si fece nero.
Clary
si rialzò in piedi, ringraziando mentalmente il fatto di
essere stata dietro al gigantesco divano della sala da pranzo nel
momento in cui, be', tutto era saltato per aria.
"Che diavolo è successo?!", ruggì poi Jace, che
sul suddetto sofà ci stava schiacciando un pisolino e dopo
essere stato praticamente scosso di qua e di là si era
gettato in terra - okay, prima aveva avvertito l'impulso di
nascondersi sotto ai cuscini pensando che fossero una protezione
migliore da qualunque cosa gli stesse piombando addosso, sì
-.
Clarissa si morse le labbra: "Non lo so, ma di certo non era di buon
auspicio.", rispose, osservando i vetri sparsi a terra assieme agli
oggettini vari ormai irrimediabilmente rotti con un cipiglio.
"Le barriere! Sono le barriere!", Maryse scese di corsa le scale,
seguita da Valentine, mentre Jocelyn si affacciò da una
delle stanze al pianterreno al suono di quelle parole.
A loro beneficio, c'era da dire che si prepararono estremamente in
fretta per andare fuori e cercare di capire cos'era accaduto - non che
fosse poi così difficile, ma la speranza era l'ultima a
morire -, il problema era un altro: Jonathan stava sul ciglio della
porta, sentiva le membra pronte a scattare e il sangue che gli
ribolliva in corpo, per quanto razionalmente potesse negarlo attendeva
momenti come quelli, quando in quell'oasi di relativa pace che si era
venuta a creare tra un evento e l'altro il problema di turno decideva
di presentarsi ed attaccare, e lui sapeva che qualsiasi cosa fosse
l'avrebbe uccisa. O almeno, ne era certo fin quando non si rese conto
di stringere ancora Ian tra le braccia, a mo' di ancora di salvezza:
"Cosa è successo, papà?", domandò,
serio come poche volte era stato.
Jonathan s'irrigidì: non poteva farlo, non poteva lasciare
suo figlio da solo, avrebbe semplicemente dimostrato di essere soltanto
il mostro che tutti credevano che fosse, ma non poteva nemmeno restare
lì impotente mentre gli altri andavano fuori a combattere.
Non era colpa sua, davvero, era un bisogno fisico: il suo corpo era
pronto alla battaglia, la sua mente pensava soltanto a combattere e
ancora era poco descrittivo; era abbastanza certo che gli altri non
potessero vedere il lieve tremore che lo pervadeva, l'eccitazione e il
sangue che danzava nelle sue vene, pronto a combattere, pronto
a uccidere.
Magari era davvero un mostro, e quella ne era soltanto la riprova: il
suo istinto che vinceva contro la famiglia. Ma non gli fu dato altro
tempo di scelta: Isabelle afferrò Ian con aria determinata e
rialzò lo sguardo verso di lui: "Le barriere sono crollate,
saranno tutti occupati ai confini. Vado alla Guardia, lo porto da
qualche parte al sicuro con il Portale.", spiegò, tetra.
"Hanno più bisogno di te, qui, e sappiamo entrambi che
è la cosa migliore."
Jonathan si morse le labbra: anche prima sapeva che tutto
ciò non era uno scherzo, ma quello... ora la cosa stava
diventando dannatamente reale, e si rese conto che non sarebbe
più potuto tornare indietro: "Grazie, Isabelle Lightwood.",
soffiò semplicemente, chinandosi per lasciarle un bacio
leggero sulle labbra. Cos'avrebbe dovuto importargli degli altri,
dopotutto?
La sentì rispondere appena, il tocco fantasma della lingua
di lei sulla sua bocca.
Dopo, in perfetto stile Shadowhunters, Isabelle si voltò per
uscire dalla casa, afferrando nel contempo una delle coperte che
avevano precedentemente accatastato nella stanza pensando di
distribuirle per la notte: non serviva tanto per nascondere Ian, a quel
punto il centro storico doveva essere deserto, quanto più
per coprirlo. Non sapeva dove l'avrebbe portato, e in quel momento non
sapeva se dopo sarebbe rimasta con lui o no, ma perlomeno sarebbe stato
al caldo. Era forse così stupido pensarlo? Magari
sì, quando tentavano di rapire quello stesso bambino per
tenerlo come cavia o arma segreta o chi se ne fregava, ma non
importava. Forse era solo e semplicemente perché tutti
vedevano le coperte come simboli universali di protezione, mah.
Ma bisognava farlo, bisognava seguire l'istinto e credere che tutto
sarebbe andato bene. I Nephilim non si augurano buona fortuna, la
vittoria deve essere certa.
Fuori era buio, ovviamente, essendo il sole tramontato da un po', ma
alcuni dei flebili bagliori rossastri che avevano servito ad avvertire
i Cacciatori dell'assedio ancora si riflettevano sulle torri. Oltre
quelle, Isabelle non riusciva a vedere, ma anche lì, al
limitare della foresta, giungevano gli echi della battaglia. Lei era
una guerriera, non ne era spaventata e non li temeva, ma avrebbe
mentito dicendo di sentirsi completamente rilassata, vuoi
perché da sola con un bambino a carico in quella che era - o
stava diventando - potenzialmente terra ostile, vuoi perché
sapeva benissimo che fin troppo vicino a lei amici, parenti, semplici
conoscenti - chi non conosceva tutti gli altri, in un posto come
Alicante? - stavano combattendo e cadendo. E lei stava scappando.
"Lo sto facendo per un buon motivo", sussurrò: "Lo sto
facendo per un buon motivo."
"Cosa?", Ian era ben sveglio e aveva i grandi occhi scuri sgranati: non
sembrava particolarmente spaventato, ma sicuramente scosso:
"Perché papà non viene co' 'oi? Dove
papà? Dove anniamo?", balbettava quasi e,
sebbene non fosse mai stato un campione con le parole - come
biasimarlo, considerando i due anni di reclusione forzata? -, ora
iniziava a sbagliarle quasi tutte di fila.
Non poteva dirgli che andava tutto bene. Non sarebbe risultata
credibile, considerando quanto fosse nervosa lei per prima, e poi
perché lui non si sarebbe certo fatto bastare un E'
tutto okay Ian, non preoccuparti.
Isabelle si morse le labbra: "E' come tutte le altre volte
che era fuori, Ian. E' andato a combattere i mostri cattivi.", rispose,
sentendosi vagamente stupida. Magari era dovuto al fatto che il piccolo
Morgenstern la stava guardando con un cipiglio scettico che era tutto
di suo padre.
"Papà andao a 'ccidere Mell-Mem-", il bambino
aggrottò la fronte: "Me-Mezi-Melly?", domandò,
serissimo.
"Sì" disse semplicemente lei, con tono incolore:
"Sì, Ian. Papà è andato ad uccidere
Melchizedeck."
Lui sorrise: "E dopo tu mama? Io, papà, mama?", chiese
ancora, illuminandosi, mentre Isabelle s'impegnava con tutte le sue
forze ad attraversare il bosco velocemente e senza correre rischi allo
stesso tempo.
"Sì", ripeté ancora la Cacciatrice. Aveva
esaurito il suo repertorio, perché davvero non riusciva a
pensare a nulla di migliore da dire.
A quel punto, finalmente, il bimbo parve quietarsi e
appoggiò la testa alla spalla di lei, lasciandosi coprire
meglio con la coperta.
Ailinn
sorrise divinamente, le labbra piene illuminate dal rossetto e dalla
luce che quasi sembrava riflettersi su di esse.
Non era andato proprio tutto secondo i piani, anzi, niente l'aveva
fatto, ma non era questo l'importante. Per quanto avesse voluto
prendersi lei il merito, suo padre era ben più che in una
buona posizione, e lei aveva ottenuto esattamente ciò che
voleva: un nuovo animaletto da compagnia con cui giocare.
Era cieca, Ailinn, non letteralmente, certo, ma non vedeva molto
più di altre persone: era solo un semplice strumento,
un'arma, e gli oggetti non hanno bisogno di avere particolari progetti
o aspirazioni.
Lei era un semplice mezzo da tanto, tanto tempo. Immemore. All'inizio
aveva combattuto, ci aveva provato, davvero, con tutte le sue forze.
Poi con lo scorrere dei decenni e, ancora, dei secoli, non aveva potuto
far altro che arrendersi. Era stata schiava per tanto tempo, poi
liberata soltanto per servire un altro padrone e, infine, ritornare al
primo.
Ormai non le importava, niente aveva più importanza. Nemmeno
quelle povere anime a lei così legate, prigioniere tutte
lì, come una bella schiera di soldatini.
Le avevano insegnato, come ad un bravo cagnolino, a non mordere mai la
mano del proprio padrone. Nulla aveva più valore, nemmeno
quelle vite che un tempo le erano state così care.
Dopotutto, adesso, aveva un nuovo gioco tutto per sé: cosa
le poteva mai importare degli altri, o del povero ragazzino incatenato
ai piedi di un trono?
Si
erano già enormemente allontanati dalla foresta e dal cuore
della cittadina quando se ne accorsero. Non erano ancora arrivati alla
prima linea, ma una marmaglia di gente correva da tutte le parti, le
divise nere zuppe di sangue e le urla di dolore che sembravano grondare
assieme ad esso, quasi altrettanto rosse all'udito: era poco, meno di
cinquecento metri o giù di lì, ma gli ibridi
stavano avanzando, e avrebbero continuato a farlo, se non avessero
trovato un modo di arginarli. E di distruggerli, certo.
"Dobbiamo trovare un modo per avvertire tutti gli altri. Portarli alla
foresta di Brocelind, al Lago Lyn, o in campagna. Lì faranno
meno danni!" esclamò qualcuno. Alec si girò di
scatto, con gli occhi sgranati: "Magnus!", esclamò. Il suo
intero animo era combattuto tra l'essere felice perché lo
stregone era finalmente lì con lui o l'essere atterrito e
sull'attenti per quello che si stava svolgendo tutt'attorno.
Il Nascosto gli rivolse un sorriso stanco e tirato, sporgendosi appena
per lasciarsi toccare, quasi Alec volesse assicurarsi che fosse davvero
lì e non solo un'illusione, poi si voltò di nuovo
verso gli altri: "Potremmo contenerli più facilmente ed
evitare la distruzione di Alicante se lì dirigiamo via da
qui."
Maryse annuì, cercando di elaborare una buona strategia, poi
scosse il capo: "Dovremo farlo a forza. Continuare a combatterli e
spingerli sempre più di lato e indietro, fino a raggiungere
il lago, almeno."
"E poi che facciamo, li anneghiamo?" Valentine alzò gli
occhi al cielo: "Un paio di alberi non risolveranno la situazione."
"No, ma potrebbero facilitarla.", rispose seccamente l'ex signora
Lightwood.
"Okay, allora..." Jocelyn venne interrotta da Jonathan, che aveva la
fronte aggrottata: "Aspettate. Dov'è Jean?"
Jace si scrollò di dosso uno degli ibridi, spingendolo a
terra e trapassandolo, prima di alzare lo sguardo e guardarsi intorno:
"Qui non c'è".
"Grazie, Capitan Ovvio", ringhiò Jonathan. Maryse,
Jocelyn e Valentine erano vicini, impegnati fino ad un minuto
prima a cercare una strategia per limitare le perdite e rimandare
indietro quei bastardi, Clary e Jace stavano fronteggiando gli ibridi,
Isabelle era via con Ian, Alec invece era accanto a Magnus appena
spuntato da non si sapeva dove, ma non era importante, in quel momento.
Di Jean, però, neppure l'ombra.
Fu in quel momento che il serpente del dubbio incominciò a
serpeggiare fra loro, strisciante e sinuoso e incancellabile: era colpa
sua. Era arrivato misteriosamente e loro da grandi idioti l'avevano
accolto, si era infiltrato fra loro e, ben al sicuro anche se in bella
vista, li aveva spiati. Traditore.
"Aspettate, non saltiamo a conclusioni affrettate. Magari quando le
barriere hanno iniziato a crollare lui era già fuori e
adesso è bloccato qui da qualche parte.", fece notare Magnus
e, sebbene molti dubitassero delle sue parole, nessuno ebbe dubbi su di
lui. Era il Sommo Stregone di Brooklyn, l'altra metà di
Alec, aveva salvato loro il culo milioni di volte: e, per una volta,
fecero bene a fidarsi.
Maryse stava per ribattere, ma Clary praticamente le ringhiò
contro: "Non per interrompervi il salottino, ma vi sembra questo il
momento di parlare?!" chiese.
Tutto intorno a loro era l'inferno, e lei era stata occupata fino a
quel momento a togliere dalla loro strada i nemici che arrivavano a
frotte. Non potevano permettersi di mettersi a fare speculazioni mentre
i Cacciatori cadevano come mosche!
Isabelle
aveva intuito che qualcosa non andava fin dall'inizio: la Guardia era
vuota, non c'era un singolo soldato appostato lì. E
sì, anche in quelle circostanze, avrebbe dovuto esserci.
In ogni caso, non aveva potuto far altro che avanzare, mentre Ian
iniziava ad agitarsi tra le sue braccia senza riuscire a trovare una
posizione più comoda.
Si era successivamente convinta che qualcosa di potenzialmente molto
pericoloso era accaduto quando avanzando vide i corpi delle guardie a
terra, auspicabilmente svenuti e, pochi livelli al di sotto di loro, un
po' più su delle prigioni stranamente silenziose, il Portale
già aperto.
Ma, per quanto fosse un bruttissimo, orribile segno, non poteva darci
peso in quel momento: doveva continuare ad avanzare.
Si era concentrata con tutte le sue forze per apparire nella casa di
Magnus, a Brooklyn, ma si ritrovò sbalzata poco distante dal
portone dello stregone, ben sigillato.
Con un sorriso, Isabelle si rese conto che aveva finalmente avuto un
colpo di fortuna, il Nascosto aveva - prevedibilmente, ma non
ci aveva pensato, non in quel momento - potenti incantesimi di
protezione sull'intero palazzo in cui abitava, e probabilmente nessuno
se non lui poteva aprire un passaggio nella sua casa.
Bussò al citofono mentre Ian si rizzava a sedere, ascoltando
con attenzione i rumori della città che solo poche volte
aveva visto. Non ci fu risposta: "Andiamo, Magnus, vuoi dirmi che
davvero non sei in casa adesso?! Adesso, per
la miseria?", sbottò. Niente.
Provò ad aprire la porta con una Runa e poi prese ad
armeggiare direttamente con lo stilo e la serratura, ma niente. Perfino
tentare di sfondare la porta risultò una fatica vana:
probabilmente uno dei posti più sicuri della
città, e lei non poteva nasconderci Ian perché
Magnus era stato troppo bravo a sigillarlo!
Non poteva arrendersi così, decisamente no, tanto
più che aveva dovuto armeggiare per parecchio tempo per fare
in modo che il Portale restasse aperto dopo il loro arrivo nella Grande
Mela, ma non sapeva per quanto.
Sgranò gli occhi, ritornando al passaggio sul retro da dove
erano comparsi, e sorrise rendendosi conto che, se anche lo
stregone aveva scongiurato e pesantemente protetto tutto l'edificio,
aveva pensato a chiudere manualmente soltanto casa sua e l'ingresso. Le
finestre del pian terreno, alle spalle dell'entrata, erano ancora
aperte. Stupidissimo, genialissimo stregone.
"Ascoltami bene, Ian", disse, scoprendo il bambino e
guardandolo negli occhi, ottenendo in risposta uno sguardo
letteralmente felino: "Adesso io ti faccio entrare da quella finestra,
okay? Quando entri, devi chiuderla e poi chiudere anche quella di
fianco, capito? Io devo andare, non posso entrare con te."
Il cucciolo di Nephilim annuì: "Entlo e chiudo finestle",
ripeté attentamente.
"Bravo." Izzy sorrise, scompigliandogli i capelli: "Dopo, devi provare
ad entrare a casa di Magnus. La porta sarà proprio davanti a
te, una volta entrato" spiegò lentamente, per poi
continuare: "Non so se si aprirà, ma se non lo
farà devi trovare un buon nascondiglio, va bene? Nel
seminterrato, oppure nel sottotetto, lì ci dovrebbero essere
degli armadi. Chiuditi dentro e non fiatare." Prese un profondo
respiro, sentendo il cuore spezzarsi alla vista della faccia spaventata
del bambino. Era orrendo, ma doveva avvertirlo: "Non penso che nessuno
potrà entrare, Ian, se chiudi le finestre. Ma nel caso in
cui succedesse non devi farti scoprire, okay? Rimani nascosto, non
farti vedere per nessun motivo."
Lo sapeva, lo vedeva benissimo, Ian era praticamente sull'orlo delle
lacrime: "Mi lasci qui? Vegono a plendelmi?", chiese, terrorizzato.
"No! No, Ian! Nessuno sta venendo a prenderti!" Isabelle prese un
profondo respiro: "E' solo una precauzione. Devo andare ad aiutare il
tuo papà, capisci? Tu qui sarai più al sicuro.
Tornerò a prenderti, te lo giuro.", disse, sollevandolo per
appoggiarlo al bordo della finestra e dandogli un ultimo abbraccio:
"Tornerò a prenderti. Io, o... o qualcun altro.
Qualcuno che conosci, tuo padre o Clary o Jace. Esci soltanto se
conosci la persona che ti sta chiamando, va bene? Qualcuno... qualcuno
tornerà a prenderti, se io non ci sarò."
Ian increspò la fronte, con le lacrime che ora scendevano
liberamente sulle sue guance paffute: "Ma io volio che tu e
papà prendere me dopo."
"Lo so, Ian. Torneremo. Farò tutto il possibile." gli
sussurrò. Sentiva alle sue spalle la luce del Portale che
iniziava ad affievolirsi.
"Vai ora!" esclamò, osservandolo oltrepassare la finestra e
richiudersela alle spalle assieme all'altra.
Non poteva aspettare oltre, poté solo attraversare ancora
una volta il Portale verso la Guardia.
Jonathan
e Valentine correvano fianco a fianco, non per scelta ma per dovere: a
quanto sembrava, alcuni degli ibridi avevano ideato una nuova
iniziativa e volevano entrare in città sgusciando via dai
Cacciatori nella battaglia. Verso, ovviamente, la Sala dell'Angelo.
E, altrettanto ovviamente, non poteva essere loro permesso di
raggiungerla. Poco importava il suo valore storico, ma le vite
innocenti all'interno di essa di sicuro meritavano sforzi anche ben
più che ercoliani.
Jonathan mozzò la testa al primo nel momento stesso in cui
questo si lanciava verso di lui sfoderando gli artigli. Erano cinque in
tutto, e non potevano permettersi di fermarsi ed ingaggiare un
combattimento o gli altri sarebbero andati avanti. Valentine
infilzò il secondo, lanciandosi in avanti: quegli abomini
non avevano nessunissima intenzione di combattere con loro se non
costretti, volevano soltanto raggiungere la Piazza.
E ci arrivarono, oh se ci arrivarono, grazie a quella dannatissima
velocità da vampiro. Per il Morgenstern più
giovane era tutto estremamente complicato: sentiva aprirsi sulla pelle
tutti i tagli che Clary si procurava nel furore della battaglia, non
avvertendoli a causa dell'adrenalina, e a sua volta doveva fare
attenzione a non restare ferito a causa della resistenza decisamente
minore della sorella al dolore. Amava avere emozioni proprie, non
l'avrebbe scambiato per nulla al mondo, ma era in momenti come quello
che il gioco non sembrava valere la candela.
Con uno sbuffo, atterrò il terzo e lo privò del
suo pugnale, presumibilmente intinto in un veleno di qualche tipo a
giudicare da come gocciolava, e lo usò per sgozzarlo: un
lento, pigro sorriso si disegnò sulle sue labbra. Cosa ci
poteva essere di più liberatorio del sentire di avere il
potere, di riuscire a sopraffare chiunque si credesse abbastanza forte
da poterli distruggere? Ora provava il bene, la gioia, la
felicità e anche il dolore emotivo, ma quelli erano mostri,
ed i mostri andavano uccisi. Aveva fatto di peggio nella sua vita, e
non si sarebbe di certo messo a frignare con i sensi di colpa per
qualcosa che amava così tanto fare. La morte era il suo
hobby.
Non c'erano tante cose gratificanti come il lasciarsi dominare
dall'istinto e fare quello per cui era naturalmente portato: uccidere.
Strappò via il quarto ibrido dalla presa di Valentine, e
spaccargli la testa contro quei candidi, bellissimi mattoni bianchi
della fontana fu facile come bere un bicchiere d'acqua. Per un attimo
si ritrovò confuso, il quinto era scomparso dalla loro vista
e tutto quello a cui lui riusciva a pensare era il sangue e il rumore
delle ossa che si rompono e la morte, e suo padre era sempre stato un
bastardo, dopotutto. Chi l'avrebbe pianto?
Si era già girato verso di lui, un pigro sorriso
predatore sul volto, pronto ad attaccare, ma qualcosa lo
richiamò all'attenzione: "Jonathan!".
Si voltò di scatto, individuando prima Isabelle sul tetto di
una casa poco lontano e poi l'ibrido che gli stava saltando addosso.
Falciarlo non fu più difficile di piegare gli angoli della
sua bocca in una smorfia vagamente contrita.
Si voltò di nuovo verso Isabelle, mentre una sensazione di
malessere potente quanto la voglia viscerale di uccidere che l'aveva
mosso prima si faceva strada in lui, attorcigliandogli le budella e
rendendo tutto d'un tratto la sua saliva amara. Non era disgusto, no,
nonostante tutto non avrebbe mai potuto essere disgustato da se stesso,
no... Era vergogna, pensò, mentre un quieto conato di vomito
gli risaliva lungo la gola.
Lo rimandò giù, arretrando disperatamente sotto
lo sguardo scettico di Valentine e quello totalmente confuso di
Isabelle: "Jonathan?! Che stai facendo? Vieni qui!", strillò
lei, ma non poteva fermarlo. Si voltò e cominciò
a correre, sentendola a sua volta scendere velocemente - no,
praticamente saltare - le scale.
Non voleva che lo vedesse così, no. Era... l'avrebbe trovato
mostruoso, orribile, disgustoso. Doveva andare via, lui... Non credeva
che fosse umanamente possibile sentirsi così infimi e
indegni di qualcuno, così sporchi e ripugnanti. Non era mai
stato sconvolto da ciò che era e non lo era nemmeno in quel
momento, ma Isabelle... Isabelle lo sarebbe stata e lo avrebbe guardato
esattamente come tutti gli altri.
Represse ancora l'istinto di buttar fuori tutto quello che aveva
mangiato per pranzo, tentando di non pensare ai passi dietro di lui. Ma
come poteva combattere una battaglia del genere, quando non sapeva come
farlo?
Si lasciò cadere a terra ansimando, prima di vomitare
ciò che aveva nello stomaco. Sentiva le lacrime salire agli
occhi e scorrere liberamente mentre tossiva, in un disgustoso miscuglio
di lacrime e bile.
"Jonathan", sussurrò Isabelle, accucciandosi accanto a lui.
Non disse altro, non era nemmeno sicura di capire fino in fondo la
situazione, ma gli accarezzò i capelli come aveva fatto con
Ian poco tempo prima e quando ebbe finito di rigettare lo strinse a
sé. Era la prima volta che lo faceva lei e non il contrario,
sembrava un bambino terrorizzato e la somiglianza con suo figlio non
era mai stata più forte.
"Ssssh", sussurrò, sentendolo singhiozzare: "Va tutto bene".
A/N: Piccole
note, andiamo per punti:
- Sì, lo so, interi mesi sono passati dall'ultima volta che
ho aggiornato, ma la vita e i problemi si sono messi in mezzo e niente,
spero possiate capire. Ho atteso per tanto tempo che il mio pc venisse
riparato e ancora nessuno mi ha fatto sapere nulla, ma saltando i
dettagli futili vi dico che adesso ho una specie di sostituto e in
più non c'è scuola, quindi farò tutto
il possibile per finire la storia e revisionarla nel più
breve tempo possibile.
- Non so se avete notato, ma ho dovuto sostituire i trattini con le
virgolette perché A su questo portatile non c'è
quel tipo di trattino (o io non so farlo) e B non ho ancora capito come
mettere le caporali, per questo per adesso mi arrangio. Lo stesso vale
per la E maiuscola che pur dovendo avere un accento ha un apostrofo: mi
dispiace, ma a differenza della tastiera del Mac che ha quell'opzione
su questa non la vedo, se qualcuno sa come correggere sono
più che disposta a imparare ^_^
- Last but not least: mi rendo conto che Jonathan, in specie
nell'ultima parte, può apparire molto, molto OOC. Vi invito
però comunque a ricordare il percorso che c'è
stato in questi quasi trenta capitoli (OH. MY. RAZIEL.) e come il
suddetto corso degli avvenimenti l'ha cambiato. Non dico che si
pentirà di quello che ha fatto (lui stesso l'ha ribadito nel
testo), ma credo che tutti abbiamo avuto a che fare con la vergogna,
chi più chi meno, e alcune volte succede in modi
così estremi, sì. Per cui Jonathan, non essendo
abituato a tutto quello, ha reagito anche fin troppo oltre le
aspettative e, sebbene all'inizio sembrasse bilanciare la cosa, anche
lui è crollato sotto il peso delle emozioni. Perdonatelo,
è umano, e comunque è soprattutto per questo
stravolgimento graduale di personaggi che c'è l'avvertimento
OOC ^_^