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Autore: Winchester_Morgenstern    07/06/2016    1 recensioni
La vera difficoltà non sta nel cambiare se stessi, ma nel riconoscere ciò che si è realmente e, soprattutto, nell'accettarlo.
IN REVISIONE - CAPITOLI RISCRITTI 4/X (DA DEFINIRE).
POST COG, POSSIBILE RIVISITAZIONE DELL'INTRODUZIONE.
Genere: Azione, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing | Personaggi: Clarissa, Izzy Lightwood, Nuovo personaggio, Sebastian / Jonathan Christopher Morgenstern, Un po' tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Veritas filia temporis'
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XXIX - BOOM

Isabelle, doveva ammetterlo, aveva fatto molti errori nella sua vita: alcuni per semplice incoscienza, altri perché voleva provare sulla pelle il brivido della libertà. Fino a qualche tempo prima, niente era più bello e soddisfacente di vedere lo sguardo di disapprovazione di sua madre, sapere che non stava agendo come lei, che non si sarebbe ritrovata incastrata in un matrimonio con un uomo assurdamente bigotto e che invece avrebbe potuto essere capace di fare esattamente ciò che voleva. Era una bella aspirazione, certo, ma era quella dell'adolescente che era stata fino a poco tempo prima: le acque avevano iniziato ad agitarsi fin dal momento in cui Clary era piombata in tutte le loro vite, anche se all'epoca non era ancora stata pronta per vedere - figurarsi accettare - il cambiamento.
Poi però le cose erano andate decisamente più avanti, fino a ritrovarsi incastrata in qualcosa che non aveva mai voluto: l'ultima scelta.
La Nephilim si staccò da Jonathan, malvolentieri, certo, e prese un profondo respiro guardando appena le belle labbra gonfie che baciava fino ad un attimo prima: "Aspetta", disse, facendo a sua volta forza su se stessa per non ritornare alla piacevole attività precedente: "Ho da mettere in chiaro qualcosa".
Il Cacciatore alzò gli occhi al cielo, lo sguardo si fece appena più freddo: "Fammi indovinare, ci stiamo solo divertendo. Dovresti proprio mettere ordine alle tue idee, Izzy cara".
Isabelle sbuffò: "Ma perché  devono piacermi tutti così idioti?", sussurrò a nessuno in particolare, per poi fissare gli occhi in quelli dell'altro: "Fammi finire di parlare. Quello che volevo mettere in chiaro è questo: tu sei un assassino psicopatico e io sono la ragazza facile che esce con i Nascosti, almeno agli occhi della maggioranza".
"E su questo non ci sono dubbi. Davvero stiamo parlando di questo quando potremmo essere coinvolti in ben più piacevoli attività?", domandò sarcastico lui. Anche connesso fin troppo strettamente ad una di loro, Jonathan era piuttosto certo che non sarebbe mai riuscito a capire una donna. Be', poco male: un altro problema che poteva imputare tranquillamente a Jocelyn, no?
"Sì, certo, con tuo figlio qui nella stanza. Raziel, perché non puoi fare a meno di interrompermi?! Zitto e ascolta."
"Sissignora."
"Jonathan!"
L'albino le lanciò un'occhiata impertinente da sotto le lunghe ciglia, e stava già per aprire di nuovo la bocca e ricominciare a parlare quando Isabelle lo interruppe: "Quello che voglio dire è che sono abbastanza certa che nessuno di noi due è semplicemente l'etichetta che ci hanno dato, però purtroppo la cosa ci limita molto lo stesso. E diciamoci la verità, agli occhi degli altri saremmo una coppia assolutamente assurda."
"E ritorniamo inesorabilmente al solo divertimento." osservò pacatamente il mezzo demone.
"No! Zitto!", gli impose ancora lei: "Lascia da parte per un singolo secondo il tuo essere un sarcastico bastardo disfattista e dimmi sinceramente chi è che oltre a me si è dimostrata interessata a te..."
"Cosa staresti insinuando?! Che sono un'opera di carità?!", e questa volta la scintilla irata negli occhi di lui era più che ben visibile.
"... E, se mi avessi lasciato finire, avrei aggiunto: e lo stesso è tristemente valido per me", ringhiò Izzy, sfoderando uno dei suoi migliori sguardi intimidatori: "Il punto è che, comunque, già da soli non è che siamo proprio ben visti, insieme mal accettati a dire poco. Ma anche se io non fossi interessata a te, e tu non lo fossi a me - e non osare negare, hai una spada angelica nella tasca o sei solo contento di avermi praticamente seduta addosso a te? -, avremmo davvero tanta altra scelta? Per cui quello che ti sto chiedendo è semplicemente di tentare entrambi di fare le cose sul serio e per bene, prima perché sappiamo entrambi che è la soluzione più giusta, poi perché Ian ha sicuramente bisogno di qualcun altro oltre a te e per quanto sia amaro ammetterlo per me è ora di crescere e infine perché, be', - e sappi che mi sto esponendo davvero tanto nel dirlo, quindi tieniti stretta questa fiducia - non è che le possibilità che io m'innamori di te col tempo o che la cosa stia succedendo gradualmente siano remote, eh". Isabelle prese un lungo respiro, più profondo del precedente, mentre sentiva il sangue affluire alle guance e arrossirle inesorabilmente: Raziel, era probabilmente una delle cose più difficili e umilianti che avesse mai fatto, inserendo nell'elenco anche le molteplici battaglie degli ultimi anni.
Volse lo sguardo verso Ian, sorridendo con affetto all'angelo biondo addormentato, quasi pronta ad assecondare l'istinto primordiale di scappare via e tentare di non incrociare mai più la strada del biondissimo Morgenstern, ma qualcosa la blocco: no, non sentimentalmente parlando.
La mano di Jonathan raggiunse la sua, accarezzandole pigramente il dorso, ma con la stessa attenzione con cui probabilmente passava l'indice su una lama, facendola voltare.
Lui aveva la testa appena inclinata di lato e un sorriso sornione sul volto: "Sai, Isabelle, tu non finisci mai di stupirmi.", disse, ridacchiando appena, mentre lei restava a guardarlo nel dubbio: lo odiava, odiava essere così impotente e alla mercé di qualcun altro, proprio lei che si era sempre erta fiera contro tutto e tutti.
"Anche se, devi ammetterlo, nemmeno io stavo scherzando su questo quando ti ho detto che Ian potrebbe -anche se magari adesso è meglio usare il termine deciderà e abbandonare il condizionale - convincersi che tu sei realmente sua madre. Quindi, be', stiamo sostanzialmente girando intorno allo stesso argomento.", dichiarò con tutta la serietà del caso, ma trattenendo una risata: "E so benissimo che tu non mi ami e io, be', non ti amo, miei problemi e scompensi emozionali a parte, ma concordo con te nel dire che questa non è certo solo una situazione di semplice profitto personale, per cui...", Jonathan sorrise: "Vuoi che vada a prendere adesso l'anello o possiamo iniziare con un semplice appuntamento come tutti e far finta di non aver programmato da persone assolutamente anormali  tutto il nostro futuro?"
Dire che Isabelle rischiò di soffocare con la sua stessa saliva era dire poco, ma la frase rappresentava bene il concetto di base: "Oh, per me possiamo anche prendercela comoda e fingere di capire il concetto di normalità, certo", sogghignò lei, quando si fu sufficientemente ripresa.
"Ottimo. Quindi, concordato questo...", lo Shadowhunter si leccò le labbra, gli occhi straordinariamente carichi di malizia, per poi sistemarla meglio fra le sue braccia, dalle quali si era precedentemente allontanata per parlare,  e iniziò a baciarle morbidamente il collo con tutta la cura e la dovizia possibili.
"C'è Ian!", fece notare lei, rabbrividendo alla sensazione delle labbra di lui contro la sua pelle.
Lui sbuffò: "Potremmo andare in camera mia".
"Frena, Casanova, magari ora siamo estremamente collegati ma, sai com'è, la strada per le mie mutandine te la devi guada...", Isabelle non poté fisicamente continuare la frase.
E, questa volta, non per colpa del biondissimo, frustratissimo ed eccitatissimo Morgenstern, no. Fu questione di un istante: il pavimento, il letto e tutti i mobili tremarono come se qualcuno avesse sradicato l'intera villa da terra, i suppellettili caddero a terra, e quella che doveva essere l'onda d'urto più forte del millennio fece ballare pericolosamente i vetri nelle giunture delle finestre, che s'incrinarono a tempo record e si spaccarono in ancor meno, letteralmente volando ovunque.
Jonathan spinse Isabelle a terra, mentre lei strisciava alla massima velocità umanamente possibile sotto il letto, e poi si lanciò su Ian, cercando di fargli da scudo contro i vetri che volteggiavano nell'aria mentre il bambino si svegliava di soprassalto.



Jean si aggrappò ansimante ad una delle pietre che sporgevano dal muro della casupola, cercando di riprendere fiato, o almeno di resistere in apnea quel che bastava per raggiungere la Piazza dell'Angelo.
"Ci siamo quasi, Jean, ci siamo quasi!", lo spronò Magnus, facendo passare un braccio del Cacciatore attorno alla sua spalla e cercando di spingerlo in avanti: "Ti avevo detto che avrei potuto fare io quel dannato incantesimo, avresti perfino potuto stendere quelle guardie con un dannato pugno!", sbottò, mosso dalla preoccupazione più che dal rancore.
Il Nephilim si accasciò contro di lui, nel tentativo di racimolare la forza per parlare: "Hai bisogno della tua magia per il piano B, Magnus... E non avrei potuto farlo, non in quel momento, l'avrei ucciso senza... senza rendermene conto.", sussurrò, stremato.
A quella risposta, lo stregone rimase in silenzio: sapeva benissimo tutto quello anche da solo, ma non ci aveva certo pensato in quel momento.
"Andiamo, ci siamo quasi.", borbottò, trascinando in avanti l'altro come poteva: di certo Jean non era più alto di lui, ma era anche innegabilmente più muscoloso.
Giunsero alla loro destinazione con l'aria di due condannati appena sfuggiti alla gogna, ed il Cacciatore si lasciò cadere per terra, con la schiena contro il basso muretto al centro della Piazza.
"Devi andare, Magnus, non possiamo permettere che questo vada storto! C'è troppo in gioco, io ho messo troppo in gioco e certo non posso permettermi di perdere.", disse, reclinando il capo all'indietro. Detestava tutta quella situazione.
Il Nascosto s'inginocchiò accanto a lui, pensando al da farsi: per fortuna in giro non c'era un anima viva, ammassati com'erano tutti quanti vicino alle barriere crollate. Non riusciva ad immaginare quanto fosse difficile e mortale combattere l'orda di ibridi che stava arrivando fin nel cuore di Alicante, ma lui non era assegnato a quella parte del piano: no, se tutto fosse andato bene lui avrebbe dovuto salvare il culo a tutti. Ma come poteva lasciare lì Jean, ridotto in quello stato?
"Vai!", ordinò imperioso il Nephilim, cercando di trasmettergli una forza che non aveva. Nonostante questo, fece leva sulle braccia e si rialzò in piedi, concentrandosi sul rimanere in posizione eretta.
"Non preoccuparti per me! Io... uhm, io...", il ragazzo si guardò intorno per un attimo, spaesato: "Io andrò a nascondermi lì fin quando non mi riprenderò, okay?", affermò, indicando col mento una scalinata di pietra che a quanto pareva portava al terrazzo di una delle case raggruppate attorno alla Piazza e alla fontana.
Se lo ricordava, quell'edificio, lo rammentava perfettamente, in realtà: solo che l'ultima volta che l'aveva visto aveva quella stessa bianca scalinata tinta di scarlatto, e non per la vernice. Non era difficile tenerlo a mente: tutto, o quasi tutto, oltre a quei gradini e quelle quattro mura, era parzialmente crollato o del tutto raso al suolo. Poi Jean non aveva mai più messo piede lì, ma se gli Shadowhunters erano bravi in una cosa, oltre che a combattere, be', quella era molto sicuramente il leccarsi le ferite per ergersi all'apparenza più forti di prima, per poi crollare come un castello di carte al vento a causa dell'essersi presi cura delle ferite più evidenti, ma non di quelle interne.
C'era stato un tempo in cui ancora sognava una bella carriera nel Consiglio, ancora aveva il pensiero di diventare Inquisitore, ancora credeva che nessuno potesse semplicemente nascere cattivo, ancora era convinto che nonostante tutto, con un pizzico di fantasia e un po' di buona volontà, sarebbe potuto perfino diventare Console. Non che poi avesse assunto una carica molto diversa da quella, vero, ma era completamente un altro discorso.
Trovava estremamente ironico il fatto che i Nephilim avessero distrutto la sua vita, e nonostante questo lui li stesse aiutando - e fin troppo. L'arrivo lì, le mosse tattiche dopo, tutto quello che aveva dovuto dannatamente sopportare, tutto era il progetto di una vita o quasi. E per questo non poteva permettere che andasse a monte così facilmente, perché non avrebbe avuto una seconda opportunità, pasticciare come aveva fatto era già pericoloso una volta, ma due era un suicidio.
Il ragazzo si strofinò il volto, un po' per cercare di riordinare le idee ed un po' per evitare di vedere ciò che fluttuava davanti ai suoi occhi: perché dopo la stanchezza destabilizzante, ovviamente, ci mancavano soltanto le allucinazioni.
Ma quelle non lo erano, no, erano molto di più: ricordi.
Riusciva a vedere come se fosse accaduto ieri Regina e Cristopher seduti con aria terrorizzata e confusa nella fontana, per metà zuppi d'acqua che zampillava e per l'altra metà del sangue che stava venendo versato a litri. Assurdo che non si fossero accorti di loro, tanto più che Cristopher stringeva testardamente Sebastian, spaventato e piangente come non mai. Jean ricordava bene cos'aveva fatto dopo, senza nemmeno un rimpianto: aveva falciato tutti quelli sulla sua strada e preso in braccio il suo fratellino più piccolo, per poi cercare di far correre i gemelli al riparo. Non era stato facile, non mentre era praticamente un morto ambulante a sua volta, con ciò che era successo prima, no.
Ma comunque, era ancora fattibile, il livello di difficoltà era schizzato alle stelle soltanto quando quei cani avevano preso a decorare la fottutissima Piazza con loro, letteralmente. Erano impressi nella sua testa, i pezzi di corpi sparpagliati ovunque ma ancora ben riconoscibili, i busti che facevano straboccare la fontana e le braccia ben disseminate sugli alberi, come pallidi e amorfi festoni che si agitavano al vento della sera mentre le gambe sembravano fare da tappeto al resto assieme alle foglie cadute, e quella era forse la parte più tranquilla - o semplicemente meno rivoltante, meno dolorosa - da accettare, perché niente, niente era mai stato così duro come guardarli negli occhi, ormai spenti e privi di vita. Quelle bestie bastarde glieli avevano aperti, certo, ma tutti i lineamenti del viso erano distesi nella pace del sonno, e non della morte, e ciò nonostante non bastava.
Ci hai lasciati uccidere, dicevano quelle teste, ci hai lasciato morire! Colpa tua, colpa tua!
Jean si riscosse, tremando visibilmente e rendendosi conto di essere già a metà della scalinata, mentre il compagno d'avventura era ancora fermo dove lo aveva lasciato: "Andiamo! Magnus, quello che devi fare è più importante! Ho sacrificato la mia intera vita per questo, va bene?!", strillò con tutta l'aria che aveva nei polmoni: "Non puoi rendere vani i miei sforzi solo perché sei preoccupato per me! Lo capisco, ma adesso vai!".
Barcollò appena in avanti ma rimase in piedi, finalmente sulla sommità del terrazzo, osservando l'altro andarsene e scomparire velocemente prima fra le case e poi fra gli alberi.
Finalmente, si distese sul pavimento piastrellato con aria tranquilla, che decisamente non si addiceva alle grida straziate dei Cacciatori che morivano in battaglia contro gli ibridi a pochi chilometri da lì. Ma non importava, tutto sarebbe andato bene, tutto doveva andare bene, Noah l'aveva visto.
Peccato che non avesse minimamente calcolato la persona ammantata di nero che improvvisamente torreggiava su di lui e che lo afferrò per la testa, battendola con forza contro il cemento.
Poi tutto si fece nero.



Clary si rialzò in piedi, ringraziando mentalmente il fatto di essere stata dietro al gigantesco divano della sala da pranzo nel momento in cui, be', tutto era saltato per aria.
"Che diavolo è successo?!", ruggì poi Jace, che sul suddetto sofà ci stava schiacciando un pisolino e dopo essere stato praticamente scosso di qua e di là si era gettato in terra - okay, prima aveva avvertito l'impulso di nascondersi sotto ai cuscini pensando che fossero una protezione migliore da qualunque cosa gli stesse piombando addosso, sì -.
Clarissa si morse le labbra: "Non lo so, ma di certo non era di buon auspicio.", rispose, osservando i vetri sparsi a terra assieme agli oggettini vari ormai irrimediabilmente rotti con un cipiglio.
"Le barriere! Sono le barriere!", Maryse scese di corsa le scale, seguita da Valentine, mentre Jocelyn si affacciò da una delle stanze al pianterreno al suono di quelle parole.
A loro beneficio, c'era da dire che si prepararono estremamente in fretta per andare fuori e cercare di capire cos'era accaduto - non che fosse poi così difficile, ma la speranza era l'ultima a morire -, il problema era un altro: Jonathan stava sul ciglio della porta, sentiva le membra pronte a scattare e il sangue che gli ribolliva in corpo, per quanto razionalmente potesse negarlo attendeva momenti come quelli, quando in quell'oasi di relativa pace che si era venuta a creare tra un evento e l'altro il problema di turno decideva di presentarsi ed attaccare, e lui sapeva che qualsiasi cosa fosse l'avrebbe uccisa. O almeno, ne era certo fin quando non si rese conto di stringere ancora Ian tra le braccia, a mo' di ancora di salvezza: "Cosa è successo, papà?", domandò, serio come poche volte era stato.
Jonathan s'irrigidì: non poteva farlo, non poteva lasciare suo figlio da solo, avrebbe semplicemente dimostrato di essere soltanto il mostro che tutti credevano che fosse, ma non poteva nemmeno restare lì impotente mentre gli altri andavano fuori a combattere. Non era colpa sua, davvero, era un bisogno fisico: il suo corpo era pronto alla battaglia, la sua mente pensava soltanto a combattere e ancora era poco descrittivo; era abbastanza certo che gli altri non potessero vedere il lieve tremore che lo pervadeva, l'eccitazione e il sangue che danzava nelle sue vene, pronto a combattere, pronto a uccidere.
Magari era davvero un mostro, e quella ne era soltanto la riprova: il suo istinto che vinceva contro la famiglia. Ma non gli fu dato altro tempo di scelta: Isabelle afferrò Ian con aria determinata e rialzò lo sguardo verso di lui: "Le barriere sono crollate, saranno tutti occupati ai confini. Vado alla Guardia, lo porto da qualche parte al sicuro con il Portale.", spiegò, tetra. "Hanno più bisogno di te, qui, e sappiamo entrambi che è la cosa migliore."
Jonathan si morse le labbra: anche prima sapeva che tutto ciò non era uno scherzo, ma quello... ora la cosa stava diventando dannatamente reale, e si rese conto che non sarebbe più potuto tornare indietro: "Grazie, Isabelle Lightwood.", soffiò semplicemente, chinandosi per lasciarle un bacio leggero sulle labbra. Cos'avrebbe dovuto importargli degli altri, dopotutto?
La sentì rispondere appena, il tocco fantasma della lingua di lei sulla sua bocca.
Dopo, in perfetto stile Shadowhunters, Isabelle si voltò per uscire dalla casa, afferrando nel contempo una delle coperte che avevano precedentemente accatastato nella stanza pensando di distribuirle per la notte: non serviva tanto per nascondere Ian, a quel punto il centro storico doveva essere deserto, quanto più per coprirlo. Non sapeva dove l'avrebbe portato, e in quel momento non sapeva se dopo sarebbe rimasta con lui o no, ma perlomeno sarebbe stato al caldo. Era forse così stupido pensarlo? Magari sì, quando tentavano di rapire quello stesso bambino per tenerlo come cavia o arma segreta o chi se ne fregava, ma non importava. Forse era solo e semplicemente perché tutti vedevano le coperte come simboli universali di protezione, mah.
Ma bisognava farlo, bisognava seguire l'istinto e credere che tutto sarebbe andato bene. I Nephilim non si augurano buona fortuna, la vittoria deve essere certa.
Fuori era buio, ovviamente, essendo il sole tramontato da un po', ma alcuni dei flebili bagliori rossastri che avevano servito ad avvertire i Cacciatori dell'assedio ancora si riflettevano sulle torri. Oltre quelle, Isabelle non riusciva a vedere, ma anche lì, al limitare della foresta, giungevano gli echi della battaglia. Lei era una guerriera, non ne era spaventata e non li temeva, ma avrebbe mentito dicendo di sentirsi completamente rilassata, vuoi perché da sola con un bambino a carico in quella che era - o stava diventando - potenzialmente terra ostile, vuoi perché sapeva benissimo che fin troppo vicino a lei amici, parenti, semplici conoscenti - chi non conosceva tutti gli altri, in un posto come Alicante? - stavano combattendo e cadendo. E lei stava scappando.
"Lo sto facendo per un buon motivo", sussurrò: "Lo sto facendo per un buon motivo."
"Cosa?", Ian era ben sveglio e aveva i grandi occhi scuri sgranati: non sembrava particolarmente spaventato, ma sicuramente scosso: "Perché papà non viene co' 'oi? Dove papà? Dove anniamo?", balbettava quasi e, sebbene non fosse mai stato un campione con le parole - come biasimarlo, considerando i due anni di reclusione forzata? -, ora iniziava a sbagliarle quasi tutte di fila.
Non poteva dirgli che andava tutto bene. Non sarebbe risultata credibile, considerando quanto fosse nervosa lei per prima, e poi perché lui non si sarebbe certo fatto bastare un E' tutto okay Ian, non preoccuparti.
Isabelle si morse le labbra: "E' come tutte le altre volte che era fuori, Ian. E' andato a combattere i mostri cattivi.", rispose, sentendosi vagamente stupida. Magari era dovuto al fatto che il piccolo Morgenstern la stava guardando con un cipiglio scettico che era tutto di suo padre.
"Papà andao a 'ccidere Mell-Mem-", il bambino aggrottò la fronte: "Me-Mezi-Melly?", domandò, serissimo.
"Sì" disse semplicemente lei, con tono incolore: "Sì, Ian. Papà è andato ad uccidere Melchizedeck."
Lui sorrise: "E dopo tu mama? Io, papà, mama?", chiese ancora, illuminandosi, mentre Isabelle s'impegnava con tutte le sue forze ad attraversare il bosco velocemente e senza correre rischi allo stesso tempo.
"Sì", ripeté ancora la Cacciatrice. Aveva esaurito il suo repertorio, perché davvero non riusciva a pensare a nulla di migliore da dire.
A quel punto, finalmente, il bimbo parve quietarsi e appoggiò la testa alla spalla di lei, lasciandosi coprire meglio con la coperta.



Ailinn sorrise divinamente, le labbra piene illuminate dal rossetto e dalla luce che quasi sembrava riflettersi su di esse.
Non era andato proprio tutto secondo i piani, anzi, niente l'aveva fatto, ma non era questo l'importante. Per quanto avesse voluto prendersi lei il merito, suo padre era ben più che in una buona posizione, e lei aveva ottenuto esattamente ciò che voleva: un nuovo animaletto da compagnia con cui giocare.
Era cieca, Ailinn, non letteralmente, certo, ma non vedeva molto più di altre persone: era solo un semplice strumento, un'arma, e gli oggetti non hanno bisogno di avere particolari progetti o aspirazioni.
Lei era un semplice mezzo da tanto, tanto tempo. Immemore. All'inizio aveva combattuto, ci aveva provato, davvero, con tutte le sue forze. Poi con lo scorrere dei decenni e, ancora, dei secoli, non aveva potuto far altro che arrendersi. Era stata schiava per tanto tempo, poi liberata soltanto per servire un altro padrone e, infine, ritornare al primo.
Ormai non le importava, niente aveva più importanza. Nemmeno quelle povere anime a lei così legate, prigioniere tutte lì, come una bella schiera di soldatini.
Le avevano insegnato, come ad un bravo cagnolino, a non mordere mai la mano del proprio padrone. Nulla aveva più valore, nemmeno quelle vite che un tempo le erano state così care.
Dopotutto, adesso, aveva un nuovo gioco tutto per sé: cosa le poteva mai importare degli altri, o del povero ragazzino incatenato ai piedi di un trono?



Si erano già enormemente allontanati dalla foresta e dal cuore della cittadina quando se ne accorsero. Non erano ancora arrivati alla prima linea, ma una marmaglia di gente correva da tutte le parti, le divise nere zuppe di sangue e le urla di dolore che sembravano grondare assieme ad esso, quasi altrettanto rosse all'udito: era poco, meno di cinquecento metri o giù di lì, ma gli ibridi stavano avanzando, e avrebbero continuato a farlo, se non avessero trovato un modo di arginarli. E di distruggerli, certo.
"Dobbiamo trovare un modo per avvertire tutti gli altri. Portarli alla foresta di Brocelind, al Lago Lyn, o in campagna. Lì faranno meno danni!" esclamò qualcuno. Alec si girò di scatto, con gli occhi sgranati: "Magnus!", esclamò. Il suo intero animo era combattuto tra l'essere felice perché lo stregone era finalmente lì con lui o l'essere atterrito e sull'attenti per quello che si stava svolgendo tutt'attorno.
Il Nascosto gli rivolse un sorriso stanco e tirato, sporgendosi appena per lasciarsi toccare, quasi Alec volesse assicurarsi che fosse davvero lì e non solo un'illusione, poi si voltò di nuovo verso gli altri: "Potremmo contenerli più facilmente ed evitare la distruzione di Alicante se lì dirigiamo via da qui."
Maryse annuì, cercando di elaborare una buona strategia, poi scosse il capo: "Dovremo farlo a forza. Continuare a combatterli e spingerli sempre più di lato e indietro, fino a raggiungere il lago, almeno."
"E poi che facciamo, li anneghiamo?" Valentine alzò gli occhi al cielo: "Un paio di alberi non risolveranno la situazione."
"No, ma potrebbero facilitarla.", rispose seccamente l'ex signora Lightwood.
"Okay, allora..." Jocelyn venne interrotta da Jonathan, che aveva la fronte aggrottata: "Aspettate. Dov'è Jean?"
Jace si scrollò di dosso uno degli ibridi, spingendolo a terra e trapassandolo, prima di alzare lo sguardo e guardarsi intorno: "Qui non c'è".
"Grazie, Capitan Ovvio", ringhiò Jonathan. Maryse, Jocelyn e Valentine erano vicini, impegnati fino ad un minuto prima a cercare una strategia per limitare le perdite e rimandare indietro quei bastardi, Clary e Jace stavano fronteggiando gli ibridi, Isabelle era via con Ian, Alec invece era accanto a Magnus appena spuntato da non si sapeva dove, ma non era importante, in quel momento. Di Jean, però, neppure l'ombra.
Fu in quel momento che il serpente del dubbio incominciò a serpeggiare fra loro, strisciante e sinuoso e incancellabile: era colpa sua. Era arrivato misteriosamente e loro da grandi idioti l'avevano accolto, si era infiltrato fra loro e, ben al sicuro anche se in bella vista, li aveva spiati. Traditore.
"Aspettate, non saltiamo a conclusioni affrettate. Magari quando le barriere hanno iniziato a crollare lui era già fuori e adesso è bloccato qui da qualche parte.", fece notare Magnus e, sebbene molti dubitassero delle sue parole, nessuno ebbe dubbi su di lui. Era il Sommo Stregone di Brooklyn, l'altra metà di Alec, aveva salvato loro il culo milioni di volte: e, per una volta, fecero bene a fidarsi.
Maryse stava per ribattere, ma Clary praticamente le ringhiò contro: "Non per interrompervi il salottino, ma vi sembra questo il momento di parlare?!" chiese.
Tutto intorno a loro era l'inferno, e lei era stata occupata fino a quel momento a togliere dalla loro strada i nemici che arrivavano a frotte. Non potevano permettersi di mettersi a fare speculazioni mentre i Cacciatori cadevano come mosche!



Isabelle aveva intuito che qualcosa non andava fin dall'inizio: la Guardia era vuota, non c'era un singolo soldato appostato lì. E sì, anche in quelle circostanze, avrebbe dovuto esserci.
In ogni caso, non aveva potuto far altro che avanzare, mentre Ian iniziava ad agitarsi tra le sue braccia senza riuscire a trovare una posizione più comoda.
Si era successivamente convinta che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso era accaduto quando avanzando vide i corpi delle guardie a terra, auspicabilmente svenuti e, pochi livelli al di sotto di loro, un po' più su delle prigioni stranamente silenziose, il Portale già aperto.
Ma, per quanto fosse un bruttissimo, orribile segno, non poteva darci peso in quel momento: doveva continuare ad avanzare.
Si era concentrata con tutte le sue forze per apparire nella casa di Magnus, a Brooklyn, ma si ritrovò sbalzata poco distante dal portone dello stregone, ben sigillato.
Con un sorriso, Isabelle si rese conto che aveva finalmente avuto un colpo di fortuna, il Nascosto aveva - prevedibilmente, ma non ci aveva pensato, non in quel momento - potenti incantesimi di protezione sull'intero palazzo in cui abitava, e probabilmente nessuno se non lui poteva aprire un passaggio nella sua casa.
Bussò al citofono mentre Ian si rizzava a sedere, ascoltando con attenzione i rumori della città che solo poche volte aveva visto. Non ci fu risposta: "Andiamo, Magnus, vuoi dirmi che davvero non sei in casa adesso?! Adesso, per la miseria?", sbottò. Niente.
Provò ad aprire la porta con una Runa e poi prese ad armeggiare direttamente con lo stilo e la serratura, ma niente. Perfino tentare di sfondare la porta risultò una fatica vana: probabilmente uno dei posti più sicuri della città, e lei non poteva nasconderci Ian perché Magnus era stato troppo bravo a sigillarlo!
Non poteva arrendersi così, decisamente no, tanto più che aveva dovuto armeggiare per parecchio tempo per fare in modo che il Portale restasse aperto dopo il loro arrivo nella Grande Mela, ma non sapeva per quanto.
Sgranò gli occhi, ritornando al passaggio sul retro da dove erano comparsi, e sorrise rendendosi conto che, se anche lo stregone aveva scongiurato e pesantemente protetto tutto l'edificio, aveva pensato a chiudere manualmente soltanto casa sua e l'ingresso. Le finestre del pian terreno, alle spalle dell'entrata, erano ancora aperte. Stupidissimo, genialissimo stregone.
"Ascoltami bene, Ian", disse, scoprendo il bambino e guardandolo negli occhi, ottenendo in risposta uno sguardo letteralmente felino: "Adesso io ti faccio entrare da quella finestra, okay? Quando entri, devi chiuderla e poi chiudere anche quella di fianco, capito? Io devo andare, non posso entrare con te."
Il cucciolo di Nephilim annuì: "Entlo e chiudo finestle", ripeté attentamente.
"Bravo." Izzy sorrise, scompigliandogli i capelli: "Dopo, devi provare ad entrare a casa di Magnus. La porta sarà proprio davanti a te, una volta entrato" spiegò lentamente, per poi continuare: "Non so se si aprirà, ma se non lo farà devi trovare un buon nascondiglio, va bene? Nel seminterrato, oppure nel sottotetto, lì ci dovrebbero essere degli armadi. Chiuditi dentro e non fiatare." Prese un profondo respiro, sentendo il cuore spezzarsi alla vista della faccia spaventata del bambino. Era orrendo, ma doveva avvertirlo: "Non penso che nessuno potrà entrare, Ian, se chiudi le finestre. Ma nel caso in cui succedesse non devi farti scoprire, okay? Rimani nascosto, non farti vedere per nessun motivo."
Lo sapeva, lo vedeva benissimo, Ian era praticamente sull'orlo delle lacrime: "Mi lasci qui? Vegono a plendelmi?", chiese, terrorizzato.
"No! No, Ian! Nessuno sta venendo a prenderti!" Isabelle prese un profondo respiro: "E' solo una precauzione. Devo andare ad aiutare il tuo papà, capisci? Tu qui sarai più al sicuro. Tornerò a prenderti, te lo giuro.", disse, sollevandolo per appoggiarlo al bordo della finestra e dandogli un ultimo abbraccio: "Tornerò a prenderti. Io, o... o qualcun altro. Qualcuno che conosci, tuo padre o Clary o Jace. Esci soltanto se conosci la persona che ti sta chiamando, va bene? Qualcuno... qualcuno tornerà a prenderti, se io non ci sarò."
Ian increspò la fronte, con le lacrime che ora scendevano liberamente sulle sue guance paffute: "Ma io volio che tu e papà prendere me dopo."
"Lo so, Ian. Torneremo. Farò tutto il possibile." gli sussurrò. Sentiva alle sue spalle la luce del Portale che iniziava ad affievolirsi.
"Vai ora!" esclamò, osservandolo oltrepassare la finestra e richiudersela alle spalle assieme all'altra.
Non poteva aspettare oltre, poté solo attraversare ancora una volta il Portale verso la Guardia.



Jonathan e Valentine correvano fianco a fianco, non per scelta ma per dovere: a quanto sembrava, alcuni degli ibridi avevano ideato una nuova iniziativa e volevano entrare in città sgusciando via dai Cacciatori nella battaglia. Verso, ovviamente, la Sala dell'Angelo.
E, altrettanto ovviamente, non poteva essere loro permesso di raggiungerla. Poco importava il suo valore storico, ma le vite innocenti all'interno di essa di sicuro meritavano sforzi anche ben più che ercoliani.
Jonathan mozzò la testa al primo nel momento stesso in cui questo si lanciava verso di lui sfoderando gli artigli. Erano cinque in tutto, e non potevano permettersi di fermarsi ed ingaggiare un combattimento o gli altri sarebbero andati avanti. Valentine infilzò il secondo, lanciandosi in avanti: quegli abomini non avevano nessunissima intenzione di combattere con loro se non costretti, volevano soltanto raggiungere la Piazza.
E ci arrivarono, oh se ci arrivarono, grazie a quella dannatissima velocità da vampiro. Per il Morgenstern più giovane era tutto estremamente complicato: sentiva aprirsi sulla pelle tutti i tagli che Clary si procurava nel furore della battaglia, non avvertendoli a causa dell'adrenalina, e a sua volta doveva fare attenzione a non restare ferito a causa della resistenza decisamente minore della sorella al dolore. Amava avere emozioni proprie, non l'avrebbe scambiato per nulla al mondo, ma era in momenti come quello che il gioco non sembrava valere la candela.
Con uno sbuffo, atterrò il terzo e lo privò del suo pugnale, presumibilmente intinto in un veleno di qualche tipo a giudicare da come gocciolava, e lo usò per sgozzarlo: un lento, pigro sorriso si disegnò sulle sue labbra. Cosa ci poteva essere di più liberatorio del sentire di avere il potere, di riuscire a sopraffare chiunque si credesse abbastanza forte da poterli distruggere? Ora provava il bene, la gioia, la felicità e anche il dolore emotivo, ma quelli erano mostri, ed i mostri andavano uccisi. Aveva fatto di peggio nella sua vita, e non si sarebbe di certo messo a frignare con i sensi di colpa per qualcosa che amava così tanto fare. La morte era il suo hobby.
Non c'erano tante cose gratificanti come il lasciarsi dominare dall'istinto e fare quello per cui era naturalmente portato: uccidere. Strappò via il quarto ibrido dalla presa di Valentine, e spaccargli la testa contro quei candidi, bellissimi mattoni bianchi della fontana fu facile come bere un bicchiere d'acqua. Per un attimo si ritrovò confuso, il quinto era scomparso dalla loro vista e tutto quello a cui lui riusciva a pensare era il sangue e il rumore delle ossa che si rompono e la morte, e suo padre era sempre stato un bastardo, dopotutto. Chi l'avrebbe pianto?
Si era già girato verso di lui, un pigro sorriso predatore sul volto, pronto ad attaccare, ma qualcosa lo richiamò all'attenzione: "Jonathan!".
Si voltò di scatto, individuando prima Isabelle sul tetto di una casa poco lontano e poi l'ibrido che gli stava saltando addosso. Falciarlo non fu più difficile di piegare gli angoli della sua bocca in una smorfia vagamente contrita.
Si voltò di nuovo verso Isabelle, mentre una sensazione di malessere potente quanto la voglia viscerale di uccidere che l'aveva mosso prima si faceva strada in lui, attorcigliandogli le budella e rendendo tutto d'un tratto la sua saliva amara. Non era disgusto, no, nonostante tutto non avrebbe mai potuto essere disgustato da se stesso, no... Era vergogna, pensò, mentre un quieto conato di vomito gli risaliva lungo la gola.
Lo rimandò giù, arretrando disperatamente sotto lo sguardo scettico di Valentine e quello totalmente confuso di Isabelle: "Jonathan?! Che stai facendo? Vieni qui!", strillò lei, ma non poteva fermarlo. Si voltò e cominciò a correre, sentendola a sua volta scendere velocemente - no, praticamente saltare - le scale.
Non voleva che lo vedesse così, no. Era... l'avrebbe trovato mostruoso, orribile, disgustoso. Doveva andare via, lui... Non credeva che fosse umanamente possibile sentirsi così infimi e indegni di qualcuno, così sporchi e ripugnanti. Non era mai stato sconvolto da ciò che era e non lo era nemmeno in quel momento, ma Isabelle... Isabelle lo sarebbe stata e lo avrebbe guardato esattamente come tutti gli altri.
Represse ancora l'istinto di buttar fuori tutto quello che aveva mangiato per pranzo, tentando di non pensare ai passi dietro di lui. Ma come poteva combattere una battaglia del genere, quando non sapeva come farlo?
Si lasciò cadere a terra ansimando, prima di vomitare ciò che aveva nello stomaco. Sentiva le lacrime salire agli occhi e scorrere liberamente mentre tossiva, in un disgustoso miscuglio di lacrime e bile.
"Jonathan", sussurrò Isabelle, accucciandosi accanto a lui. Non disse altro, non era nemmeno sicura di capire fino in fondo la situazione, ma gli accarezzò i capelli come aveva fatto con Ian poco tempo prima e quando ebbe finito di rigettare lo strinse a sé. Era la prima volta che lo faceva lei e non il contrario, sembrava un bambino terrorizzato e la somiglianza con suo figlio non era mai stata più forte.
"Ssssh", sussurrò, sentendolo singhiozzare: "Va tutto bene".




A/N: Piccole note, andiamo per punti:
- Sì, lo so, interi mesi sono passati dall'ultima volta che ho aggiornato, ma la vita e i problemi si sono messi in mezzo e niente, spero possiate capire. Ho atteso per tanto tempo che il mio pc venisse riparato e ancora nessuno mi ha fatto sapere nulla, ma saltando i dettagli futili vi dico che adesso ho una specie di sostituto e in più non c'è scuola, quindi farò tutto il possibile per finire la storia e revisionarla nel più breve tempo possibile.
- Non so se avete notato, ma ho dovuto sostituire i trattini con le virgolette perché A su questo portatile non c'è quel tipo di trattino (o io non so farlo) e B non ho ancora capito come mettere le caporali, per questo per adesso mi arrangio. Lo stesso vale per la E maiuscola che pur dovendo avere un accento ha un apostrofo: mi dispiace, ma a differenza della tastiera del Mac che ha quell'opzione su questa non la vedo, se qualcuno sa come correggere sono più che disposta a imparare ^_^
- Last but not least: mi rendo conto che Jonathan, in specie nell'ultima parte, può apparire molto, molto OOC. Vi invito però comunque a ricordare il percorso che c'è stato in questi quasi trenta capitoli (OH. MY. RAZIEL.) e come il suddetto corso degli avvenimenti l'ha cambiato. Non dico che si pentirà di quello che ha fatto (lui stesso l'ha ribadito nel testo), ma credo che tutti abbiamo avuto a che fare con la vergogna, chi più chi meno, e alcune volte succede in modi così estremi, sì. Per cui Jonathan, non essendo abituato a tutto quello, ha reagito anche fin troppo oltre le aspettative e, sebbene all'inizio sembrasse bilanciare la cosa, anche lui è crollato sotto il peso delle emozioni. Perdonatelo, è umano, e comunque è soprattutto per questo stravolgimento graduale di personaggi che c'è l'avv
ertimento OOC ^_^

   
 
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