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Autore: Maqry    21/07/2016    4 recensioni
Harry è morto, la Battaglia di Hogwarts è stata persa e Voldemort ha vinto.
Ma, nonostante sembri tutto perduto, qualcuno non vuole arrendersi.
L'Ordine c'è ancora, decimato ma determinato a combattere perché il mondo torni libero.
"Eppure ci credeva ancora, in quel mondo più giusto, ci credevano e continuavano a lottare ogni giorno, nonostante tutto. Forse semplicemente per non dover ammettere di aver sbagliato a fidarsi, anni prima, e per non vedere il sorriso della vittoria sui visi dei Mangiamorte. Perché non c’era altra scelta, se non combattere, perché se proprio dovevano morire non avrebbero certo aspettato rintanati in casa, perché avevano dalla loro parte tanta, troppa, rabbia, perché ammettere di aver perso e farsi schiacciare era peggio che morire.
Perché non fossero morti invano."

{La storia fa parte della serie "Cosa tiene accese le stelle"}
[Terza classificata al contest "The Darkness within" indetto da _Malika_ sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Hermione Granger, Nimphadora Tonks, Nuovo personaggio, Ordine della Fenice | Coppie: Bill/Fleur, Charlie/Ninfadora, Remus/Ninfadora, Ron/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
- Questa storia fa parte della serie 'Cosa tiene accese le stelle'
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Questa storia fa parte della serie Cosa tiene accese le stelle (di cui rappresenta la quarta parte), ambientata in un universo in cui Harry è morto durante la battaglia di Hogwarts, ucciso da Bellatrix. Quando la Mangiamorte sta combattendo contro Ginny, Harry è nei paraggi e cerca di darle una mano, fino a quando non interviene Molly e la uccide. Beh, e se invece fosse intervenuto lui, avendo visto che aveva colpito Ginny? Bellatrix non aveva certo la bacchetta di Sambuco e non poteva essere salvato come accade invece nel vero scontro con Voldemort.
 





Veglia








9 aprile 1999


Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato…
 

 
Pioveva a dirotto. Non che negli ultimi mesi fosse stato diverso. In fondo, con i Dissennatori a piede libero per tutta l’isola, cosa ci si poteva aspettare di diverso?
L’oceano infuriava contro la costa, schiumando e infrangendosi prepotentemente contro gli scogli. Se chiudeva gli occhi poteva immaginare di essere ancora a casa, seduta al tavolo della cucina a preparare germogli e radici per le sue pozioni, mentre fuori si scatenava an stoirm1Invece Melissa Doherty, vedova O’Byrne e Guaritrice in pensione da anni, era lontana miglia e miglia dalla sua Irlanda.
L’orologio alla parete batté le venti: il cambio delle fasciature per Nat.
Aprì gli occhi. Le coste tornarono quelle della Cornovaglia e il caos allegro e spensierato della sua cucina lasciò spazio a una lunga camerata, il muro che puzzava ancora di vernice, una ventina di letti allineati, l’odore del sangue e quello delle pozioni che si mescolavano nell’aria e restavano appiccicati ai capelli. Mesi prima avevano dovuto abbattere la parete che divideva le due stanze per poter fare spazio a tutti i feriti che aumentavano ad ogni missione. Così ora lei, Melissa Doherty, vedova O’Byrne ed ex Guaritrice del San Mungo, si ritrovava a capo di quell’infermeria improvvisata nel secondo piano di Shell Cottage.
Era passato quasi un anno da quando quello che restava dell’Ordine della Fenice e dell’Esercito di Silente si era rifugiato lì, dopo la Battaglia di Hogwarts. Dopo la loro sconfitta, la vittoria di Voldemort e la morte di tante, troppe persone. Dopo la morte di tutte le loro speranze, di quel bambino per cui avevano brindato tutti, diciotto anni prima, in una fredda notte di fine ottobre.
Eppure loro avevano continuato a lottare, a resistere: mese dopo mese arrivavano nuovi maghi, ragazzi per lo più, a volte ancora bambini, a prendere il posto dei morti. Quelli non erano mai finiti, ormai ne aveva perso il conto. In poco tempo l’infermeria era diventata il luogo più affollato di tutta la Cornovaglia.
Chissà quanti di quei ragazzini che aveva visto passare un paio di volte da Shell Cottage, armati di buone intenzioni e coraggio, a cui aveva curato una bruciatura da incantesimo o un taglio e sorriso come fosse stata loro nonna, chissà quanti non ce l'avevano fatta. Non se lo chiedeva nemmeno più, ormai. Non sapere era il modo migliore per tirare avanti, le bastava il suo elenco di morti: erano anche fin troppi per una sola persona.
 
Si avvicinò allo scaffale dei medicinali, sospirando. Quella sera erano in pochi, per il momento. A dire la verità lo erano da due settimane: dopo l’ultima missione avevano sospeso gli attacchi contro i Mangiamorte, considerati i sei morti e altrettanti feriti solo tra quelli di base a Shell Cottage, il quartier generale della loro folle resistenza. Ora avevano mandato quelli che stavano meglio in uno dei rifugi inglesi per Nati Babbani, per riprendersi e staccare dalla guerra. Avrebbero dato una mano a Molly alla Tana.
Aprì le ante dell’armadietto che una volta – secoli prima – era servito per riporre asciugamani e saponi.
Annabeth stava controllando l’occhio del giovane Longbottom: i calcinacci della casa che gli era crollata addosso mentre dava la caccia ai Carrow lo avevano conciato per bene. Niente di cui preoccuparsi, comunque. Un po’ di calendula per ancora qualche giorno e sarebbe tornato come prima.
Melissa Doherty prese bende pulite, una bacinella d’acqua, essenza di dittamo e olio di elicriso. Non si poteva dire lo stesso di Nat, purtroppo.
“Padma, vieni a darmi una mano.”
La ragazza dal viso scavato si alzò dal letto di Oliver Wood2 su cui era china, e si avvicinò all’anziana signora. Il giovane – un tempo promessa del Quidditch – stava tornando a muoversi dopo essere andato a un passo dalla morte per colpa del veleno di Acromantula. Una volta passato l’effetto immobilizzante sarebbe tornato a volare sulla sua scopa.
Melissa porse la bacinella alla giovane Patil, sorridendole. Ne stava vedendo troppe quella ragazzina, forse più stando in infermeria che partecipando alle missioni. Ormai non tremava più davanti a certe ferite e al sangue. Era un bene, da un certo punto di vista, ma una ragazza così giovane non avrebbe mai dovuto vedere cose simili, nemmeno nei suoi peggiori incubi. Invece si era trovata davanti anche la gemella con la gola dilaniata, le vertebre spezzate e il sangue che usciva fuori a fiotti, insieme alla vita.
Ma la guerra era anche quello: crescere troppo in fretta lasciando pezzi di sé alle spalle.
“Allora Nat, pronto?” domandò al ragazzo steso sul letto dalle lenzuola immacolate.
“Sono tornati dalla missione contro i Lestrange?” chiese invece lui, cercando di muovere il meno possibile i muscoli. Era una coltellata a ogni movimento.
La donna scosse la testa, accarezzandogli i capelli sudati. Era la regola numero uno impostale da Nat: verità. Non serviva a nulla indorare la pillola in guerra, nemmeno se stavi rischiando di morire in un letto cigolante, l’amore della tua vita stava combattendo contro la peggiore Mangiamorte e probabilmente non l’avresti rivista mai più.
“Sono via da quattro giorni ormai. Più passano le ore più diminuiscono le possibilità che tornino.”
 
Annabeth, le occhiaie ben marcate sotto i begli occhi verdi – così simili alla natura selvaggia delle coste del Donegal, il suo Donegal –, si voltò verso il suo bambino sdraiato nel letto, la federa macchiata da gocce di sangue e sudore. Era così simile al padre, soprattutto ora che era un uomo, anche se per lei restava sempre il bimbo che passava le notti nel lettone per farle compagnia – avrai freddo, senza più papà. 
Così simili che era andato vicinissimo a fare la sua stessa fine. Non l’avrebbe potuto sopportare, aveva sviluppato una particolare allergia per le parole eroe e guerra vicine. Uno era morto comunque, non cambiava molto se fosse stato un laoch3, la gloria non la si poteva portare nella tomba, era solo una medaglia vuota e pesante per consolare le vedove, le madri e le sorelle. Senza riuscirci.
Scosse la testa e tornò a concentrarsi sulla fasciatura di Neville, sorridendogli dolcemente quasi a incoraggiarlo. Si era affezionata a quel ragazzo così somigliante ad Alice, la timida bambina un po' smarrita a cui aveva fatto da guida nei suoi primi giorni a Hogwarts e di cui era divenuta amica. I Mangiamorte avevano finito il lavoro che avevano iniziato anni prima, quando avevano preso il San Mungo. Si diceva non fosse rimasto nessun corpo riconoscibile. Forse era meglio così, non avrebbero più dovuto soffrire.
“Ormai sai come è. Stringi i denti, a buachaill 4.”
 

...con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio

 
Al piano inferiore Hermione Granger stava misurando l’ingresso di Shell Cottage. Dieci passi avanti, dieci indietro. Avanti, indietro. Aveva quasi consumato il pavimento di legno chiaro.
Ma quanto ci stavano mettendo? 
Niente notizie per più di quattro giorni, se andava avanti così sarebbe impazzita. E Fleur non avrebbe più avuto il pavimento.
Guardò fuori dalla finestra per la centotrentottesima volta, quella mattina. La millesettecentoquarantaseiesima negli ultimi quattro giorni. Niente, ancora niente, nessuna traccia dei capelli rossi di Ron e Bill, o di quelli ingrigiti di Remus. Nemmeno della treccia sfatta di Charlotte. Solo il giardino spoglio davanti a casa e la stradina che scendeva verso la spiaggia, i soliti cespugli di limonio che sonnecchiavano sparsi ovunque, troppo zuppi per poter fiorire. Dopo quello che era successo a Grimmauld Place, quando erano fuggiti dal Ministero secoli prima, non commettevano più l’imprudenza di materializzarsi dentro la zona protetta dall’Incanto Fidelius.
L’urlo straziante di Nathan le giunse alle orecchie. Sembrava venisse direttamente dall’Inferno, invece che dal piano superiore. Ormai avevano fatto l’abitudine a tutto quel dolore: erano due settimane che quel rito si ripeteva tre volte al giorno, dato che le bende si inzuppavano facilmente con tutto il sangue che perdeva. Avevano imparato a non tremare e a continuare quello che stavano facendo. Dopo aver visto il bel viso di Nathaniel Ghisler ridotto a una maschera di sangue e carne viva, quelle urla erano niente. Neville, che faceva coppia con lui in missione, dopo averlo portato di corsa in infermeria era stato scosso dai conati di vomito. C’era voluto un bel po’ per togliere l’odore ferroso del sangue e quello viscido del vomito dalle scale, un certo alone nauseante persisteva ancora. Sembrava quasi che il destino avesse deciso di farsi beffe di Nathan: uno dei più bei ragazzi di tutta Hogwarts, per cui le ragazze impazzivano, sarebbe stato peggio di Malocchio Moody per il resto dei suoi giorni. Se non moriva dissanguato prima, ovviamente.
Le ustioni – o cosa diavolo gli avevano fatto per ridurlo così – avevano portato via tutta la pelle del viso e delle braccia, sulla guancia destra anche tutti i tessuti, restava solo l’osso pallido della mandibola. Non sarebbe più tornato quello di un tempo. Come a tutti, lì dentro, gli sarebbe servito un miracolo. Ma il mondo non era un ufficio esaudimento desideri, o se lo era si era sicuramente dimenticato di loro.
“Hermione, dovresti dormir. Non serve a nulla che rosti regarder la fenȇtre. Non farà tornar prima Ron.”
Fleur le appoggiò la mano sulla spalla, mentre le passava accanto. Sembrava invecchiata di dieci anni, pensò Hermione, eppure ne era passato solo uno. I capelli biondi non luccicavano più di vita propria come un tempo, gli occhi erano cerchiati e le si leggeva in ogni angolo di pelle quanto fosse stanca. Faceva ancora impressione guardare la sua mano sinistra, mentre reggeva pentole e padelle senza più le ultime tre dita. O meglio, faceva impressione vedere il lato umano, umano e distrutto dalla guerra, di Fleur – non combaciava con l’idea di Veela che Hermione si era fatta.
Probabilmente se, in tutto quel viavai di nuove reclute, missioni, riunioni, nottate a cercare un nuovo piano o lavorare su una nuova specie di ibridi o pozioni, avesse avuto il tempo di guardarsi allo specchio, Hermione avrebbe detto lo stesso di sé. Ma per il momento evitava accuratamente di farlo, o usava solo i vetri appannati delle finestre, regolarmente rigati dalle gocce di poggia. Non aveva tempo per simili sciocchezze. Effetti collaterali della guerra.
“Ne hai bisogno, Hermione. Da quanto tempo è che non ti riposi vraiment?”
Poi scomparve dietro la porta, leggera come era venuta. Nemmeno la guerra era riuscita a portarle via quella caratteristica.
 
Da quanto era che non riposava davvero?
Da quando si era resa conto di essere in guerra, si rispose la ragazza, e aveva smesso di pensare al passato e a ciò che era stata. Non sarebbe mai tornata quella ragazza, meglio dimenticarsene in fretta, prima di sentirne la mancanza. O peggio, il bisogno di tornare la vecchia Hermione china su pile di libri di scuola e radiosa nel sole di un brillante futuro.
Le era servito un po’ di tempo per rendersi conto di cosa fosse davvero una guerra e cosa facesse alle persone. Per lei non era iniziato tutto con la battaglia della Torre di Astronomia e la morte di Silente, nemmeno con la presa del Ministero, il giorno del matrimonio di Bill e Fleur. Allora era ancora troppo fiduciosa, troppo sicura che, come nelle fiabe, prima o poi i buoni avrebbero vinto. Avevano Harry, la Profezia, una missione, l’amore. Potevano vincere, lo sapeva. Forse era solamente troppo giovane e inesperta, confortata dalla sensazione di sicurezza che Harry e Ron sapevano trasmetterle: se restavano uniti non sarebbe mai successo nulla di male. Semplicemente le era mancato il tempo materiale di pensare alla guerra, concentrata come era nella ricerca degli Horcrux.
Poi c’era stata la Battaglia di Hogwarts, ma c’era troppa confusione per poter solo pensare a qualcosa che non fosse restare viva. L’Ardemonio nella stanza delle Necessità, la morte di Piton, le grida di Luna che veniva torturata, il castello che crollava loro addosso, la risata di Bellatrix, Harry che cercava di mettersi in mezzo, il lampo di luce verde, Ginny che si accasciava a terra di fianco a lui, Harry che fissava il soffitto con gli occhi congelati, che non respirava, Harry che non avrebbe più riso – Harry morto.
Harry, e Ginny, e Luna, e Piton, e Lumacorno, e la McGonagall, e Percy, e Cho, e Colin, e la Trelawney.
Ma lei era ancora troppo innocente, troppo pulita, troppo pura.
A Shell Cottage avevano dovuto crescere alla svelta, dimenticarsi Schiantesimi e Fatture Mucovolanti e iniziare a usare le Maledizioni Senza Perdono. Ron aveva provato a spiegarle che se voleva sopravvivere a quello che stava loro accadendo doveva lasciarsi tutto alle spalle e guardare negli occhi il Mangiamorte successivo. Effetti collaterali della guerra.
Nonostante questo, Hermione aveva continuato a chiedersi in che modo potesse continuare a rimanere fedele a se stessa, non permettere che quella carneficina la cambiasse. Come potesse dormire con le mani macchiate di sangue e l'odore pungente delle proprie colpe che non l'abbandonava mai.
Mentre era persa nei suoi pensieri, il riflesso pallido di Charlotte Sheridan, di passaggio in Cornovaglia per una riunione, si era avvicinato al suo, nel piccolo bagno degli ospiti di Shell Cottage. La ragazza aveva aperto il rubinetto e aveva preso un flaconcino da una mensola: Hermione si era ricordata di averlo visto a volte nella cucina della Tana. Prometteva di togliere ogni odore di cibo. Charlotte l’aveva aperto e aveva versato un po’ del contenuto sui palmi di entrambe.
“Funziona anche con l’odore del sangue,” le aveva assicurato, strofinandosi poi per bene le mani sotto il getto dell’acqua calda.
All’inizio non aveva voluto crederle: che mondo era mai quello, se dell’innocente sapone da cucina veniva usato per cancellare tutte le loro colpe? Poteva togliere l’odore del sangue, ma non certo il fatto che lei fosse un’assassina. Aveva continuato a guardare il liquido giallastro sulle proprie mani, stordita. Poi aveva pensato che non aveva nulla da perderci, e aveva fatto lo stesso. Per la prima notte da mesi era riuscita a dormire senza che il puzzo di morte la perseguitasse nei suoi incubi.
La settimana dopo, alla sua quinta missione, si era ritrovata faccia a faccia con Rabastan Lestrange nei vicoli di Notturn Alley e non aveva esitato ad ucciderlo senza staccare gli occhi da quelli glaciali dell’uomo. Aveva guardato il corpo riverso a terra, soffocato dal proprio sangue, lo stesso che le imbrattava i vestiti e le mani, e non aveva provato nulla. Disgusto, forse. Ricordava ancora il suo sorriso mentre torturava Luna, davanti a quella che un tempo era l’aula di Trasfigurazione, la notte della Battaglia. Poi Ron l’aveva presa per mano e si erano Smaterializzati. Non era nemmeno più servito il flaconcino di Charlotte. Quattro mesi dopo la loro sconfitta, dopo la morte di Harry – e Ginny, e Luna, e Piton, e Lumacorno, e la McGonagall, e Percy, e Cho, e Colin, e la Trelawney – il giorno del suo diciannovesimo compleanno, Hermione Granger aveva smesso di sentirsi un’assassina. Aveva capito che doveva farlo presto, se voleva sopravvivere, perché quella era una guerra, e questo era quello che capitava alla gente, in circostanze simili. Non esistevano né buoni né cattivi. Doveva solo adattarvisi il prima possibile.
 
“Non sono ancora arrivati?”
La voce di Tonks, che fece irruzione nella stanza con i suoi capelli verde muschio, la risvegliò dai suoi pensieri.
“Mi era sembrato di sentire un rumore come quello della Materializzazione,” si giustificò la donna, avanzando a grandi falcate verso la finestra, l’unico braccio rimastole che dondolava lungo il fianco.
Hermione scosse la testa e ricominciò a percorrere febbrilmente l’ingresso di Shell Cottage. Dieci passi avanti, dieci indietro.
Odiava quella sensazione di impotenza. Sarebbe dovuta andare anche lei in quella missione. In fondo parte del piano era anche opera sua: erano stati lei e i gemelli a creare i nuovi ibridi che dovevano usare. Avrebbe voluto esserci per poter verificare la loro efficacia e assicurarsi che nessuno della squadra rimanesse ucciso dalla loro stessa arma. Non avevano avuto ancora modo di provarne gli effetti.

Ma il piano era stato di Charlotte e Neville l’aveva scelta per guidare l’attacco e formare la squadra; in fondo anche lei aveva partecipato a quel loro esperimento: l’antidoto al veleno era opera sua e di Malfoy.
In realtà nemmeno dovevano usarli, gli Aghi Inseguitori . Se avesse potuto decidere lei, avrebbero dovuto prima testarli, fare dei controlli almeno. Ma non è che in guerra si avesse il tempo per fare le cose bene. Come aveva detto Charlotte, li avrebbero collaudati sui Lestrange.
Erano stati proprio i gemelli, dalla loro postazione a Londra, ad aver trovato una traccia per prendere Bellatrix e Rodolphus, dopo mesi che continuavano a inseguirli senza risultati. A meno che i morti e i feriti degli scontri passati potessero considerarsi un risultato.
C’era stato un gran viavai giusto una settimana prima. Erano arrivati tutti i capisquadra dei vari gruppi della resistenza: il signor Weasley per il gruppo del Devon, Kingsley per Londra, Dean e Seamus per la Scozia, il fratello di Charlotte, Ryan, dall’Irlanda, Hestia Jones dal Galles, il signor Diggory dal Norfolk, Lupin e Tonks dallo Yorkshire. A momenti non ci stavano tutti attorno alla scrivania nello studio di Bill, pieno di mappe e libri di Incantesimi com’era. Avevano discusso a lungo su cosa fare.
Il signor Weasley era contrario: un tentativo di suicidio, ecco come aveva definito la missione. Non che avesse torto, pensò Hermione, era esattamente la definizione più sintetica ed esaustiva. Erano stati quasi tutti d’accordo con lui: era davvero un azzardo, un grosso azzardo. Dopo lo scontro con Rookwood e il suo gruppo di Mangiamorte ad Hogsmeade avevano subito molte perdite. Sei morti e sei feriti, due dei quali ancora in infermeria. Nessuno aveva abbastanza uomini per rischiare un attacco e nessuno voleva mandare i suoi al macello, perché era a quello che li avrebbero condotti.  Eppure, come aveva ripetuto Neville, non potevano permettersi di perderli. Di nuovo, aveva aggiunto Hermione nella sua mente, pensando all’ultima volta che avevano provato a dargli la caccia ed erano rimasti a mani vuote, con Dean mezzo cieco e Justin con quattro ossa rotte.
Avevano discusso a lungo, quella sera, fino a quando Charlotte, che era stata zitta tutto il tempo sorprendendo Hermione notevolmente, aveva chiesto la parola. Neville aveva annuito, distrutto, e lei aveva semplicemente buttato in mezzo al tavolo il fogliettino su cui aveva scarabocchiato per tutta la riunione, tra il vociare sempre più forte degli altri. Era una follia, ma era il migliore e soprattutto unico piano che avevano a disposizione. Tanto folle che avrebbe potuto anche funzionare, era stato il primo pensiero di Hermione. Il secondo perché non ci fosse arrivata prima lei. Dover dividere il ruolo di cervello del gruppo non le era andato molto a genio, all’inizio. Non sopportava per nulla quella situazione. Così come Charlotte, dopotutto. Poi aveva accettato che due cervelli erano meglio di uno e che, per poter superare l’altra, tiravano fuori il meglio di sé – una stupida e ostinata competitività da bambine, la definivano Nat e Ron. Ma non le interessava capire cosa ci fosse esattamente tra lei e Charlotte Sheridan, ora, cosa fosse cambiato dalla palese diffidenza degli inizi (più ostilità, a dire il vero, da parte di Charlotte). Semplicemente passavano la maggior parte del proprio tempo assieme – condividendo la stanza, facendo coppia in missione, prestandosi i libri da leggere nei tempi morti, quando il turno di guardia non toccava a loro e potevano solo aspettare che gli altri tornassero – e un po’ alla volta si era abituata alla sua costante presenza. Avevano imparato a fidarsi – non che avessero molte alternative, dato che nelle missioni per l’Ordine la loro salvezza dipendeva dall’altra – e a fare affidamento tra loro per qualsiasi cosa. Era rassicurante ed estremamente doloroso al tempo stesso, perché era un po’ come rivedere Harry – Harry che le era sempre stato a fianco, Harry che non l’aveva mai lasciata un attimo, Harry. Si appuntò però di non condividere mai quel pensiero con la Sheridan o l’avrebbe Schiantata all’istante, nel venire paragonata a Harry.
 
“Avrei voluto vederla, la cara zia Bellatrix. Vedere mentre la uccidevo. Anche solo guardare la Sheridan farlo,” riprese Tonks continuando a guardare fuori dalla finestra, una smorfia sul volto.
Avevano approvato il piano di Charlotte, che aveva liquidato velocemente i suoi tentativi di opporsi all’uso degli Aghi Inseguitori senza averli prima controllati. Neville aveva messo ai voti e la maggior parte aveva deciso di fidarsi della ragazza. Anche il signor Weasley aveva alzato la mano, scrutando gli occhi blu di Charlotte, forse pensando a quelli di suo padre, Roan Sheridan, suo compagno di Casa ai tempi di Hogwarts. Le prime mani ad alzarsi per andare in missione erano state quelle di Tonks e Neville, seguite subito dalla sua. Ma Charlotte aveva scelto Bill, Ron e Lupin.
 

...con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
 

“Insomma, avrei voluto guardarla in faccia mentre la vita la abbandonava, come ha fatto lei con mio padre, mia madre… con Teddy.”
Faceva ancora male pronunciare il suo nome, pensò Tonks. Troppo male. Era una ferita ancora aperta, nonostante fosse passato un anno. Lo aveva lasciato con sua madre, la notte della battaglia di Hogwarts, convinta che lì sarebbe stato al sicuro e che sarebbe stata lei a morire, quella notte. Invece Bellatrix, prima di raggiungere il suo Signore, aveva deciso di saldare un vecchio conto – i panni sporchi si lavano sempre in famiglia, dopotutto. 
Tonks aveva sperato di potersi fare almeno giustizia, ma poi Voldemort aveva vinto e la giustizia era diventata solo una fottutissima bugia che le avevano raccontato, manco fosse stata una bambina da tenere buona.  Eppure ci credevano ancora, in un mondo più giusto, ci credevano e continuavano a lottare ogni giorno, nonostante tutto. Nonostante Harry fosse morto, nonostante fosse una battaglia ormai persa e loro topi in trappola, nonostante fossero solo una manciata di persone contro l’esercito dei Mangiamorte. Forse semplicemente per non dover ammettere di aver sbagliato a fidarsi, anni prima, e per non vedere il sorriso della vittoria sui visi dei Mangiamorte. Non avrebbero mai dato loro quella soddisfazione, nossignore.

Perché non c’era altra scelta, se non combattere, perché se proprio dovevano morire non avrebbero certo aspettato rintanati in casa, perché avevano dalla loro parte tanta, troppa, rabbia, e perché ammettere di aver perso e farsi schiacciare era peggio che morire. Perché non fossero morti invano, per il suo Teddy.
“Dicono che sia stata lei ad uccidere Stephen Brodie, lo scorso novembre. Aveva l’ufficio vicino al mio, al Dipartimento Auror. Al quarto anno eravamo anche usciti assieme, un paio di volte. Non eravamo fatti per stare assieme – il Prefetto e la teppista, ci chiamavano – eppure non ricordo di essermi mai divertita tanto come in quel pomeriggio ad Hogsmeade. Ho sempre avuto un debole per i Prefetti, a quanto pare: Stephen, Charlie, Remus…”
Avevano anche comprato dieci pacchetti di Api Frizzole, ricordò Tonks pensando agli occhi grigi del ragazzo, senza un vero motivo. Così, giusto perché trovavano fosse divertente. Era la normalità allora, una grandissima e insensata stupidata ora. La spensieratezza, la serenità, i piccoli gesti… li avevano persi. Non c’erano più le birre con Remus seduti sui gradini della veranda, niente pacchetti di Api Frizzole, niente faccine stupide con lo sciroppo d’acero sui pancakes, le margherite in mezzo al tavolo, i gerani alle finestre, le sere a mangiare alla Tana. Certo, gli scherzi dei gemelli, le battute pessime di Charlotte, le prese per in giro tra lei e Remus, quelle c’erano ancora. Non avevano perso proprio tutto. Eppure sentiva che mancava qualcosa: le piccole abitudini, le piccole cose, appunto. Effetti collaterali della guerra.
“Charlie Weasley?” le chiese Hermione, fermandosi in mezzo alla stanza e fissandola stupefatta.
Le confidenze, aggiunse mentalmente Tonks al suo elenco di cose andate perse con la guerra. Erano secoli che non si raccontavano qualche pettegolezzo, qualche piccolo ricordo passato.
Annuì, sorridendo e portando l’unico braccio che le rimaneva dietro la schiena: “Siamo stati assieme per tre anni. Poi lui è partito per la Romania e ci siamo rivisti al matrimonio di Bill e Fleur. Ha sempre preferito i draghi a me.”
Si strinse nelle spalle, tornando a fissare fuori dalla finestra sorridendo. C’era voluto un po’ di tempo perché si riprendesse da quella storia, ma non era una che si crogiolava nei dispiaceri. Quando si erano rincontrati lei era sposata e raggiante, l’unico imbarazzato dei due era stato Charlie. Come sempre, dopotutto. Era lui quello timido, non certo lei. Anche se quella volta le era sembrato quasi più imbarazzato che mai.
Una serie di crack interruppe i suoi pensieri e quell’attimo di normalità.
“Sono arrivati!” esclamò Fleur entrando nella stanza di colpo, correndo.
“Calma Flebo, o andrai a sbattere contro la porta!” le urlò Tonks, sorridendo ancora di più. Quanto le era mancato, Remus?
 
Le quattro figure malconce – malconce ma vive pensò Hermione – arrivarono fino alla porta di Shell Cottage e bussarono.
“Di che color era il vestito che indossavo al nostro primo appuntomonto?” chiese Fleur, cercando di celare la felicità nella voce. Il fatto che fossero arrivati lì non garantiva che non fossero Mangiamorte che avessero costretto Bill a rivelare la casa, lo sapeva bene Fleur. Potevano averlo torturato fino a quando non aveva confessato dell’Incanto Fidelius. La prudenza non era mai troppa. Effetti collaterali de la guerre.
“Beh, per me era grigio cenere, come ho cercato inutilmente di spiegarti per anni. Ma tu continui ad insistere che fosse color ardesia ed andasse di gran moda, quell’inverno.”
Fleur sorrise, alzando gli occhi al cielo divertita, mentre spalancava la porta.
Volarono ognuna tra le braccia del proprio uomo, infischiandosene del sangue, del sudore e della polvere. Erano vivi, bastava quello, pensò la francese nascondendo il viso contro il petto del marito, lasciando che la lana del maglione le solleticasse le guance. Inspirò a fondo l'odore di terriccio umido, sangue secco, dopobarba e stanchezza che portava addosso: l’odore di Bill e della guerra. L’uomo la strinse ancora di più a sé, lasciandole un bacio tra i capelli.
“Suvvia ragazzi!” esclamò Charlotte sarcastica, cercando di tendere le labbra nella sua migliore imitazione di un sorriso, anche se sembrava più una smorfia. “Non fate i melodrammatici. Sembra che abbiate appena rischiato di morire!”
“Perché Sheridan, non è forse quello che è veramente successo?” chiese Bill, alzando lo sguardo verso la ragazza appoggiata stancamente allo stipite della porta. Lei sorrise triste, mordendosi un labbro. Vicino alla tempia i capelli erano raggrumati per via del sangue secco, mentre dell’altro le scivolava lentamente lungo la guancia, come una solitaria lacrima rossa. Aveva tagli un po’ ovunque e le si leggeva in faccia che era stata torturata – l’inconfondibile marchio di fabbrica di Bellatrix Lestrange.
“Sarai contenta di sapere, Tonks, che la cara zietta ha parlato di te poco prima di andarsene per sempre da questo mondo. Ora la sua testa rotola felice davanti al cancello della villa di famiglia dei Lestrange. Il resto del corpo deve essere nello stomaco della Piovra Gigante, sempre che non l’abbia già digerita. Ci spiace che tu non abbia potuto fare un bel discorso commuovente al suo funerale e portarle dei fiori, ma abbiamo pensato che con Voldemort che cerca di crearsi un esercito di Inferi non fosse prudente lasciagli il corpo della sua migliore Luogotenente tra le mani.”
“Uh, davvero? E che cosa avrebbe detto su di me, la dolce zietta?” si informò Tonks mentre puliva la guancia di Remus con la manica della sua enorme felpa dei Weird Sisters.
“Qualcosa circa la tua imminente morte subito dopo il mio lunghissimo e terrificante supplizio. Per lo meno ci concedeva la grazia di ritrovarci insieme all’Inferno, pensa un po’. Mi spiace di non aver potuto esaudire i suoi ultimi desideri, ma eravamo in ritardo sulla tabella di marcia e Neville ci avrebbe ucciso se non avessimo finito i compiti in tempo. Bill, informa Kingsley che anche questa è fatta, vado a vedere come sta Nat.”
Bill annuì. Erano lui e Neville i capi a Shell Cottage, spettava a loro avvisare gli altri.
Mentre Charlotte si avviava zoppicando verso la porta che portava in salotto e alle scale per il secondo piano, Hermione si chiese chi, tra lei e Tonks, avesse il senso dell’umorismo peggiore. Forse, però, era l'appiglio che avevano trovato per non sprofondare.  

…ho scritto
lettere piene d’amore.
 
   
Venti minuti più tardi, quando Hermione salì con Ron perché gli medicassero la ferita al braccio, erano ancora lì. Charlotte stava seduta vicino al letto di Nathan, una benda sulla gamba e un piatto di brodo sulle ginocchia – una cucchiaiata lei, una Nathan.
Avevano smesso da tempo di credere a tutte le cose che Silente aveva detto loro, ma Hermione pensò che, su una cosa, aveva avuto ragione almeno in parte. Sosteneva che l’amore fosse la migliore arma di Harry, quella che lo rendeva diverso da Voldemort, più potente, e gli avrebbe permesso di batterlo. Harry era morto, nonostante questo, e probabilmente loro lo sarebbero stati tra non molto. Forse l’amore non li avrebbe salvati, ma di sicuro era l’unica cosa che li teneva ancora in piedi e li faceva andare avanti, anche dopo tutto l’orrore che avevano visto e sopportato.
Sospirò e strinse più forte la mano di Ron.
 

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita”
(Cima Quattro il 23 dicembre 1915 – G. Ungaretti, Veglia)
 
 

 
 
 
 








NdA


Eccomi di nuovo qua con una nuova storia, scritta per il contest "The Darkness Within" indetto da _Malika_ sul forum di EFP. Come si sarà capito lo scopo del contest era scrivere una storia in cui il Lato Oscuro avesse vinto. Ho così colto l’occasione per far tornare in vita Fred, Tonks e Lupin, che per me non sono mai morti.
Spero che i cambiamenti in Hermione abbiano un loro senso. Deve essere cambiata, per forza. Aver smesso di sentirsi un’assassina, aver iniziato a dimenticare quello che fa troppo male. Deve sopravvivere, ora. Sono conseguenze logiche di tutto quello che ha passato e visto.
Charlotte Sheridan e Nathaniel Ghisler sono miei OC, due ragazzi irlandesi entrambi Grifondoro, dell’anno di Fred e George (non possono essere solo in cinque, tra maschi e femmine di quell’anno). Altri miei OC sono Melissa Doherty e Annabeth, rispettivamente la nonna materna di Charlotte e la madre di Nathaniel. Prima o poi scriverò decentemente qualcosa su di loro. Il nome per l'invenzione dei gemelli, invece, è un richiamo a "Hunger Games".
Ora io ho davvero finito. Ringrazio chiunque si sia fermato a leggere, chi avesse voglia di lasciare una recensione.
A presto!
Maqry


[1] Gaelico irlandese: una tempesta
[2] Per i nomi faccio riferimento alla nuova traduzione (insomma c’era l’edizione con le copertine che formavano il castello, io e mio fratello non abbiamo potuto resistere dal comprarla), il che significa che molti nomi sono quelli originali.
[3] Gaelico irlandese: eroe.
[4] Gaelico irlandese: ragazzo mio.
   
 
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