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Autore: roxy92    12/07/2016    1 recensioni
L'aria si era increspata lievemente e si era udito un tonfo. Sesshomaru aveva girato elegantemente il viso nella direzione che aveva percepito, appena disturbato dalla diversità di quel piccolo avvenimento così insolito rispetto ai normali giorni del Sengoku. Si era concentrato per qualche istante ma non aveva trovato nulla di interessante. Così aveva deciso di continuare il suo peregrinare come nulla fosse, disinteressato a quanto, in realtà, stesse accadendo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rin, Sesshoumaru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le grida di Rin erano strazianti. Graffiavano orecchi e cuore. Galen correva più veloce che poteva. Lo sdegno e la furia che le annodavano le viscere le stavano facendo ribollire il sangue nelle vene. Glielo avevano ripetuto che quelli della sua razza, in passato, erano stati quasi tutti malvagi. Aveva ancora gli artigli sporchi del sangue di Renkok, l'avversario che eliminato pochi giorni prima. Aborriva uccidere. La disgustava attaccare un suo simile ma l'avrebbe fatto fuori senza remore se davvero si stava macchiando dello scempio che presagiva. Eppure non voleva crederci, anche se il suo sesto senso ne era certo. Non poteva accettarlo, anche se il fiuto e l'udito percepivano il sangue di Sesshomaru ed i lamenti di Rin.

Erano vicini. Per scherzo o per fortuna, in quei pochi giorni avevano affrontato lo stesso percorso e Galen riuscì a raggiungerli in pochi minuti. Si trovò davanti la scena che temeva: Rin in lacrime e Jaken che cercava di rassicurarla ed allontanarla da quel posto. Se non altro, il rospetto ci stava provando. Galen palesò la sua presenza nell'esatto momento in cui Rin aveva eluso la guardia del piccolo demone e stava per correre anche lei verso l'agonia del suo protettore.

Richiamò decisa la bambina e, già come Jaken, le ordinò di mettersi al sicuro.

Lasciò i due vicino al fuoco che li aveva riscaldati quella stessa notte. Nell'aria, l'odore della carne corrosa dall'acido era penetrante e pestilenziale. Non aveva fatto nulla per celare la sua presenza ed il suo simile sembrava non essersi minimamente curato della sua entrata in scena. Evidentemente, non la riteneva una minaccia, forse solo una femmina insignificante o, addirittura, un'alleata.

 

“Smetti.”

 

Quell'affermazione fu accolta come strana.

Il carnefice bloccò per un attimo il gioco e la fissò incuriosito. La vittima ai suoi piedi era sfinita. Non gli aveva dato neppure un istante la soddisfazione di chiedergli pietà e lui, in accordo alla sua richiesta, aveva continuato a divertirsi.

 

“Perché dovrei?”

 

Sorrise, mostrando le zanne storte ed in qualche punto rovinate.

 

“Col tuo agire getti infamia su tutto il nome di noi figli di Helotar.”

 

Doveva aver davanti una di quelle che ancora credevano a certe baggianate.

 

“Come se Helotar fosse ancora vivo e gli importasse qualcosa. Nostro padre è morto da millenni, sempre che sia mai esistito.”

 

Aveva dato le spalle, pronto a ricominciare il suo trastullo, fintantoché la vittima fosse stata ancora cosciente. Era certo che quel demone maggiore non sarebbe durato ancora a lungo. Stava per concentrarsi, quando il freddo del metallo all'incavo del collo lo distrasse ancora.

 

“Nostro padre è vivo e ti farebbe a pezzi con le sue stesse mani se vedesse come agisci.”

 

A quella minaccia boccheggiò, non per le capacità di quella femmina ma per l'arma che brandiva. I fregi di quella spada erano pregni di magia antica. Possibile addirittura che la minaccia di poco prima fosse veritiera?

Sudava freddo ed iniziava a perdere il controllo anche sulla preda. Lo sentiva dai respiri che si regolarizzavano e dal potere demoniaco che, velocemente, gli stava sanando il corpo.

 

“Parli come se avessi visto nostro padre di persona.”

Galen impresse una pressione maggiore sulla sua giugulare con la spada e si avvicinò per sussurrargli all'orecchio.

 

“Sono una sua diretta allieva. Come credi che io abbia ottenuto un'arma così potente?”

 

Volontariamente, Galen allentò la barriera mentale e gli permise di leggere la sua anima, appurare che non mentisse. Ora potevano percepire chiaramente i pensieri l'uno dell'altra e il terrore più puro si impadronì dell'aguzzino, ormai certo della pena.

 

“Che mi farai?”

 

Squittì ansimante.

 

“I nostri fratelli dovranno sapere che non saranno mai più tollerati comportamenti simili.”

 

Iniziò a tremare, teso tra l'incertezza della pena e la seria possibilità di essere ucciso.

 

“Scappa, topolino, e sta attento: la prossima volta pagherai la pena.”

 

on se lo fece ripetere. Sparì veloce, in uno sbuffo di nebbia.

Non appena quello se ne fu andato, Sesshomaru iniziò a sentirsi meglio per davvero. La ferita alla spalla iniziava a rimarginare. Il sangue rappreso restava solo una macchia.

 

“Ti aiuterei volentieri ma vedo che non lo vuoi e non credo neppure che me lo permetteresti.”

 

Galen aveva rinfoderato la spada e si era seduta a terra a gambe incrociate, nell'attesa che Sesshomaru si alzasse.

Mentre la vista tornava nitida, il demone osservò con sospetto la femmina che non se ne andava.

Lei ed il suo avversario avevano gli occhi dello stesso colore. Ora che poteva guardarla bene notò che erano praticamente identici.

 

“Sono un tratto distintivo della mia razza.”

 

Il demone dell'ovest riuscì finalmente nell'impresa di staccare la schiena da terra e le si rivolse.

 

“Leggi nel pensiero, dunque?”

 

Galen negò ed i capelli chiari sfuggirono al laccio che li obbligava sulle spalle. Erano tanti e particolarmente ribelli.

 

“Quelli come me hanno potere sulle anime dei viventi. Sappiamo plasmarle, nel bene, come dovremmo fare sempre, e nel male, come quel disgraziato ha fatto con te. Mi scuso a nome suo e di tutta la nostra stirpe.”

 

Sesshomaru sbuffò contrariato. Era debole ma stava bene. La ferita era del tutto richiusa, anche se l'aspetto dei suoi vestiti era terribile.

 

“Chi è Helotar?”

 

Si mosse barcollando e fulminò con lo sguardo la femmina che provò prontamente a sostenerlo.

Rifiutò schiaffeggiandole via la mano e la borraccia che gli porgeva. Doveva averla delusa, perché lo rimproverava che bevendone avrebbe recuperato le forze prima.

“Helotar è nostro padre, il nostro progenitore.”

 

Forse si sentiva davvero in colpa e per quel motivo rispondeva finalmente alle sue domande.

 

“Quanti siete?”

 

Galen non ne aveva idea.

 

“Con quello di stasera posso dirti che in questa zona siamo almeno tre.”

 

Fu fulminata da uno sguardo glaciale a quella risposta. Sesshomaru era un tipo silenzioso ma quando era scosso da emozioni potenti sapeva essere estremamente espressivo. Galen gli si portò al fianco, restandogli almeno un passo indietro. Il demone-cane si girò seccato verso di lei.

 

“Puoi camminare avanti, non sto per svenire.”

 

Galen finse un sorriso amabile.

 

“So benissimo che non siete debole, è solo per tranquillizzare Rin.”

 

Sesshomaru aggrottò le sopracciglia. Non capiva a pieno se quella femmina si stesse prendendo gioco di lui o facesse sul serio ma, a causa dell'aiuto ricevuto e della premura nei suoi confronti, aveva lasciato stare. Sbuffando, aveva imboccato a passo di marcia il sentiero per uscire dalla foresta. Doveva aver accelerato troppo perché, ad un certo punto, la vista si oscurò leggermente e dovette appoggiarsi ad un tronco. Avrebbe voluto protestare di nuovo quando si accorse dell'ingombro che Galen gli poneva in mano. Vide la femmina sorpassarlo. Desiderava lanciarle dietro quel pezzo di legno che gli aveva infilato tra le dita. Si accorse poi che era la borraccia che gli aveva offerto prima. Poco entusiasta, conscio di aver bisogno di energie, tolse il tappo e bevve d'un fiato. Il sapore dolce lo disgustò. Tuttavia si sentì subito meglio. Quando però raggiunse la radura dove si erano accampati, ad attenderlo erano rimasti solo Rin e Jacken. Nascose la borraccia vuota in una tasca del chimono. Galen se ne era già andata e aveva avvisato che, semplicemente, Sesshomaru-sama stava bene e sarebbe tornato dopo poco. Le fu grato. Il silenzio su quanto era realmente accaduto nella foresta restava la migliore cura per il suo orgoglio ferito.

 

 

Galen era corsa via, furibonda. Fosse stata nel suo mondo, Helotar gli avrebbe fatto volare via la testa. Cosa accadeva di così deviante in quell'epoca da aver traviato tanto a fondo la natura della sua razza? Non contava Renkok, con cui aveva un conto in sospeso da parecchio. Helotar, durante l'addestramento, aveva espresso chiaramente il fatto che si era allontanato dai suoi figli a causa del loro comportamento disonorevole. Sperava che il loro sangue si diluisse nelle unioni con altre razze, demoniache ed umane, fino a quando non fosse rimasto più nessuno con l'intima natura del Dakvor. Invece, qualcuno restava, ed era a dir poco infame. Sapeva di dover trovare qualcuno che la aiutasse a trovare la via di casa ma sarebbe stata una deviazione tanto lunga rintracciare l'accampamento di quel maledetto che si era accanito contro il demone cane?

 

Aveva rincorso quel disgraziato per poche ore. Il suo odore era facilmente riconoscibile nelle tracce che si incrociavano nell'infittirsi della foresta. Galen non aveva intenzione di fargli del male. Ricordava però certi sistemi efficaci, appresi tra le battaglie e l'addestramento, davvero utili in casi come quello. I demoni di quella dimensione erano estremamente semplici, più simili agli animali o agli spiriti elementari della natura. Non c'era quasi nulla, in loro, della complessa interiorità umana. Era convinta che una bella paura, un attacco in pieno stile, una mera manifestazione di potenza, avrebbe senza dubbio indirizzato i suoi simili verso una migliore predisposizione d'animo. Snudò dal fodero la lama corta, che di solito usava solo per controllare la presenza di nemici, pronta a servirsi del suo secondo potere. Era da un po' che non si esercitava nelle illusioni e poteva essere utile, oltre che divertente. Peccato avesse dimenticato quanta energia ci volesse per tenere attive le illusioni e che, soprattutto, la borraccia con il succo rigenerante fosse rimasta a Sesshomaru.

 

 

Jaken aveva aspettato che Rin iniziasse a saltellare tra i prati e si allontanasse quanto bastava da non riuscire a sentire il suo discorso. Il piccolo kappa si avvicinò con circospezione al suo signore, tossicchiando. Si schiarì la voce e cercò di iniziare. Era tremendamente curioso su quanto fosse realmente accaduto al suo signore. Perché, se era vero che Rin era una bambina, ed in qualche modo a lei potevano darla a bere, per lui, invece, che di secoli sulle spalle ne aveva ormai parecchi, era tutta un'altra storia. Si aspettava una pedata o un sasso in testa, come al solito. Ricevette invece un ostinato silenzio. Sesshomaru aveva assottigliato lo sguardo ed emesso un ringhio così basso da essere quasi impercettibile. Tuttavia, ciò che per orecchio umano era nulla, per Jaken fu una chiara espressione di frustrazione e profonda amarezza. Il minuscolo vassallo si inginocchiò in fretta, profondendosi in numerose scuse. Tirò un sospiro di sollievo quando il suo padrone lo oltrepassò, lasciandolo solo con Rin. Da che lo serviva, non aveva mai visto il suo padrone tanto furioso.

 

La sconfitta bruciava terribilmente. Sesshomaru si era avviato in fretta nel folto del bosco. Era furioso. L'aura maligna scorreva a briglia sciolta fuori dal suo corpo. Non la controllava. Non voleva più. Aveva bisogno di sentirsi vivo, di sapere di essere forte. Aveva fame: un impulso vorace, di pura distruzione. Non umani: altre carni dovevano arrossare le sue zanne. Carni diverse. Di quel traditore che Galen aveva lasciato scappare. Voleva sbranare tutti, di quella razza. C'era una traccia, flebile ma decisa, che si spandeva nell'aria e lui non aveva paura. Anche se la aveva, l'avrebbe sconfitta. La sera calò in fretta mentre lui si trasformava. I tentacoli d'inchiostro della notte lo ghermirono nella sua forma umana per restituirlo nel latrato possente della sua apparenza demoniaca. La rabbia era nell'impulso elettrico che scattava tra un muscolo e l'altro, nei fasci nervosi che saettavano sotto la pelle. Il manto di Sesshomaru era candido, color della neve. Mentre volava, l'avanzare del vento descriveva su di esso la linea di un orizzonte che si spostava. Come l'aria fredda che scorre sui campi maturi e traccia il suo percorso simile alla spuma bianca del mare, così era sferzato l'animo indomito del guerriero, nell'inquietudine che precede il temporale. Sesshomaru voleva sangue di nemico. Lo bramava, lo desiderava vorace a scaldargli la gola. E la sua brama andava saziata.

 

 

 

  
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