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Autore: FeraNoir    14/06/2016    1 recensioni
1 settembre 1987: Con la netta sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla barriera che separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s Cross.
1 settembre 1988: Pioveva. Gli studenti del primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per la prima volta, e pioveva. Di male in peggio, realizzò Med.
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Dal suo primo anno a Hogwarts, le avventure di Harry Potter sono diventate di dominio pubblico. Ma gli altri personaggi? Quelli che non lo accompagnavano a recuperare pietre filosofali e distruggere Basilischi, quelli che vengono solo menzionati di tanto in tanto, cosa stavano vivendo in quel periodo?
Il Prefetto Percy sta studiando febbrilmente per i G.U.F.O., Oliver si concentra nel Quidditch per non sentire la mancanza di Charlie e Tonks, Theodore deve sopportare un padre che ha già cacciato di casa il figlio maggiore... e Fera e Med, rispettivamente al quinto e quarto anno, si preparano a sperimentare i primi amori e le prime gelosie, amici fedeli e primini da ridicolizzare, finché il destino non le metterà sulla stessa strada.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Oliver Wood/Baston, Percy Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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CAPITOLO III

24 dicembre 1991

 

Le piaceva la neve; non la venerava, non aspettava il suo arrivo come il segno che il Natale era finalmente giunto e tutti sarebbero diventati più buoni, più altruisti, più magri e più belli – perché l'ipocrisia della famiglia di sua madre arrivava al punto da immaginarsi splendidi e raggianti come non erano mai stati.

Semplicemente, banalmente, la neve aveva un buon odore. A Slough la pioggia rendeva impossibile nevicate di diversi centimetri: i fiocchi non attaccavano e venivano persi, si scioglievano subito, senza dare il tempo di godere di un paesaggio invernale come si deve. Per questo Med amava osservarli volteggiare nel cielo, contemplare la loro esistenza simile a quella di una farfalla e assodare che, sì, le cose belle sono tali perché hanno vita breve.

Bristol non aveva neanche quei piccoli fiocchi.

Era una città grigia, nuvolosa e anonima, ancor di più della sua Slough; in confronto a Londra, festosa e addobbata con luci colorate, Bristol era un posto ben triste. Se Louis aveva deciso di passare lì il Natale, tuttavia, significava che casa Nott doveva essere ancora più grigia e triste.

Lo vide tornare dal Trym ed ebbe un tuffo al cuore: non lo vedeva dal primo settembre, quando lo aveva incontrato a King's Cross, e non erano mai stati così divisi per tanto tempo. Gli diede appena il tempo di sorprendersi della sua presenza, poi gli buttò le braccia al collo.

Louis aveva ancora gli occhi sgranati. «Med! Che ci fai qui?». La tenne stretta a sé e, anche se non poteva vederlo, Med era sicura che stesse sorridendo proprio come lei.

«Volevo darti personalmente il tuo regalo di Natale. E farti gli auguri».

Il viso di Louis, notò, recava qualche traccia di fango e terriccio; lo stesso era per i suoi indumenti da lavoro, rigorosamente babbani nel tentativo di passare inosservato agli occhi degli abitanti di Bristol. Se solo suo padre l'avesse visto vestito così...

«Tieni.» Med gli porse un pacchetto che si era impegnata a incartare per bene, ma la pioggia di Bristol aveva reso vani i suoi sforzi. Non importava: si rese conto che le bastava essere di nuovo insieme al suo migliore amico, il resto erano solo stupidi convenevoli.

«Io... Non mi aspettavo che venissi qui, ho già inviato il gufo con il tuo regalo a Slough. Cavolo, mi dispiace...».

Si strinse nelle spalle. «Lo aprirò stasera».

Louis parve ancor più dispiaciuto. «Torni già a casa?».

«Ho il treno alle sei. Posso rimanere per qualche ora, se non è un problema per te».

«Un problema?». Scoppiò a ridere e l'abbracciò di nuovo, stando attento a non fare cadere il regalo. «È così bello vederti! Vieni, entriamo a casa, ti faccio un tè caldo. Avrai un sacco di cose da raccontarmi».

 

«Theo è a Londra?».

Come promesso, Louis stava preparando il tè. Una procedura familiare per un inglese: riscaldare l'acqua, preparare l'infuso, versare un goccio di latte. C'era una regola non scritta, mai pronunciata, ma accettata da tutti i maghi della Gran Bretagna, che vietava l'uso della magia nella preparazione del tè pomeridiano; così Med osservava Louis districarsi nel piccolo appartamento in cui si era stabilito, affittato con i pochi soldi che sua madre gli aveva lasciato e che il padre non aveva tenuto per sé. Era un bilocale accogliente e arredato ancora con i pacchiani sopramobili della sua padrona di casa, ora riscaldato dal fuoco magico che crepitava nel camino.

Louis era nato in una famiglia Purosangue, una delle più nobili che varcassero tuttora la soglia di Hogwarts senza mai essersi unita in legami sconvenienti; suo padre, Absalom Nott, era stato perfino sospettato di essere stato un Mangiamorte. Med sapeva che quei sospetti non erano infondati.

Eppure, nonostante l'infanzia nobiliare di Louis, eccolo intento nella tradizionale e anticlassista preparazione del tè. Era un bello spettacolo da contemplare.

«Sì, passerà il Natale a casa» rispose Louis, riscuotendola dai propri pensieri.

«Tanto valeva che restasse a Hogwarts...» bofonchiò Med. «Pensavo sareste stati insieme. È il primo Natale che passi da solo».

«Meglio solo che in quella casa».

La punta di amarezza nella voce di Louis era abbastanza evidente, soprattutto per chi, come Med, sapeva quando Absalom fosse tirannico. La vita dei fratelli Nott era cambiata drasticamente dopo la morte della madre; ricordava Christine come una donna gentile, non bella, ma pronta a tutto per rendere felice la vita dei suoi figli. Non semplice, non gloriosa. Felice e basta.

«Era qui che vi immaginavo, infatti. Soltanto voi due».

«E rischiare che mio padre minacciasse di diseredare anche lui? Non sarebbe stato un bel regalo di Natale per Theo».

La sua risata non era per niente divertita, ma quando Louis si voltò trasportando il bricco con il tè il suo volto era rilassato. Versò in una tazza la bevanda ambrata e fumante e gliela porse, lasciando che Med si servisse da sola dei consueti cinque cucchiaini di zucchero. Con la coda dell'occhio, lei lo vide sorridere fra sé.

«Si può sapere perché sembri così contento?» si decise a chiedergli con un sopracciglio alzato.

«Domani è Natale e tu sei qui con me».

Una risposta dato in un modo talmente diretto e noncurante che le guance di Med avvamparono all'improvviso. Diede la colpa al calore del fuoco lì vicino.

«Mi sarebbe piaciuto esserci domani, ma...».

«Diane non te l'avrebbe mai permesso, lo so».

«Stavo per dire che non avevo trovato un treno. Di quel che pensa quella stronza me ne frega poco».

«Smettila. È tua madre e ti vuole bene. Non prendertela se si vergogna della sua scelta».

«Se ne è pentita».

«No, se ne vergogna e basta, altrimenti avrebbe già chiesto il divorzio. Ha sposato un Babbano, un'onta per i suoi amici, ma un bene per lei. E per me». Louis le sorrise per l'ennesima volta nel giro di un'ora e Med socchiuse le palpebre, sospettosa.

«Di' un po', perché sei così carino con me oggi?».

«Non saprei... Forse perché non ti vedo da quasi quattro mesi... o forse perché mi sento in colpa di non avere con me il tuo regalo. Non ho neanche pensato di fare un salto a Slough, sono così preso dal lavoro da aver perso la cognizione del tempo».

«A proposito, perché non lo scarti?». Indicò con un cenno del capo il pacchetto bagnato accanto alla tazza di Louis. «Ma prima ti conviene asciugarlo».

«Detto fatto». Un colpo di bacchetta e la carta da regalo tornò come nuova. «Quasi un peccato doverla rompere...». Scartò il pacchetto e rimase senza parole quando ne scorse il contenuto.

Nascosta dietro il tè, Med gongolò. «Scommetto che non te l'aspettavi».

«Guida completa ai Dugbog: riconoscerli, nutrirli e curarne le ferite» lesse Louis ad alta voce. «Lo stavo cercando da un sacco!».

«Diane sarà un'aristocratica con la puzza sotto il naso, ma ha la sua biblioteca. Mi hai scritto di avere riconosciuto le creature del Trym come Dugbog e mi sono ricordata di averlo. Può esserti utile, credo. È di Dylan Marwood, quello fissato con i Maridi».

Come da copione, Louis la stava ascoltando solo in parte: si rigirava il libro tra le mani, sfogliandolo rapidamente e soffermandosi ogni tanto su qualche disegno dettagliato dei Dugbog. Tipico dei Nott. Stava perdendo il conto di quante volte l'avesse pensato.

Louis inforcò gli occhiali e lesse meglio un paragrafo che sembrava interessarlo particolarmente. «Lo sapevo! Scamandro sosteneva che abitassero solo le zone paludose, ma dovevano essere Dugbog... Ci ho quasi rimesso un piede!».

«Sono felice che ti piaccia».

«Piacermi?». Finalmente Louis sollevò lo sguardo dal libro. «Altro che piacermi, già lo adoro quasi quanto...». Si interruppe di colpo, sospirò e si tolse gli occhiali. «È un regalo bellissimo, grazie. Temo che il mio non sia allo stesso livello».

«Spero che lo sia, o aspetta che possa fare magie fuori da Hogwarts e vedrai» lo ammonì Med.

Louis sorrise e cambiò discorso, tornando a sedere. «E... ehm... cos'hai preso ad Adrian?».

«Roba per il Quidditch, niente di speciale. Però so che anche lui l'apprezzerà».

«Come sta andando tra voi? Nelle lettere non ti dilunghi troppo».

«E ci credo: il programma di Aritmanzia di quest'anno è fantastico, sei l'unico che non mi prende per scema quando ne parlo! Perfino Adrian si annoia dopo un po'... Preferisce parlare di quella roba là, Cacciatori, Pluffe, Boccini... e allora lo costringo a pomiciare, almeno la smette».

Una relazione invidiabile, pensò cupamente. In realtà le cose tra di loro andavano piuttosto bene, per essere la sua prima storia d'amore: si vedevano dopo le lezioni, passavano del tempo insieme nella sala comune di Serpeverde, in attesa che il tempo all'esterno riscaldasse, e si erano promessi di incontrarsi entro Capodanno. Med non era sicura di come dovesse svilupparsi una relazione, ma come inizio non sembrava male.

«La prossima volta niente giocatori di Quidditch, eh?» ridacchiò Louis, tenendo lo sguardo stranamente ancorato alla sua tazza di tè.

«Mi stai augurando che questa non sia la volta buona?».

Ora sembrava imbarazzato. «No... Voglio dire, è il tuo primo ragazzo, no? Raramente il primo resta per sempre. Se Adrian ti piace molto, spero per te che sia una bellissima eccezione alla regola. Lungi da me augurarti il contrario». Sorrideva, ma una strana sensazione nello stomaco di Med le suggeriva che Louis non stesse dicendo tutta la verità.

 

*****

 

3 gennaio 1992

 

“Cara Fera,

sono davvero, davvero, DAVVERO desolato per il disguido coi regali di Natale. Davvero. Se avessi immaginato che mi avresti comprato proprio la Guida ai castelli infestati di Scozia e Irlanda mi sarei guardato bene dal regalartela a mia volta. Vedi perché odio le sorprese? È già il terzo Natale che succede una cosa simile!”

 

Seguivano due pagine di minuziosa descrizione delle vacanze trascorse da Percy a Hogwarts, compresa una lunga filippica contro gli scherzi di Fred e George (Toglierei loro decine di punti, se solo non significasse sottrarli alla mia stessa Casa!”) e un resoconto completo degli sviluppi nella sua storia con Penelope – cioè nessuno, salvo uno striminzito ed imbarazzato scambio di auguri via gufo.

 

“Sarò ad attendere gli studenti alla stazione di Hogsmeade. Ci vediamo lì? Spero di vedere anche Penelope, ma dati i nostri impegni come Prefetti la cosa non è assicurata. A tal proposito, ti invio anche i saluti di Edmund: lui è stato assegnato all’accoglienza degli studenti alla scuola, quindi mi ha detto di dirti che vi incontrerete lì.

È simpatico, ma vorrei che si trovasse un gufo tutto suo con cui spedirti messaggi.

Ti auguro di fare buon viaggio!

A presto, P.

PS: Voglio sperare che tu abbia STUDIATO, in questi giorni. Casomai te ne fossi dimenticata, a giugno abbiamo i G.U.F.O.”

 

Sbuffando per l’ultima frase, Fera piegò la lettera e la ripose nel contenitore dove teneva la corrispondenza, poi prese un foglio di pergamena e una bic e pensò a come rispondere. Le sue vacanze invernali erano state molto meno interessanti di quelle di Percy, ma era comunque contenta di averle trascorse a casa invece che a Hogwarts. Alla fine, scrisse una lettera molto più breve di quella del suo loquace amico: parlò delle nevicate continue e delle passeggiate con suo padre nei rari momenti in cui il tempo dava loro tregua, della messa di Natale cui non sarebbe mai potuta mancare (“Non finché vivo io!”, aveva detto nonna Brigit, per poi chiederle se “prendeva i sacramenti” in quella orrenda scuola scozzese dove studiava: e Fera aveva risposto di sì, sperando intensamente che le confessioni dal Frate Grasso fossero valide come se il fantasma fosse vivo), dei pranzi e cene coi parenti che non vedeva da tempo e del sollievo di esprimersi finalmente in gaelico, anche se ogni tanto le scappavano intere frasi in inglese (con gran disappunto dei nonni, fieri membri della comunità Gaeltacht di Rathcairn). Accennò anche alla difficoltà, sempre crescente, di non parlare di magia in quelle occasioni, sebbene non fosse sicura che Percy avrebbe capito: lui non aveva e non avrebbe mai provato qualcosa del genere. Evitò accuratamente di dire che non aveva toccato libro, in quei giorni, e gli diede appuntamento alla stazione di Hogsmeade.

Anche se avrei preferito ci fosse Ed.

Il pensiero di Edmund la riscaldò. Aveva scambiato un paio di lettere anche con lui, durante le vacanze, e sapeva già dei suoi impegni per il giorno del ritorno a Hogwarts; l’idea che avesse voluto confermarglieli anche attraverso Percy, tuttavia, le parve buffa e gradevole.

Scese le scale, persa nei pensieri, e per poco non andò a sbattere contro suo padre.

«Ehi! Sei di fretta?». Niall non parlava irlandese, ma in presenza di sua figlia marcava comunque il proprio accento: sapeva che presto le sue orecchie si sarebbero disabituate ai duri suoni della sua terra, perciò cercava di ritardare quel momento il più possibile.

«Non troppo. Vado solo alle poste prima che chiudano».

«Capisco. Ti serve un francobollo o… Ah, già». L’uomo si batté una mano sulla fronte. «Le tue poste».

«Già». La ragazza ridacchiò prima di aggiungere: «Che non richiedono francobolli, al contrario delle tue poste».

«Le mie poste? Signorina, non mi starai mica dando del volgare Babbano? Sono padre di una strega, io!» La punzecchiò scherzosamente con un dito, infine la lasciò passare. «Puoi controllare se è arrivata la mia copia del Cavillo? Hanno annunciato un numero speciale per Natale!» le gridò, un istante prima che Fera si chiudesse la porta alle spalle.

L’ufficio postale magico occupava uno sgabuzzino all’interno delle Poste babbane: più che sufficiente, visto che a utilizzarlo erano solo Fera e una famigliola di maghi residente nel paese accanto. Per raggiungerlo non ci volevano più di quindici minuti a piedi attraverso il centro città, ma la ragazza allungò il tragitto percorrendo la strada che tagliava per i campi e costeggiava poi il fiume Boyne. Le piaceva camminare, soprattutto nel suo paese: Trim non aveva nulla in comune coi paesaggi montagnosi dei dintorni di Hogwarts, l’altura più imponente era costituita dalla collinetta dove sorgeva il Castello e tutto il resto erano strade dritte, case bianche e soffice erba verde. O neve, come in quel momento.

Camminò senza fretta, fermandosi di quando in quando per riprendere fiato e guardarsi attorno: voleva stamparsi nella mente le vedute di casa sua, in modo da ricordarli quando fosse tornata a Hogwarts.

Poco prima di tornare verso il centro di Trim, Fera si accostò a una villetta che conosceva bene. La casa, abbandonata da anni, si trovava in riva al fiume e ben distante dalla strada; l’incuria era evidente, specie dal tetto sfondato e dal giardino incolto. Le finestre erano state tappate dall’interno con pezzi di compensato, e le assi che componevano i gradini d’ingresso erano state divelte da qualcuno in cerca di legna. Unico elemento che rendeva quel posto degno di una seconda occhiata era il grande, maestoso albero di Giuda a sinistra della facciata, i cui fiori color rosa vivo contrastavano meravigliosamente con la neve circostante.

Peccato che i miei non possano vederlo.

Sorrise tra sé, ricordando il momento in cui la sua famiglia aveva capito che in lei c’era qualcosa di non completamente Babbano. Un qualsiasi abitante di Trim, guardando la casa in riva al fiume, avrebbe visto l’albero di Giuda nero e rinsecchito come il resto delle piante attorno; un mago o una strega, invece, si sarebbero goduti l’effetto dell’incantesimo eseguito, un secolo prima, dall’antica abitante della villetta, per mezzo del quale l’albero rimaneva fiorito in ogni stagione e con ogni tempo atmosferico. La prima volta che Niall e Mairie avevano portato Fera a passeggiare accanto al fiume, erano rimasti un po’ sconcertati nel vedere la loro bambina sorprendersi e indicare invisibili fiori rosa dove non c’erano altro che rami secchi; il pensiero che si trattasse di una fantasia era stato scartato di fronte all’insistenza della piccola, e per un po’ avevano evitato di avvicinarsi ancora a quella casa affinché quella stranezza non si ripetesse. Diventata abbastanza grande da andarsene in giro da sola, però, Fera era tornata più e più volte a trovare l’albero, e solo l’arrivo della McGranitt aveva dato finalmente un senso a quella che ormai riteneva un’allucinazione.

Restò a guardare l’albero che fioriva solo per lei, finché non udì suonare le campane della chiesa: mancava solo mezz’ora alla chiusura dell’ufficio postale. Con un sospiro, riprese la strada. Se non avesse risposto in tempo alla sua lettera, quell’antipatico del suo migliore amico sarebbe stato capace di rimproverarla.

 

*****

 

7 gennaio 1992

 

Alla stazione di King’s Cross, la folla che occupava il binario 9 e ¾ era molto ridotta rispetto a settembre. Tra quelli che avevano scelto di passare le feste in famiglia c’erano Catherine e Paul, che ora, con aria professionale (ma non troppo), aiutavano i ragazzi ad issare i bagagli e a salire ordinatamente sul treno.

«Hai visto Fera?» chiese Catherine, a un certo punto.

«Non ancora». Paul si scansò la frangia dagli occhi e sorrise a un gruppetto di piccole Grifondoro, che si allontanarono ridacchiando. «Dici che dovremmo tenerle un posto?».

«Nah, la faremo sedere nel nostro scompartimento, come a settembre. E questa volta non ci sarà Percy a romperci le scatole». Catherine osservò altre due primine, stavolta Serpeverde, accostarsi a Paul per farsi aiutare con i bauli; pur sapendo che lo facevano solo per avvicinarsi al suo ragazzo, non se la prese minimamente.

Da quando avevano iniziato a frequentarsi, tre anni prima, Catherine era dovuta venire a patti con l’idea che il suo alto, biondo e in generale splendido Paul attirasse gli sguardi di chiunque in ogni luogo. All’inizio questo l’aveva infastidita e ingelosita, ma aveva smesso di preoccuparsene quando si era resa conto che Paul, pur consapevole delle occhiatine languide e svenevoli delle sue compagne di scuola, ne era del tutto impermeabile. Niente riusciva a distoglierlo da Catherine, cui era fedele con una devozione straordinaria per un adolescente, e in questo era ciecamente e totalmente ricambiato.

«Mi sembra una buona idea. Tanto ci sarà posto, gli altri sono a scuola e…».

«... E Light se ne starà fuori dalle palle, spero».

«Cathy!».

«Che c’è? Sai che non la sopporto».

«Lo so, tesoro, ma...».

«Ehi, Fera! Fera!». Facendosi largo a spintoni tra gli studenti, senza badare affatto alle loro proteste, Catherine raggiunse Fera e l'aiutò a trascinare il baule. «Presto, Paulie,» esclamò poi, «occupiamo lo scompartimento prima che arrivi quell'oca!».

«Non dirmelo: sta parlando di Penelope» disse Fera a Paul, che sospirò.

Il vagone dove entrarono era vuoto a eccezione di Diodora, la Prefetto di Grifondoro, che li salutò con un cenno del capo e si immerse subito nella lettura del libro di Rune avanzate. Fera non la conosceva granché bene; sapeva che Percy non ci andava molto d’accordo – come con gli altri compagni di classe, del resto – perciò non si era mai preoccupata di stringerci amicizia, ma in quel momento avrebbe tanto voluto sedersi accanto a lei e chiederle aiuto per ripassare Rune. Perlomeno, si sarebbe risparmiata la ramanzina di Percy sul fatto che non aveva aperto libro durante tutte le vacanze – ma che ci poteva fare? Concentrarsi, a casa, era impossibile, e poi passava talmente poco tempo con i suoi che non le andava di sprecarlo studiando. A cosa serviva, infine, quando la sua media in tutte le materie era più che decente?

Non basta. Hai i G.U.F.O., quest’anno, le sussurrò una parte di lei, quella che parlava con la voce di Percy. Devi impegnarti di più, o farai una figuraccia e non otterrai mai un lavoro decente nel mondo magico. Non vorrai mica diventare un avvocato, vero?

Scrollò il capo per scacciare quei pensieri. Non le serviva la voce immaginaria del suo migliore amico per farla sentire in colpa: presto avrebbe avuto a disposizione quella reale.

Una volta sedutasi, Catherine si voltò a guardare Fera. Riconobbe l’espressione che l’amica metteva su quando si sentiva in colpa per qualcosa (per Tosca, quella ragazza era trasparente!); aspettò che si sedesse di fronte a sé e poi attirò la sua attenzione con un calcetto.

«Ehi, sei riuscita a studiare durante le vacanze? Io no» aggiunse subito, con un certo orgoglio. «I miei genitori hanno portato me e Susan a New York, abbiamo girato per tutto il tempo…».

«Sul serio?». Dimenticata la preoccupazione di poco prima, Fera interrogò Catherine su ogni particolare delle due settimane passate in America, a cominciare dalla scomoda Passaporta a forma di tagliola per volpi (chiaro segno che il passare dei secoli non aveva mitigato l’astio tra la Gran Bretagna e la sua vecchia colonia).

«… e se le Torri Gemelle sono grandi, non hai idea di cosa siano i loro sotterranei! Susan ha tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, quella fifona – è incredibile che una come lei voglia fare la Guaritrice! – ma io sono sicura di aver visto qualcosa, là sotto; sembrava una viverna, ma senza le ali».

«Fantastico» sospirò Fera. «E tu, Paul?».

«Niente di speciale: sono andato a trovare i nonni a Copenaghen». Lanciò un’occhiata a Catherine. «Ormai non fanno che chiedermi di presentare loro la mia ragazza, ma lei non vuole mai accompagnarmi…».

«Per quale motivo dovrei andare in Danimarca, se posso visitare New York e le sue viverne?». Catherine rispose allo sguardo deluso di Paul con una risata, poi gli accarezzò il mento. «Verrò per le vacanze di primavera. Va bene?».

Il ragazzo si illuminò. «Davvero? Grande! Saranno contentissimi!».

Rimasero a guardarsi per qualche istante. “Per Tosca”, pensò Catherine, per l’ennesima volta in vita sua, “quanto mi piace Paul”.

E dire che la loro storia era iniziata nel più banale dei modi, ovvero con un colpo di fulmine. Erano al secondo anno, ora di Pozioni; all’epoca Catherine aveva appena incominciato a fare amicizia con quella pallina di timidezza che era Fera, e si erano messe in coppia per creare la pozione Antiacne; a un certo punto, Fera si era schizzata del pus di Bubotubero su un braccio ed era dovuta correre in infermeria, al che il professor Piton aveva messo Paul al suo posto. Prima di allora, lui e Catherine non si erano mai accorti l’uno dell’altra, sebbene a posteriori ciò sembrasse impossibile: entrambi erano belli, biondi e discendenti da alcune delle famiglie più ricche d’Inghilterra. Erano evidentemente fatti per stare insieme – e tuttavia, c’era voluto mezzo baccello di Bubotubero addosso alla povera Fera perché ciò accadesse.

Meno di ventiquattr’ore dopo, erano già inseparabili. Meno di due giorni dopo, Fera era diventata la loro migliore amica.

La porta dello scompartimento si aprì di scatto, interrompendo il flusso di ricordi di Catherine. «C’è posto?» chiese Penelope Light, affacciandosi.

«Oh, ciao!». Fera le diresse un grosso sorriso e spostò lo zaino. «Certo, siediti pure».

«Ciao» le fece eco Paul, mentre Catherine si limitò ad alzare il mento. Penelope parve sorpresa: non doveva essersi accorta della loro presenza, prima di aprire la porta; rivolse alle due ragazze uno sguardo seccato e scosse la testa.

«No, grazie» borbottò, e richiuse la porta con forza.

«Ma…che è successo?» chiese Fera, strabuzzando gli occhi. Non si aspettava un rifiuto così. «Le ho solo detto che poteva sedersi!».

«Tranquilla, non ce l’ha con te». Paul guardò Catherine in modo eloquente. «Vero, Cathy?».

La ragazza incrociò le braccia. «Oh, senti, non è colpa mia se ci stiamo antipatiche a vicenda».

«No, ma è colpa tua se è stata per quasi una settimana in infermeria. Le hai aizzato contro un Geranio Zannuto, ricordi?».

«Io?».

«Tu, o la tua gemella segreta».

Catherine parve oltraggiata. «Non è vero, non le ho aizzato contro nulla! Quel Geranio ha fatto tutto da solo!».

«Ah-ha».

«Fera, diglielo anche tu!».

«Ehi, Diodora, posso studiare insieme a te?» chiese in fretta Fera alla Prefetto di Grifondoro, spostandosi accanto a lei. Fu una mossa un po’ vigliacca, ma – le ripeté la voce di Percy nella sua testa – lei doveva studiare per i G.U.F.O., e inoltre nessuno sano di mente si sarebbe mai fatto coinvolgere in una discussione tra Paul e Catherine.

Gli altri due la guardarono male, poi ripresero a parlare a bassa voce. «Dimmi la verità» chiese Paul, «davvero Penelope ti sta antipatica solo perché piace a Percy?».

«Non solo. Anzitutto, non mi va che prenda in giro i Tassorosso».

«È successo una volta, mesi fa! E poi, tu prendi in giro i Grifondoro!».

«Ma quelli meritano di essere presi in giro!».

«Cathy, avanti. Ammettilo».

Catherine fece per negare ancora, ma con Paul era inutile insistere. «Forse sì» bofonchiò allora. «Non mi va che si metta con Percy. È… inadatta».

Paul rise. Se c’era qualcuna, in tutto il mondo, adatta a quel secchione vanesio e perfezionista di Percy, quella era proprio Penelope. Lo disse, ma Catherine scosse il capo.

«Non sono d’accordo». Lanciò un’occhiata a Fera, ormai concentrata nel ripasso con Diodora. «L’hai mai visto con Fera? È praticamente un’altra persona».

«Fera?». Anche Paul la guardò. «Ma va’. Sono come fratelli, quei due. Sarebbe troppo strano».

«Sarebbe romantico, invece. Gli amici d’infanzia che scoprono di amarsi, si sposano e vanno ad abitare vicino agli altri loro amici, ossia noi due». Catherine sospirò, e il suo sguardo si perse verso un punto lontano. «Avrebbero dei figli intelligentissimi».

«… hai detto figli?!».

Catherine annuì. «Figli. Che sarebbero amici dei nostri, giocherebbero insieme a Quidditch e mi chiamerebbero zia Cathy».

«Mi sa che stai…».

«Verrebbero a cena da noi tutti i mercoledì, e durante le vacanze andrebbero in Irlanda e noi spediremmo i nostri marmocchi con loro!».

«… esagerando parecchio».

La Tassorosso lo ignorò, lanciata com’era nel suo sogno ad occhi aperti.

 

*****

 

«Ho scoperto che Harry è proprio incapace nel gioco degli scacchi».

«Harry Potter?».

Percy annuì. «Mio fratello Ron lo ha battuto per non so quante volte di seguito. E dire che io l’ho anche aiutato!».

«L’hai aiutato a perdere, probabilmente».

Fera rise e Percy fece una smorfia. «Avrebbe perso comunque» aggiunse poi, in tono lagnoso.

«Non ho dubbi».

Con un gesto identico, si coprirono meglio coi mantelli. Lo strato di neve sotto i loro piedi era ancora consistente, ma non abbastanza da impedire una passeggiata in riva al Lago Nero; il che era proprio ciò che serviva a Percy per chiacchierare senza venir distratto dai suoi doveri di Prefetto, come ammonire gli studenti o cercare di sfuggire a Pix. Le lezioni erano già ricominciate, ma gli impegni dell’uno e dell’altra – nonché l’ansia di rivedere i rispettivi interessi amorosi – avevano impedito ai due amici di ragguagliarsi decentemente sulle vacanze appena trascorse, fino a quel momento.

«Ah, ho già iniziato a leggere la Guida che mi hai regalato» disse Fera, dopo qualche secondo. «Sono un po’ delusa, pensavo che anche il Castello di Trim fosse infestato».

«Vivi nel posto meno infestato d’Europa, fattene una ragione». Percy arrossì. «Mi dispiace davvero tanto per averti preso un regalo uguale al mio».

«È il brutto di avere gli stessi gusti in fatto di libri» replicò Fera, ridendo.

«Ma tu, almeno, mi hai regalato un libro nuovo».

Stavolta la ragazza non rise. «E allora? Sai che io amo i libri usati, hanno più storia addosso». Scalciò via un po’ di neve. «Magari il mio regalo è costato di più, ma il tuo ha più valore».

Percy sorrise. Con Fera non aveva mai fatto mistero delle sue condizioni economiche, ma gli sembrava sempre così strano che lo accettasse senza problemi. «Comunque, tieni» disse, tirando fuori una mano dalla tasca del mantello. «Per compensare».

Fera stese la propria mano e Percy ci piazzò su una monetina d’argento. «Cos’è?».

«Ti piace?».

«Molto!». La soppesò, la prese tra le dita e l’esaminò meglio. «Sembra antica. Dove l’hai trovata?».

«Era nella mia fetta di dolce al pranzo di Natale. Mi ci sono quasi rotto un dente…». Detto ciò, Percy si morse la lingua. Avrebbe dovuto omettere quel particolare, lo sapeva.

Difatti, l’espressione curiosa di Fera si mutò in orripilata. «Questa… è stata nella tua bocca?».

«L’ho lavata dieci volte, lo giuro!».

«Sei… sei disgustoso. Riprenditela».

Mesto, il ragazzo si rimise la monetina in tasca. «Prima o poi ti farò un regalo decente» mugugnò.

«Dovresti farlo a Penelope, piuttosto» replicò Fera. «Davvero non le hai mandato nulla? Non posso crederci!».

Percy fece spallucce. «E allora? Nemmeno lei mi ha fatto un regalo».

«Non importa!».

Il ragazzo sbuffò e accelerò il passo. «Sarebbe stato cavalleresco, da parte tua» insistette Fera, marciando più rapida. «Avresti dimostrato che ci tieni a lei, che la pensi e che…».

«Fawley ti ha fatto un regalo?» domando lui a bruciapelo.

Fera esitò. «N-no, ma…».

«Tu gli hai fatto un regalo?».

«No…».

«Vedi? A me sembra del tutto normale».

«Ma che c’entra? Ed e io non… Tu e Penelope vi frequentate da una vita, sarebbe stato giusto scambiarvi un pensiero per Natale!».

Percy sbuffò di nuovo e si fermò, dando modo a Fera di chinarsi per allacciarsi una scarpa. «Beh, frequentare… Non siamo mai nemmeno usciti insieme, tu e Ed invece sì».

«Ehi, non incolpare me se non hai ancora chiesto un appuntamento a Penelope!». Si rialzò. «Dovresti darti una mossa, sai?».

«Lo farò. Appena ci sarà l’occasione giusta».

Lo sguardo di Fera era scettico, e per evitarlo Percy chinò il capo. Di occasioni ne aveva avute, in effetti, ma per quanto si fosse preparato al momento di invitare Penelope da qualche parte – anche ad una semplice passeggiata nel parco – alla fine non ce l’aveva mai fatta. Era più forte di lui. Non aveva mai affrontato una cosa del genere, la sola idea di sbagliare e rovinare la propria immagine davanti a Penelope lo atterriva.

Fera gli si avvicinò. «Cos’è? Adesso mi tieni il muso?» chiese, e senza alcun preavviso gli diede una spallata, sbilanciandolo. Percy si rimise subito dritto e, automaticamente, rispose alla spallata con un colpo più forte. Un secondo dopo, lui e la sua amica erano spalla contro spalla, i piedi puntellati a terra, e ciascuno spingeva cercando di far perdere l’equilibrio all’altro.

«Cadi, maledizione! Perché non cadi?!».

«Perché mi sono allenato con Charlie, ecco perché!».

Si staccarono e ripresero subito a spingersi, incuranti della neve scivolosa. Era un gioco che facevano da quando avevano undici anni: Percy era avvantaggiato dall’altezza, Fera dall’essere più grossa, perciò vittorie e sconfitte erano equamente distribuite.

«Irlanda vince! Irlanda vince!» strillò Fera, quando finalmente sentì Percy cedere; un istante dopo, tuttavia, si ritrovò a faccia in giù nella neve.

«Hai barato!» gridò, non appena riuscì a girarsi sulla schiena. «Brutto figlio di…».

«Ciao, Penelope!».

Fera si rimise subito in piedi, giusto in tempo per vedere Penelope avvicinarsi. Capì al volo cos’era successo: quel deficiente le aveva fatto mancare la controspinta e l’aveva praticamente buttata a terra, solo perché la ragazza dei suoi sogni non lo notasse in quell’atteggiamento infantile.

Merlino, che idiota.

Penelope li raggiunse. «Ciao» fece, rivolta solo a Percy.«Fawley ti sta cercando, dice che avete un appuntamento» disse poi a Fera, con una nota strana nella voce.

Fera, che si stava ripulendo il mantello dalla neve, al sentire ciò si immobilizzò. Cercò di ricordare come e quando si era data appuntamento con Ed, poi si batté una mano sulla fronte. «Cavolo, oggi c’è il club di lettura!». Si ripulì più in fretta, poi si avviò verso il castello. «Ci vediamo stasera a cena!».

Percy ricambiò il saluto agitando una mano. Penelope, invece, non fece nemmeno quello.

 

*****

 

23 gennaio 1992

 

Da quando le vacanze di Natale erano terminate, le settimane avevano ricominciato a scorrere lentamente tra lezioni noiose e cinquanta centimetri di pergamena per il giorno seguente. Oltre ad Aritmanzia, le sola cosa che rendesse il tempo di Med a Hogwarts più sopportabile dal diploma di Louis erano i pomeriggi passati con Adrian; a settembre le era sembrato che si prospettasse per lei un anno infelice, perennemente in compagnia di Lobelia e Grace, ma dall'appuntamento a Hogsmeade del novembre passato le cose avevano cominciato a girare diversamente.

Lobelia e Grace erano sempre presenti nella sua vita, fortunatamente però in maniera limitata: Med aveva iniziato a uscire con gli amici di Adrian, un gruppetto di Serpeverde che non parlavano solo di Quidditch – perlomeno in sua presenza. Aveva sempre saputo di trovarsi meglio in mezzo ai ragazzi e forse era solo quello di cui aveva bisogno: meno chiacchiere sull'amore e più bullismo nei confronti di quegli sfigati dei Tassorosso. O dei Grifondoro.

Ce n'era uno, in particolare, su cui Med, Adrian e i loro amici si divertivano a sfoggiare la legge del più forte.

«Ehi, Paciock, ti sei perso anche stavolta?».

Il ragazzo paffutello che Med aveva preso di mira già a King's Cross sussultò, si guardò intorno e rabbrividì quando riconobbe il gruppetto di Serpeverde. Spostò di nuovo lo sguardo di qua e di là, forse per accertarsi di non essere solo. Speranze vane.

«Aspetti che qualcuno accorra in tuo aiuto?» lo canzonò Ariel, un ragazzo del terzo anno con una fossetta sul mento. Si guardò in giro anche lui, poi si strinse nelle spalle. «Peccato, non vedo Potter da nessuna parte».

Med ridacchiò. Se c'era una persona che sopportava meno dei Weasley, quello era il famoso Harry Potter – che non a caso girava sempre in compagnia del più piccolo dei Weasley. Fra sfigati si riconoscono facilmente, pensò. Potter si dava delle arie che in un primino stonavano parecchio; era pur sempre un Grifondoro, tuttavia, e con la leggenda che si portava dietro non avrebbe potuto comportarsi altrimenti. A Med non andava giù comunque, ma prendersela direttamente con lui – come faceva il ragazzino di cui la sorella di Lobelia era tanto invaghita – lo avrebbe solo reso ancor di più al centro dell'attenzione, sostenendo la falsa convinzione che i Serpeverde erano capaci di prendersela solo con i più piccoli e deboli. Non era vero: i Serpeverde volevano divertirsi e basta. Se poi a farne le spese era un bambino del primo anno con la bocca ancora sporca di latte... peggio per lui.

«Che fai, Paciock? Non rispondi?». A farsi avanti questa volta fu Caius, uno dei battitori della squadra di Serpeverde. La sua mole lo rendeva minaccioso anche in assenza di mazza e Bolidi.

Paciock arretrò di qualche passo, incontrò una radice sporgente e cadde a terra. Med scoppiò a ridere.

«Non sei neanche in grado di guardarti i piedi, ragazzino?». Lo canzonò, avvicinandosi tuttavia a lui per porgergli una mano. «Da' qua, ti aiuto a rialzarti prima che faccia altri danni».

Giustamente, Paciock non sembrava convinto della sincerità di Med, ma Caius aveva appena fatto scrocchiare le grosse dita ed era meglio vedersela con una ragazza del quarto anno piuttosto che con un battitore che non vedeva l'ora di fargli saltare le cervella. Afferrò la sua mano con le dita sudaticce e, miracolosamente, si ritrovò in piedi.

«Gr... grazie...» balbettò incredulo. Rimase immobile, temendo improvvisi brutti tiri, ma non accadde niente. I Serpeverde lo fissavano. «Allora... ehm... io vado...».

Quando, tuttavia, il ragazzino si abbassò per afferrare la borsa che era caduta insieme a lui, Med esclamò: «Relascio!».

Paciock rischiò di inciampare, preso alla sprovvista. Tra le risate dei presenti, tentò nuovamente di avvicinarsi alla borsa, ma ancora una volta Med pronunciò la formula dell'Incantesimo di Esilio.

«Relascio!».

Altri due metri. Altri passi incerti.

«Relascio! Relascio! Relascio!».

La borsa si era aperta, lasciandosi dietro a ogni balzo un libro o una piuma, un calamaio che si rovesciò sul prato bagnato, un rotolo di pergamena e perfino una Ricordella che rotolò giù per la discesa. Il gruppo di Serpeverde scoppiò a ridere ancor di più mentre osservava il ragazzino rincorrerla e inciampare, il volto rosso quasi quanto lo stendardo della sua Casa.

Ariel si teneva lo stomaco, piegato in due. Anche Caius e Miles, il ragazzo di Lobelia, erano in preda all'ilarità. Med gongolò, complimentandosi con se stessa per essere riuscita, ancora una volta, a conquistare il rispetto del suo nuovo gruppo di amici.

«Potresti anche dargli un po' di tregua» finse di sgridarla Adrian, che aveva appena appoggiato una mano sulla sua spalla. «È pur sempre un marmocchio».

«Ha due anni meno di te» puntualizzò Med, girandosi per fronteggiarlo. «Non tirartela troppo».

«Avrà anche due anni meno di me, ma non ha una ragazza bella come te».

Questa volta fu Med quella presa alla sprovvista. Avvampò, stupendosi dell'audacia di Adrian – sebbene avesse scoperto che, dopo essere diventati una coppia, il fratello di Grace si era dimostrato capace di superare la timidezza ed esprimere ad alta voce i propri sentimenti.

Non ebbe il tempo di accorgersi che Adrian la stava baciando. Udì i loro amici schernirli e lanciare esclamazioni di cui lei li avrebbe presto fatti pentire, ma per il momento scelse di infischiarsene.

 

*****

 

12 febbraio 1992

 

La partita si stava avvicinando – mancavano ancora diverse settimane, ma non importava.

I G.U.F.O. si stavano avvicinando – mancavano addirittura mesi, ma non importava neanche questo.

Il punto era che il mondo intorno a lui andava avanti e lo faceva anche la sua vita, tuttavia Oliver non riusciva ancora a capacitarsi che quella in cui si trovava era la realtà. C'erano le lezioni, gli allenamenti e i pomeriggi a Hogsmeade, c'erano le vacanze appena terminate e gli amici da frequentare ogni giorno. Non importava neanche quello: Oliver si sentiva estraneo a tutto ciò.

Perlomeno in quel quinto anno di Hogwarts aveva accettato qualcosa, e cioè che il motivo di quella sua apatia non era Charlie; lo era stato, lo era ancora in parte – ma, per l'appunto, in parte. Si sentiva semplicemente spaesato, senza Charlie, senza Tonks, senza il tempo libero passato con loro. Ora il castello sembrava un posto mai visitato prima.

Oliver aveva cercato di combattere quell'apatia e continuava a farlo intensificando gli allenamenti, senza però riscuotere successo nell'ambito scolastico. E i voti ne avevano nuociuto.

«Hai saltato Incantesimi».

Si sarebbe detto che la sua coscienza aveva la voce di Percy Weasley, e forse era proprio così.

«Non mi sentivo bene» mentì prontamente Oliver, sebbene si fosse appena reso conto di avere perso una lezione.

Merda.

«Sei stato in infermeria?».

Annuì. «Ora sto meglio. Cos'ha spiegato Vitious?».

«Ci siamo esercitati sull'Incantesimo di scavo. Non ho ancora ben chiaro il motivo di questa scelta,» aggiunse Percy sistemandosi gli occhiali sul naso, «ma il professor Vitious ritiene che dovremmo imparare a usarlo al pari dello Schiantesimo. Eravamo in pochi a riuscirci, a dire il vero».

Oliver aveva notato come il petto di Percy si era gonfiato quando si era incluso in quel ristretto gruppo di vincenti – di cui sicuramente aveva fatto parte anche quella ragazza del loro anno con cui Percy stava sempre insieme.

Com'è che si chiama?

«Hai bisogno di esercitarti?».

«Uh?».

«Con l'Incantesimo di scavo, intendo dire. Posso mostrarti il suo corretto funzionamento».

Mi spiace, Percy, ma ormai so scavarmi una fossa benissimo da solo. Si morse la lingua, prima di rispondergli. «Grazie, non serve. Ho l'allenamento fra poco e poi hai ragione, non capisco neanch'io perché Vitious ci faccia studiare un incantesimo del genere...».

«Posso aiutarti con altri incantesimi. So che all'ultimo tema hai preso una S».

Già, Percy Weasley era davvero la fastidiosa e immortale voce della sua coscienza.

«Non dovresti impicciarti dei miei voti» si indispettì Oliver, cominciando a perdere la pazienza.

«E tu non dovresti lasciarli in bella vista nel dormitorio».

«Fatti gli affari tuoi, Percy» concluse mentre si avvicinava alle scale a chiocciola, determinato ad appropriarsi della scopa prima che il suo compagno potesse farlo sentire addirittura più in colpa con se stesso.

 

*****

 

«Quest'oggi, ci eserciteremo sulla Pozione Obliviosa. Chi di voi sa dirmi che cosa comporterebbe berla?».

Senza che nessuno, in quell'aula, se ne meravigliasse, il primo braccio a scattare in alto fu quello di Hermione Granger. E, senza che nessuno si meravigliasse anche di quello, Piton fece finta di non vederlo. Con il mento sollevato, il suo sguardo vagò sul resto della classe, soffermandosi più di una volta sul duo composto da Potter e Weasley; incredibilmente, quel pomeriggio aveva scelto di dare loro tregua. Ma non di soddisfare la saccenza e la vanità della Granger.

«Nessuno?».

Alla fine Theodore sospirò e alzò anche lui la mano: odiava essere al centro dell'attenzione e sarebbe stato veramente grato a Piton se un giorno avesse deciso che bastava mescolare pozioni in silenzio per guadagnare punti per la propria Casa, ma erano già passati tre minuti e non aveva intenzione di aspettare ancora per potere imparare la Pozione Obliviosa. Non quando sapeva che veniva spesso scelta per gli esami di fine anno.

Piton annuì silenziosamente verso di lui. Il braccio della Granger ricadde verso il banco e Theodore fu certo di averla udita sbuffare.

«La Pozione Obliviosa ha un effetto molto simile all'Incanto Oblivium» cominciò a recitare. «Chi la beve dimentica immediatamente gli eventi delle ultime ore. A differenza dell'Incantesimo di Memoria, tuttavia, non è possibile modificare l'arco di tempo che verrà scordato o manipolare la memoria a proprio piacimento».

«Ed è per questo motivo che l'Incantesimo di Memoria non viene insegnato prima del secondo anno» concluse Piton in tono piatto. «Cinque punti a Serpeverde».

Draco, che era seduto davanti a lui, si voltò per rivolgergli un sorriso compiaciuto. Theodore lo accolse con una smorfia di ringraziamento, niente di più: conquistare punti per Serpeverde era una conseguenza di poca importanza; ciò che lui desiderava realmente era imparare a usare qualsiasi incantesimo e pozione per la memoria, in modo da dimenticarsi ogni singolo momento in famiglia da quando sua madre era morta.

Fu per questo grato del silenzio di Blaise, suo vicino di banco, che non trovava niente di encomiabile nell'imparare ciò che dovevano comunque studiare. Il sapere veniva prima di tutto, poco importava se manifestato o meno – sebbene, nel profondo, Theodore fosse convinto che Blaise non aspettava altro che stupire i professori ai G.U.F.O. e ai M.A.G.O., dimostrando loro la grandezza del suo cervello e mettendo finalmente a frutto i propri studi. Ambizioso, certo, ma dopotutto era un Serpeverde.

«Aprire il libro a pagina centosessantadue» aveva ripreso a parlare Piton. «Gli ingredienti che vi serviranno si trovano accanto ai vostri calderoni. Mi aspetto che tutti voi riusciate nella preparazione di questa semplice pozione». I suoi occhi si puntano su Paciock, che si fece piccolissimo.

Theodore aprì il libro e cominciò a leggere. Accanto a lui, Blaise aveva già accesso il fuoco del calderone e stava attendendo per aggiungere le radici di valeriana. Sapevano entrambi, però, che i loro sforzi di preparare la pozione migliore sarebbero stati vani: la Granger avrebbe concluso prima degli altri, regalando al proprio orgoglio un liquido color amaranto.

La pozione di Theodore, infatti, poteva vantare soltanto una sfumatura carminia, ma era comunque migliore di quella di Paciock, verde vomito e piena di gigantesche bolle che minacciavano di scoppiargli in faccia, e dell'intruglio melanzana di Draco. Il volto del suo compagno era dello stesso colore.

«Spero che qualcuno di voi abbia eseguito alla perfezione la preparazione» esordì Piton, fermo davanti al calderone di Paciock «perché avrei bisogno di un'ottima Pozione Obliviosa per dimenticare questo incommentabile disastro».

Quelle parole fecero tornare in fretta il sorriso a Draco, che diede una gomitata a Tiger, gongolando per un risultato che, a conti fatti, non era terribile come quello del Grifondoro.

La pozione immediatamente successiva apparteneva alla Granger, ma Piton non disse nulla, guardandola a malapena.

  
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