Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    01/07/2016    1 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Rieccomi, con un nuovo capitolo. Ringrazio ancora AnonymousA e Mivi28 per le belle parole lasciate nelle recensioni. Voi mi allietate la giornata! :) 






Guai ai cuori timidi e alle mani rilassate, al peccatore che cammina su due sentieri. Guai al cuore meschino che non crede, perché non avrà protezione.

Siracide, 2, 12-13.











10.











Il detective Collins indicò le sedie che si erano liberate dopo l’uscita dei miei genitori.
«Possiamo accomodarci?»
«Prego, fate pure». Lei si sistemò accanto a me, dove poco prima era seduto papà e finalmente il suo viso, in apparenza duro, si aprì in un sorriso che riuscì a donarmi un certo sollievo. Non c’era tensione sul suo volto, solo una luce di concentrazione negli occhi castani che mi rincuorò e mi fece istintivamente sentire in buone mani.
«Per prima cosa ci tenevo a dirle che sono felice di sapere che sta bene. Di certo non è nostra intenzione sconvolgerla parlando di questa faccenda, ma è necessario per poter venire a capo della questione. Lei immagina che stiamo cercando di trovare la persona che le ha fatto questo, perciò se potesse fornirci alcuni particolari sarebbe molto più facile». La formalità delle sue parole mi intimidì, ma mi schiarii la voce e accennai un sorrisino.
«Ecco, preferirei che mi deste del tu…e che mi chiamaste Amber. Mi sentirei più a mio agio».
«D’accordo, Amber, puoi raccontare com’è andata? Cerca di essere più dettagliata possibile, per favore».
Distolsi lo sguardo, puntandolo sulle mie mani, intrecciate in grembo e posate sulle lenzuola azzurre. Tutto il resto della stanza richiamava quella tinta tenue che aveva lo scopo di infondere ai pazienti pace e tranquillità. Non sapevo come sentirmi al riguardo. I ricordi lo facevano apparire scioccante come un verde acido. Quella tonalità mi aveva circondata in attesa che Chris fosse operato e che i medici ci mettessero al corrente delle sue condizioni. Vedermi di nuovo immersa in essa provocò in me una sorta di strano déjà-vu, come se fossi tornata improvvisamente indietro nel tempo, al due aprile dell'anno prima...
«Amber?» L’intervento di Collins mi riportò alla realtà.
«Mi scusi, ero soprappensiero…devo cominciare dal principio?»
«Sarebbe utile. Un paio di agenti sul posto stanno interrogando i presenti, ma la tua testimonianza, come puoi immaginare, è fondamentale». La detective accavallò le lunghe gambe fasciate dai pantaloni neri, e mi guardò fissa in attesa del mio racconto. La sua voce era lievemente bassa, graffiante, ma riusciva comunque a comunicare una certa femminilità. A prima vista sembrava una donna forte e avevo l’impressione che i suoi colleghi la stimassero e che ne fossero al contempo anche un po’ intimiditi.
Cominciai a parlare, dapprima dubitando dell’efficacia del mio racconto, poi sempre più convinta. Le parole cominciarono ad avere volontà propria e a scivolarmi fuori dalle labbra con naturalezza e spontaneità. Avevo creduto di sentirmi spaventata di fronte a due poliziotti così autorevoli, ma parlare con loro fu meno fastidioso del previsto. Avrei potuto parlare per ore di come tutti e tre fossimo rimasti a bocca aperta nel contemplare le meraviglie del locale, le pitture sulle pareti e quegli specchi suggestivi. Il fumo che si innalzava dal pavimento, il rosso dominante, la sensazione di essere in un luogo proibito e affascinante. Ma era Simon l’oggetto del loro interesse e le circostanze che mi avevano portata a cadere nella sua trappola.
Quando accennai al fatto che non ero stata autorizzata da mia madre ad uscire, il detective Sanchez alzò la testa dal blocco per gli appunti che reggeva in grembo e su cui dall’inizio dell’interrogatorio stava freneticamente scrivendo.
«Per quale motivo sua madre non ha voluto che uscisse?» chiese. Era la prima volta quella sera che udivo la sua voce, molto giovanile, gentile e pacata, ma incalzante. Sapevo che fare domande e valutare ogni singola parola faceva parte del loro lavoro, perciò cercai di non dare peso all’insistenza che notai nella voce di entrambi. Era notte anche per loro e li aspettava ancora un duro lavoro.
«Mia madre è un po’ prevenuta, crede che in South of Market girino tipi poco raccomandabili, che la zona sia pericolosa e che io non sappia cavarmela da sola. È una specie di maniaca del controllo, credeva che potesse succedermi qualcosa di brutto».
«Cosa che effettivamente è successa» commentò Collins con un mezzo sorriso.
«Beh sì, ma lì per lì non aveva motivo di sospettare nulla. L’aggressione è stato un caso, sarebbe potuta accadere ovunque e a chiunque» mi difesi, sapendo in cuor mio che la donna aveva ragione. Se solo avessi dato ascolto a mia madre non sarebbe successo nulla di grave, ma ammetterlo era troppo fastidioso.
«Avete litigato?»
«Non proprio, ho cercato di far valere le mie ragioni, ma come sempre lei non mi ha dato ascolto ed è uscita per andare al lavoro. Programmavo di tornare a casa prima che lei rientrasse».
Sanchez lanciò un’occhiata alla collega. Qualcosa mi suggerì che avessero intuito la situazione.
«Mi sembra di capire dalle tue parole che tra voi non c’è un buon rapporto» tentò lui.
«Credete che sia stata lei ad architettare il tutto? Non ci avevo pensato, ma a dire il vero molte cose sarebbero più chiare se fosse lei il mandante del tentato omicidio».
Collins ridacchiò, riuscendo evidentemente a prendere la mia battuta come tale. Sanchez per sicurezza annotò pure quello sul notes.
«Veniamo all’aggressore. Come si è avvicinato a te?»
«In nessun modo, sono stata io ad andare da lui. Era seduto al bancone, poco distante da dove stavamo io e i miei amici».
Sanchez alzò lo sguardo dal notes e la donna corrugò la fronte. I suoi occhi scuri assunsero un’aria incuriosita.
«Davvero? Avremmo giurato che fosse accaduto esattamente il contrario».
«Che importanza ha?» chiesi, stringendomi nelle spalle. Credevano che una ragazza come me non potesse fare il primo passo?
«Ne ha molta. La sua azione violenta mi fa pensare ad una premeditazione, a meno che tu non l’abbia provocato in modo grave. La premeditazione comporta fin dal principio l’intenzione di avvicinarti». Ogni parola aveva una logica, ed era proprio ciò a cui avevo pensato io. Non ero stata io a scatenare la sua ira, probabilmente fin dal principio aveva avuto l'intenzione di farmi del male.
Feci un profondo sospiro. Pensare a Simon mi lasciava senza parole, con la mente in subbuglio nel tentativo di risolvere i miei dubbi e di comprendere il motivo di tutto ciò che aveva fatto. Descrissi ai detective il momento in cui l’avevo individuato al tavolo da biliardo, il fatto che l’avessi fin da subito ritenuto uno schianto e il desiderio di conoscerlo. Raccontai la nostra lunga chiacchierata, soffermandomi in particolare sull’entusiasmo del ragazzo a proposito dell’arredamento del locale.
«Sembrava molto interessato a tutto ciò che riguardava il Mephisto. Era a conoscenza delle spiegazioni di molti elementi, come per esempio la forma del bancone, le scritte, i dipinti…e sapeva diverse cose a proposito del Faust di Goethe. Mi è parso molto affascinato…»
«Come se avesse per lui un significato particolare?»
Annuii pensierosa. «Proprio così. Quando abbiamo iniziato a chiacchierare tutto è andato a meraviglia, poi il discorso si è fatto più teso perché abbiamo nominato le nostre famiglie. I suoi sono divorziati, i miei separati…»
Di nuovo le parole uscirono dalla gola senza sforzi, descrivendo le reazioni esagerate di Simon, la fuga in bagno, i gesti e la confessione della fine dei nostri fratelli. Di come mi ero sentita bene all’idea di non essere la sola a soffrire di un lutto simile. Dannazione, se solo fossi stata più assennata non sarei stata lì in un letto d’ospedale immersa in un interrogatorio di polizia. Avrei dovuto essere più timida e restare con i miei amici, lasciare che Simon stesse per conto suo a sorseggiare in solitudine il suo drink e ordinare tutte le birre che voleva.
A proposito di questo, evitai con cura di nominare ai due poliziotti il fatto che avevo bevuto degli alcolici senza poterlo fare. Era irrilevante in quel momento, ma non volevo ramanzine da parte di sconosciuti, per quanto qualificati fossero. Bastava il mio senso di colpa a rimproverarmi per aver trasgredito una legge ben precisa. E se quella sera fossi uscita di strada con Louis e Jennifer a bordo? In fondo era bastato qualche sorso per farmi sentire decisamente meno lucida.
Fu Sanchez a farmi tornare con i piedi per terra, con gentilezza, ma anche con una dose di determinazione nella voce che mi diede la spinta giusta ad abbandonare i se e a concentrarmi sulla concretezza degli eventi. Quando con il racconto giunsi all’aggressione vera e propria confessai agli agenti le mie impressioni e le riflessioni fatte poco prima.
«Si stava divertendo e sembrava che la situazione gli piacesse molto, rideva per il fatto che io credevo che avessimo molte cose in comune. Ora che ci penso su, sono certa che quello che mi ha raccontato di sé no fosse vero…almeno non tutto».
«Credi che abbia mentito sulla sua famiglia? Per quale motivo?» Collins sembrava scettica.
«Perché ho pensato che lui si sentisse proprio come mi sento io. Ma non riesco a capire com’è possibile che lui sapesse della mia situazione…è stato lui a parlarmi per primo della sua famiglia, per questo gli ho creduto subito».
«Credi che ti conoscesse già?»
«Non l’ho mai visto prima, lo giuro». Ne ero convinta, poi una stretta allo stomaco mi ricordò che cosa Simon aveva detto prima di ferirmi. Un regalo per un amico. Lo ripetei ai due detective, aggiungendo i riferimenti al Faust. Tutto sembrava assurdo, come se stessi raccontando una barzelletta o un aneddoto altrettanto ridicolo, ma qualcosa doveva pur significare.
Collins si stava mostrando molto interessata alle mie parole e la cosa mi fece uno strano effetto. Era un po’ che non mi accadeva di essere ascoltata davvero, dalla prima all’ultima parola che pronunciavo. Certo faceva parte del suo lavoro, ma era comunque molto gratificante. Allo stesso modo Sanchez dimostrava di apprezzare il mio discorso semplicemente scrivendo come un forsennato sul suo notes. La punta della penna raschiava sulla carta mentre si spostava velocemente da sinistra a destra, dando vita ad appunti su appunti, particolari che io non avevo notato e ai quali non avevo dato il giusto peso.
«Tutto questo ci potrebbe far pensare che il movente sia legato al satanismo, ma all’inizio eravamo convinti di poterlo escludere».
Aggrottai la fronte. «No, ne dubito. Insomma…non sono un’esperta di crimini, ma sbaglio o nei film i satanisti agiscono in maniera un po’ meno plateale? Comunque eseguono dei riti, o roba simile, ma se penso alla magia nera mi vengono in mente boschi o ruderi, non un locale pieno di gente» spiegai. La donna annuì riflessiva, scostandosi un ricciolo dal volto.
«Sono d’accordo con te, Amber, ma sento che c’è qualcosa che ci sfugge, qualcosa che è legato al suo interesse per gli scenari infernali. Ti ha nominato il Faust per un motivo ben preciso».
Mi schiarii la voce e i punti alla gola pizzicarono come se desiderassero attirare la mia attenzione e sbeffeggiarmi, rimproverarmi per aver dato confidenza a Simon. Quasi per istinto avvicinai una mano alla gola e sfiorai con le dita il grande cerotto che mi copriva il taglio. Ignorai la sensazione e scossi la testa.
«Sono stata una stupida, non avrei dovuto dare confidenza a nessuno. Avreste tutti i buoni motivi per farmi una ramanzina».
Sanchez mi rivolse un ampio sorriso. «Non ti devi difendere da noi, non ti stiamo accusando di nulla, né rimproverando. Il nostro lavoro consiste solo nel capire ed esaminare le dinamiche dei fatti e, credimi, la maggior parte delle persone aggredite conosce il suo aggressore, o per lo meno ha deciso di fidarsi di lui...o lei. Non sei la prima né sarai l’ultima ad aver dato retta alla persona sbagliata».
Annuii non molto convinta. Per quanto Sanchez fosse gentile, almeno per quella sera ero in dovere di sentirmi un’idiota, sconsiderata e incosciente. Collins continuò con le domande.
«D’accordo. Visto che tu sei l’unica ad esserci stata così vicino, per quanto ne sappiamo, ricordi qualche segno particolare, magari una cicatrice, qualcosa che potrebbe darci una mano per eventuali identificazioni?»
Scossi la testa, senza bisogno di sforzarmi troppo per pensare. Il volto di Simon danzava nella mia mente e non se ne sarebbe andato per un bel po’ di tempo. Mi era parso perfetto, senza alcuna imperfezione.
«Nessuna cicatrice e nessun piercing. Niente di niente. Non ho nemmeno notato dei tatuaggi visibili».
«Credi di poterlo descrivere in maniera molto particolareggiata? Domani vorremmo farti parlare con un nostro disegnatore».
«Ci impiegherò un po’ a dimenticarmi la sua faccia».
La detective Collins si alzò in piedi e si lisciò pantaloni e giacca, anche se tutto era in ordine.
«Ci vedremo ancora e quando quel momento arriverà mi auguro che la polizia abbia fatto grandi passi avanti nel caso. Dato che mi hai nominato un misterioso amico di questo Simon cercheremo qualche complice tra le persone che frequenta regolarmente, dato che secondo me quella frase ha un significato particolare. Non sarà facile, ma faremo del nostro meglio». Mi rivolse un sorriso incoraggiante e mi ringraziò per la disponibilità.
«Riposa» intervenne Sanchez, alzandosi e stringendomi la mano con entusiasmo. Ci congedammo e non appena furono usciti, mamma fece capolino dall’uscio della stanza per chiedermi se tutto fosse a posto. La liquidai con qualche rapida parola e aspettai che mi lasciasse sola.
Un’infermiera venne ad assicurarsi che stessi bene e a darmi la buona notte. Spense la luce della stanza e io rimasi sola con quella dell’abat-jour accanto al letto.
Dopo una mezz’ora rimasta con lo sguardo fisso al soffitto, scivolai fuori dalle lenzuola. Un piede dopo l’altro, zoppicando lievemente per la caviglia indolenzita, raggiunsi le grandi finestre.
Il General Hospital era un edificio piuttosto alto che sembrava avere ai suoi piedi l’intera città. Il mio sguardo vagò dai sottili grattacieli che si vedevano in lontananza, fino al Golden Gate Bridge. Il suo profilo rosso era uno dei panorami più frequenti sulle alture della città, inconfondibile e famoso in tutto il mondo. Mi piaceva guardarlo e pensare che il colore rosso un tempo era stato pensato come provvisorio. Erano stati gli abitanti di San Francisco a preferire che rimanesse così, sebbene dovesse essere frequentemente ridipinto. Un applauso ai coraggiosi che arrivavano fino in cima con vernice e pennello, fino ad un’altezza di oltre duecentoventi metri. Era meglio evitare di riflettere sul fatto che il Golden Gate Bridge fosse la scelta privilegiata per gli aspiranti suicidi della città, sospeso com’era a ottanta metri dal livello del mare.
Abbassando lo sguardo sulla piazzetta di ingresso dell’ospedale, notai il grande cuore variopinto posto proprio davanti all’entrata dell’edificio e fu allora, all’improvviso, che la consapevolezza di ciò che a cui ero scampata mi crollò addosso con violenza pari ad una secchiata di acqua gelida. Sarei potuta davvero morire quella sera.
Riflettendo su ciò che la mia scomparsa avrebbe potuto provocare ai miei cari, ogni boccata d’aria mi sembrò incredibilmente preziosa e guardai il panorama come se prima d’allora non l’avessi apprezzato al meglio.
Rimasi lì alla finestra finché il silenzio non divenne insopportabile. Recuperai l’iPod dalla borsetta dove era rimasto per tutta la sera, socchiusi la finestra per permettere alla brezza notturna di accarezzarmi il volto, e passai un tempo indefinito immobile a godermi la musica e la visione della mia città, brulicante e viva a qualsiasi ora.
Le note mi calmarono, la voce familiare di Van Morrison mi fece sentire cullata e protetta anche se tutte le volte mi ricordava mio fratello.
Guardai il cielo, scuro e punteggiato di stelle. Se per caso Christopher aveva avuto qualche istante di coscienza prima di morire, aveva riflettuto anche lui sul vuoto che avrebbe lasciato nella mia vita? Aveva capito che stava per lasciarmi o aveva sperato fino all’ultimo che potesse andare tutto bene? Conoscendolo avrebbe trovato un motivo per sorridere anche allora, mentre io dopo tutto quel tempo ancora non riuscivo a cavarne nulla di buono.
In fondo cosa poteva esserci di bello nella morte? Il ricongiungimento con Dio era una balla, non c’era nulla al di là della vita e io volevo odiare Chris per avermi sempre raccontato fiducioso storie sulla salvezza eterna, sul paradiso, sull’amore che Dio aveva per noi. Avrei voluto detestarlo per avermi lasciata solo ad affrontare il terribile silenzio di casa nostra e la freddezza di nostra madre.
Avrei voluto odiarlo, ma non ci sarei mai riuscita.
  
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