CAPITOLO III
24 dicembre 1991
Le piaceva la
neve; non la venerava, non aspettava il suo arrivo come il segno che il
Natale
era finalmente giunto e tutti sarebbero diventati più buoni,
più altruisti, più
magri e più belli – perché l'ipocrisia
della famiglia di sua madre arrivava al
punto da immaginarsi splendidi e raggianti come non erano mai stati.
Semplicemente,
banalmente, la neve aveva un buon odore. A Slough la pioggia rendeva
impossibile nevicate di diversi centimetri: i fiocchi non attaccavano e
venivano persi, si scioglievano subito, senza dare il tempo di godere
di un
paesaggio invernale come si deve. Per questo Med amava osservarli
volteggiare
nel cielo, contemplare la loro esistenza simile a quella di una
farfalla e
assodare che, sì, le cose belle sono tali perché
hanno vita breve.
Bristol non
aveva neanche quei piccoli fiocchi.
Era una città
grigia, nuvolosa e anonima, ancor di più della sua Slough;
in confronto a
Londra, festosa e addobbata con luci colorate, Bristol era un posto ben
triste.
Se Louis aveva deciso di passare lì il Natale, tuttavia,
significava che casa
Nott doveva essere ancora più grigia e triste.
Lo vide tornare
dal Trym ed ebbe un tuffo al cuore: non lo vedeva dal primo settembre,
quando
lo aveva incontrato a King's Cross, e non erano mai stati
così divisi per tanto
tempo. Gli diede appena il tempo di sorprendersi della sua presenza,
poi gli
buttò le braccia al collo.
Louis aveva
ancora gli occhi sgranati. «Med! Che ci fai qui?».
La tenne stretta a sé e,
anche se non poteva vederlo, Med era sicura che stesse sorridendo
proprio come
lei.
«Volevo darti
personalmente il tuo regalo di Natale. E farti gli auguri».
Il viso di
Louis, notò, recava qualche traccia di fango e terriccio; lo
stesso era per i
suoi indumenti da lavoro, rigorosamente babbani nel tentativo di
passare
inosservato agli occhi degli abitanti di Bristol. Se solo suo padre
l'avesse
visto vestito così...
«Tieni.» Med
gli
porse un pacchetto che si era impegnata a incartare per bene, ma la
pioggia di
Bristol aveva reso vani i suoi sforzi. Non importava: si rese conto che
le
bastava essere di nuovo insieme al suo migliore amico, il resto erano
solo
stupidi convenevoli.
«Io... Non mi
aspettavo che venissi qui, ho già inviato il gufo con il tuo
regalo a Slough.
Cavolo, mi dispiace...».
Si strinse nelle
spalle. «Lo aprirò stasera».
Louis parve
ancor più dispiaciuto. «Torni già a
casa?».
«Ho il treno
alle sei. Posso rimanere per qualche ora, se non è un
problema per te».
«Un problema?».
Scoppiò a ridere e l'abbracciò di nuovo, stando
attento a non fare cadere il
regalo. «È così bello vederti! Vieni,
entriamo a casa, ti faccio un tè caldo.
Avrai un sacco di cose da raccontarmi».
«Theo è a
Londra?».
Come promesso,
Louis stava preparando il tè. Una procedura familiare per un
inglese:
riscaldare l'acqua, preparare l'infuso, versare un goccio di latte.
C'era una
regola non scritta, mai pronunciata, ma accettata da tutti i maghi
della Gran
Bretagna, che vietava l'uso della magia nella preparazione del
tè pomeridiano;
così Med osservava Louis districarsi nel piccolo
appartamento in cui si era
stabilito, affittato con i pochi soldi che sua madre gli aveva lasciato
e che
il padre non aveva tenuto per sé. Era un bilocale
accogliente e arredato ancora
con i pacchiani sopramobili della sua padrona di casa, ora riscaldato
dal fuoco
magico che crepitava nel camino.
Louis era nato
in una famiglia Purosangue, una delle più nobili che
varcassero tuttora la
soglia di Hogwarts senza mai essersi unita in legami sconvenienti; suo
padre,
Absalom Nott, era stato perfino sospettato di essere stato un
Mangiamorte. Med
sapeva che quei sospetti non erano infondati.
Eppure,
nonostante l'infanzia nobiliare di Louis, eccolo intento nella
tradizionale e
anticlassista preparazione del tè. Era un bello spettacolo
da contemplare.
«Sì,
passerà il
Natale a casa» rispose Louis, riscuotendola dai propri
pensieri.
«Tanto valeva
che restasse a Hogwarts...» bofonchiò Med.
«Pensavo sareste stati insieme. È il
primo Natale che passi da solo».
«Meglio solo che
in quella casa».
La punta di amarezza
nella voce di Louis era abbastanza evidente, soprattutto per chi, come
Med,
sapeva quando Absalom fosse tirannico. La vita dei fratelli Nott era
cambiata
drasticamente dopo la morte della madre; ricordava Christine come una
donna
gentile, non bella, ma pronta a tutto per rendere felice la vita dei
suoi
figli. Non semplice, non gloriosa. Felice e basta.
«Era qui che vi
immaginavo, infatti. Soltanto voi due».
«E rischiare che
mio padre minacciasse di diseredare anche lui? Non sarebbe stato un bel
regalo
di Natale per Theo».
La sua risata
non era per niente divertita, ma quando Louis si voltò
trasportando il bricco
con il tè il suo volto era rilassato. Versò in
una tazza la bevanda ambrata e
fumante e gliela porse, lasciando che Med si servisse da sola dei
consueti
cinque cucchiaini di zucchero. Con la coda dell'occhio, lei lo vide
sorridere
fra sé.
«Si può sapere
perché sembri così contento?» si decise
a chiedergli con un sopracciglio
alzato.
«Domani è
Natale
e tu sei qui con me».
Una risposta
dato in un modo talmente diretto e noncurante che le guance di Med
avvamparono all'improvviso.
Diede la colpa al calore del fuoco lì vicino.
«Mi sarebbe
piaciuto esserci domani, ma...».
«Diane non te
l'avrebbe mai permesso, lo so».
«Stavo per dire
che non avevo trovato un treno. Di quel che pensa quella stronza me ne
frega
poco».
«Smettila. È
tua
madre e ti vuole bene. Non prendertela se si vergogna della sua
scelta».
«Se ne è
pentita».
«No, se ne
vergogna e basta, altrimenti avrebbe già chiesto il
divorzio. Ha sposato un
Babbano, un'onta per i suoi amici, ma un bene per lei. E per
me». Louis le
sorrise per l'ennesima volta nel giro di un'ora e Med socchiuse le
palpebre,
sospettosa.
«Di' un po',
perché sei così carino con me oggi?».
«Non saprei...
Forse perché non ti vedo da quasi quattro mesi... o forse
perché mi sento in
colpa di non avere con me il tuo regalo. Non ho neanche pensato di fare
un
salto a Slough, sono così preso dal lavoro da aver perso la
cognizione del
tempo».
«A proposito,
perché non lo scarti?». Indicò con un
cenno del capo il pacchetto bagnato
accanto alla tazza di Louis. «Ma prima ti conviene
asciugarlo».
«Detto fatto».
Un colpo di bacchetta e la carta da regalo tornò come nuova.
«Quasi un peccato
doverla rompere...». Scartò il pacchetto e rimase
senza parole quando ne scorse
il contenuto.
Nascosta dietro
il tè, Med gongolò. «Scommetto che non
te l'aspettavi».
«Guida
completa ai Dugbog: riconoscerli,
nutrirli e curarne le ferite» lesse Louis ad alta
voce. «Lo stavo cercando
da un sacco!».
«Diane sarà
un'aristocratica con la puzza sotto il naso, ma ha la sua biblioteca.
Mi hai
scritto di avere riconosciuto le creature del Trym come Dugbog e mi
sono
ricordata di averlo. Può esserti utile, credo. È
di Dylan Marwood, quello
fissato con i Maridi».
Come da copione,
Louis la stava ascoltando solo in parte: si rigirava il libro tra le
mani,
sfogliandolo rapidamente e soffermandosi ogni tanto su qualche disegno
dettagliato dei Dugbog. Tipico dei Nott.
Stava perdendo il conto di quante volte l'avesse pensato.
Louis inforcò
gli occhiali e lesse meglio un paragrafo che sembrava interessarlo
particolarmente. «Lo sapevo! Scamandro sosteneva che
abitassero solo le zone
paludose, ma dovevano essere
Dugbog... Ci ho quasi rimesso un piede!».
«Sono felice che
ti piaccia».
«Piacermi?».
Finalmente Louis sollevò lo sguardo dal libro.
«Altro che piacermi, già lo
adoro quasi quanto...». Si interruppe di colpo,
sospirò e si tolse gli
occhiali. «È un regalo bellissimo, grazie. Temo
che il mio non sia allo stesso
livello».
«Spero che lo
sia, o aspetta che possa fare magie fuori da Hogwarts e
vedrai» lo ammonì Med.
Louis sorrise e
cambiò discorso, tornando a sedere. «E... ehm...
cos'hai preso ad Adrian?».
«Roba per il
Quidditch, niente di speciale. Però so che anche lui
l'apprezzerà».
«Come sta
andando tra voi? Nelle lettere non ti dilunghi troppo».
«E ci credo: il
programma di Aritmanzia di quest'anno è fantastico, sei
l'unico che non mi
prende per scema quando ne parlo! Perfino Adrian si annoia dopo un
po'...
Preferisce parlare di quella roba là, Cacciatori, Pluffe,
Boccini... e allora
lo costringo a pomiciare, almeno la smette».
Una
relazione invidiabile,
pensò cupamente. In realtà le cose tra di loro
andavano piuttosto bene, per
essere la sua prima storia d'amore: si vedevano dopo le lezioni,
passavano del
tempo insieme nella sala comune di Serpeverde, in attesa che il tempo
all'esterno riscaldasse, e si erano promessi di incontrarsi entro
Capodanno.
Med non era sicura di come dovesse svilupparsi una relazione, ma come
inizio
non sembrava male.
«La prossima
volta niente giocatori di Quidditch, eh?»
ridacchiò Louis, tenendo lo sguardo
stranamente ancorato alla sua tazza di tè.
«Mi stai
augurando che questa non sia la volta buona?».
Ora sembrava
imbarazzato. «No... Voglio dire, è il tuo primo
ragazzo, no? Raramente il primo
resta per sempre. Se Adrian ti piace molto, spero per te che sia una
bellissima
eccezione alla regola. Lungi da me augurarti il contrario».
Sorrideva, ma una
strana sensazione nello stomaco di Med le suggeriva che Louis non
stesse
dicendo tutta la verità.
*****
3 gennaio 1992
“Cara Fera,
sono davvero,
davvero, DAVVERO desolato per il disguido coi regali di Natale.
Davvero. Se
avessi immaginato che mi avresti comprato proprio la Guida ai castelli infestati di
Scozia e Irlanda mi sarei guardato
bene dal regalartela a mia volta. Vedi perché odio le
sorprese? È già il terzo
Natale che succede una cosa simile!”
Seguivano due
pagine di minuziosa descrizione delle vacanze trascorse da Percy a
Hogwarts,
compresa una lunga filippica contro gli scherzi di Fred e George (“Toglierei
loro decine di punti, se solo non significasse sottrarli alla mia
stessa Casa!”)
e un resoconto completo degli sviluppi nella sua storia con Penelope
– cioè nessuno, salvo uno
striminzito ed imbarazzato
scambio di auguri via gufo.
“Sarò ad
attendere gli studenti alla stazione di Hogsmeade. Ci vediamo
lì? Spero di
vedere anche Penelope, ma dati i nostri impegni come Prefetti la cosa
non è
assicurata. A tal proposito, ti invio anche i saluti di Edmund: lui
è stato
assegnato all’accoglienza degli studenti alla scuola, quindi
mi ha detto di
dirti che vi incontrerete lì.
È simpatico, ma
vorrei che si trovasse un gufo tutto suo con cui spedirti messaggi.
Ti auguro di
fare buon viaggio!
A presto, P.
PS: Voglio
sperare che tu abbia STUDIATO, in questi giorni. Casomai te ne fossi
dimenticata, a giugno abbiamo i G.U.F.O.”
Sbuffando per
l’ultima frase, Fera piegò la lettera e la ripose
nel contenitore dove teneva
la corrispondenza, poi prese un foglio di pergamena e una bic e
pensò a come rispondere.
Le sue vacanze invernali erano state molto meno interessanti di quelle
di
Percy, ma era comunque contenta di averle trascorse a casa invece che a
Hogwarts. Alla fine, scrisse una lettera molto più breve di
quella del suo
loquace amico: parlò delle nevicate continue e delle
passeggiate con suo padre
nei rari momenti in cui il tempo dava loro tregua, della messa di
Natale cui
non sarebbe mai potuta mancare (“Non finché vivo
io!”, aveva detto nonna
Brigit, per poi chiederle se “prendeva i
sacramenti” in quella orrenda scuola
scozzese dove studiava: e Fera aveva risposto di sì,
sperando intensamente che
le confessioni dal Frate Grasso fossero valide come se il fantasma
fosse vivo),
dei pranzi e cene coi parenti che non vedeva da tempo e del sollievo di
esprimersi finalmente in gaelico, anche se ogni tanto le scappavano
intere
frasi in inglese (con gran disappunto dei nonni, fieri membri della
comunità Gaeltacht di
Rathcairn). Accennò anche
alla difficoltà, sempre crescente, di non parlare di magia
in quelle occasioni,
sebbene non fosse sicura che Percy avrebbe capito: lui non aveva e non
avrebbe
mai provato qualcosa del genere. Evitò accuratamente di dire
che non aveva
toccato libro, in quei giorni, e gli diede appuntamento alla stazione
di
Hogsmeade.
Anche
se avrei preferito ci fosse Ed.
Il pensiero di
Edmund la riscaldò. Aveva scambiato un paio di lettere anche
con lui, durante
le vacanze, e sapeva già dei suoi impegni per il giorno del
ritorno a Hogwarts;
l’idea che avesse voluto confermarglieli anche attraverso
Percy, tuttavia, le
parve buffa e gradevole.
Scese le scale,
persa nei pensieri, e per poco non andò a sbattere contro
suo padre.
«Ehi! Sei di
fretta?». Niall non parlava irlandese, ma in presenza di sua
figlia marcava
comunque il proprio accento: sapeva che presto le sue orecchie si
sarebbero
disabituate ai duri suoni della sua terra, perciò cercava di
ritardare quel
momento il più possibile.
«Non troppo.
Vado solo alle poste prima che chiudano».
«Capisco. Ti
serve un francobollo o… Ah, già».
L’uomo si batté una mano sulla fronte.
«Le tue poste».
«Già».
La
ragazza ridacchiò prima di aggiungere: «Che non
richiedono francobolli, al
contrario delle tue
poste».
«Le mie
poste? Signorina, non mi starai mica
dando del volgare Babbano? Sono padre di una strega, io!» La
punzecchiò
scherzosamente con un dito, infine la lasciò passare.
«Puoi controllare se è
arrivata la mia copia del Cavillo?
Hanno annunciato un numero speciale per Natale!» le
gridò, un istante prima che
Fera si chiudesse la porta alle spalle.
L’ufficio
postale magico occupava uno sgabuzzino all’interno delle
Poste babbane: più che
sufficiente, visto che a utilizzarlo erano solo Fera e una famigliola
di maghi
residente nel paese accanto. Per raggiungerlo non ci volevano
più di quindici
minuti a piedi attraverso il centro città, ma la ragazza
allungò il tragitto
percorrendo la strada che tagliava per i campi e costeggiava poi il
fiume
Boyne. Le piaceva camminare, soprattutto nel suo paese: Trim non aveva
nulla in
comune coi paesaggi montagnosi dei dintorni di Hogwarts,
l’altura più imponente
era costituita dalla collinetta dove sorgeva il Castello e tutto il
resto erano
strade dritte, case bianche e soffice erba verde. O neve, come in quel
momento.
Camminò senza
fretta, fermandosi di quando in quando per riprendere fiato e guardarsi
attorno: voleva stamparsi nella mente le vedute di casa sua, in modo da
ricordarli quando fosse tornata a Hogwarts.
Poco prima di
tornare verso il centro di Trim, Fera si accostò a una
villetta che conosceva
bene. La casa, abbandonata da anni, si trovava in riva al fiume e ben
distante
dalla strada; l’incuria era evidente, specie dal tetto
sfondato e dal giardino
incolto. Le finestre erano state tappate dall’interno con
pezzi di compensato,
e le assi che componevano i gradini d’ingresso erano state
divelte da qualcuno
in cerca di legna. Unico elemento che rendeva quel posto degno di una
seconda
occhiata era il grande, maestoso albero di Giuda a sinistra della
facciata, i
cui fiori color rosa vivo contrastavano meravigliosamente con la neve
circostante.
Peccato
che i miei non possano vederlo.
Sorrise tra sé,
ricordando il momento in cui la sua famiglia aveva capito che in lei
c’era
qualcosa di non completamente Babbano.
Un qualsiasi abitante di Trim, guardando la casa in riva al fiume,
avrebbe
visto l’albero di Giuda nero e rinsecchito come il resto
delle piante attorno;
un mago o una strega, invece, si sarebbero goduti l’effetto
dell’incantesimo
eseguito, un secolo prima, dall’antica abitante della
villetta, per mezzo del
quale l’albero rimaneva fiorito in ogni stagione e con ogni
tempo atmosferico.
La prima volta che Niall e Mairie avevano portato Fera a passeggiare
accanto al
fiume, erano rimasti un po’ sconcertati nel vedere la loro
bambina sorprendersi
e indicare invisibili fiori rosa dove non c’erano altro che
rami secchi; il
pensiero che si trattasse di una fantasia era stato scartato di fronte
all’insistenza della piccola, e per un po’ avevano
evitato di avvicinarsi
ancora a quella casa affinché quella stranezza non si
ripetesse. Diventata
abbastanza grande da andarsene in giro da sola, però, Fera
era tornata più e
più volte a trovare l’albero, e solo
l’arrivo della McGranitt aveva dato
finalmente un senso a quella che ormai riteneva
un’allucinazione.
Restò a guardare
l’albero che fioriva solo per lei, finché non
udì suonare le campane della
chiesa: mancava solo mezz’ora alla chiusura
dell’ufficio postale. Con un
sospiro, riprese la strada. Se non avesse risposto in tempo alla sua
lettera,
quell’antipatico del suo migliore amico sarebbe stato capace
di rimproverarla.
*****
7
gennaio 1992
Alla stazione di
King’s Cross, la folla che occupava il binario 9 e
¾ era molto ridotta rispetto
a settembre. Tra quelli che avevano scelto di passare le feste in
famiglia
c’erano Catherine e Paul, che ora, con aria professionale (ma
non troppo), aiutavano
i ragazzi ad issare i bagagli e a salire ordinatamente sul treno.
«Hai visto
Fera?» chiese Catherine, a un certo punto.
«Non ancora».
Paul si scansò la frangia dagli occhi e sorrise a un
gruppetto di piccole
Grifondoro, che si allontanarono ridacchiando. «Dici che
dovremmo tenerle un
posto?».
«Nah, la faremo
sedere nel nostro scompartimento, come a settembre. E questa volta non
ci sarà
Percy a romperci le scatole». Catherine osservò
altre due primine, stavolta
Serpeverde, accostarsi a Paul per farsi aiutare con i bauli; pur
sapendo che lo
facevano solo per avvicinarsi al suo ragazzo, non se la prese
minimamente.
Da quando
avevano iniziato a frequentarsi, tre anni prima, Catherine era dovuta
venire a
patti con l’idea che il suo alto, biondo e in generale splendido Paul attirasse gli sguardi di
chiunque in ogni luogo.
All’inizio questo l’aveva infastidita e ingelosita,
ma aveva smesso di
preoccuparsene quando si era resa conto che Paul, pur consapevole delle
occhiatine languide e svenevoli delle sue compagne di scuola, ne era
del tutto
impermeabile. Niente riusciva a distoglierlo da Catherine, cui era
fedele con
una devozione straordinaria per un adolescente, e in questo era
ciecamente e
totalmente ricambiato.
«Mi sembra una
buona idea. Tanto ci sarà posto, gli altri sono a scuola
e…».
«... E Light se
ne starà fuori dalle palle, spero».
«Cathy!».
«Che
c’è? Sai
che non la sopporto».
«Lo so, tesoro,
ma...».
«Ehi, Fera! Fera!».
Facendosi largo a spintoni tra gli studenti, senza badare affatto alle
loro
proteste, Catherine raggiunse Fera e l'aiutò a trascinare il
baule. «Presto,
Paulie,» esclamò poi, «occupiamo lo
scompartimento prima che arrivi quell'oca!».
«Non dirmelo:
sta parlando di Penelope» disse Fera a Paul, che
sospirò.
Il vagone dove
entrarono era vuoto a eccezione di Diodora, la Prefetto di Grifondoro,
che li
salutò con un cenno del capo e si immerse subito nella
lettura del libro di
Rune avanzate. Fera non la conosceva granché bene; sapeva
che Percy non ci
andava molto d’accordo – come con gli altri
compagni di classe, del resto –
perciò non si era mai preoccupata di stringerci amicizia, ma
in quel momento
avrebbe tanto voluto sedersi accanto a lei e chiederle aiuto per
ripassare
Rune. Perlomeno, si sarebbe risparmiata la ramanzina di Percy sul fatto
che non
aveva aperto libro durante tutte le vacanze – ma che ci
poteva fare?
Concentrarsi, a casa, era impossibile, e poi passava talmente poco
tempo con i
suoi che non le andava di sprecarlo studiando. A cosa serviva, infine,
quando
la sua media in tutte le materie era più che decente?
Non
basta. Hai i G.U.F.O., quest’anno, le sussurrò una
parte di lei, quella che parlava con la voce di Percy. Devi
impegnarti di più, o farai una figuraccia e non otterrai mai
un
lavoro decente nel mondo magico. Non vorrai mica diventare un avvocato,
vero?
Scrollò il capo
per scacciare quei pensieri. Non le serviva la voce immaginaria del suo
migliore amico per farla sentire in colpa: presto avrebbe avuto a
disposizione
quella reale.
Una volta
sedutasi, Catherine si voltò a guardare Fera. Riconobbe
l’espressione che
l’amica metteva su quando si sentiva in colpa per qualcosa
(per Tosca, quella
ragazza era trasparente!); aspettò che si sedesse di fronte
a sé e poi attirò
la sua attenzione con un calcetto.
«Ehi, sei
riuscita a studiare durante le vacanze? Io no» aggiunse
subito, con un certo
orgoglio. «I miei genitori hanno portato me e Susan a New
York, abbiamo girato
per tutto il tempo…».
«Sul serio?».
Dimenticata la preoccupazione di poco prima, Fera interrogò
Catherine su ogni
particolare delle due settimane passate in America, a cominciare dalla
scomoda
Passaporta a forma di tagliola per volpi (chiaro segno che il passare
dei
secoli non aveva mitigato
l’astio tra
la Gran Bretagna e la sua vecchia colonia).
«… e se le
Torri
Gemelle sono grandi, non hai idea di cosa siano i loro sotterranei!
Susan ha
tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, quella fifona –
è incredibile che
una come lei voglia fare la Guaritrice! – ma io sono sicura
di aver visto
qualcosa, là sotto; sembrava una viverna, ma senza le
ali».
«Fantastico»
sospirò Fera. «E tu, Paul?».
«Niente di
speciale: sono andato a trovare i nonni a Copenaghen».
Lanciò un’occhiata a
Catherine. «Ormai non fanno che chiedermi di presentare loro
la mia ragazza, ma
lei non vuole mai accompagnarmi…».
«Per quale
motivo dovrei andare in Danimarca, se posso visitare New York e le sue
viverne?». Catherine rispose allo sguardo deluso di Paul con
una risata, poi
gli accarezzò il mento. «Verrò per le
vacanze di primavera. Va bene?».
Il ragazzo si
illuminò. «Davvero? Grande! Saranno
contentissimi!».
Rimasero a guardarsi
per qualche istante. “Per Tosca”, pensò
Catherine, per l’ennesima volta in vita
sua, “quanto mi piace
Paul”.
E dire che la
loro storia era iniziata nel più banale dei modi, ovvero con
un colpo di
fulmine. Erano al secondo anno, ora di Pozioni; all’epoca
Catherine aveva
appena incominciato a fare amicizia con quella pallina di timidezza che
era
Fera, e si erano messe in coppia per creare la pozione Antiacne; a un
certo
punto, Fera si era schizzata del pus di Bubotubero su un braccio ed era
dovuta correre
in infermeria, al che il professor Piton aveva messo Paul al suo posto.
Prima
di allora, lui e Catherine non si erano mai accorti l’uno
dell’altra, sebbene a
posteriori ciò sembrasse impossibile: entrambi erano belli,
biondi e
discendenti da alcune delle famiglie più ricche
d’Inghilterra. Erano evidentemente
fatti per stare insieme –
e tuttavia, c’era voluto mezzo baccello di Bubotubero addosso
alla povera Fera
perché ciò accadesse.
Meno di
ventiquattr’ore dopo, erano già inseparabili. Meno
di due giorni dopo, Fera era
diventata la loro migliore amica.
La porta dello
scompartimento si aprì di scatto, interrompendo il flusso di
ricordi di
Catherine. «C’è posto?» chiese
Penelope Light, affacciandosi.
«Oh, ciao!».
Fera le diresse un grosso sorriso e spostò lo zaino.
«Certo, siediti pure».
«Ciao» le fece
eco Paul, mentre Catherine si limitò ad alzare il mento.
Penelope parve
sorpresa: non doveva essersi accorta della loro presenza, prima di
aprire la
porta; rivolse alle due ragazze uno sguardo seccato e scosse la testa.
«No, grazie»
borbottò, e richiuse la porta con forza.
«Ma…che
è
successo?» chiese Fera, strabuzzando gli occhi. Non si
aspettava un rifiuto
così. «Le ho solo detto che poteva
sedersi!».
«Tranquilla, non
ce l’ha con te». Paul guardò Catherine
in modo eloquente. «Vero, Cathy?».
La ragazza
incrociò le braccia. «Oh, senti,
non
è colpa mia se ci stiamo antipatiche a vicenda».
«No, ma è
colpa
tua se è stata per quasi una settimana in infermeria. Le hai
aizzato contro un
Geranio Zannuto, ricordi?».
«Io?».
«Tu, o la tua
gemella segreta».
Catherine parve
oltraggiata. «Non è vero, non le ho aizzato contro
nulla! Quel Geranio ha fatto
tutto da solo!».
«Ah-ha».
«Fera, diglielo
anche tu!».
«Ehi, Diodora,
posso studiare insieme a te?» chiese in fretta Fera alla
Prefetto di
Grifondoro, spostandosi accanto a lei. Fu una mossa un po’
vigliacca, ma – le
ripeté la voce di Percy nella sua testa – lei doveva studiare per i G.U.F.O., e
inoltre nessuno sano di mente si
sarebbe mai fatto coinvolgere in una discussione tra Paul e Catherine.
Gli altri due la
guardarono male, poi ripresero a parlare a bassa voce. «Dimmi
la verità» chiese
Paul, «davvero Penelope ti sta antipatica solo
perché piace a Percy?».
«Non solo. Anzitutto,
non mi va che prenda in giro i Tassorosso».
«È successo
una
volta, mesi fa! E poi, tu prendi in giro i Grifondoro!».
«Ma quelli meritano
di essere presi in giro!».
«Cathy, avanti.
Ammettilo».
Catherine fece
per negare ancora, ma con Paul era inutile insistere. «Forse
sì» bofonchiò
allora. «Non mi va che si metta con Percy.
È… inadatta».
Paul rise. Se
c’era qualcuna, in tutto il mondo, adatta a quel secchione
vanesio e
perfezionista di Percy, quella era proprio Penelope. Lo disse, ma
Catherine
scosse il capo.
«Non sono
d’accordo». Lanciò un’occhiata
a Fera, ormai concentrata nel ripasso con
Diodora. «L’hai mai visto con Fera? È
praticamente un’altra persona».
«Fera?». Anche
Paul la guardò. «Ma va’. Sono come
fratelli, quei due. Sarebbe troppo strano».
«Sarebbe
romantico, invece. Gli amici d’infanzia che scoprono di
amarsi, si sposano e
vanno ad abitare vicino agli altri loro amici, ossia noi
due». Catherine
sospirò, e il suo sguardo si perse verso un punto lontano.
«Avrebbero dei figli
intelligentissimi».
«… hai detto figli?!».
Catherine annuì.
«Figli. Che sarebbero amici dei nostri, giocherebbero insieme
a Quidditch e mi
chiamerebbero zia Cathy».
«Mi sa che
stai…».
«Verrebbero a
cena da noi tutti i mercoledì, e durante le vacanze
andrebbero in Irlanda e noi
spediremmo i nostri marmocchi con loro!».
«… esagerando
parecchio».
La Tassorosso lo
ignorò, lanciata com’era nel suo sogno ad occhi
aperti.
*****
«Ho scoperto che
Harry è proprio incapace nel gioco degli scacchi».
«Harry Potter?».
Percy annuì.
«Mio fratello Ron lo ha battuto per non so quante volte di
seguito. E dire che
io l’ho anche aiutato!».
«L’hai aiutato
a
perdere, probabilmente».
Fera rise e
Percy fece una smorfia. «Avrebbe perso comunque»
aggiunse poi, in tono lagnoso.
«Non ho dubbi».
Con un gesto
identico, si coprirono meglio coi mantelli. Lo strato di neve sotto i
loro
piedi era ancora consistente, ma non abbastanza da impedire una
passeggiata in
riva al Lago Nero; il che era proprio ciò che serviva a
Percy per chiacchierare
senza venir distratto dai suoi doveri di Prefetto, come ammonire gli
studenti o
cercare di sfuggire a Pix. Le lezioni erano già
ricominciate, ma gli impegni
dell’uno e dell’altra – nonché
l’ansia di rivedere i rispettivi interessi
amorosi – avevano impedito ai due amici di ragguagliarsi
decentemente sulle
vacanze appena trascorse, fino a quel momento.
«Ah, ho già
iniziato a leggere la Guida che mi
hai regalato» disse Fera, dopo qualche secondo.
«Sono un po’ delusa, pensavo
che anche il Castello di Trim fosse infestato».
«Vivi nel posto
meno infestato d’Europa, fattene una ragione».
Percy arrossì. «Mi dispiace
davvero tanto per averti preso un regalo uguale al mio».
«È il brutto
di
avere gli stessi gusti in fatto di libri» replicò
Fera, ridendo.
«Ma tu, almeno,
mi hai regalato un libro nuovo».
Stavolta la
ragazza non rise. «E allora? Sai che io amo i libri usati,
hanno più storia
addosso». Scalciò via un po’ di neve.
«Magari il mio regalo è costato di più,
ma il tuo ha più valore».
Percy sorrise.
Con Fera non aveva mai fatto mistero delle sue condizioni economiche,
ma gli sembrava
sempre così strano che lo accettasse senza problemi.
«Comunque, tieni» disse,
tirando fuori una mano dalla tasca del mantello. «Per
compensare».
Fera stese la
propria mano e Percy ci piazzò su una monetina
d’argento. «Cos’è?».
«Ti piace?».
«Molto!». La
soppesò, la prese tra le dita e
l’esaminò meglio. «Sembra antica. Dove
l’hai
trovata?».
«Era nella mia
fetta di dolce al pranzo di Natale. Mi ci sono quasi rotto un
dente…». Detto
ciò, Percy si morse la lingua. Avrebbe dovuto omettere quel
particolare, lo sapeva.
Difatti,
l’espressione curiosa di Fera si mutò in
orripilata. «Questa… è stata nella tua
bocca?».
«L’ho lavata
dieci volte, lo giuro!».
«Sei… sei
disgustoso. Riprenditela».
Mesto, il
ragazzo si rimise la monetina in tasca. «Prima o poi ti
farò un regalo decente»
mugugnò.
«Dovresti farlo
a Penelope, piuttosto» replicò Fera.
«Davvero non le hai mandato nulla? Non
posso crederci!».
Percy fece
spallucce. «E allora? Nemmeno lei mi ha fatto un
regalo».
«Non importa!».
Il ragazzo
sbuffò e accelerò il passo. «Sarebbe
stato cavalleresco, da parte tua»
insistette Fera, marciando più rapida. «Avresti
dimostrato che ci tieni a lei,
che la pensi e che…».
«Fawley ti ha
fatto un regalo?» domando lui a bruciapelo.
Fera esitò.
«N-no, ma…».
«Tu
gli hai fatto un regalo?».
«No…».
«Vedi? A me
sembra del tutto normale».
«Ma che
c’entra?
Ed e io non… Tu e Penelope vi frequentate da una vita,
sarebbe stato giusto
scambiarvi un pensiero per Natale!».
Percy sbuffò di
nuovo e si fermò, dando modo a Fera di chinarsi per
allacciarsi una scarpa.
«Beh, frequentare… Non siamo mai nemmeno usciti
insieme, tu e Ed invece sì».
«Ehi, non
incolpare me se non hai ancora
chiesto un appuntamento a Penelope!». Si rialzò.
«Dovresti darti una mossa,
sai?».
«Lo farò.
Appena
ci sarà l’occasione giusta».
Lo sguardo di
Fera era scettico, e per evitarlo Percy chinò il capo. Di
occasioni ne aveva
avute, in effetti, ma per quanto si fosse preparato al momento di
invitare
Penelope da qualche parte – anche ad una semplice passeggiata
nel parco – alla
fine non ce l’aveva mai fatta. Era più forte di
lui. Non aveva mai affrontato
una cosa del genere, la sola idea di sbagliare e rovinare la propria
immagine
davanti a Penelope lo atterriva.
Fera gli si
avvicinò. «Cos’è? Adesso mi
tieni il muso?» chiese, e senza alcun preavviso gli
diede una spallata, sbilanciandolo. Percy si rimise subito dritto e,
automaticamente, rispose alla spallata con un colpo più
forte. Un secondo dopo,
lui e la sua amica erano spalla contro spalla, i piedi puntellati a
terra, e ciascuno
spingeva cercando di far perdere l’equilibrio
all’altro.
«Cadi,
maledizione! Perché non cadi?!».
«Perché mi
sono
allenato con Charlie, ecco perché!».
Si staccarono e
ripresero subito a spingersi, incuranti della neve scivolosa. Era un
gioco che facevano
da quando avevano undici anni: Percy era avvantaggiato
dall’altezza, Fera
dall’essere più grossa, perciò vittorie
e sconfitte erano equamente
distribuite.
«Irlanda vince!
Irlanda vince!» strillò Fera, quando finalmente
sentì Percy cedere; un istante
dopo, tuttavia, si ritrovò a faccia in giù nella
neve.
«Hai barato!»
gridò, non appena riuscì a girarsi sulla schiena.
«Brutto figlio di…».
«Ciao,
Penelope!».
Fera si rimise
subito in piedi, giusto in tempo per vedere Penelope avvicinarsi.
Capì al volo cos’era
successo: quel deficiente le aveva
fatto mancare la controspinta e l’aveva praticamente buttata
a terra, solo
perché la ragazza dei suoi sogni non lo notasse in
quell’atteggiamento
infantile.
Merlino,
che idiota.
Penelope li
raggiunse. «Ciao» fece, rivolta solo a
Percy.«Fawley ti sta cercando, dice che
avete un appuntamento» disse poi a Fera, con una nota strana
nella voce.
Fera, che si
stava ripulendo il mantello dalla neve, al sentire ciò si
immobilizzò. Cercò di
ricordare come e quando si era data appuntamento con Ed, poi si
batté una mano
sulla fronte. «Cavolo, oggi c’è il club
di lettura!». Si ripulì più in fretta,
poi si avviò verso il castello. «Ci vediamo
stasera a cena!».
Percy ricambiò
il saluto agitando una mano. Penelope, invece, non fece nemmeno quello.
*****
23 gennaio 1992
Da quando le
vacanze di Natale erano terminate, le settimane avevano ricominciato a
scorrere
lentamente tra lezioni noiose e cinquanta centimetri di pergamena per
il giorno
seguente. Oltre ad Aritmanzia, le sola cosa che rendesse il tempo di
Med a
Hogwarts più sopportabile dal diploma di Louis erano i
pomeriggi passati con
Adrian; a settembre le era sembrato che si prospettasse per lei un anno
infelice, perennemente in compagnia di Lobelia e Grace, ma
dall'appuntamento a
Hogsmeade del novembre passato le cose avevano cominciato a girare
diversamente.
Lobelia e Grace
erano sempre presenti nella sua vita, fortunatamente però in
maniera limitata:
Med aveva iniziato a uscire con gli amici di Adrian, un gruppetto di
Serpeverde
che non parlavano solo di Quidditch – perlomeno in sua
presenza. Aveva sempre
saputo di trovarsi meglio in mezzo ai ragazzi e forse era solo quello
di cui
aveva bisogno: meno chiacchiere sull'amore e più bullismo
nei confronti di
quegli sfigati dei Tassorosso. O dei Grifondoro.
Ce n'era uno, in
particolare, su cui Med, Adrian e i loro amici si divertivano a
sfoggiare la
legge del più forte.
«Ehi, Paciock,
ti sei perso anche stavolta?».
Il ragazzo
paffutello che Med aveva preso di mira già a King's Cross
sussultò, si guardò
intorno e rabbrividì quando riconobbe il gruppetto di
Serpeverde. Spostò di
nuovo lo sguardo di qua e di là, forse per accertarsi di non
essere solo.
Speranze vane.
«Aspetti che
qualcuno accorra in tuo aiuto?» lo canzonò Ariel,
un ragazzo del terzo anno con
una fossetta sul mento. Si guardò in giro anche lui, poi si
strinse nelle
spalle. «Peccato, non vedo Potter da nessuna parte».
Med ridacchiò.
Se c'era una persona che sopportava meno dei Weasley, quello era il famoso Harry Potter – che
non a caso
girava sempre in compagnia del più piccolo dei Weasley. Fra sfigati si riconoscono facilmente,
pensò. Potter si dava delle
arie che in un primino stonavano parecchio; era pur sempre un
Grifondoro,
tuttavia, e con la leggenda che si portava dietro non avrebbe potuto
comportarsi altrimenti. A Med non andava giù comunque, ma
prendersela
direttamente con lui – come faceva il ragazzino di cui la
sorella di Lobelia
era tanto invaghita – lo avrebbe solo reso ancor di
più al centro
dell'attenzione, sostenendo la falsa convinzione che i Serpeverde erano
capaci
di prendersela solo con i più piccoli e deboli. Non era
vero: i Serpeverde
volevano divertirsi e basta. Se poi a farne le spese era un bambino del
primo
anno con la bocca ancora sporca di latte... peggio per lui.
«Che fai,
Paciock? Non rispondi?». A farsi avanti questa volta fu
Caius, uno dei
battitori della squadra di Serpeverde. La sua mole lo rendeva
minaccioso anche
in assenza di mazza e Bolidi.
Paciock arretrò
di qualche passo, incontrò una radice sporgente e cadde a
terra. Med scoppiò a
ridere.
«Non sei neanche
in grado di guardarti i piedi, ragazzino?». Lo
canzonò, avvicinandosi tuttavia
a lui per porgergli una mano. «Da' qua, ti aiuto a rialzarti
prima che faccia
altri danni».
Giustamente,
Paciock non sembrava convinto della sincerità di Med, ma
Caius aveva appena
fatto scrocchiare le grosse dita ed era meglio vedersela con una
ragazza del
quarto anno piuttosto che con un battitore che non vedeva l'ora di
fargli
saltare le cervella. Afferrò la sua mano con le dita
sudaticce e,
miracolosamente, si ritrovò in piedi.
«Gr...
grazie...» balbettò incredulo. Rimase immobile,
temendo improvvisi brutti tiri,
ma non accadde niente. I Serpeverde lo fissavano. «Allora...
ehm... io
vado...».
Quando, tuttavia,
il ragazzino si abbassò per afferrare la borsa che era
caduta insieme a lui,
Med esclamò: «Relascio!».
Paciock rischiò
di inciampare, preso alla sprovvista. Tra le risate dei presenti,
tentò
nuovamente di avvicinarsi alla borsa, ma ancora una volta Med
pronunciò la
formula dell'Incantesimo di Esilio.
«Relascio!».
Altri due metri.
Altri passi incerti.
«Relascio!
Relascio! Relascio!».
La borsa si era
aperta, lasciandosi dietro a ogni balzo un libro o una piuma, un
calamaio che
si rovesciò sul prato bagnato, un rotolo di pergamena e
perfino una Ricordella
che rotolò giù per la discesa. Il gruppo di
Serpeverde scoppiò a ridere ancor
di più mentre osservava il ragazzino rincorrerla e
inciampare, il volto rosso
quasi quanto lo stendardo della sua Casa.
Ariel si teneva
lo stomaco, piegato in due. Anche Caius e Miles, il ragazzo di Lobelia,
erano
in preda all'ilarità. Med gongolò,
complimentandosi con se stessa per essere
riuscita, ancora una volta, a conquistare il rispetto del suo nuovo
gruppo di
amici.
«Potresti anche
dargli un po' di tregua» finse di sgridarla Adrian, che aveva
appena appoggiato
una mano sulla sua spalla. «È pur sempre un
marmocchio».
«Ha due anni
meno di te» puntualizzò Med, girandosi per
fronteggiarlo. «Non tirartela
troppo».
«Avrà anche
due
anni meno di me, ma non ha una ragazza bella come te».
Questa volta fu
Med quella presa alla sprovvista. Avvampò, stupendosi
dell'audacia di Adrian –
sebbene avesse scoperto che, dopo essere diventati una coppia, il
fratello di
Grace si era dimostrato capace di superare la timidezza ed esprimere ad
alta
voce i propri sentimenti.
Non ebbe il
tempo di accorgersi che Adrian la stava baciando. Udì i loro
amici schernirli e
lanciare esclamazioni di cui lei li avrebbe presto fatti pentire, ma
per il
momento scelse di infischiarsene.
*****
12 febbraio 1992
La partita si
stava avvicinando – mancavano ancora diverse settimane, ma
non importava.
I G.U.F.O. si
stavano avvicinando – mancavano addirittura mesi, ma non
importava neanche
questo.
Il punto era che
il mondo intorno a lui andava avanti e lo faceva anche la sua vita,
tuttavia
Oliver non riusciva ancora a capacitarsi che quella in cui si trovava
era la
realtà. C'erano le lezioni, gli allenamenti e i pomeriggi a
Hogsmeade, c'erano
le vacanze appena terminate e gli amici da frequentare ogni giorno. Non
importava neanche quello: Oliver si sentiva estraneo a tutto
ciò.
Perlomeno in
quel quinto anno di Hogwarts aveva accettato qualcosa, e
cioè che il motivo di
quella sua apatia non era Charlie; lo era stato, lo era ancora in parte
– ma,
per l'appunto, in parte. Si sentiva
semplicemente spaesato, senza Charlie, senza Tonks, senza il tempo
libero
passato con loro. Ora il castello sembrava un posto mai visitato prima.
Oliver aveva
cercato di combattere quell'apatia e continuava a farlo intensificando
gli
allenamenti, senza però riscuotere successo nell'ambito
scolastico. E i voti ne
avevano nuociuto.
«Hai saltato
Incantesimi».
Si sarebbe detto
che la sua coscienza aveva la voce di Percy Weasley, e forse era
proprio così.
«Non mi sentivo
bene» mentì prontamente Oliver, sebbene si fosse
appena reso conto di avere
perso una lezione.
Merda.
«Sei stato in
infermeria?».
Annuì. «Ora
sto
meglio. Cos'ha spiegato Vitious?».
«Ci siamo
esercitati sull'Incantesimo di scavo. Non ho ancora ben chiaro il
motivo di
questa scelta,» aggiunse Percy sistemandosi gli occhiali sul
naso, «ma il
professor Vitious ritiene che dovremmo imparare a usarlo al pari dello
Schiantesimo. Eravamo in pochi a riuscirci, a dire il vero».
Oliver aveva
notato come il petto di Percy si era gonfiato quando si era incluso in
quel
ristretto gruppo di vincenti – di cui sicuramente aveva fatto
parte anche
quella ragazza del loro anno con cui Percy stava sempre insieme.
Com'è
che si chiama?
«Hai bisogno di
esercitarti?».
«Uh?».
«Con
l'Incantesimo di scavo, intendo dire. Posso mostrarti il suo corretto
funzionamento».
Mi
spiace, Percy, ma ormai so scavarmi una fossa benissimo da solo. Si morse la
lingua, prima di rispondergli. «Grazie, non serve. Ho
l'allenamento fra poco e
poi hai ragione, non capisco neanch'io perché Vitious ci
faccia studiare un
incantesimo del genere...».
«Posso aiutarti
con altri incantesimi. So che all'ultimo tema hai preso una
S».
Già, Percy
Weasley era davvero la fastidiosa e
immortale voce della sua coscienza.
«Non dovresti
impicciarti dei miei voti» si indispettì Oliver,
cominciando a perdere la
pazienza.
«E tu non
dovresti lasciarli in bella vista nel dormitorio».
«Fatti gli
affari tuoi, Percy» concluse mentre si avvicinava alle scale
a chiocciola,
determinato ad appropriarsi della scopa prima che il suo compagno
potesse farlo
sentire addirittura più in colpa con se stesso.
*****
«Quest'oggi, ci
eserciteremo sulla Pozione Obliviosa. Chi di voi sa dirmi che cosa
comporterebbe berla?».
Senza che
nessuno, in quell'aula, se ne meravigliasse, il primo braccio a
scattare in
alto fu quello di Hermione Granger. E, senza che nessuno si
meravigliasse anche
di quello, Piton fece finta di non vederlo. Con il mento sollevato, il
suo
sguardo vagò sul resto della classe, soffermandosi
più di una volta sul duo
composto da Potter e Weasley; incredibilmente, quel pomeriggio aveva
scelto di
dare loro tregua. Ma non di soddisfare la saccenza e la
vanità della Granger.
«Nessuno?».
Alla fine
Theodore sospirò e alzò anche lui la mano: odiava
essere al centro dell'attenzione e sarebbe stato veramente grato a
Piton se un
giorno avesse deciso che bastava mescolare pozioni in silenzio per
guadagnare
punti per la propria Casa, ma erano già passati tre minuti e
non aveva intenzione
di aspettare ancora per potere imparare la Pozione Obliviosa. Non
quando sapeva
che veniva spesso scelta per gli esami di fine anno.
Piton annuì
silenziosamente verso di lui. Il braccio della Granger ricadde verso il
banco e
Theodore fu certo di averla udita sbuffare.
«La Pozione
Obliviosa ha un effetto molto simile all'Incanto Oblivium»
cominciò a recitare.
«Chi la beve dimentica immediatamente gli eventi delle ultime
ore. A differenza
dell'Incantesimo di Memoria, tuttavia, non è possibile
modificare l'arco di
tempo che verrà scordato o manipolare la memoria a proprio
piacimento».
«Ed è per
questo
motivo che l'Incantesimo di Memoria non viene insegnato prima del
secondo anno»
concluse Piton in tono piatto. «Cinque punti a
Serpeverde».
Draco, che era
seduto davanti a lui, si voltò per rivolgergli un sorriso
compiaciuto. Theodore
lo accolse con una smorfia di ringraziamento, niente di più:
conquistare punti
per Serpeverde era una conseguenza di poca importanza; ciò
che lui desiderava
realmente era imparare a usare qualsiasi incantesimo e pozione per la
memoria,
in modo da dimenticarsi ogni singolo momento in famiglia da quando sua
madre
era morta.
Fu per questo
grato del silenzio di Blaise, suo vicino di banco, che non trovava
niente di
encomiabile nell'imparare ciò che dovevano comunque
studiare. Il sapere veniva
prima di tutto, poco importava se manifestato o meno –
sebbene, nel profondo,
Theodore fosse convinto che Blaise non aspettava altro che stupire i
professori
ai G.U.F.O. e ai M.A.G.O., dimostrando loro la grandezza del suo
cervello e
mettendo finalmente a frutto i propri studi. Ambizioso, certo, ma
dopotutto era
un Serpeverde.
«Aprire il libro
a pagina centosessantadue» aveva ripreso a parlare Piton.
«Gli ingredienti che
vi serviranno si trovano accanto ai vostri calderoni. Mi aspetto che tutti voi riusciate nella preparazione
di questa semplice pozione». I suoi occhi si puntano su
Paciock, che si fece
piccolissimo.
Theodore aprì il
libro e cominciò a leggere. Accanto a lui, Blaise aveva
già accesso il fuoco
del calderone e stava attendendo per aggiungere le radici di valeriana.
Sapevano entrambi, però, che i loro sforzi di preparare la
pozione migliore
sarebbero stati vani: la Granger avrebbe concluso prima degli altri,
regalando
al proprio orgoglio un liquido color amaranto.
La pozione di
Theodore, infatti, poteva vantare soltanto una sfumatura carminia, ma
era
comunque migliore di quella di Paciock, verde vomito e piena di
gigantesche
bolle che minacciavano di scoppiargli in faccia, e dell'intruglio
melanzana di
Draco. Il volto del suo compagno era dello stesso colore.
«Spero che
qualcuno di voi abbia eseguito alla perfezione la
preparazione» esordì Piton,
fermo davanti al calderone di Paciock «perché
avrei bisogno di un'ottima
Pozione Obliviosa per dimenticare questo incommentabile
disastro».
Quelle parole
fecero tornare in fretta il sorriso a Draco, che diede una gomitata a
Tiger,
gongolando per un risultato che, a conti fatti, non era terribile come
quello
del Grifondoro.
La pozione
immediatamente successiva apparteneva alla Granger, ma Piton non disse
nulla,
guardandola a malapena.