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Autore: Himenoshirotsuki    18/06/2016    4 recensioni
[Fantasy Steampunk]
La Dogma e la Chiesa, le colonne portanti di questo mondo. L'una che agisce con il favore dell'ombra, chiamando a raccolta i suoi cacciatori, gli Slayers, per combattere i mostri; l'altra che muove le sue armate di luce contro le vessazioni e i miscredenti in nome di un dio forte e misericordioso.
Luce e ombra, ying e yang che si alleano e si scontrano continuamente da più di cinquant'anni.
Ma è davvero tutto così semplice? La realtà non ha mai avuto dei confini netti e questo Alan lo sa. In un mondo dove nulla è come sembra e dove il male cammina tranquillo per le strade, il cacciatore alla ricerca della sua amata si ritroverà coinvolto in un qualcosa di molto più grande, un orrore che se non verrà fermato trascinerà l'umanità intera nel caos degli anni precedenti l'industrializzazione. Perchè, se è vero che la Dogma e la Chiesa difendono gli umani dai mostri, non è detto che non sarebbero disposte a crearne per difendere i loro segreti.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Slayers '
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Slayers
Act.3 - Patriotic Games

 
Il vento soffiava dal mare verso l’entroterra, piegando con sferzate violente l’erba verde del giardino del castello di Belmoral. La regina Vittoria osservava il paesaggio dalla finestra al secondo piano, abbracciando con lo sguardo il bosco di querce che si estendeva a perdita d’occhio in tutte le direzioni. Aveva amato quelle lande fin dalla prima volta che vi aveva messo piede, quando i suoi occhi si erano posati su quella cittadina rocciosa sulla costa orientale della contea di Baylin. Ora non era più una giovane principessa, gli anni erano passati implacabili anche per lei, eppure si sorprendeva ancora quando intravedeva l’ombra di un cavallo o il guizzo fulmineo di un leprotto spaventato nell’erba. Le era quasi dispiaciuto quando aveva dovuto distruggere il precedente e mediocre maniero per costruire quello attuale, le era parso uno sfregio alla libertà che si respirava in quel luogo. Tuttavia lei, più del suo attuale e inutile marito, aveva bisogno di un posto dove riflettere, rilassarsi, un posto che potesse chiamare casa.
Sospirò e, con un sorriso amaro, osservò nel vetro della finestra il riflesso di una donna che aveva ormai passato la quarantina, con i capelli raccolti in uno stretto chignon dietro la nuca e una pesante corona di gigli d’argento e diamanti che sfavillavano come stelle all’alba. Sfiorò appena i gambi dei fiori, ne seguì il percorso fin sopra l’orecchio, e ricordò quando era andata dall’orefice reale con la sua collana di diamanti chiedendogli di incastonarli nella nuova corona, quella che gli aveva ordinato di forgiare alla morte del suo Robert.
Si lisciò le pieghe dell’abito, mentre guardava il continuo via vai degli scudieri e il muoversi risoluto del Koh-i-Noor, lo stallone elfico che suo figlio Eddard stava addestrando alla caccia. Già, aveva amato molto il suo primo marito e fosse stato per lei non si sarebbe nemmeno risposata, ma i consiglieri avevano fatto pressioni fino a quando non aveva ceduto. Tutto per il favore del popolo, tutto per la ragion di stato. Adesso, per quella stessa ragione di stato, doveva cominciare a muovere i pezzi della scacchiera.
Lo sferragliare delle armature, seguito dal fruscio delle porte sul tappeto persiano, la fece voltare.
- Benvenuto, Eruwen. O forse dovrei dire bentornato? -
- Mia regina, voi mi onorate. -
- E tu sei sempre troppo formale. Vieni, non stare sulla porta. Non ti inchinare, ormai ci conosciamo troppo per essere così rigidi sull’etichetta. -
Eruwen piegò il capo in segno di rispetto ed entrò con la solita fluidità nervosa che lo caratterizzava. Camminava a testa alta, gli orecchini dorati che tintinnavano e gli occhi rossi che si muovevano con finta curiosità dal signorile tavolo circolare vicino alla libreria al camino riccamente decorato, dalle perle del girocollo ai ricami a croce sull’orlo dell’abito. Come tutti gli elfi della Notte, era bello, bello e bastardo come il peggior figlio di puttana di New England, ma in fondo la regina non poteva fargliene una colpa: essere l’ambasciatore di quel folle di Ianice III era davvero un lavoro infame, un passo falso poteva costargli la vita.
- Non sei a tuo agio qui? -
- Certo che sì, maestà. -
Si sedette sulla sedia di frassino scuro, quella dove si accomodava sempre.
- Sono solo rimasto stupito dal vostro invito. Pensavo avremmo parlato nelle stanze del vostro meraviglioso castello. -
- Questa conversazione deve rimanere privata. Sapete com’è, no? I muri hanno occhi e orecchie e purtroppo non si sa mai dove essi si nascondano. -
L’elfo annuì con un mezzo sorriso. Vestito così, con una casacca di seta rosa e un cappotto bordato con una pelliccia di volpe bianca, sembrava più un giovane principe che un semplice ambasciatore.
- Allora, quali questioni urgenti vi hanno spinta a chiamarmi con tale urgenza? -
- So che il tuo amato re, il grande Ianice III, volge lo sguardo all’orizzonte, ultimamente. - disse, sedendosi di fronte a lui.
- Il nostro sovrano ha un cuore patriottico, vorrebbe riportare Ancya agli antichi splendori. -
- Oh, lo so, lo so. D’altronde anche il mio caro padre aveva votato la vita al suo popolo. -
Eruwen rimase impassibile e la regina dovette trattenere un risolino all’impercettibile irrigidimento delle spalle.
Edward d’Hilyum, duca di Lenth e Baylin, era passato alla storia per essersi dimostrato un re giusto, un padre devoto e un marito fedele. Per gli ancyesi, invece, era stato l’ennesimo sovrano che non si era fatto piegare dalle loro inutili e insistenti pretese territoriali. La battaglia delle Sherman, anche dopo cento e passa anni, era una ferita ancora aperta.
- In ogni caso, non dovete preoccuparvi di nulla. - riprese pacato l’ambasciatore, - Il mio re punta lo sguardo a nord, alle lontane e floride terre del Merk settentrionale. -
- Non ne ho mai dubitato, però noi sovrani siamo al servizio del popolo e, alle volte, il popolo si ricorda di qualche antico smacco e comincia a fare pressioni. Alle volte un discorso gentile e fermo basta per rabbonirli, altre volte nemmeno il potere della persuasione riesce a distoglierli dai loro intenti. Oserei dire che in queste occasioni spesso ci facciamo trasportare dal furor di popolo e intraprendiamo azioni di cui ci potremmo inseguito pentire. - 
- Ne sono consapevole, ma vi posso assicurare che… -
- Tu mi puoi assicurare? Eruwen, perdonami, ma per quanto le tue parole siano sincere, so quanto possa essere tentatore il serpente del potere. Ianice è un uomo dal grande cuore e dalla mente acuta, ma è ancora troppo giovane per distinguere tra le bocche che consigliano per il bene della nazione e quelle che tramano per un loro fine personale. Spero tu capisca ciò a cui mi sto riferendo. -
Eruwen si morse le labbra e una ruga di preoccupazione si disegnò sulla sua fronte. Si sistemò sulla sedia e, fingendo di aggiustare una piega inesistente sulla casacca, distolse lo sguardo.
La regina lo osservò: era nervoso e si controllava a fatica, ma cercava di non far trapelare nulla. Come tutti gli ancyesi, era troppo orgoglioso per pensare che anche una donna come lei potesse avere delle spie sul loro territorio, persino nella loro stessa corte. Era per questo che non avevano mai vinto una battaglia contro di loro negli ultimi trecento anni. Senza perdere il sorriso, rimase in silenzio per un po’, scrutando il suo interlocutore che lottava contro la tensione crescente. Infine si alzò, attraversò la stanza fino al carrello vicino al camino e si versò del buon vino in una coppa dorata. Prima di relegare la servitù alle faccende al primo piano, si era premurata di farsi preparare dei biscotti al burro da offrire, qualora quello sfacciato di Ianice avesse deciso di venire di persona.
- Ecco perché oggi ti ho convocato qui. Ianice dovrebbe essere ancora celibe. -
L’elfo tirò un sospiro di sollievo: - Non sbagliate. Sta cercando una sposa tra le famiglie nobili ancyesi, anche se è davvero difficile trovarne una che soddisfi i suoi gusti. -
La regina nascose un risolino dietro la mano.
- Lo so, appunto per questo volevo facilitarti il compito. La duchessa di Corkia e Crowne ha una figlia in età da marito ed è da un paio di mesi che sta cercando un uomo bello, fiero e forte a cui affidare la sua bambina. Chi se non un re potrebbe accontentare le esigenze di una povera madre? -
Negli occhi dell’ambasciatore si accese una scintilla d’interesse: - Pensavo che la vostra Beatrice fosse già stata promessa a Duneval. -
- Già, ma purtroppo il fidanzamento è stato rotto quando la Dama Nera si è portata via il marito di Heluna. - scosse il capo e sospirò, fingendo si asciugarsi una lacrima, - Purtroppo dopo questo grave lutto, la famiglia del duca naviga in brutte acque e Beatrice si è vista costretta a tornare a casa dei genitori, rompendo il fidanzamento. D’altronde, quale madre darebbe in sposa la propria figlia a un uomo che non può mantenerla? -
Eruwen non rispose e la regina tornò a riempirsi la coppa.
Quel bastardo di un vampiro si era indebitato con mezza New England negli ultimi mesi e, anche se continuava a venire alle cene e alle serate mondane sfoggiando i suoi abiti sfarzosi, tutti a corte sapevano che, se non fosse stato per i soldi elargiti gentilmente dalla corona, la Public Express sarebbe già fallita e con essa tutta la sua famiglia. Sapere che era morto era stato un sollievo, sia per la regina che per quella poveretta di sua moglie.
- Siete sicura che la duchessa approverebbe questa unione? -
- La conosco, ti posso assicurare che desidera più di ogni altra cosa il bene della sua bambina. Mi pare di ricordare che il suo trisnonno fosse un barone di spicco nella vostra nazione. -
- Sì, era un barone con molti possedimenti. -
- E, se non erro, li ha ancora. -
La regina si avvicinò e passò la mano sullo schienale della sedia, stando bene attenta a sfiorare anche le spalle dell’elfo.
- Poniamo caso che il tuo re decida di accettare la mano della nostra amata Beatrice e, sempre per caso, supponiamo che con questo matrimonio tu possa riavere alcuni territori che duecento anni fa avete perso. Non ti sembra un ottimo affare? -
- Dipende a quali vi riferite. -
- Pensavo di concederti di nuovo la Vedètte e Saucerre. Sai, per l’onor di popolo… - fece un gesto vago con la mano e lasciò la frase in sospeso, con un sorrisetto sempre più compiaciuto che le si allargava sul viso.
Ne aveva discusso a lungo con Ian, il suo consigliere, e per mesi si era arrovellata alla ricerca di una soluzione diversa, una soluzione che le permettesse di mantenere tutti i territori dalla Cervantesa fino alla Vedètte, ma purtroppo quella sembrava l’unica possibilità, soprattutto con la Chiesa e la Fanishmea che non attendevano altro che un pretesto per muover guerra. No, non potevano permettersi di combattere, non prima che i tecnomanti avessero portato a termine il progetto.
“Che quel ragazzino si riprenda pure i suoi due fazzoletti di terra. Se li godrà per poco. Heluna capirà, capirà perché ho ceduto le terre della sua famiglia.”
- Purtroppo non posso darvi una risposta ora, devo prima parlarne col re. -
- Certamente, Eruwen. Aspetterò tue notizie. - sospirò, si spostò una ciocca sfuggita dallo chignon e guardò fuori dalla finestra.
Era una concessione necessaria, si disse, una decisione dettata dalla ragion di stato. Poteva solo sperare che le due regioni, tutte abitate da bravi e onesti mercanti, non opponessero resistenza durante l’espropriazione delle terre.
- La servitù vi scorterà fino all’uscita della tenuta. -
- Grazie, maestà. -
L’ambasciatore si alzò, si inchinò e poi si congedò.
Mentre il suono dei sui passi si faceva sempre più lontano, la regina trasse un profondo respiro. Concordava con Ian che avevano bisogno di altri mesi di pace, ma non riusciva a non pensare di aver appena venduto la figlia della sua più cara amica al nemico.
 
*
 
Rachel aveva ripreso conoscenza quasi subito, o almeno così le era sembrato, ma quando riaprì gli occhi si rese subito conto che era passato più tempo di quello che pensava. Era distesa sul letto di una camera disadorna, con le pareti di un triste rosa pallido e un’unica finestra nascosta da una leggera tenda di lino. Sul tavolo addossato alla parete di fronte a lei, quasi protetto da una muraglia di libri, erano state appoggiate le Bladegun e Sebastian. La pietra verde brillava di una luce tenue e intermittente.
“Deve essere ancora scarico.”
Il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento le fece abbassare gli occhi su una piccola sfera blu, un cristallo perfettamente rotondo che rotolò fin sotto il comodino. La cacciatrice si allungò per prenderla, ma una fitta al petto e un improvviso giramento di testa la costrinsero a stendersi di nuovo.
- Non dovresti fare sforzi. -
Qayin uscì dalla penombra, materializzandosi al suo fianco. Rachel lo fissò da sotto le ciglia socchiuse, affondando con le poche forze che aveva le unghie nelle lenzuola. Tuttavia obbedì, distendendo le gambe e prendendo un profondo respiro. Quando il vampiro afferrò la sedia e la mise vicino al letto, dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non guardarlo male.
- Ti ricordi cosa è successo? -
- Sì, ricordo tutto. -
Qayin annuì, intrecciando le dita sotto il mento. Si era cambiato e adesso portava una semplice camicia bianca sopra un paio di pantaloni neri.
- Gli altri come stanno. -
- Si sono salvati per miracolo. Il dottor Ludwik è arrivato in tempo per evitare che tu e Alan aveste un infarto. Grazie a queste non avete nemmeno riportato danni permanenti al cuore. - si chinò e le porse la sfera azzurra, - Ci metterete comunque un po’ a riprendervi, ma mi sembra un contrattempo sopportabile in cambio della propria vita. -
Rachel chiuse gli occhi. Sentiva un continuo ronzio nelle orecchie e le tempie le pulsavano dolorosamente ad ogni minimo movimento, ad ogni contrazione dei muscoli della bocca, persino ad ogni impercettibile battito di ciglia. Poi un dettaglio nelle parole di Qayin premette dall’angolo del suo cervello.
- Maxwell... non hai parlato di Maxwell. -
- Sta bene. -
A Rachel non sfuggì il gelo nella sua voce e la fretta con cui aveva risposto.
- Dimmi la verità. -
Lo fissò con attenzione, ma quel viso non esprimeva nulla. Rachel si sorprese a pensare quanto fossero simili sotto quell’aspetto.
- Qayin. - lo esortò.
- Aveva perso molto sangue, ma è riuscito comunque a sopravvivere. Non hanno potuto fare nulla per salvare il suo occhio, purtroppo, ma credo che gli alchimisti gliene potranno impiantare uno di vetro. -
Rachel sollevò le palpebre e lo vide chinarsi su di lei. Una ciocca sfuggita dalla coda le sfiorò la guancia, il calore del suo respiro le scaldò il collo e rabbrividì per il solletico. Inaspettatamente, quella vicinanza la calmò e si domandò cosa si nascondesse dietro quegli occhi impassibili, così maledettamente simili ai suoi. Era sempre stata capace di capire le persone attraverso i minimi gesti, ma Qayin rimaneva un mistero, lo era stato fin da quando si erano incontrati per la prima volta. La sua ambiguità l’aveva sempre infastidita, la sua doppia faccia da giocatore di poker non le aveva mai fatto abbassare la guardia. Eppure ora non le dava fastidio la sua presenza, anzi.
- Cosa ti passa per la testa. -
- È una domanda? -
- Mi conosci troppo bene per far finta di non capire. -
Il vampiro curvò un angolo della bocca in un mezzo sorriso: - Penso a tante cose, alcune importanti, altre decisamente più superficiali. -
La sua voce si era addolcita, ma la sua espressione divenne ancora più indecifrabile, anche se le parve di vedere una scintilla di divertimento brillare in fondo a quelle iridi gelate. Era suo fratello e non sapeva niente di lui.
- Non capisco mai cosa ti passi per la testa, non capisco i motivi del tuo comportamento… -
- Se tutti riuscissero a capirmi, non sarei un buon uomo d’affari. - ghignò e si allontanò da lei, senza interrompere il contatto visivo.
Rachel fece per aggiungere altro, quando Qayin si alzò e le posò sul comodino una pasticca bianca.
- Non so quanto possa farti stare meglio, ma Temarie ha insistito che tu la prendessi. Scommetto che il mal di testa non ti è ancora passato. Questa dovrebbe farti dormire il tempo necessario a farti riprendere. -
Rachel scosse la testa e se la rigirò tra le dita: - Aspirina. -
- Sì. Dovresti mandarla giù con un po’ d’acqua, se aspetti un attimo vado a prenderla. -
La ragazza scosse la testa e la ingoiò. Poi, sotto lo sguardo contrariato di Qayin, scese dal letto e si avvicinò alla scrivania.
- Dovresti riposare. - la rimproverò.
Rachel scrollò le spalle, rimise la Bladegun nelle fondine e prese Sebastian tra le braccia.
Con un sospiro rassegnato, il vampiro si diresse alla porta e la cacciatrice gli andò subito dietro. Si ritrovarono in un lungo corridoio pieno di porte chiuse, illuminato da delle gemme multicolori che galleggiavano sul soffitto in un lento moto circolare. Un tappetto viola stinto che si snodava in ogni direzione attutiva il rumore dei loro passi. Ad ogni angolo brillava una runa inscritta direttamente sull’intonaco del muro.
- Dove siamo. -
Qayin le lanciò un’occhiata di sbieco: - Nella gilda dei tecnomanti, mi sembra ovvio. -
- Non mi ricordo di aver mai visto questo corridoio. -
- Perché questa è la vecchia sede della gilda degli alchimisti, anche se ormai ci siamo uniti un bel po’ d’anni fa e siamo diventati una gilda unica. Purtroppo Fergia non ha voluto abbandonare questo palazzo. Quando siamo stati attaccati, ho dovuto chiedere a Temarie di attivare il portale di traslocazione per arrivare qui in tempo. -
Rachel annuì. Era l’unica spiegazione possibile, in effetti. L’arredamento che la circondava era molto diverso da quello della gilda dei tecnomanti, anche se, a giudicare da quello che aveva visto, le camere degli apprendisti non dovevano differenziarsi molto.
“Avranno lo stesso periodo di ferie, allora, visto che non ho visto nessuno.”
Percorsero il corridoio fino alla fine, girarono a destra e di nuovo a sinistra. Passando vicino a una porta semichiusa, la cacciatrice scorse il profilo addormentato di Gabriel, disteso su un divanetto di pelle scura. Russava appena, tutto rannicchiato su se stesso, le gambe tirate al petto e due occhiaie violacee che spiccavano sull’incarnato pallido e smunto del viso.
Proseguirono ancora un po’, zigzagando nei corridoio semibui, finché Qayin non bussò a una porta dove spiccava una targhetta argentata con su scritto “Infermeria”. Qualche istante più tardi, un uomo dai capelli color dell’acciaio, vestito con un camice bianco e l’espressione severa venne loro ad aprire.
- Come mai l’hai fatta alzare, Qayin? -
Aveva una voce severa ma rassegnata, come quella di un generale sconfitto.
- Non posso di certo bloccarla al letto, Ludwik. -
L’uomo sospirò e scosse la testa per poi spostarsi dalla porta: - Entrate, forza. -
Rachel non se lo fece ripetere due volte. La stanza dell’infermeria non era diversa da quella di un normale ospedale, con i lettini allineati uno di fianco all’altro e separati solo da un paravento di un bianco asettico. Percepì immediatamente la presenza di sette vampiri feriti e dei suoi due compagni. Una donna dai capelli bianchi raccolti in una crocchia la fissava dall'altro capo della stanza e Rachel ricambiò per un attimo il suo sguardo sgomento. Poi si diresse a passo sicuro verso gli ultimi due letti, quelli proprio sotto la grande finestra. Ad un tratto scorse con la coda dell’occhio un movimento al limite del suo campo visivo.
- Ah, finalmente ti sei svegliata. -
Alan fece capolino da dietro un paravento, con già addosso il suo sdrucito soprabito e la sua maglietta strappata. Era molto pallido. Anche se cercava di allacciarsi gli anfibi da solo, si vedeva che faceva fatica a piegarsi, come se ogni movimento fosse un'atroce sofferenza.
- Dovresti rimanere a letto, Slayer. - gli disse la donna, fulminandolo con un'occhiata penetrante.
Non era un medico, non aveva né stetoscopio né un camice come Ludwik, ma dalla gonna a vita alta e dai lunghi guanti viola, in tinta con l’abito nero e grigio su cui brillava un uroboro intrecciato a forma di otto, Rachel capì di essere davanti al capo della gilda degli alchimisti, Fergia D’Urden.
- Non posso, devo andare. - ribatté secco, ma non appena tentò di alzarsi, un capogiro lo costrinse di nuovo a sedersi sul letto.
- È inutile che ti ostini, ora come ora il tuo cuore non è capace di sostenere nemmeno lo sforzo di camminare. - gli andò vicino e gli alzò il mento, fissandolo con cipiglio critico, - Hai ancora le pupille dilatate e stai sudando. Il rischio che tu abbia un infarto è superiore al quaranta percento. Se decidi di non darmi retta e di fare di testa tua, le possibilità che tu possa arrivare vivo a domani diminuiscono di un ulteriore dieci percento. -
Alan si tirò indietro e rispose con un sorriso strafottente: - Non me ne fotte un cazzo delle tue percentuali. Io ho una missione da portare a termine e… -
- Tipo cercare la donna chiamata Eluaise? -
Alan trasalì.
- Come immaginavo. - sospirò Fergia e tornò a sedersi sulla piccola seggiola ai piedi dell’altro letto, - La tua donna può aspettare. Se esci da qui senza esserti riposato abbastanza, probabilmente morirai. Non penso che lei voglia questo, ti pare? -
Rachel spostò lo sguardo sul suo compagno. In qualche modo, capiva quello che provava. La gelida rabbia che gli incendiava lo sguardo era la stessa che emergeva ogni volta che le sue ricerche su Lehcar erano finite a un punto morto.
- Non c’è proprio nessun modo per velocizzare la guarigione. - domandò.
Fergia inclinò la testa e spostò la sua attenzione su di lei. Rimase in silenzio per un lungo momento, scrutandola con i suoi occhi neri e attenti. Rachel immaginò che stesse cercando di dare un tono alle sue parole.
- Cercherò di essere chiara. Siete stati vittime di una magia sconosciuta, che per poco non mandava entrambi all’altro mondo. Sinceramente, non capisco il vostro voler per forza partire subito, nelle vostre condizioni. Non sono un medico, però ho studiato dai migliori maghi di New England e so riconoscere gli effetti nocivi di un incantesimo. Quindi posso dirvi con altrettanta sicurezza che non potrete lasciare la gilda prima di un mese. -
- Un mese?! Stai scherzando, spero. - sbottò Alan, ma l’occhiata che Fergia gli scoccò lo fece ammutolire.
Se avesse avuto abbastanza energie, se non fosse stato così provato, di certo sarebbe corso fuori, infischiandosene delle conseguenze. La consapevolezza che sarebbe potuto morire al minimo sforzo lo bloccava.
Rachel lo vide abbassare lo sguardo, le labbra pallide strette nella morsa dei denti, le mani chiuse a pugno sulle ginocchia, le spalle tremanti. Avrebbe voluto replicare, ma che senso aveva negare l’evidenza? Il battito affaticato e lento del suo cuore, dei loro cuori, non lasciava nessuna speranza.
- Ha ragione, Alan. Adesso non saresti capace di muovere un passo fuori da qui. - disse una voce roca.
Tutti si girarono verso il lettino alle spalle di Fergia. Maxwell si era tirato a sedere e, con un’espressione sofferente, cercava di appoggiarsi allo schienale del letto. La donna si allungò per aiutarlo, ma il Lycan scosse la testa e la incenerì con l’unico occhio rimasto. Aveva il petto e le braccia tutte fasciate.
- Taci. - ringhiò Alan.
- Sempre il solito irritabile, melodrammatico tonto. Alle donne piacciono le cicatrici, sai? - ansimò con un sorriso divertito, per poi rivolgersi a Fergia, - Ascoltami, non possiamo permetterci di rimanere qui un mese. Mi piacerebbe starmene a letto servito e riverito coma un principe, ma non posso, non dormirei tranquillo sapendo che c’è una fanciulla in pericolo. Quindi o ci dici come fare per guarire più velocemente, oppure avrai tre morti sulla coscienza, perché al massimo tra una settimana ripartiremo. -
Fergia lo trafisse con un’occhiata affilata come un rasoio. Non era una donna abituata ad essere contraddetta. Fece per aprire bocca, quando Samuelle, Temarie e Ludwik fecero il loro ingresso nella sala.
Al vedere la sua migliore amica, il cuore di Rachel accelerò e per qualche motivo a lei sconosciuto si trovò a tirare un sospiro di sollievo. Non si era resa conto che fino ad allora era stata in piedi, rigida e tesa, con un groppo in gola che le rendeva difficile persino deglutire.
- Io e mia sorella sapremmo come fare. -
La voce di Samuelle era stanca, meno energica rispetto al solito, eppure non aveva nessuna esitazione. Rachel sapeva che quando usava quel tono qualunque tentativo di dissuaderla sarebbe stato inutile. Ma Fergia no.
- Ah, sì? E cosa avresti in mente di fare, ragazzina? -
- Fergia… - la blandì Ludwik.
- No, dottore, non tollero che venga messa in discussione la mia e la tua autorità da una bambinetta che puzza ancora di latte. -
Ludwik e Temarie si scambiarono un rapido cenno e sospirarono quasi all’unisono.
- In quanto medico curante, desidero che ascolti quello che questa ragazza ha da dire. -
La donna sbatté le palpebre, come se non riuscisse a capacitarsi di quello che aveva sentito. Poi, quando capì, dapprima spalancò gli occhi, in seguito cominciò a tamburellare le unghie sul bracciolo della sedia.
- Adesso anche tu hai da ridire sulle mie decisioni. - sibilò.
- Il tuo comportamento diventa poco professionale quando ti senti attaccata nell’orgoglio. - Ludwik incrociò le braccia al petto con un’aria profondamente spazientita, - Conosco molto bene Samuelle, so quanto lei e sua sorella siano brave nel loro lavoro. Ho sentito la loro proposta e penso che dovresti ascoltarla anche tu, Fergia. -
Per un lungo momento i due si misurarono con lo sguardo, un duello silenzioso che né Rachel né nessuno degli astanti osò interrompere. Alla fine il dottore dovette vincere, perché la donna si appoggiò allo schienale della sedia e con un gesto stizzito della mano invitò a Samuelle di parlare.
- Je pensais... anzi, io e mia sorella pensavamo che sarebbe sufficiente impiantare la gemma del potere nel petto dei due cacciatori. Applicheremo dei fori alla pietra e vi faremo passare dei fili di linyum dello spessore di un nanometro, poi basterà fare un piccolo taglio all’altezza della vena cava inferiore e far sì che i fili vi si colleghino naturalmente. -
- Interessante. Peccato che quella pietruzza non sia sufficiente a sanare rapidamente le ferite del cuore senza una buona dose di riposo. - Fergia sottolineò quell’ultima parola con una certa decisione, - Se fosse stato così facile, l’avrei proposto io stessa. -
Samuelle si morse le labbra e Rachel notò il suo sguardo adombrarsi. In quello stesso istante, l’attenzione di Alan, fino ad allora concentrata sulla discussione in corso, si spostò su un pinnacolo di fumo fuori dalla finestra.
- Però i danni al cuore guarirebbero più in fretta e, di conseguenza, diminuirebbero i giorni di degenza. - insistette la ragazza, ma Fergia scosse la testa.
- Sarebbero comunque necessarie almeno tre settimane. Perché possano andarsene in meno di una settimana, ci vorrebbero due pietre del potere pure all’ottanta, ottantacinque percento. Ne avremmo anche alcune, ma per tagliarle della misura giusta senza contaminarle ci vorrebbero… -
Prima che potesse proseguire oltre, Samuelle la interruppe: - Io le ho. -
Frugò nel marsupio di cuoio e tirò fuori due piccole gemme viola perfettamente sferiche, che rilucevano di un tenue lucore azzurrato. Fergia strabuzzò gli occhi, aprendo la bocca un paio di volte senza riuscire ad articolare una parola.
- È per questo che ho insistito affinché l’ascoltassi. - intervenne Ludwik, sorridendo divertito, - Nemmeno io ci credevo, ma quando stamattina è corsa da me per dirmi cosa aveva in mente di fare e me le ha mostrate, mi sono dovuto ricredere. -
La donna prese delicatamente le gemme e se le rigirò tra le mani, osservandole in controluce. Chissà se aveva notato il sorriso vittorioso della “ragazzina”.
- Potete fare qualcosa anche per il mio occhio? - domandò Maxwell.
- Avevo pensato di impiantarti un oculus normale, ma credo che ti possa essere più utile il modello "rift". Da quello che Ludwik mi ha detto, non hai subito dei danni irreparabili al nervo ottico, quindi tornerai a vedere anche meglio di prima, ma mi occorrerà qualche giorno per modificare quelli che ci sono nel laboratorio di gilda. - disse Temarie.
Il lycan sogghignò: - Meglio di prima dubito, piccoletta. Nessuna protesi potrà mai essere migliore degli occhi di un licantropo. –
Per la prima volta dal momento in cui era entrata, la ragazza sorrise: - Vedremo, vedremo. -
Maxwell la ringraziò con un cenno del capo, mentre Alan continuava a guardare fuori dalla finestra, perso in chissà quali pensieri.
- Dunque è tutto sistemato. - concluse Rachel.
- Sì. - dichiarò decisa Fergia, prima di ridare le gemme a Samuelle, - Ora abbiamo tutti bisogno di riposare. Domani penseremo a programmare gli interventi. No, non ho intenzione di discuterne adesso, ragazzina. Vai a stenderti un po’ sul letto. In quello stato non sapresti praticare un foro a un sasso. -
Samuelle decise di non ribattere. Poi, mentre tutti gli altri defluivano verso la porta, fissò per un lungo istante la schiena di Alan. Scrollò le spalle e il suo sguardo si incupì. Temarie le strinse il braccio e si morse le labbra, i lineamenti del viso irrigiditi in una brutta smorfia. La trascinò fuori senza salutare.
Rachel attese ancora un momento, poi le seguì in silenzio. Le parole che voleva pronunciare erano rimaste incastrate in gola, serrata da un sentimento che non conosceva.
 
*
 
Era mezzanotte passata quando Alan udì il cigolio della porta e vide l’ombra del visitatore allungarsi sul pavimento. Con un sospiro stanco si tirò su e, quando i capelli bianchi e scompigliati di Samuelle fecero capolino da dietro il paravento, era già quasi riuscito a mettersi seduto.
La luce chiara della luna filtrava attraverso i vetri smerigliati della finestra, delineando la figura della ragazza in una scala di grigi evanescenti, sfumati sulla pelle candida delle spalle scoperte.
- Cosa ci fai qui? -
Samuelle si sedette sulla sedia senza una parola e appoggiò il mento sulle mani intrecciate, l’occhio di cristallo opalescente concentrato sul lucore argentato che danzava sul davanzale della finestra. Tacque per un tempo che potevano essere secondi o minuti. Nel buio di quella stanza asettica, dove l’unico suono udibile era il respiro profondo di Maxwell, il tempo si perdeva nel silenzio.
- Avevo voglia di vederti. -
- Dovresti riposare, Samuelle. -
- Je sais, ma non ho sonno. -
Trasse un profondo respiro e scosse la testa, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
- Ad essere proprio sincera, è da quando te ne sei andato che non riesco più a dormire bene. -
Alan annuì appena. Le pupille si erano rimpicciolite, permettendogli di vederla perfettamente al buio, di accorgersi di suoi pugni chiusi, dei denti affondati nelle labbra, del riflesso liquido che le offuscava lo sguardo.
- Lo so che è sciocco, però credo… -
- Non dirlo, Sam. -
- Che te lo dica o meno non cambia la sostanza delle cose. Le parole non diventano reali solo quando le si pronuncia e chi è convinto di una cosa del genere è davvero un coglione. - ridacchiò.
Si stropicciò gli occhi e scrollò le spalle, come se quel semplice gesto bastasse a scrollarle di dosso il peso che sentiva.
- Lo sapevo fin dall’inizio che non sarebbe successo nulla, però non è una cosa che controllo. - continuò.
- Non ti sto incolpando, nessuno lo sta facendo. -
- Oh oui, qualcuno mi sta continuando a ripetere quando sia stupida. Purtroppo non è una cosa facile da gestire, soprattutto se sei tu stesso a colpevolizzarti per qualcosa su cui non hai potere. So che non dipende da me e che tra un po’ passerà. C’è una parte di me che però vorrebbe cambiare le cose, che si ostina a pensare a come sarebbe se facessi questo, quello, quell’altro ancora, senza rendersi davvero conto che sarebbe tutto inutile fin dal principio. A volte invidio Rachel: voi Slayer non provate sentimenti profondi, non dovete soffrire per… -
La parola aleggiò nell’aria e, muta e sanguinante, si perse nel silenzio.
- Mi dispiace, Samuelle. -
- Dispiace anche a me, non sai quanto. -
Il brusio che giungeva dalla strada si attutì. Una nuvola oscurò la luna e la cascata di luce che si riversava nella stanza venne inghiottita dalle ombre e smembrata in tante piccole strisce luminose.
- Sai, molto prima dell’industrializzazione, Chasterm era una città dove passavano tanti cantastorie, menestrelli, tutti diretti a corte. Non era raro vederli agli angoli delle strade, attorniati da bambini e adulti, mentre si prodigavano a raccontare ascese e cadute di lord, trame intessute da crudeli streghe, avventure di impavidi cavalieri pronti ad affrontare draghi sputafuoco per conquistare il cuore della loro principessa. Ricordi quando ti ho detto che ho sentito tutte le leggende sulle fate? Non stavo scherzando. Anche se non sono nata qui, quando mi sono trasferita dai miei zii per cominciare a studiare rimanevo spesso da sola a casa con mia sorella e mia cugina più piccola. Con noi, nonostante fossimo grandi, c'era la nostra vicina di casa, la signora Dena. L’adoravamo, sai? Faceva dei biscotti al burro buonissimi e sorrideva sempre, anche quando la gamba le faceva male e non riusciva quasi a camminare. -
Sbatté di nuovo le palpebre, tirandosi via una lacrima con il dorso della mano.
- C’era… una storia che ci raccontava spesso. Aveva un titolo strano e lei lo pronunciava con la sua erre moscia, con le parole che sibilavano nei fori tra i denti. Scommetto che anche tu la conosci. -
- Sam… -
- Non, laissez-moi finir. - gli prese la mano tra le sue, regalandogli un tremulo sorriso, - Solo questa fiaba, solo per stanotte. -
Il cacciatore non si mosse, nemmeno quando percepì le sue dita accarezzargli il profilo del mento, il pollice che sfiorava la vena pulsante del collo.
- C’era una volta, molto tempo fa, una ninfa bellissima, dai riccioli color del grano maturo e gli occhi tersi come il cielo estivo. Viveva assieme alle sue sorelle sulla costa di un’isola sperduta e amava recarsi con loro a passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e a fare il bagno nelle limpide acque del mare. Il loro padre, il dio dei fiumi e dei boschi, si raccomandava sempre che stessero attente, che gli umani avrebbero potuto far loro del male, ma nessuna aveva mai dato peso a quelle parole. La notte del solstizio di primavera, stanca di stare nel suo palazzo di rami e giunchi, la ninfa ingannò le guardie e andò sulla spiaggia, dove si stese a guardare l’infrangersi delle onde sugli scogli. Cullata da quel suono soave, gli occhi le si chiusero. Quando si svegliò, era circondata da un gruppo di pescatori. Visto che le ninfe erano disprezzate come qualunque altro mostro, gli uomini, spinti dall’odio che da sempre animava i loro cuori, cominciarono a picchiarla. La ninfa tentò di scappare, ma invano. Alla fine, soddisfatti di quello che avevano fatto, i tre pescatori arroventarono un arpione e le bruciarono metà viso. In seguito la presero e la buttarono in una grotta nascosta dagli scogli, lontana dalla spiaggia dove lei e le sue sorelle andavano. - si fermò, indugiando sul profilo della spalla fasciata, - La ninfa rimase lì, in compagnia solo della disperazione e del dolore delle ferite. Passarono due giorni, poi tre, poi quattro. Al quinto giorno, pensò che la Dama Nera sarebbe venuta a prenderla ma, prima di perdere i sensi, percepì delle mani gentili sollevarla. Quando rinvenne, si trovò su un letto morbido, in una piccola capanna di legno. Al suo fianco, seduto su una sedia di vimini e paglia, c’era un giovane dalla pelle… -
- Spessa come il cuoio e gli occhi più scuri del carbone. - completò Alan.
- Oh. Conosci questa storia? -
- Quando ero piccolo mia madre mi raccontava spesso queste fiabe popolari. -
- Quindi sai anche come finisce. -
- Non me lo ricordo. - mentì, sorridendo sghembo.
- Il giovane si prese cura della ninfa. Era molto gentile con lei e fece di tutto affinché si sentisse a suo agio e si riprendesse in fretta. Lei però non parlava mai, aveva paura. Poi, col passare delle settimane, si rese conto che quell'uomo non era come tutti gli altri, che la sua non era una gentilezza di facciata, ma che ci teneva davvero a lei. Durante quel periodo la ninfa si innamorò perdutamente di lui. Le bastava una sua carezza per stare meglio, un suo sorriso perché si sentisse invadere da una gioia improvvisa, una sua occhiata per mandarle il cuore in gola. Un giorno decise di dichiararsi, così una mattina uscì e andò a raccogliere dei fiori nel bosco. Lì incontrò le sue sorelle. -
Samuelle gli passò una mano tremante sulla fronte, la voce incrinata sempre più bassa, fievole.
- Queste lì per lì non la riconobbero, ma poi, quando la ninfa venne loro incontro, l'abbracciarono e la baciarono, chiedendole in lacrime cosa le fosse successo. Allora raccontò gli eventi degli ultimi mesi, da quello che le avevano fatto i pescatori fino a quel momento, rivelando la sua intenzione di confessare il suo amore. Le sorelle, inorridite, provarono a dissuaderla, la pregarono di tornare a casa con loro, ma lei non ne volle sapere. Diede loro le spalle e tornò alla casa del pescatore con un mazzo di lillà, gardenie, mughetti e bocche di leone. Quando arrivò, udì una risata allegra e una voce di donna provenire dall’interno: dentro, stretta tra le braccia del giovane, c’era una ragazza con i capelli di fiamma e il viso più bello che avesse mai visto tra le mortali. La ninfa rimase a guardarli per un po’, poi, col cuore a pezzi e le guance rigate dalle lacrime, se ne andò, tornando nel castello del dio del fiume. -
Abbassò gli occhi e giunse le mani in grembo. Alan stette a guardarla senza trovare niente da dire. Sapeva che qualunque cosa avesse detto non sarebbe servita, così optò per rimanere in silenzio assieme a lei.
- Che stupida che è stata la ninfa. Avrebbe dovuto capire che quell’umano non l’avrebbe mai voluta. -
- Non poteva saperlo. -
- Avrebbe dovuto immaginarlo. -
Il cacciatore prese un profondo respiro: - Alla fine la ninfa muore per il cuore spezzato, giusto? –
La ragazza annuì.
- Bè, è una fiaba stupida, raccontata da un bardo che aveva il cuore avvelenato da un amore non corrisposto. Alla fine, è stata raccontata in un’epoca in cui le relazioni interraziali erano proibite. – l’osservò e si allungò verso di lei, - Non si possono controllare le emozioni, Samuelle, non puoi scegliere chi amare. Ed è giusto che sia così, perché è questo ciò che vi rende umani, ciò che vi rende vivi. –
- Lo sei anche tu… -
- Meno di quello che potresti pensare. –
La ragazza si premette le mani sulle cuffie che le coprivano le orecchie, come se non volesse sentire. Una lacrima sfuggì dalle ciglia e le scivolò lungo la guancia.
- Alan… -
- Dimmi, Samuelle. -
- Grazie per avermi ascoltata. - si alzò e gli rivolse un sorriso mesto, tirato, - Scusami se ti ho annoiato con le mie chiacchiere… -
- Non mi hai annoiato. -
A fatica si tirò su anche lui e le si mise davanti. Le braccia di Samuelle si stringevano attorno ai suoi fianchi. Tremava, scossa da violenti singhiozzi.
- Grazie per quello che hai fatto. - disse semplicemente il cacciatore.
Quella semplice parola suonava strana persino a lui, eppure sapeva che era l’unica cosa che aveva senso dire in quel momento.
Samuelle lo abbracciò ancora più stretto e nascose il viso nella sua spalla. Le bende, attraverso la maglietta, cominciarono ad inumidirsi.
- Un giorno mi spiegherai come hai fatto a parlare con Meredith. - buttò lì Alan, per sdrammatizzare.
La ragazza annuì sospirando. Lentamente, come se non avesse più forze, lasciò la presa, si girò e si allontanò. Non indugiò nemmeno un istante. Aprì la porta e svanì nel corridoio buio senza mai voltarsi indietro.
Il cacciatore rimase in piedi, osservando i raggi lunari danzare nella stanza, finché non sentì le ginocchia cedergli e fu costretto a sedersi di nuovo.
All'improvviso un bagliore rosato si accese nella tasca del soprabito e il cristallo volteggiò nell’aria, cominciando a plasmarsi in uno specchio liquido e pulsante d’energia magica. Alan si stava già per rimettere in piedi, pronto a parlare con Frejie, quando il prisma ebbe come un sussulto e la voce preoccupata di Angelika emerse dalla luce. 
- Alan… -
- Angelika, ma che diamine…? Perché mi chiami a quest’ora? -
La voce della ragazza era distorta, sfrigolava come i cavi elettrici quando facevano contatto.
- Alan… Midwinter… Frejie è… -
La luce aranciata divenne incerta, debole come la fiamma di una candela lasciata fuori dalla finestra. Poi, davanti al suo sguardo attonito, lo specchio collassò in una nuvola di scintille.
 
Due cavalli alati davano il benvenuto ai passeggeri alla stazione di Chasterm. Si diceva che l’uomo che le avesse costruite, un nano famoso di nome Vumli Sognus, avesse voluto esprimere la sua idea di progresso attraverso quelle figure, che, secondo i più esimi critici d’arte, rappresentavano l’evoluzione tecnica, guidata dalla ragione e dalla volontà. Alan non sapeva se questo fosse vero, ma era più che sicuro che nessun nano avrebbe mai eretto spontaneamente le statue di due cavalli, i nani odiano le cose più alte di loro.
Si guardò nervosamente intorno. Avevano il treno tra una decina di minuti e Maxwell e Rachel non si vedevano ancora.
“Proprio oggi devono essere in ritardo?”
Scosse la testa, incrociò le braccia al petto e sospirò, ignorando le occhiate infastidite degli uomini e delle donne che gli passavano vicino quando si accorgevano che quello che aveva al suo fianco non era un Gemren particolarmente realistico, ma un cavallo riottoso e ben poco incline a spostarsi.
- Dai, Brunilde, su, fai la brava. –
La cavalla obbedì con uno sbuffo. Era rimasta tutta sola per quasi dodici giorni in quella taverna in periferia. Quella mattina, se Alan non fosse arrivato poco prima dell’alba a buttare giù dal letto quel bifolco del proprietario, l’avrebbero venduta o anche macellata. La guardò dritta negli occhi e le accarezzò la criniera scompigliata.
Quella settimana era passata più in fretta di quanto si aspettasse, tra l’operazione, la degenza e la routine quotidiana della gilda che, negli ultimi tre giorni, aveva riaccolto tutti i suoi allievi di ritorno dalle vacanze. Il cacciatore aveva ascoltato le loro chiacchiere per i corridoi e tutti i pettegolezzi che si erano diffusi sui pazienti che soggiornavano in Infermeria, ma mai nessuno si era spinto ad entrare per confermare la veridicità delle voci. Nessuno, parte una ragazzina, che però era scappata urlando quando uno dei vampiri le aveva rivolto un sorriso a trentadue denti con tanto di canini in mostra. Da quel momento non erano più stati disturbati, almeno fino a quella mattina, quando Fergia li aveva fatti alzare presto per sottoporli alle ultime analisi. 
Lui e Rachel si erano ripresi piuttosto bene, la gemma del potere si era unita perfettamente al cuore. Maxwell, invece, faticava ancora a raccapezzarsi di come potesse vedere così bene con la nuova protesi.
L’orologio sulla facciata della stazione scoccò le 11.07 e una voce cordiale annunciò che entro otto minuti il treno diretto nella contea di Readings sarebbe partito. Il cacciatore tirò le briglie e Brunilde, con uno sbuffo innervosito, si avvicinò, appoggiando il muso contro il suo petto, all’altezza del bitorzolo sul cuore.
- Ricorda di non entrare nei campi anti-magia e di non compiere sforzi eccessivi. Cerca di evitare qualsiasi combattimento, gli alcolici assolutamente no e niente fumo. - scimmiottò a bassa voce le parole Fergia, - Sì, già che ci siamo divento vegetariano. - borbottò cupo.
- Sia mai! -
La voce baldanzosa di Maxwell lo fece girare. 
Il suo vecchio maestro camminava con Rachel sottobraccio, osservando il caos della stazione con uno sguardo un po’ perso. Probabilmente ci avrebbe messo un po’ di tempo ad abituarsi ad avere quel coso nell’occhio. La cacciatrice sfoggiava la sua solita espressione impassibile, che contrastava col delicato vestito con vaporose gonne di tulle e trasparenti maniche a sbuffo. Nella mano sinistra stringeva una valigia piena di chissà cosa. Sebastian le svolazzava vicino, con in testa un cartoccio chiuso che emanava un delizioso odore zuccherino. Tale cartoccio destò non solo l’attenzione di Alan, ma anche quella di Brunilde.
- Cosa c’è lì dentro? - domandò curioso, aveva già l'acquolina in bocca.
Maxwell ghignò saputo e aprì la busta: - Allora, i tre muffin sono tutti al cioccolato, mentre le brioche sono tutte alla crema di limone. Vuoi favorire? -
- Non dovevamo mangiare roba sana? - 
- Cosa c’è di più sano dei dolcetti appena sfornati da una pasticceria artigianale? - 
Il Lycan prese un muffin e lo azzannò, sporcandosi tutte le labbra di cioccolato. 
- Ringrazia Rachel, comunque. È stata lei a portarmi lì. - aggiunse.
Alan prese un cornetto e chinò appena la testa, in un silenzioso segno di ringraziamento. La Slayer annuì appena. Era da quando aveva parlato con Samuelle quella notte che non gli rivolgeva mai direttamente la parola e non sapeva se fosse perché la sua amica le aveva raccontato ciò che era accaduto tra loro due o perché si era svegliata con la luna storta. Conoscendo il tipo, non poteva essere sicuro di nulla.
- Attenzione, il treno diretto ad Eartshire delle ore 11.15 partirà tra tre minuti. Tutti i passeggeri sono pregati di avviarsi al binario dodici. -
- Mi sa ci conviene sbrigarci. - osservò Maxwell.
- Sì, non ho assolutamente voglia di aspettare il prossimo tra quattro ore. -
Salirono rapidamente le scale e, incuranti delle occhiatacce e degli improperi che si lasciavano alle spalle, oltrepassarono l’entrata sorvegliata dai Guardiani in divisa.
La stazione, all’interno, era ancora più grande di quanto che il cacciatore ricordasse. La tettoia, composta da cinque volte in ferro e vetro smerigliato, si innalzava al di sopra dei dodici binari, un record considerando che quella di Dranlon ne contava diciotto. Tutti erano più o meno affollati da passeggeri, controllori e mendicanti appoggiati al di sotto dei tabelloni a split-flap, dove le lettere cigolavano sugli ingranaggi arrugginiti segnando l’ora e la destinazione del treno. Sopra le loro teste, cinque grossi ventilatori dissipavano continuamente il vapore e i fumi che saturavano l’aria.
Ovviamente, non potendo correre, i tre arrivarono al treno per il rotto della cuffia. Fendere la folla, in un’altra occasione, sarebbe stato veramente difficile, ma un cavallo palesemente innervosito e l’occhio finto di Maxwell avevano contribuito ad aprir loro la strada. Nemmeno il controllore, un elfo dal viso pulito e l’espressione severa da classico newenglandese fissato con la puntualità, ebbe da ridire quando allo scoccare delle 11.15 Alan chiese di aprire il vagone merci per caricare Brunilde. La cavalla, per quanto fosse di solito un animale calmo e obbediente, non ne voleva sapere di farsi stipare in mezzo a due stalloni e tre giumente di razza, scalpitava e tirava le redini per uscire. Tentò anche di mordere Alan, col risultato che il cacciatore rinunciò a calmarla e, con un gesto scocciato, mollò le redini, per poi scattare fuori prima che Brunilde potesse muovere anche un solo passo.
Quando salì sulla carrozza passeggeri erano ormai le 11.30 passate.
- Finalmente, pensavamo avessi deciso di viaggiare nel vagone merci! - scherzò Maxwell.
- Passami un altro cornetto. - sbuffò in risposta.
Alan si lasciò cadere sul sedile vicino al finestrino, massaggiandosi la radice del naso con aria esasperata. Persino il sapore delizioso della crema al limone non riuscì a fargli tornare il buon umore.
- La signorina chiede se c’è qualcosa che la preoccupa, signor Alan. -
La voce metallica di Sebastian gli picchiò sui nervi.
- Non ho nulla. -
- A lei sembra di sì. - insistette il Gemren.
- Attenzione, prego. Il treno 2367 in partenza al binario 8 partirà con venti minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio. -
“Ci mancava pure questa…”
- Hai delle brutte occhiaie, tonto. - Maxwell inclinò appena la testa, - Pensi davvero di potermi fregare? Capisco che adesso sono mezzo disabile e mezzo cieco, ma ho ancora un occhio buono. -
Alan non raccolse la provocazione e si limitò a spostare la sua attenzione fuori dal finestrino. 
Da quella sera, Angelika aveva provato a ricontattarlo più volte, ma ogni tentativo si era stato vano. Dubitava ci fosse qualche interferenza magica così forte da impedire il contatto, oppure che Frejie avesse perso le sue doti magiche nelle ultime settimane, però ogni volta lo specchio non aveva fatto in tempo a formarsi che già era collassato. L’unica cosa che Angelika aveva continuato a ripetere era "Midwinter" e Alan suppose si riferisse alla contea di Midwinter.
“C’è qualcosa che non va.”
- Non è niente. Sono solo ancora spossato per l’operazione, tutto qua. - sospirò stanco.
Rachel e Sebastian si scambiarono uno sguardo eloquente. Poi Maxwell chiuse gli occhi e Rachel tirò fuori un libretto con la costa rovinata e le lettere vergate in un oro così scolorito da risultare illeggibili. Dopo nemmeno un minuto, il Lycan si alzò.
- Mi è venuta fame, vado a vedere se c’è qualcosa nel vagone ristorante. –
Senza aggiungere altro, si avviò, serpeggiando in mezzo ai bagagli e ai corpi ansimanti dei ritardatari in mezzo al corridoio.
Alan si appoggiò allo schienale e adagiò la testa contro il vetro, osservando una giovane coppia che si salutava sulla banchina a fianco. La donna, una giovane graziosa con una treccia corta e un capello di velluto a tesa larga, si stringeva a un mezz’orco dagli occhi piccoli e le braccia villose e il collo taurino e forte. I muscoli parevano fatti di pietra, probabilmente induriti dal pesante lavoro in qualche fabbrica. Lei nascondeva il viso nel suo torace ampio e si aggrappava alle sue spalle larghe, le guance annerite dal mascara sciolto, che aveva sporcato la camicia bianca del compagno. Quando lui la lasciò, le porse un fazzoletto con un sorriso rassicurante.
Alan si mise a origliare senza volerlo. Non bastava un vetro così sottile per isolarlo dal mondo. Non con quell’udito, almeno.
- Non voglio partire… - pigolò la donna.
- Oh, dai, ci vedremo ogni mese. Non è un addio, solo un arrivederci. - le passò una mano sulla guancia asciugandole le lacrime e arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito.
- Perché sorridi? Sono l’unica che sembra dispiaciuta! -
- Sono felice che tu abbia finalmente ottenuto la borsa di studio che tanto desideravi. Mi mancherai. Da morire. Ma allo stesso tempo sono fiero di te. - la afferrò per i fianchi, la sollevò e la strinse a sé, avvolgendola in un abbraccio dolce e delicato, - Ti aspetterò qui e, se mai avrai bisogno di me, correrò da te. -
- Promesso? -
- Promesso. -
La posò di nuovo a terra e, prima che il controllore chiudesse la porta e il capotreno fischiasse per la partenza, le diede un rapido bacio sulle labbra.
- Non è educazione fissare le persone, le ricorda la signorina. - gracchiò Sebastian.
- Non stavo fissando nessuno. -
Il pipistrello planò sul bracciolo e appoggiò il testone alla spalla della sua padrona: - La signorina dice di sì. -
“Mai che si faccia i cazzi suoi, eh?”
Sospirò e intrecciò le dita sul petto. Quanto tempo era passato da che avevano annunciato il ritardo del treno? Uno, due minuti? Alan non lo sapeva, eppure gli sembrava che il tempo scorresse più lentamente del normale e, se questo da una parte lo innervosiva, dall’altra lo rassicurava, ricordandogli che aveva sempre tempo per scendere.
“Perché dovrei scendere?”
Si morse le labbra e si passò una mano sul petto, sulla collinetta sotto la quale premeva la gemma del potere. Per quanto ci provasse, continuava a pensare alle chiamate di Angelika, alla sua voce intermittente, venata da un sentimento di angoscia che sfociava nella paura. Sembrava supplicarlo, ma Alan non riusciva a capire perché, nè cosa stesse succedendo. Quell’incertezza, quel non sapere, per quanto cercasse di nasconderlo, lo stava logorando.
Un’idea, allora, lo pungolò con prepotenza dai meandri del suo cervello, un’idea piena di implicazioni e che avrebbe portato a delle complicazioni, ma Alan seppe che, in fondo, era quella la cosa giusta da fare. Però, prima, doveva aspettare.
Accavallò le gambe e attese.
- Vado in bagno. – mugugnò infine, alzandosi dopo sette minuti esatti.
- Perché ti porti le armi. – Rachel alzò gli occhi dal libro che stava leggendo.
- Non si sa mai. -
- Cos’hai in mente. –
- Devo solo andare in bagno, il come lo vado a fare non ti deve importare. – sfoggiò il suo ghigno insopportabile, - Devo forse dedurre che vuoi venire con me? Che fai, me lo tieni anche mentre piscio? - 
La cacciatrice sgranò appena gli occhi e lo scrutò per un lungo momento, con una smorfia quasi infastidita sulle labbra. Poi, come previsto, tornò a leggere.
Con calma, Alan arrivò alla fine della carrozza e si mise a fare la coda, calcolando mentalmente quanto mancasse alla partenza.
Otto minuti.
“Midwinter… cosa ci fanno Frejie e Angelika a Midwinter?”
La fila scorreva lentamente. La gente entrava per poi uscire dopo trenta, quaranta secondi. Un uomo ce ne mise centoventi, un altro ancora quasi centoquaranta. Alan contava nella mente il tempo che passava, osservando di tanto in tanto l’orologio apposto alla sua sinistra sopra la porta dell’altro vagone per essere sicuro di non sbagliare. La puntualità, in quel caso, era essenziale.
- Signore, mi scusi… sarebbe il suo turno. -
L’anziana signora che aveva richiamato la sua attenzione era accompagnata da due bambini, entrambi vestiti con dei ridicoli calzoni color grigio topo e un panciotto a doppiopetto che li faceva sembrare più grassi di quello che già erano.
Alan si spostò, facendole cenno di entrare al suo posto. La signora non si fece pregare.
Quattro minuti.
I due operai che stavano controllando le rotaie in testa al treno, si fecero un cenno e si spostarono.
Quando chiuse la porta alle sue spalle, Alan attese altri due minuti, prima di scendere le scale e uscire dal treno. Per sbaglio, urtò il capotreno che gli lanciò un’occhiata truce, prima di fischiare e entrare.
Appena udì i passi dell’uomo allontanarsi, il cacciatore scattò verso il vagone merci, sfogliò nel mazzo di chiavi che aveva appena rubato, infilò quella giusta nel lucchetto e aprì.
Non appena il portellone si spalancò, Brunilde trotterellò fuori, regalandogli un’occhiata piena di risentimento.
- Ehi, tu cosa stai facendo? –
Era il controllore, l’elfo dal viso pulito, inquadrato come tutti i newenglandesi. Alan si voltò e, prima che potesse dire altro, gli tirò una testata in mezzo alla fronte. Il setto nasale si ruppe con uno schiocco sordo, mentre l’elfo cadeva a terra privo di sensi.
Il treno stava già partendo, quando il cacciatore infilò nuovamente il lucchetto e si fece largo tra la folla in groppa a Brunilde.

 


 

Note d'autore, aka I deliri saltuari di Hime

Ciu!

Alors, questo capitolo è venuto più lungo degli altri. Eh... vabbè, dai, il prossimo cercherò di farlo più breve. So che la formattazione non è il massimo, ma ho dovuto fare tutto da cellulare ed è stato un delirio<< Prometto di mettere l'immagine e di aggiustare il tutto non appena mi tornerà a funzionare decentemente internet. Per il resto? Vi è piaciuto? Fatemelo sapere u.u
Un bacione e a presto
Hime

 

  
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