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Autore: Halley Silver Comet    25/06/2016    4 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 18



- Capitolo Diciottesimo -
Vento di Decisioni




D
all’alto del Gianicolo si iniziarono ad intravedere le prime luci dell’alba che, con le loro tinte dal rosa all’arancio, sembravano risvegliare dolcemente case e monumenti, tra i quali spiccavano le imponenti moli di Castel Sant’Angelo e della cupola di San Pietro.
Marcello era seduto a gambe incrociate su uno dei muretti che delimitavano la strada e guardava dritto davanti a sé, immerso in una sorta di dormiveglia che gli impediva di ammirare l’incantevole bellezza di quel panorama. Infatti, non appena erano rintoccate le quattro di mattina, aveva smesso di fissare il soffitto ed era letteralmente scappato da casa, non volendosi trovare lì quando sarebbe arrivata la telefonata che gli avrebbe comunicato il verdetto dell’operazione di suo padre.

Se non fosse stato tanto presto e la palestra del signor Nardone non fosse stata chiusa, sarebbe volentieri andato a prendere a pugni il sacco da boxe, ma, in mancanza di questa possibilità, aveva deciso di ripiegare su qualcos’altro: correre finché non sarebbe crollato a terra sfinito.

Anche se non sapeva se quel desiderio di fuga e di auto-annullamento era dovuto a codardia o meno, era certo di non essere pronto a ricevere nessun tipo di notizia, buona o cattiva che fosse, poiché si sentiva una mina vagante pronta ad esplodere al minimo urto.
Ancora una volta furono alcune campane a ridestarlo dal torpore in cui era caduto, facendogli riacquistare finalmente sensibilità alle gambe, indolenzite per la scomoda posizione che aveva assunto per tanto tempo. A quel punto, notando che cominciava ad esserci un maggiore via vai di gente, decise di rimettersi in moto e scendere dal colle per raggiungere il Lungotevere in Sassia, affrettandosi a lasciarsi alle spalle la fiumana di gente diretta verso il Santo Spirito1 e sperando che nessuno lo fermasse per chiedere indicazioni, visto che, quella mattina, non era molto ben disposto verso le relazioni interpersonali.
Tuttavia, sentendo il bisogno fisico di stare in movimento, Marcello evitò di prendere mezzi pubblici per tornare a casa, preferendo, invece, costeggiare l’argine del Tevere e farsi così riscaldare dal piacevole sole di metà maggio. Era appena riuscito a recuperare un po’ di serenità, quando la sua attenzione venne catturata da un trafiletto di giornale esposto fuori da un’edicola, che diceva: La Capitale si veste a festa per le nozze dell’imprenditore Ascanio Colonna.
Dopo aver letto il titolo dell’articolo, se da una parte il giovane si trattenne dall’imprecare contro il rivale e le sue idee di grandezza, dall’altra ringraziò di non aver preso parte a quella commedia e di non essere stato tra la torma di sudditi di Colonna che avevano omaggiato quell’unione così precaria. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di disgustarsi, che lesse un altro trafiletto, questa volta davvero inquietante: Morto Edward Carter, magnate dell’industria petroliera britannica.
Non credendo ai suoi occhi, il giovane distolse lo sguardo e poi attese qualche secondo prima di tornare a leggere. Le parole, però, non cambiarono, confermadogli che Lord Carter era passato a miglior vita.
Piuttosto stordito da quella notizia, si cacciò immediatamente le mani nella tasca dei pantaloni della tuta, sperando di trovarvi gli spiccioli necessari per comprare il quotidiano, giacché, essendo uscito di casa in fretta e furia, non aveva pensato a prendere il portafoglio. Per fortuna, riuscì a racimolare quel tanto che bastava per acquistare una copia, così, senza indugiare oltre, si fiondò all’interno dell’edicola.

Quando, un quarto d’ora dopo, Gerardo gli aprì in pigiama la porta del proprio appartamento, un’espressione insonnolita dipinta sul volto, Marcello capì che, forse, aveva disturbato davvero troppo presto il suo amico. Sapeva che era tutt’altro mattiniero, soprattutto nei giorni che non doveva recarsi in ufficio, perciò si augurò che le importanti notizie che gli stava portando sarebbero bastate a farsi perdonare per quell’irruzione inattesa.
«Marcello... che cosa ci fai qui, a quest’ora?!» gli domandò immediatamente l’amico, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Buongiorno, Gerardo, e scusa per il disturbo, ma vedi...» lo salutò il biondo, indeciso su come continuare. «Ecco... è piuttosto complicato».
Avvertendo la sua irrequietudine, l’altro aggrottò appena la fronte e lo guardò preoccupato.
«È forse successo qualcosa a tuo papà?» domandò subito dopo, improvvisamente allarmato.
«Oh, no... Cioè, ancora non lo so...» gli rispose quello, piuttosto confuso, rendendosi conto che il sonno arretrato, il timore per la sorte di suo padre e le ultime inquietanti rivelazioni stavano mettendo a dura prova la sua lucidità.
«Come sarebbe a dire ancora non lo so?» ripeté Gerardo, spalancando gli occhi e fissandolo come se avesse perso il senno. E, di fatto, non era poi così lontano dalla verità.
«Ultimamente, ci stai facendo preoccupare parecchio, sai?» continuò, sempre più perplesso. Tuttavia, non passarono pochi secondi che sospirò, all’apparenza rassegnato alle stranezze che Marcello aveva manifestato nell’ultimo periodo. Infine, scuotendo la testa, gli propose: «Dai, accomodati, così mi spiegherai tutto con calma, d’accordo?»
Di fronte a tanta comprensione, il giovane annuì e, dopo aver ringraziato l’amico, si addentrò all’interno, lasciando che lo guidasse nella cucina piastrellata di verde chiaro, dove lo accolse l’invitante odore del caffè appena fatto.
Era già passato quasi un anno, infatti, da quando il suo amico aveva deciso di andare a vivere da solo, lasciando i genitori e acquistando un appartamento piccolo, ma carino, in uno stabile tra Ponte Milvio e Tor di Quinto. Come gli aveva confessato più di una volta, aveva fatto quella scelta perché era arrivato ad un punto della sua vita in cui, dopo aver raggiunto l’indipendenza economica, desiderava qualcosa di più, così aveva deciso di dimostrare a tutti che poteva cavarsela da solo, scrollandosi di dosso quel senso di inadeguatezza che lo aveva sempre accompagnato fin da quando era bambino. E, considerati i passi da gigante che aveva fatto anche nella vita sentimentale, riuscendo finalmente a legarsi a Vittoria, Marcello si ritrovò a sorridere, consapevole di quanti progressi avesse fatto il suo amico negli ultimi mesi.
Nell’accomodarsi su una delle sedie di legno impagliate, il giovane si ritrovò subito in grembo Perla, la gatta bianca che conviveva con Gerardo e che riconobbe nell’ospite una vecchia conoscenza.
«Ben svegliata!» la salutò lui, accarezzandole il lungo pelo del dorso, mentre quella cominciava a fare le fusa.
«Vuole le sue crocchette, la signorina» spiegò l’altro, mentre si adoperava per apparecchiare la tavola, mettendo su di essa tovagliette, tazze, cucchiaini e zuccheriera. «Non so perché, ma anche quando Vittoria si ferma a pranzo o a cena, va da lei a chiedere il cibo».
«Probabilmente, è una gatta che ama mangiare in compagnia» commentò Marcello, sollevando lo sguardo verso il suo interlocutore. «Meno male che ha conosciuto Vittoria sin dai primi mesi allora, altrimenti temo che sarebbe stata gelosa, se la tua ragazza fosse stata un’altra, comparsa all’improvviso!»
«L’ho pensato anche io, sai? Per fortuna, invece, sono diventate grandi amiche» sospirò Gerardo, mentre portava in tavola due scatole di latta dalle tinte pastello, contenenti l’una diversi tipi di biscotti e l’altra fette biscottate. Poi, notando che l’amico aveva capito che stava apparecchiando per due, gli spiegò: «Sto preparando anche per te, perché qualcosa mi dice che non hai fatto colazione».
Il ragazzo lo fissò stupito per qualche istante, meravigliandosi di come sia Beatrice che i suoi amici, negli ultimi tempi, riuscissero ad anticipare le sue necessità. Non che avesse mai dubitato del loro affetto, ma in quella circostanza si era reso davvero conto di quanto fossero disposti ad aiutarlo.
«Hai indovinato, avevo un forte senso di nausea e non sono proprio passato per la cucina» confessò, facendo spallucce, domandandosi se anche lui, con il suo carattere scostante, sarebbe stato bravo come loro a confortarli, se ce ne fosse stato bisogno.
«Immaginavo...» ribatté l’altro, voltandosi verso la cucina per prendere dei tovagliolini di carta da uno degli stipiti posti sopra il piano di lavoro. «Tè o caffellatte?»
«Caffellatte, grazie. Ho bisogno di qualcosa di forte».
Annuendo, Gerardo si avvicinò al frigo e prese il cartone del latte, versando parte del contenuto in un pentolino per poi metterlo sul fuoco.
«Da che ora sei in piedi?» gli chiese, mentre portava la caffettiera in tavola e si accomodava anche lui.
«Non ho proprio dormito» ammise Marcello, stropicciandosi gli occhi con i pugni chiusi. «Dopo due settimane di accertamenti vari, stamattina presto hanno operato mio padre e questo pensiero non mi ha fatto chiudere occhio. Così, alle cinque, non ho più resistito e sono andato a correre lungo il Tevere e sul Gianicolo, per scaricare la tensione».
«Quindi, ancora non sai come sta...» commentò l’altro, scrutandolo attentamente e incrociando le braccia sul tavolo.
Il ragazzo scosse la testa, affranto, sospirando un no. A quel punto, rimasero in silenzio e solo qualche minuto più tardi, Gerardo decise di alzarsi per andare a prendere il cibo per gatti.

Sentendo il rumore dei croccantini che cadevano nella ciotola d’acciaio, Perla alzò la testolina e, in un batter d’occhio, saltò giù dalle gambe di Marcello, trotterellando impaziente verso il suo pasto.

«Comunque, non sono venuto solo per parlare della mia situazione familiare, ma anche per questo» riprese il giovane, poco dopo, ricordandosi del motivo principale che lo aveva spinto a disturbare l’amico così presto. Poi, recuperò il giornale che aveva appoggiato sul tavolo quando si era seduto e lo aprì alla pagina dove si trovava l’articolo sull’industriale britannico, porgendolo all’altro, il quale, immediatamente, lo prese e si buttò a capofitto nella lettura.
«Cosa?!» esclamò dopo pochi secondi, esterrefatto, lasciandosi cadere sulla sedia. «Carter è... morto
«A quanto pare, sì» commentò il ragazzo, alzando le spalle. «E non è tutto, da’ un po’ un’occhiata alla foto del matrimonio di Colonna: indovina un po’ chi era l’ospite d’onore?»

A tale domanda, Gerardo alzò gli occhi dall’articolo e li puntò su Marcello, guardandolo perplesso per qualche secondo, prima di voltare il giornale e studiare attentamente la foto che ritraeva la coppia circondata da tutti gli invitati sui gradini della breve scalinata di Santa Maria Maggiore.
«Miller? Da quando lui e Colonna sono diventati così intimi?» chiese, stupito ed incredulo.
«Me lo sto chiedendo anche io» ribatté il biondo, tamburellando nervosamente le dita sul tavolo. «L’ultima volta che li ho visti erano ad un passo dal voler farsi fuori a vicenda».
Non del tutto convinto da ciò che aveva visto, l’altro si alzò dalla sedia e si diresse verso il piano cottura, spegnendo il fuoco e portando il bollilatte in tavola.
«A giudicare dalla sua espressione, Miller non sembra particolarmente contento» commentò, riempiendo prima la tazza di Marcello e poi la propria, aggiungendo in ultimo in entrambe il caffè.
L’amico lo ringraziò con un cenno prima di allungare il braccio per prendere la scatola dei biscotti.
«Infatti» concordò, mentre l’apriva. «Ma, quello che mi lascia più perplesso, è che il galoppino di Carter stesse banchettando ad un matrimonio pochi giorni prima che lui morisse».
«Qui dice che è stato stroncato nel sonno da un infarto, perciò è morto all’improvviso... Miller non avrebbe potuto saperlo in anticipo!» esclamò Gerardo, zuccherando abbondantemente la sua bevanda.
A quel punto, Marcello smise di disporre nel suo piattino i frollini al cacao che aveva preso e riservò al suo amico un’occhiata sospettosa.
«Questa storia non mi convince affatto, ma ammettiamo per un attimo che sia vera» affermò, prendendo un biscotto e spezzandolo a metà, per poi intingerlo nella tazza. «Perché, allora, non è stato invitato anche Carter? Colonna è un suo partner, non di John Miller».
«Be’, queste sono solo tue supposizioni» gli fece, però, notare l’altro, mentre sbocconcellava pensieroso una fetta biscottata. «Magari, invece, era stato invitato ma, poi, non è andato, mandando l’assistente al suo posto. Può darsi che già si sentisse poco bene».
Tuttavia, tale teoria non lasciò soddisfatto il ragazzo che, anzi, mentre continuava a rimuginarci sopra, facendo sparire un biscotto dietro l’altro, la trovò talmente poco credibile, da convincersi sempre di più che l’assistente di Carter doveva necessariamente avere un qualche ruolo in quella scabrosa vicenda.
«Comunque, ora hai altro a cui pensare, perciò anche la morte di Lord Carter può aspettare» considerò saggiamente Gerardo poco dopo, alzandosi dal tavolo e incominciando a portare nel lavello le stoviglie sporche. «Finisci di mangiare e poi chiama i tuoi da qui, va bene?»
In risposta a tanta risolutezza, il giovane aggrottò la fronte e smise di bere, appoggiando la tazza sul tavolo, stupito dalla sicurezza che l’amico aveva dimostrato di possedere solo negli ultimi tempi; tuttavia, nonostante Marcello fosse contento di un tale cambiamento, non voleva approfittare della sua generosità.
«Da qui?! No, no, non potrei mai» rispose, infatti, sbattendo le palpebre. «È una chiamata internazionale, non so nemmeno quanto costi!»
Le sue proteste, però, furono stroncate sul nascere dall’espressione seccata che si dipinse sul volto di Gerardo, il quale alzò gli occhi al cielo, smise di lavare la tazza e si voltò verso di lui, sbottando: «Che palle, Marce’... che palle! Mettilo da parte, pe’ ’na volta, ’sto senso del dovere verso gli altri!»
Davanti a tale reazione, il biondo rimase letteralmente a bocca aperta, per poi richiuderla nello stesso istante in cui comprese che la situazione in cui si trovava suo padre l’aveva reso ancora più pignolo e pesante del solito. Per fortuna anche in quell’occasione, sia Beatrice, sia i suoi due migliori amici stavano dimostrando una pazienza encomiabile nei suoi confronti.
«Hai il numero dell’ospedale?» gli chiese, allora, l’altro, lanciandogli un’occhiata indagatrice.
«Oh, sì...» mormorò lui, riscuotendosi dai suoi pensieri, «l’ho chiamato talmente tante volte da imparare tutte le cifre a memoria!»
«Perfetto, allora. Il telefono sai dov’è» dichiarò con sicurezza l’altro, tornando ad occuparsi delle stoviglie insaponate. «Sta’ tranquillo che una chiamata all’estero non mi manderà in fallimento, dovessi anche telefonare in Australia!»

Sapendo bene che, in quel momento di smarrimento, aveva proprio bisogno di qualcuno che lo scuotesse, Marcello ringraziò Gerardo con un sorriso, per poi spostarsi in corridoio, dove, tra la porta del bagno e quella della camera da letto, c’era il tavolino con il telefono.
Tuttavia, prima di sollevare la cornetta, la fissò a lungo, incapace di imporsi quel comando tanto semplice, consapevole che, ad attenderlo all’altro capo, c’era la verità. Verità che lui non era sicuro di voler conoscere. Poi, rimproverandosi mentalmente per quell’istante di debolezza, scosse ripetutamente la testa per ritrovare la lucidità e, prima che potesse ripensarci nuovamente, afferrò il ricevitore con una mano e con l’altra si affrettò a comporre il numero del centralino dello Stadtspital Triemli2.
Dopo alcuni squilli, gli rispose in tedesco una voce giovanile di donna, alla quale replicò in inglese, chiedendo di poter parlare con suo padre. Quella, però, non si lasciò minimamente turbare e passò anche lei alla stessa lingua, assicurandogli che gli avrebbe immediatamente passato la stanza che avevano assegnato al signor Giancarlo. E, infatti, dopo averlo messo in attesa per appena una manciata di secondi, il ragazzo sentì che era stato messo in linea con un telefono interno, anche se a rispondergli fu, come immaginava, sua madre.
«Ciao, mamma, come stai?» le chiese, sforzandosi di sembrare gentile e ricordandosi che non la sentiva da qualche giorno, nonostante fosse impaziente di parlare con l’altro genitore.
«Come vuoi che stia? Ho passato tutta la notte in bianco, perché questo non è un ospedale, ma un mercato! E poi, hanno anche il coraggio di dire che gli svizzeri sono discreti...» si lamentò subito Madama Claudia che, come al solito, aveva dimostrato scarsa capacità di adattamento.
«Mamma, è un ospedale pubblico, non una clinica privata» le fece notare il figlio, irritato dal suo comportamento frivolo.
«Infatti!» ribatté lei, insistendo. «Ho provato anche a convincere il professor Weinberger ad operare tuo padre in una clinica con tutte le comodità, ma lui non ne ha voluto sapere!»
«Evidentemente, il professore pensa che tutte le comodità non siano una priorità, in questi casi. Ed anche io sono convinto che gli ospedali pubblici siano meglio, per questi interventi così delicati» cercò di spiegarle, allora, Marcello, sorprendendosi da solo per quella insolita pazienza che non credeva di possedere, soprattutto quando aveva a che fare con sua madre, per giunta più acida del solito.
Dall’altro capo, sentì la donna sbuffare, così, approfittò di quell’attimo di tregua per domandarle: «Come sta papà?»
«Sembra che l’operazione sia riuscita, un’ora fa l’hanno portato in terapia intensiva» fece lei, con un tremolio appena percettibile nella voce, tradendo un certo sollievo: evidentemente, anche se voleva far credere di essere infrangibile, doveva aver temuto seriamente per la vita del marito. «Non capisco come abbiano potuto farci aspettare fino al venti maggio!»
«Avevano bisogno di vedere tutti gli accertamenti, forse» commentò il ragazzo, giocherellando con la spirale formata dal cavo del telefono.
«Comunque, alla buon’ora, Marcello! Perché hai chiamato solo adesso? Tuo fratello, da stamattina, ha già fatto quattro telefonate! Una via di mezzo è forse chiedere troppo?»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dal riattaccare il ricevitore solo perché aveva a cuore la salute di suo padre.
«Quando posso chiamare per parlare con papà?» riprese, ignorando la considerazione appena fatta dalla madre, ma avvertendo allo stesso tempo un senso di vuoto per non essere riuscito a parlare con il signor Giancarlo.
«Ah, non lo so, qui non mi hanno detto niente. So solo che, se le sue condizioni resteranno stabili, tra due giorni tornerà in stanza».
A quel punto, il giovane sospirò, consapevole che, nonostante le notizie apprese grazie a quella telefonata l’avessero rasserenato, avrebbe dovuto attendere ancora per parlare con il diretto interessato. Per fortuna, la madre venne prontamente richiamata da un’infermiera che voleva alcune informazioni, così, poco dopo, lo liquidò, ponendo fine alla conversazione, con gran sollievo di Marcello. Se non altro, gli erano state risparmiate altre lamentele da parte della genitrice, delle quali, ad essere onesto, non sentiva affatto la mancanza.
«Allora, come sta tuo papà?» chiese Gerardo, leggermente in apprensione, uscendo proprio in quel mentre dalla cucina.
«Secondo mia madre, sta bene, ma è ancora in terapia intensiva. Per parlare con lui dovrò richiamare» riassunse brevemente il ragazzo.
«Se non ci sono state complicazioni durante l’intervento, penso sia positivo, o sbaglio?» notò l’amico, che sembrava rinfrancato da quel resoconto.
«Sì, credo tu abbia ragione» replicò lui, meditabondo, facendo già i calcoli per capire quando avrebbe potuto richiamare nuovamente. L’altro, allora, nel vederlo così preoccupato, sorrise dolcemente e gli diede una pacca sulla spalla.
«Andrà tutto bene, vedrai».
A quel tocco, Marcello, si riscosse e, dopo aver ricambiato il sorriso, espresse a Gerardo tutta la sua gratitudine: «Grazie. Di tutto».
Quello, però, agitò una mano nel vuoto, come a dire che non stava facendo niente di importante. Il biondo stava per replicare che, per lui, tutto quello era davvero tanto, quando la sua attenzione fu catturata da un telo da doccia celeste con il bordo decorato da margherite ricamate appeso ai ganci a parete del bagno.
«Quello non mi sembra tuo» commentò, stranito, socchiudendo appena gli occhi.
A tale osservazione, l’amico si voltò in quella direzione e spiegò: «Infatti è di Vittoria. L’ha lasciato venerdì scorso, quando è rimasta a dormire qui».
Quando si rese conto di quello che aveva appena detto, però, Gerardo non tardò ad arrossire come un peperone e si affrettò ad aggiungere: «Ehm... abbiamo davvero solo dormito insieme, non è successo altro!»
«Non sono certo affari miei quello che fate quando vi vedete» ribatté prontamente Marcello, con un’alzata di spalle, che ci teneva a chiarire che non voleva entrare assolutamente nel loro rapporto di coppia. Vedendo l’amico così a disagio, stava quasi per ribadirglielo, quando quello, dopo qualche incertezza, riprese a parlare: «Non so che scusa rifili ai suoi genitori, ogni volta che si ferma a dormire da me. Sai, nonostante non siano bigotti, non credo che approvino, anche se mi conoscono da una vita. Da quando stiamo insieme, mi guardano con occhi diversi e si fidano molto meno».
Il biondo, di primo acchito, rimase spiazzato da una simile confidenza, poi, però, capì che tra lui e Gerardo, nonostante la relazione di questi con Vittoria, non era cambiato assolutamente niente e che potevano continuare tranquillamente a parlare e scambiarsi consigli su tutto.
«Be’, conoscendo entrambi, io mi fiderei molto meno di lei, che di te» osservò, a quel punto, Marcello, che sapeva bene che, tra i suoi due migliori amici, era la ragazza ad avere un carattere più esuberante. Infatti, il rossore ancor più intenso che comparve poco dopo sul volto dell’altro, gli fece capire che Vittoria non si doveva essere certo risparmiata nel mettere in difficoltà il suo fidanzato.
Tuttavia, ciò che aggiunse Gerardo qualche istante dopo, gli diede un’ulteriore conferma di quanto fosse maturato.
«In realtà, ho intenzione di chiederle di sposarmi al più presto. Ho già perso troppo tempo e fatto soffrire entrambi, non dichiarandomi subito» fece quindi una piccola pausa e poi riprese: «Non farò più lo stesso errore».
Il ragazzo rimase a fissare l’amico, riflettendo sul fatto che, oramai, era uscito vincitore da molti conflitti interiori e questo gli fece davvero piacere, anzi, Marcello doveva ammettere che, sotto quel profilo, era persino più avanti di lui, che aveva preso la decisione di proporsi a Beatrice solo dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro il muro creato dalle difficoltà di una relazione come la loro.
«Secondo me, Vittoria non aspetta altro» commentò, lanciandogli un’occhiata eloquente.
A quel punto, Gerardo sorrise, un po’ imbarazzato, ma chiaramente contento di aver ricevuto la sua approvazione.
«Oh, a proposito, non ti ho chiesto se volevi farti una doccia, essendo andato a correre!» esclamò, all’improvviso, portandosi una mano sulla fronte. «Mi è passato di mente... Comunque, se ti va, accomodati pure. Magari, poi, ti presterò dei vestiti... dovrei avere qualcosa che potrebbe andarti bene».
«Ti ringrazio, ma faccio prima a tornare a casa» fece, però, il ragazzo, avviandosi verso la porta d’ingresso, «anche perché dubito che i tuoi abiti mi vadano, visto che sono più robusto di te».
Gerardo, allora, inarcò appena un sopracciglio, squadrandolo ironicamente.
«Di sicuro, hai un fisico migliore del mio, non essendo pigro come me!» obiettò, lasciando trapelare una velata invidia.
In risposta, Marcello inclinò appena la testa da un lato e ribatté, increspando le labbra: «Da quel che so, Vittoria ti apprezza comunque, o sbaglio?»
***

La parabola perfetta che seguì il pezzetto di zucchina sfuggito al coltello terminò bruscamente contro la bottiglia dell’olio, facendola tintinnare impercettibilmente. Beatrice sbuffò, raccattando con malagrazia il fuggitivo e gettandolo nella padella con un gesto di stizza: nonostante avesse appreso già da qualche giorno i risultati degli esami di ammissione, ancora non riusciva a digerire la cattiveria con cui era stata trattata. Infatti, ad eccezione del nove in inglese e in storia dell’arte e dell’otto in storia e in filosofia, in tutte le altre materie aveva raggiunto solamente il sei, segno che Bellocchi era riuscito a portare dalla propria parte sia il fratello, che Tavelli. D’altra parte, già durante le interrogazioni questi si erano mostrati recalcitranti perfino ad ascoltarla, come se fossero convinti a priori che non avrebbe mai potuto fare un esame brillante.
Non aveva mai nemmeno dubitato dell’influenza negativa che quell’uomo poteva esercitare sui colleghi, ma rimaneva il fatto che presentarsi con sei in latino, greco ed italiano ad una maturità classica era davvero frustrante. Non le restava, quindi, che confidare nella magnanimità dei commissari esterni, anche se, considerata la sua fortuna, non si aspettava più niente di buono.
E, proprio mentre metteva la padella sul fuoco, la ragazza sentì gli occhi che cominciavano a pizzicarle: avrebbe dovuto essere contenta di star preparando il pranzo per il pic-nic del giorno seguente, ma, invece, si sentiva schiacciata dalla consapevolezza che la sua maturità era già compromessa ancor prima di cominciare. Dopotutto, cosa poteva saperne quel professore di tutto quello che era stata costretta ad affrontare? Come se fosse stato piacevole, per lei, venir sradicata dalla propria e amata città natale, lasciando casa, scuola, compagni e amiche, per trovarsi catapultata in una realtà sconosciuta, ostile e piena di insidie, senza nessuno disposto a proteggerla!
A quei pensieri, le lacrime le appannarono la vista, costringendola a passarsi la manica della maglietta sugli occhi per asciugarseli, mentre cercava di calmarsi e di concentrarsi sull’unica consolazione che le era rimasta: la prospettiva di festeggiare il suo diciannovesimo compleanno con Marcello.
Allora, chiudendo gli occhi e spostandosi una ciocca di capelli dalla fronte, Beatrice inspirò a fondo per farsi coraggio e trovare la forza per affrontare anche quell’ennesima difficoltà; poi, prese una ciotola di vetro e una frusta a mano e si diresse dirigendosi verso il piano di lavoro per sbattere le uova, decisa a non permettere a quel mostro di Bellocchi di rovinarle l’uscita che aspettava da un sacco di tempo. In quel frangente, però, entrò in cucina Vittoria, portando tra le mani una scatolina bianca perlata e canticchiando a ritmo: «We will, we will rock youWe will, we will... rock you
Una volta arrivata davanti al contenitore della pattumiera, la scaraventò all’interno e rimase a fissarla per qualche istante con un’espressione alquanto compiaciuta, per poi voltarsi e notare la fanciulla che la scrutava di rimando con un sopracciglio inarcato, più che mai convinta che quella ragazza, a volte, fosse tanto strana quanto gentile.
«Oh, ciao Beatrice, sei ancora qui? Pensavo avessi finito con le tortine di zucchine e fossi già di sopra!» le fece, elargendole un gran sorriso.
In quel momento, la fanciulla si ritrovò a pensare che non fosse molto carino continuare a guardarla perplessa, così si affrettò a ricambiare il sorriso e a rispondere: «No, ma ho quasi fatto».
Allora, Vittoria gettò una fugace occhiata agli ingredienti sul piano di lavoro e, annuendo, esclamò: «Ah, giusto! Sei talmente ordinata che non avevo notato che stavi ancora cucinando!»
«La tu’ mamma l’è stata così gentile a concedermi l’uso della cucina, che mi sembra il minimo restituirgliela pulita e ordinata» ribatté Beatrice, con un’alzata di spalle. Poi, mentre apriva le uova e ne versava il contenuto nella ciotola, ripensò allo strano oggetto che l’altra aveva buttato con tanta soddisfazione nell’immondizia così, spinta dal desiderio di sapere cosa fosse, decise di indagare prendendo il discorso alla larga: «Se’ una fan de’ Queen, per caso?» domandò.
«Esatto, fin da quando ero un’adolescente!» rispose con entusiasmo la ragazza, accomodandosi su una delle sedie disposte intorno al tavolo di noce. «Gerardo e Marcello mi hanno perfino regalato qualche loro LP3, tra cui, appunto, News of the World».
Beatrice annuì, aggiungendo gli altri ingredienti prima di sbattere il composto, delusa per non essere riuscita a carpire all’amica qualche indizio utile; tuttavia, non passò più di un minuto che Vittoria aggiunse: «Se te lo stessi chiedendo, prima ho buttato era la bomboniera del matrimonio di Ascanio e Maria Luisa».
Nell’udire tale risposta, Beatrice si fermò e si lasciò sfuggire un ah, al quale l’altra rispose con un leggero sogghigno, avendo intuito la sua curiosità.
«Avresti potuto chiedere direttamente, non è un segreto» le disse, infatti, subito dopo, appoggiando il mento sul palmo aperto e guardandola divertita. «Sinceramente, non non l’ho nemmeno aperta e non mi interessa tenerla».
Il tono distaccato con cui la ragazza aveva pronunciato l’ultima frase portò Beatrice a sollevare lo sguardo su di lei: «Non penso tu sia molto amica di questa Maria Luisa» azzardò. 
«Per niente» affermò Vittoria, asciutta, cambiando posizione e mettendosi a braccia conserte. «È una delle tante ragazze che pensano che io sia una donna facile, per dirla con parole carine. Anche se poi è stata lei a dover ricorrere ad un matrimonio riparatore».
A quel punto, si alzò e si camminò fino alla porta, sbuffando: «Almeno Gerardo finirà di guardarla!»
Beatrice, nell’andare a prendere la padella, riservò un’occhiata obliqua all’amica, percependo un pizzico di gelosia nella sua voce e ritrovandosi a sorridere, perché era la conferma che la competizione tra donne non risparmiava nemmeno quelle belle e intelligenti come Vittoria.
«Però devo ammettere che mi dispiace per lei... Quando è passata per portarmi la bomboniera, non mi è sembrata affatto contenta: già era molto magra di suo, ma ora è quasi scheletrica e non si vede nemmeno che è al quarto mese» continuò quella, tornando a sedersi di fronte a lei.
«Be’, io l’ho vista solo alla tua mostra, ma ho capito anch’io che non l’era contenta, visto che avrebbe voluto sposare Marcello» osservò la fanciulla, stizzendosi, poiché, a quanto pareva, era arrivato anche il suo turno di essere gelosa.
«Oh, sì, era una sua affezionata ammiratrice... più o meno come tua cugina!» commentò l’amica, pensierosa. «Anche se non credo che nessuna delle due avrebbe potuto sopportare il caratteraccio di Marcellino come sai fare tu».
Tale considerazione fece colorire lievemente le guance di Beatrice, che si affrettò a finire di mescolare il composto e a versarlo negli stampini di rame, per poi metterli nel forno caldo.
«Beatrice, ma... hai pianto, per caso?» proruppe improvvisamente Vittoria, dopo averla osservata attentamente.
La fanciulla, allora, si voltò immediatamente verso di lei, confusa; a quel punto, però, ricordò ciò che aveva pensato prima che l’altra entrasse in cucina e, non volendo passare per piagnucolona, si affrettò a negare: «No, no, l’è solo...»
«... la cipolla, giusto?» concluse l’altra, ironica, guardandola con cipiglio. «Deve essere particolarmente forte, visto che ti ha fatta lacrimare senza nemmeno essere tra gli ingredienti!»
Incapace di trovare una scusa plausibile, la giovane decise di tacere con un sospiro, accomodandosi a sua volta su una sedia, ma l’amica non si lasciò scoraggiare dal suo silenzio ed insistette: «Ti va di dirmi cosa c’è che non va?»
A quella domanda, Beatrice sospirò di nuovo, poiché c’erano diverse cose che non andavano. Anche se, forse, erano solo preoccupazioni di una ragazzina, la facevano stare male, pertanto decise di aprirsi con Vittoria, con la certezza che non l’avrebbe giudicata.
«Stavo ripensando ai mie’ esami» rispose, alzando lo sguardo su di lei. «Ho paura d’esser bocciata oppure d’essere promossa con un voto bassissimo».
«E perché mai?» chiese l’altra, perplessa. «Non essere pessimista, tu impegnati e andrà tutto bene. Il presidente della commissione correggerà i compiti insieme con i professori e quel Bellocchi non potrà essere troppo cattivo».
Dopo tali parole, la fanciulla si soffermò ad analizzare meglio la sua situazione e si rese conto che aveva considerato il problema da un’ottica parzialmente sbagliata: se per la classe alla quale era stata abbinata la presenza di insegnanti estranei poteva essere uno svantaggio, per lei, invece, era un grande punto a favore, poiché, non conoscendo nessuno di loro, l’avrebbero giudicata alla pari degli altri ragazzi. Tra l’altro, né Bellocchi-bis, né Tavelli facevano parte della commissione interna, mentre era presente la Valenti, la quale si era subito dimostrata benevola nei suoi confronti.
«Oh, speriamo davvero sia così!» replicò lei, rincuorata, intravedendo per la prima volta una possibilità di salvezza e ritrovando, così, lo spirito giusto per godersi al meglio il pic-nic che l’attendeva. «Comunque... grazie, Vittoria. M’ha fatto bene parlare con te, m’hai fatto vedere la situazione da un altro punto di vista».
«Mi sembra il minimo, Beatrice. Dopotutto, sei un’amica» replicò quella, ammiccandole.
«Scommetto che se’ molto brava nel tu’ lavoro. Adesso mi sento davvero più sollevata, sai?» commentò Beatrice, con un sorriso riconoscente, mentre l’altra ricambiava, arrossendo appena.
«Mi fa piacere che tu stia meglio. Vedo ogni giorno l’impegno che metti nello studio e sono certa che ti verrà riconosciuto» osservò Vittoria, annuendo con convinzione. «L’importante è che cerchi di mantenere la calma, d’accordo?»
A quel punto, la fanciulla incurvò di nuovo le labbra e si mise in piedi con rinnovato slancio, dirigendosi subito verso il forno per controllare la cottura delle tortine.
«Credo che ci voglia solo qualche altro minuto» notò.
«Allora possiamo lavare tutto ciò che hai usato, nel frattempo» le propose, allora, la giovane. «Ammetto di essere proprio negata in cucina, ma
posso comunque darti una mano a pulire, così finiremo prima».
«Oh, ti ringrazio, se’ molto gentile».
«Figurati, faccio così anche quando cucina Gerardo, che è molto più capace di me ai fornelli: pensa che è in grado di preparare delle pennette al salmone e vodka uguali a quelle che faceva mia nonna quando ero a pranzo da lei4
La confidenza che le era stata appena fatta lasciò Beatrice molto sorpresa e, ancora una volta, la ragazza non riuscì a reprimere la sua curiosità.
«Non l’immaginavo che Gerardo sapesse cucinare» commentò.
«Sì, se l’è sempre cavata egregiamente» replicò Vittoria, tradendo un certo compiacimento,
mentre raccattava gli utensili sporchi d’impasto e li metteva nella ciotola. «Se fossi più capace, domani sera potrei preparare io la cena, ma, purtroppo, temo che dovremo accontentarci di una pizza d’asporto. Sai, mi ha invitata da lui per vedere insieme Il ritorno dello Jedi, l’ultima parte di Guerre Stellari5...»
«Ah, a lui piace?» si informò Beatrice, prendendo il detersivo per i piatti dal mobile posto sotto il lavandino.
«Sì, è un grandissimo fan ed è solo grazie alla sua passione per questa trilogia che sto riuscendo ad apprezzarla anche io» le spiegò subito l’altra, mettendo tutto ciò che aveva in mano nel lavello. «Ad essere onesta, la prima volta che ho visto i film, è stata solo la presenza di Harrison Ford che me li ha resi guardabili e credevo che anche Gerardo li apprezzasse per via di Carrie Fisher...»
«E invece?» incalzò la fanciulla, mentre versava il detergente sia nell’acqua, sia sulla spugnetta.
«Eh, ho scoperto che sia lui che Marcellino sono devoti al lato oscuro e stravedono per Dart Fener6!» le confessò l’altra, con una smorfia di disappunto, facendola scoppiare a ridere.
Beatrice conosceva solo a grandi linee quella saga cinematografica e si ritrovò a pensare che le sarebbe piaciuto vederla con Marcello, seguendo l’esempio di Gerardo e Vittoria; magari, avrebbero potuto vedere anche altri film al cinema e non le sarebbe dispiaciuto affatto farlo, soprattutto perché era parecchio che non ci andava e, dato che si era liberata dei suoi parenti despoti, poteva riprendere a fare tutte le cose che facevano le ragazze della sua età. Intanto, però, avrebbe avuto modo di apprezzare la gita del giorno seguente, per la quale era perfino riuscita a cucirsi un grazioso vestito a pantaloncino a fantasia fiorata.

Qualche minuto dopo, quando la cottura delle tortine fu terminata, la ragazza si avvicinò al forno e, mentre le tirava fuori, rigonfie e profumate com’erano, domandò all’amica: «Secondo te a Marcello piaceranno? So di non esser bravissima, ma sto facendo del mio meglio».
A quella domanda, Vittoria smise di asciugare e rimettere le posate nel cassetto e la guardò severamente.
«È da oggi pomeriggio che ti stai prodigando per preparargli il pranzo» esclamò, indignata. «Se quel polemico dovesse avere da ridire, penso che potresti benissimo lasciarlo a digiuno!»
***

Le nuvole grigie che si erano allineate all’orizzonte, come un esercito pronto ad attaccar battaglia, non ispirarono a Marcello niente di buono, poiché sapeva benissimo che, puntualmente, ogni aprile e maggio si ripeteva la stessa storia: durante il fine settimana pioveva a dirotto, rovinando qualsiasi progetto di gita fuoriporta.
Mentre borbottava tra sé qualcosa contro le stranezze della primavera romana, il giovane lasciò il terrazzo della biblioteca per rientrare in casa, augurandosi che, se proprio il cielo doveva rannuvolarsi, almeno non piovesse, poiché non voleva che saltasse la gita con Beatrice.
Una volta dentro, si avvicinò al tavolino tra i due divani, dove era poggiata la scatolina contenente il regalo per la ragazza acquistato qualche tempo prima, la prese tra le dita e l’aprì, permettendo ai brillanti che adornavano la farfalla in filigrana di rifulgere in tutta la loro perfezione.
Poi, appoggiò nuovamente il gioiello sul ripiano e, dopo essersi seduto, si soffermò a contemplarlo, sperando di riuscire a farle una proposta di matrimonio di tutto rispetto, nonostante la sua scarsa attitudine al romanticismo. Sarebbero bastati solo i suoi sentimenti sinceri a convincerla?
Ormai si conoscevano da parecchio tempo ed aveva l’impressione che la fanciulla avesse capito, nonché accettato, questo suo limite senza farne un dramma; ciononostante, si ripromise che avrebbe fatto del suo meglio per offrirle la dichiarazione che meritava. Il signor Giancarlo era stato molto fiducioso nelle sue capacità e il giovane si augurò che, anche in questo caso, ci avesse visto giusto.
Al pensiero del genitore, Marcello sospirò, avvertendo l’angoscia che tornava ad impossessarsi di lui ricordandosi di essersi ripromesso di chiamarlo prima di passare a prendere Beatrice, sperando che si fosse ristabilito abbastanza da potergli rispondere di persona. Perciò, titubante, si avvicinò all’estremità del divano e prese il telefono, mettendoselo sulle gambe, prima di sollevare il ricevitore e comporre il numero e attendere. Dopo quelli che gli sembrarono anni, la centralinista riuscì a metterlo in contatto con la stanza di suo padre e, quando riconobbe la sua voce, il giovane si rianimò del tutto.
«Come stai, papà?» gli chiese, tutto d’un fiato, senza preoccuparsi di scandire bene tutte le sillabe.
«Buongiorno anche a te, Marcello. Di solito si saluta, quando si sente una persona dopo molto tempo» gli rispose l’altro, usando, però, un tono scherzoso.
«Oh, sì, scusa» mormorò il ragazzo, parlando più lentamente, «ma non vedevo l’ora di sentirti. Come va?»
«Ad essere onesto, ci sono stati momenti migliori, anche se, tutto sommato, non credo di potermi lamentare» gli rispose l’uomo, apparentemente tranquillo; tuttavia, si tradì qualche istante dopo, dando qualche colpo di tosse stizzosa, che mise immediatamente in allerta il figlio, portandolo a dubitare che quella fosse la verità.
«Sicuro di stare bene?» gli domandò, perplesso.
«Sto benissimo, non ti preoccupare. Anzi, i medici parlano già di dimissioni» cercò di rassicurarlo, l’altro, con voce flebile.
Nell’udire una rivelazione del genere, il giovane rimase talmente sorpreso, che incalzò: «Davvero? Hanno già intenzione di mandarti a casa?»
«Se le mie condizioni continueranno a migliorare, hanno detto che potrei uscire di qui tra una decina di giorni».
Del tutto impreparato ad un’eventualità del genere, il ragazzo si augurò che tutto andasse bene, così da poter riabbracciare il genitore molto presto, poiché cominciava a sentirne la mancanza, la quale, sommata all’incertezza e all’angoscia dovute alla sua situazione, lo stava mettendo a dura prova.
«Questa è un’ottima notizia» mormorò, soprappensiero.
Dopo qualche istante di assoluto silenzio da parte di entrambi, il signor Giancarlo improvvisamente gli chiese: «E tu come stai?»
«Ora che ti ho sentito di persona, decisamente meglio» sospirò Marcello, appoggiando la schiena contro il cuscino del divano e assumendo una postura più rilassata. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di adagiarsi, illuminato da quel piccolo spiraglio di serenità, che quello che disse poco dopo il padre lo fece immediatamente tornare contratto.
«E come sta Beatrice?»
«Bene, anche se sta studiando per la maturità, perciò, ultimamente, ci siamo visti di rado e quasi esclusivamente per ripetere qualcosa insieme» rispose il figlio, in leggera tensione, intuendo quale sarebbe stata la domanda successiva, che, infatti, non tardò ad arrivare.
«Le hai chiesto ciò che ti ho suggerito
Quella velata allusione gli fece capire che il genitore non poteva essere più esplicito perché Madama Claudia doveva essere nei paraggi e il giovane non faticò affatto ad immaginarsela, mentre, come un’arpia, al solo captare il nome della fanciulla, svolazzava intorno al marito per cercare di carpire altri dettagli su ciò che si stavano dicendo.
Allora, scuotendo la testa per mandare via quell’immagine raccapricciante, si protese verso il tavolino e prese tra le mani il gioiello, fissandolo intensamente.
«Non ancora...» rispose, dopo qualche istante di pausa, «ma ti garantisco che è solo questione di ore» aggiunse subito dopo, chiudendo la scatolina con uno scatto secco.
***

Dopo aver condotto Beatrice in giro per Castel Gandolfo per farle vedere i suoi elementi più caratteristici, tra cui Piazza della Libertà, il Palazzo Apostolico, residenza estiva del Pontefice, e la vista sul Lago Albano, che poteva vantare di essere il più profondo d’Italia, Marcello decise di farle vedere anche il paesaggio campestre delle zone limitrofe, luogo perfetto per un pic-nic.
In particolare, per trascorrere il resto della giornata, scelse un prato da cui si poteva godere un’ottima visuale sui colli che circondavano il piccolo lago, il cui perimetro quasi perfettamente circolare denotava l’origine vulcanica, certo che sarebbe piaciuto alla ragazza; infatti, non appena quella si trovò davanti quel particolare panorama, circondata da papaveri, malva e avena selvatica, non perse tempo nel manifestare la propria ammirazione.
«Oggi m’hai fatto vedere degli scorci davvero carini. Per non parlare poi di questo posto bellissimo!» esclamò, infatti, guardandosi intorno con aria entusiasta.
«Sì, sono abbastanza caratteristici e turistici» le rispose il giovane, stendendo una coperta a quadri sull’erba e appoggiandovi sopra il cestino di vimini che conteneva il pranzo, lanciando un’occhiata preoccupata all’ombra che le nuvole avevano gettato sul prato, sperando che non cominciasse a piovere da un momento all’altro.
La ragazza, in quel momento, si voltò verso di lui e lo guardò divertita, incrociando le braccia contro il petto.
«Sapevo che l’avresti risposto così» replicò, avvicinandosi lentamente. «Non riesci proprio a non esser diplomatico, o sbaglio?»
A quell’osservazione, Marcello, che si stava accomodando sulla coperta, rimase come bloccato ed inarcò un sopracciglio, provando a ribattere: «Be’, in realtà...»
Tuttavia, poiché non poteva negare che quella era la verità, si sedette e tacque, proprio mentre lei si lasciava scappare un sorrisetto di compiacimento, facendosi scorrere tra le dita un fusto d’avena.
«Di solito, ti sento dire una parola fuori posto solo quando sei molto arrabbiato, ma per il resto se’ sempre... misurato» commentò poi, lanciandogli improvvisamente addosso le spighette che aveva raccolto e alcune si andarono ad attaccare alla stoffa della polo blu scuro di lui.
Il giovane sobbalzò, sbattendo le palpebre e guardandosi istintivamente il petto, per poi affrettarsi a togliersi di dosso i residui della graminacea, mentre Beatrice, divertita dalla sua reazione, scoppiava a ridere; Marcello, invece, dopo aver gettato via l’ultima spighetta, la fissò a lungo, prima di chiederle: «Tutto questo era forse un modo carino per dire che sono noioso e prevedibile?»
Senza smettere di sorridere, lei si accomodò accanto a lui e, facendo spallucce, gli rispose, vaga: «Può darsi».
Intuendo che lei continuava a prenderlo bonariamente in giro, lui increspò le labbra, consapevole della rigidità che gli impediva di godere appieno perfino di momenti come quello. Sospirando, si stava appunto preparando per dirle che gli dispiaceva essere sempre così serio e statico, quando, inaspettatamente, la ragazza gli si fece più vicina e, con dolcezza, commentò: «Oggi ti vedo più sereno. Son proprio contenta che il tu’ babbo stia meglio».
Interdetto da quell’affermazione, che gli aveva confermato ancora una volta quanto poco bastasse a Beatrice per capire il suo stato d’animo, il giovane rimase a fissarla a bocca aperta per qualche istante, prima di riscuotersi e replicare a sua volta: «Anche tu sei più tranquilla, nonostante tutte le disavventure relative alla maturità».
Lei sospirò ed annuì, mentre il suo volto tradiva tutta la stanchezza e lo stress che le stava causando la preparazione dell’esame di Stato.
«Diciamo che per oggi voglio lasciare da parte questi problemi» ammise, stringendo le spalle. Poi, prese il cestino di vimini e, dopo aver tirato fuori tovagliolini, posate e cibarie per allestire il pranzo, si voltò verso Marcello ed aggiunse: «Spero ti piaccia quello che ho preparato, anche se son cosette semplici».
«A me piace molto la semplicità» replicò immediatamente lui, soffermandosi ad osservare due farfalle gialle e nere che le svolazzavano intorno.
Beatrice gli sorrise, contenta, e riprese a sistemare tutto a puntino; improvvisamente, però, lanciò al giovane un’occhiata di sottecchi e, come se stesse cercando le parole giuste, cominciò, esitante: «Marcello, ecco... potrei chiederti una cosa un po’ delicata?»
Il giovane le fece segno di continuare e lei, rassicurata, dopo aver preso un bel respiro, proseguì: «Guido ha bisogno di un altro avvocato d’ufficio. Gl’hanno assegnato una donna e non va bene per uno come lui, visto che pensa solo all’aspetto fisico e non collabora... Se continuerà così, farà una brutta fine. Ci vorrebbe proprio un uomo di polso».
Non appena Beatrice ebbe finito di parlare, l’altro inarcò marcatamente le sopracciglia, squadrandola attentamente. «Beatrice, davvero pensi ancora a quell’idiota, dopo tutto quello che ti ha fatto?» le chiese, incredulo.
«È pur sempre i mi’ fratello» replicò la fanciulla, guardandolo affranta.
Non riuscendo a sostenere quell’espressione e sapendo che non sarebbe mai riuscito a dirle di no, il giovane volse lo sguardo altrove, sbuffando.
«No, sei tu che sei troppo buona!» ribatté, severo, mettendosi a braccia conserte. «Comunque, vedrò che cosa posso fare... forse conosco la persona che fa al caso tuo».
«Chi sarebbe?»
«Ludovico Martelli, un mio vecchio compagno di corso che è passato a giurisprudenza. Ora sta facendo pratica presso uno studio legale, ma fa anche l’avvocato d’ufficio. È molto bravo, Gerardo ed io ci siamo rivolti a lui in un paio di occasioni per alcune consulenze» le spiegò, tornando ad osservarla.
A quelle parole, Beatrice si illuminò, manifestandogli la propria riconoscenza: «Oh, grazie di cuore, Marcello...»
«Sia chiaro, però, che non devi farne parola con quell’idiota, perché non deve sapere che sono stato io ad aiutarlo, visto che lo faccio solo per te» l’ammonì lui, anche se vederla così contenta contribuì ad ammorbidirlo un po’.
All’improvviso, però, avvertì una goccia di pioggia bagnargli la guancia ed istintivamente alzò la testa verso il cielo, rendendosi conto che le poche nuvole presenti si erano rivelate sufficienti a far piovigginare, nonostante il sole, dando vita ad un particolare spettacolo, molto comune in primavera nei dintorni di Roma.
«Sapevo che sarebbe piovuto!» brontolò Marcello, indispettito, tamponandosi una guancia contro la manica della maglietta. «Se non smette, dovremo andarcene!»
«Non fare così...» lo blandì subito dolcemente Beatrice, raccogliendosi i capelli da una parte e chiudendo per qualche secondo gli occhi, lasciando che le gocce le accarezzassero il volto, «in fondo, non l’è così male!» aggiunse poi, elargendogli un sorriso partecipe.
In risposta, il giovane la squadrò, scettico, prima di aprire la bocca per ribattere che era davvero una disdetta che non si fosse mantenuto il bel tempo, ma non ne ebbe alcun modo. Infatti, in quel momento, sentì la fanciulla che gli poggiava la testa sulla spalla, mentre guardava incantata la pioggerellina che aveva formato davanti a loro una coltre argentea danzante, e questo provocò al ragazzo una piacevole sensazione di vuoto allo stomaco, quando, all’improvviso, il malumore dato da quel temporale primaverile scomparve, lasciando spazio ad un languore che non aveva niente a che fare con la fame. D’istinto, allora, il giovane le cinse la vita con un braccio, mentre lei si abbandonava ancor di più contro di lui, completamente rilassata, solleticandogli una guancia con i capelli.
In quell’istante, Marcello avvertì un brivido che gli percorreva la spina dorsale e, ispirato da quel senso di calore che solo lei sapeva trasmettergli e che già da tempo aveva sciolto l’inverno che era in lui, prese tra le dita una ciocca di capelli di lei e cominciò a giocherellarci, sfiorandole, di tanto in tanto, la schiena. Allora, la ragazza alzò lentamente il capo verso di lui e rimase a fissarlo per qualche secondo con un’espressione divisa tra la sorpresa e la curiosità di sapere fin dove avrebbe osato, mentre il silenzio veniva riempito dal rumore delle gocce che cadevano sulle foglie delle querce che li circondavano.
Le labbra appena schiuse di lei erano un invito ad assaporarle fin troppo allettante per non assecondarlo e, infatti, il giovane non esitò oltre, avvicinandosi ad esse con delicatezza per farle sue, proprio mentre la fanciulla gli passava le braccia intorno al collo e si voltava completamente verso di lui, sfiorandogli le gambe con le proprie e facendogli avvertire qualcosa di molto simile ad una scossa elettrica.
Da quando la conosceva, pian piano aveva imparato cosa significasse amare una donna, ma, in quel preciso momento, capì anche cosa si provasse a desiderarla, avvertendo che non poteva fare a meno di baciarla sempre più intensamente, sfiorandole delicatamente la lingua con la propria e accarezzandole la schiena, mentre la faceva sdraiare sulla coperta, spostando tutto il suo peso sul fianco destro. In quel momento, tra di loro si era creata un’intimità senza precedenti, più libera, forse perché, per la prima volta, sapevano entrambi di essere soli, senza il rischio che qualcuno arrivasse ad interromperli o giudicarli. Fu allora che si abbandonarono entrambi alla fiducia reciproca, lui permettendole di passargli le dita tra i capelli e lei di baciarle ogni punto lasciato scoperto dalla scollatura del vestito.

Qualche minuto dopo, furono riportati alla realtà dal canto degli uccellini e dai tenui raggi del sole che accarezzavano la loro pelle, annunciando che aveva smesso di piovere.
«Quindi è vero che almeno un po’ ti piaccio» fece Beatrice, senza mostrare la benché minima voglia di alzarsi, continuando ad accarezzargli le ciocche bionde.
«Dubitavi, forse?» ribatté lui, corrugando appena la fronte e solleticandole il collo, facendola ridere.
«A volte, ho pensato che non mi trovassi abbastanza carina, vista la tu’ reticenza a baciarmi e lasciarti andare» ammise la giovane, ricomponendosi e arrossendo appena.
Marcello, allora, inclinò appena la testa e la fissò intensamente, prima di replicare, serio: «Be’, mettiamola così: se ti trovassi solamente carina, non credo saremmo arrivati a questo punto».
La ragazza abbassò appena lo sguardo, piacevolmente imbarazzata, e lui stava quasi per aggiungere che era la prima a cui aveva riservato quel genere di attenzioni, quando, improvvisamente, si ricordò del ciondolo.
«A proposito... ho una cosa per te» disse, staccandosi momentaneamente da lei e cominciando a frugarsi nelle tasche dei jeans, mentre Beatrice si tirava su e si sistemava il vestito, guardandolo incuriosita.
«Tieni, aprila» la invitò, porgendole la scatolina.
«Che cos’è?» domandò lei, prendendola tra le dita tremanti.
«Il regalo per il tuo compleanno».
«Ma... il regalo non era l’avermi portata qui?»
Il giovane scosse la testa, sistemandosi meglio davanti a lei e spiegandole: «Sono due cose diverse».
Sbattendo le palpebre, confusa, Beatrice spostò lo sguardo da lui a ciò che aveva in mano, prima di dedicarsi all’apertura del suo regalo. Quando ne vide il contenuto, il suo volto si tinse della più sincera meraviglia.
«Oh!» esclamò, rapita dai riflessi policromi delle pietruzze che decoravano la farfalla. «È... è... bellissima... io... grazie, non l’avresti dovuto...»
Davanti a quella reazione, Marcello non poté fare a meno di sorridere e, senza pensarci due volte, le propose: «Se vuoi ti aiuto a metterla».
La fanciulla, allora, lo guardò con le guance rosse e gli occhi lucidi, per poi annuire e dargli le spalle, così che lui potesse aiutarla ad indossare quel magnifico ciondolo.
«Vorrei tanto avere uno specchio!»
«Ti sta benissimo» commentò il ragazzo, pensando che Vittoria aveva avuto proprio ragione, quando aveva detto che un gioiello del genere sarebbe stato perfetto per Beatrice.
A quel complimento, lei arrossì ancora di più e abbassò leggermente il capo, spostandosi da un lato i capelli per poter ammirare quel piccolo capolavoro, mentre Marcello, ormai incapace di trattenersi ulteriormente, raccoglieva tutto il suo coraggio e le chiedeva: «Beatrice... vorresti sposarmi?»
Istantaneamente, l’altra rialzò la testa e, fissandolo sbigottita, esalò: «C-Come, s-scusa..?»
Abbozzando un sorriso leggermente imbarazzato, il biondo esitò un attimo prima di ripeterle la domanda, questa volta cercando di essere più dolce: «Mi daresti una felicità mai provata, se accettassi di diventare mia moglie...»
Per quelli che a lui parvero secoli, lei si limitò a guardarlo, senza spiccicare mezza parola, lasciando che si sentisse solo il sottofondo degli uccellini che, numerosi, cantavano allegri appollaiati sui rami degli alberi lì intorno. Poi, tutto d’un tratto, la ragazza, commossa, gli sussurrò: «Sì... sì... infinite volte sì!»
Il giovane non aveva nemmeno finito di rendersi conto che gli aveva dato una risposta positiva, che lei, di slancio, lo baciò di nuovo, cogliendolo di sorpresa e stordendolo, anche se non abbastanza da impedirgli di prenderla per la vita ed incurvare maggiormente le labbra ad ogni bacio che riceveva.
Tuttavia, quello stato di beatitudine fu bruscamente interrotto quando, nello staccarsi da lei, lui si accorse che i suoi occhi erano velati di lacrime.
«Che cos’hai, Beatrice? Non ti senti bene, per caso?» le chiese, preoccupato e confuso.
L’altra, però, scosse la testa, subito contraddetta dalla lacrima che le scese lungo una guancia. Tuttavia, non volendo forzarla a parlare, preferendo aspettare che fosse lei stessa a rivelargli cosa le provocasse tutto quel dolore in un’occasione che sarebbe dovuta essere di gioia, Marcello si allungò sulla coperta e recuperò un fazzoletto di carta dal cestino, per poi asciugarle premurosamente il volto.
«S-Scusami, non volevo rovinare questo momento... io son davvero felice... l’è solo che m’è tornato in mente quando è stato Navarra a chiedermi di sposarlo» fece tutto d’un fiato, prendendosi poi una piccola pausa, interrotta da un singhiozzo, «anzi, non me l’ha chiesto, me l’ha imposto... e voleva anche violentarmi!»
Tale rivelazione sconvolse talmente tanto il ragazzo che, per qualche istante, rimase come paralizzato, incapace perfino di consolarla.
«Che cosa?!» ringhiò sommessamente, quando ebbe ripreso il controllo di se stesso. Oramai aveva terminato tutte le maledizioni che poteva riservare a quell’animale, ciononostante, si augurò che il destino lo mettesse di nuovo sulla sua strada, così da potergli far scontare tutto il male che aveva causato alla sua Beatrice.
«Perché me l’hai detto solo ora?» le domandò poi, sfregandole un braccio, nel tentativo di farla calmare.
«Mi vergognavo! L’è stato orribile, mi ha fatta sentire sporca!» esclamò lei, nervosa, tremando da capo a piedi. «Come se fossi stata io a provocarlo...»
Nel sentirla così agitata, il ragazzo sentì il cuore che gli si stringeva e, lentamente, le si avvicinò, per poi abbracciarla con delicatezza, facendole poggiare la testa contro il proprio petto e lasciando che sfogasse tutto il dolore che aveva conservato dentro di sé per così tanto tempo.
«T-Ti sporcherò la maglietta.... mi sta colando il mascara...» la sentì mormorare, mentre alzava lo sguardo verso di lui.
«Non ti preoccupare, una volta a casa ci penserà Ottavia» replicò, però, lui, dandole un bacio sui capelli e tornando ad accarezzarla, nel tentativo di tranquillizzarla.
La giovane, nel guardarlo, arrossì e si portò una mano sugli occhi, per poi guardarsi le dita e rendersi conto che, effettivamente, le si era sfatto tutto il trucco.
«Non mi guardare, sono orribile!» fece a quel punto, con una smorfia, cercando di ritrarsi; tuttavia, venne prontamente bloccata da Marcello, che le impedì di allontanarsi.
«No, sei solo buffa» la corresse lui con un sorriso, alzandole il mento per tamponarle delicatamente le guance e la rima inferiore degli occhi.
Allora, Beatrice si arrese e si abbandonò alle sue cure, mentre il vento che aveva cominciato a spirare sopra di loro portava via le nuvole, facendo tornare il sereno.



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Un sentito grazie va anche alla mia Anto per la sua pazienza nell’assistermi nei miei dubbi.
***
[N.d.A]
1. Santo Spirito: è un ospedale situato nel centro di Roma;
2. Stadtspital Triemli: l’ospedale maggiore di Zurigo. La città si trova nel cantone omonimo, regione della Svizzera in cui si parla tedesco;
3. LP: detto anche Long playing o 33 giri, è un disco di vinile, antenato dei nostri CD, i quali hanno cominciato a diffondersi verso la fine degli Anni ‘80. In questo caso, la canzone We will rock you risale al 1977 e fu pubblicata, per la prima volta, nell’album LP “News of the World” il 28 ottobre dello stesso anno;
4. pennette... lei: negli Anni ‘70, quando Vittoria era più piccola, le pennette con salmone e vodka erano un piatto molto famoso e cucinato in tutto il mondo;
5. Guerre Stellari: per quanto io ami molto chiamare la saga con il nome originale Star Wars, negli Anni ‘80 era di uso comune il nome tradotto in italiano e usare la versione inglese sarebbe un anacronismo;
6. Dart Fener: stessa cosa di prima. Nel doppiaggio della prima trilogia (1977-1983) molti nomi furono cambiati, a cominciare da Darth Vader, che venne tradotto con Dart Fener per motivi di fonetica. Per fortuna, nell’Episodio III e nell’Episodio VII hanno lasciato il nome originale.
***


Eccoci qui.
Questa storia procede lentamente, ma procede e vi posso dire che ho progettato di pubblicare un capitolo al mese fino al prossimo autunno, sperando di riuscire a concluderla entro la fine del 2016.
Ringrazio chi ha la pazienza di attendermi, chi legge, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto, StormyPhoenix, AClaudia).
Come di routine, vi lascio il link alla pagina facebook
per anticipazioni, informazioni varie e altro.
Essendo arrivati a giugno, faccio un grande augurio sia a tutti quelli che stanno affrontando la maturità (come Beatrice), sia a chi è un po’ più grande ed è alle prese con gli esami universitari (come la sottoscritta).
Alla prossima,
Halley S. C.

  
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