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Autore: LadyBones    22/07/2016    3 recensioni
Dal testo:
[...] "Lascia che ti dica una cosa, Eleanor. Smettila di cercare di essere qualcuno che non sei solo perché credi di non essere abbastanza. Sono incredibilmente lusingata per quello che hai detto e dovrei ringraziarti, ma non lo farò perché tu non hai bisogno di somigliare a me. Va lì fuori e non aver paura di dimostrare ciò che vali, perché potresti rimanere sorpresa di quello che potrebbe succedere." [...]
Genere: Angst, Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Howard Stark, Nuovo personaggio, Peggy Carter
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'We Are All Lost Stars Trying To Light Up The Sky'
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1949.

Avevo commesso un errore. Non che fosse la prima volta – ormai doveva essere ben chiaro – ma adesso l’avevo fatta proprio grossa. Ero letteralmente saltata in un vortice temporale, o quello che era. Non mi ero neanche realmente soffermata a pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze della mia decisione. No, avevo semplicemente seguito il mio istinto.
Mi ero lasciata ingannare da quella luce viola che sapeva di speranza. Ecco, era stato proprio quello a finire per mettermi nei pasticci. La speranza di poter rivedere mio padre. Non avevo potuto dirgli addio – quella possibilità mi era stata negata – quindi avevo creduto che non ci sarebbe stato niente di male se avessi fatto una capatina indietro nel tempo.

Volevo solo dirgli che gli volevo bene, un’ultima volta ancora.

Non potevo certo prevedere che, in realtà, sarei finita in un passato dove mio padre non era ancora nato. Era altamente probabile che i miei nonni neanche si conoscessero in quel periodo, figuriamoci l’idea di avere un figlio. Insomma, tutta quella strada per niente e – per quanto fossi rimasta in un angolo a piangermi addosso per quella che mi era parsa un’eternità – mancavano poco o più di nove ore prima che il vortice si riaprisse.

Ero bloccata nel 1949 senza sapere cosa fare o dove andare. Che diavolo aveva di così speciale quell’anno, poi? Potevo finire in qualsiasi arco temporale possibile e, invece, mi era toccato proprio quello. Sospirai rassegnata, sollevandomi lentamente da terra. Se proprio sarei dovuta rimanere lì per tutte quelle ore, tanto valeva scoprire che cosa avesse il ’49 da offrirmi. Avrei solo dovuto ricordarmi esattamente dove ritornare – un vicolo alle spalle di un certo L&L Automat – ma soprattutto trovarmi un paio di abiti adatti. Dubitavo di poter passare inosservata con degli anfibi ai piedi.

Lancia un’occhiata perplessa alle punte leggermente sporche della scarpe, scuotendo la testa. No, in quel modo non avrei potuto farmi vedere. Mi morsi il labbro inferiore – lo facevo sempre quando mi ritrovavo a pensare intensamente a qualcosa – lanciando un’occhiata tutto intorno, quando non intravidi con la coda dell’occhio quelli che dovevano essere panni stessi. Dovevano essere – sì e no – a una decina di metri da dove mi trovavo, lungo la parte interna di quel vicolo. Il che era decisamente un bene, per lo meno nessuno avrebbe fatto attenzione a me.

Mi ci vollero meno di dieci minuti per raggiungere il punto in cui quella stoffa svolazzava, prenderla in prestito – perché dire di averla rubata non suonava poi così bene – e indossarla. Avevo sollevato i capelli sulla nuca improvvisando uno chignon, coprendo quelle ciocche viole o quanto meno provandoci. Avevo adorato quel mio cambio di look, ma non potevo mica prevedere di finire indietro nel tempo dove il massimo della trasgressione era il biondo platino. Appallottolai il resto dei miei vestiti, sistemandoli in un angolo di quel vicolo. Se mai avessi avuto tempo sarei tornata indietro a riprenderli, altrimenti avrei dovuto trovarmi una nuova maglietta preferita.

Ero mezza infilata in quella che era una specie di crepa nel muro, quando non avvertì dei rumori. Mi ero immobilizzata  d’istinto e – scostatami quel po’ che bastava – avevo preso a guardare prima in una direzione e poi nell’altra senza notare nulla di particolarmente sospetto – beh, a parte la mia presenza. Finì per scollare le spalle convinta di essermelo immaginato, d’altronde non mi sarei certo stupita se avessi iniziato a impazzire a mia insaputa. Conoscendomi, sarebbe stata solo una questione di tempo.

Decisi, così, che sarebbe stato il caso di darmi una mossa – di quel passo le lancette avrebbero preso a segnare l’ora X senza che io avessi potuto vedere nulla – e spedita mi avviai in direzione di una di quegli sbocchi sulla strada principale. Fu in quel momento che lo sentì di nuovo – il rumore di qualcuno che si schiantava contro qualcosa. Subito dopo era seguito un lamento prolungato. Questa volta, però, ero certa di non essermelo semplicemente immaginato – non del tutto, quanto meno.

Lanciai un’occhiata in direzione di quello spiraglio di luce a qualche metro da me, e poi lungo il vicolo da cui era arrivata. L’unico punto da cui il rumore sarebbe potuto arrivare era in una di quelle stradine secondarie che aveva superato poco prima. Avrei potuto continuare tranquillamente per la mia strada, ma – insomma – stavamo pure sempre parlando di me che, prima ancora di valutare i pro e contro dell’intera faccenda, avevo finito per catapultarmi in direzione di tutto quel trambusto.

Magari qualcuno aveva bisogno di aiuto, o semplicemente un gatto aveva finito per impigliarsi da qualche parte. Non era per forza detto che mi sarei imbattuta in qualcosa di più grande di me. E anche se fosse stato, non avrebbe potuto certo battere un viaggio nel tempo. Vorrei poter dire di aver avuto ragione, ma sembrava proprio che fossi sotto l’influsso di quel fenomeno scientifico denominato “mai una gioia”.

Avevo sempre avuto dei dubbi a riguardo, ma nel momento in cui vidi quell’uomo correre nella mia direzione brandendo una pistola ne ebbi la conferma. Ero la prova vivente che quel fenomeno non avesse mai fine – non se il tuo nome è Eleanor, hai ventiquattro anni e sei studentessa di psicologia.

Una persona normale, avrebbe finito per spostarsi in una situazione del genere per cercare di evitarsi una pallottola. Io, invece, la mia normalità l’avevo esaurita molto tempo prima e, così, mi ritrovai ad andare in contro a quell’uomo. Riuscì a evitare il colpo solo perché avevo finito per coglierlo di sorpresa. Probabilmente non si aspettava di vedermi partire in quarta come una furia – insomma, neanche io me lo sarei aspettato. Allungai la mano sinistra bloccando la sua – quella che impugnava la pistola – torcendola di lato. Ci avevo messo meno forza di quanto avessi voluto, per lo meno non abbastanza per far cadere a terra quel pezzo di metallo. Fu, così, che caricai un pugno con la mano libra, lasciando che si schiantasse contro il volto dell’uomo. Il rumore che ne era seguito non prometteva nulla di buono, e ringraziai di essere stata io ad assestare quel pugno e non a riceverlo.

Ciò nonostante, l’uomo sembrava non voler proprio mollare l’osso. Sul serio? Insomma, almeno la decenza di cadere per terra e restarci. Invece no, continuava a brandire quella dannata pistola come se fosse una questione di vita di morte e fu così che dovetti riprovarci. Questa volta, però, fui più fortunata. Mi bastò dare un colpo più deciso al suo braccio per riuscire nel mio tento. Un attimo più tardi, riuscì finalmente a vederlo stramazzare a terra dopo altri colpi ben assestati.

Fu in quell’esatto momento che mi ritrovai a ringraziare Bucky e le sue lezioni. Non ero mai riuscita a fare qualcosa del genere, solitamente ero io che avevo la peggio. Certo, il tizio che ero riuscita a mettere al tappeto doveva essere la metà di quello viscido omone dell’Hydra che avevo dovuto affrontare qualche mese addietro, ma questo non significava nulla. Fu proprio quando ripensai a quell’evento che mi accorsi di qualcosa spuntare fuori dalla giacca dell’uomo stramazzato al suolo. Corrugai la fronte cercando di vedere meglio, quando non udì la voce di una donna raggiungermi trafelata.

Tu devi essere i rinforzi che stavamo aspettando.

Quell’accento mi sembra così familiare e non potei fare a meno di sollevare lo sguardo incuriosita, dimenticandomi dell’oggetto riverso per terra. Al momento quella donna e, soprattutto, le sue parole erano più importanti. Quando mi ritrovai a fissare il suo volto sorridente – occhi nocciola, boccoli a incorniciarle il volto e il rossetto rosso ciliegia – mi ritrovai a trattenere il respiro. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a quello che avevo appena visto. Dopotutto, forse, non era poi così male quel 1949.

Peggy?
 
 
 
***
 
 
 
Ricordo come se fosse ieri, la prima volta che avevo incontrato Peggy Carter. Ero poco più che una bambina ed era il giorno del mio compleanno. Mio padre mi aveva trascinato allo Smithsonian promettendomi un regalo. All’inizio ero stata terrorizzata dall’idea che si sarebbe trattato di un dinosauro – quei cosi giganti mi avevano sempre terrorizzato.

Poi, però, mi ero ritrovata davanti alla replica dello scudo di Captain America. Una gentile signora mi aveva permesso di reggerlo tra le mani – più che altro era stato lo scudo a reggere me, enorme com’era. Quella stessa donna – molto più giovane di quanto lo fosse allora – mi stava facendo strada tra gli uffici dell’SSR. L’agenzia che aveva dato vita a Captain America stesso e da cui, in seguito, sarebbe nato lo S.H.I.E.L.D..

Vorrei poter dire di aver prestato particolarmente attenzione a quello che Peggy stava cercando di dirmi, ma la realtà era che ero troppo eccitata al momento. Il mio sguardo non faceva che rimbalzare da una parte all’altra di quel posto, cercando di imprimere nella mia mente quante più immagini possibili. D’accordo, forse finire nell’anno sbagliato non era stato un fiasco totale, dopotutto.

E lui, invece, è il capo della nostra divisione: Jack Thompson. Lei è l’agente Beckett.

Aveva terminato Peggy e io, in tutta risposta, avevo finito per riscuotermi appena in tempo. Già, mi ero dimenticata di quel piccolo dettaglio. Sembrava proprio che, durante la colluttazione di poco prima, c’era stato un piccolo malinteso. Dovevo essere migliorata parecchio nell’ultimo periodo dal punto di vista della lotta corpo a corpo, perché avevano finito per scambiarmi per un agente altamente addestrato.

Dio – la vita, alle volte, aveva uno strano senso dell’umorismo. Ero dovuta tornare indietro nel tempo per riuscire a realizzare il mio sogno, sebbene non esattamente come me lo ero immaginato. Mi sarei comunque accontentata, sempre ammesso che mi sarei ricordata il nome dell’agente che avrei dovuto personificare.

Sapevo che non era propriamente corretto – da furto di abiti ero passata a furto di identità, il tutto in meno di mezz’ora. Al momento, però, mi era un po’ complicato fare marcia indietro. Per non parlare del fatto che, se avessi rivelato la mia identità avrei poi dovuto ammettere di provenire dal futuro. Ecco, ora, non avevo ben chiaro quali fossero le regole per i viaggiatori del tempo, ma se c’era una cosa che avevo imparato dai film era di non incasinare la linea temporale.

La stavamo aspettando, spero che L.A. non sentirà troppo la sua mancanza.

Aveva sussurrato Thompson con un sorriso a trentadue denti, attirandosi un’occhiataccia da parte di Peggy. Mi ritrovai a sorridere a mia volta, ricambiando la sua stretta di mano.

Mi auguro di no.

Gli risposi, prima di vederlo farmi strada in quello che doveva essere il suo ufficio. Fu, così, che riuscì a racimolare abbastanza informazioni e farmi un’idea di quello che stava succedendo. L’uomo nel vicolo militava nell’Hydra, o per lo meno così era parso. Io, o meglio l’agente Beckett, ero stata inviata a New York come supporto al loro team. Sembrava che qualcuno all’interno dell’SSR fosse stato compromesso proprio dall’Hydra. La cosa non mi sorprese affatto.

Avevo appena visto lo S.H.I.E.L.D. implodere proprio a causa loro, per non contare quello che avevano fatto a Bucky. Ricordarmi quel nome fu un po’ come ricevere un pugno allo stomaco. Probabilmente quello fu il primo di una lunga serie di errori che avrebbero potuto mettere a serio rischio la linea temporale, ma non potevo fare altrimenti. Non potevo voltare le spalle a quelle persone, poco importava se fossero perfetti sconosciuti. Beh, Peggy di fatto non lo era e se avessi potuto esserle utile lo avrei fatto.

Contate pure su di me. Farò tutto quello che posso per aiutarvi.

Pronunciai quelle parole con una sicurezza che non mi apparteneva. Dovevo essere impazzita del tutto, ma quella probabilmente sarebbe stata l’unica volta in cui avrei potuto fare esattamente quello che avevo sempre voluto.

Perfetto. Adesso, però, credo proprio che sia l’ora di andare. Marion verrà con me, le spiegherò tutto strada facendo.

Sentì Peggy parlare e mi ritrovai ad annuire senza neanche riflettere. Quando lo feci – giusto un secondo più tardi – mi resi conto che Marion, tecnicamente, ero io. Balzai, così, in piedi come se avessi appena preso la scossa e mi diedi mentalmente della stupida. Non c’era niente da fare, certe volte proprio non ce la facevo.

“Dove staremmo andando?”

Chiesi non appena fuori dall’ufficio, senza smettere di seguirla neanche per un secondo.

Howard ha organizzato una festa. Tecnicamente per noi si tratterà di lavoro, saranno presenti molti membri dell’SSR e per noi sarà molto più facile raccogliere informazioni.

Howard… come Howard Stark?

L’unico e il solo.

Mi rispose sarcastica mentre uscivamo dall’ascensore, e subito dopo in strada. Dovetti fare affidamento a tutto il mio autocontrollo per non ritrovarmi con la mascella spalancata. Avrei incontrato la persona che aveva dato vita alla Stark Industries ma, cosa molto più importante, a quel gran fig… a Tony, sì Tony.

Per l’amor di Dio, Lenny cerca di non distrarti con commenti inutili – pensai. E fu proprio in quel momento che realizzai la cosa più ovvia, quella a cui avrei dovuto pensare immediatamente.

Non ho un vestito per una festa.

Sussurrai arrestandomi a qualche passo da Peggy che – voltatasi verso di me – sorrise dolcemente.

Non credo che ci saranno problemi a riguardo.

E così dicendo si avviò spedita in direzione di un’auto parcheggiata sul ciglio della strada. Dal suo interno finì per sbucare un uomo a modo, con tanto di completo.

Mr. Jarvis le presento l’agente Beckett, ci aiuterà nel caso.

Oh è un piacere conoscerla signorina, la stavamo aspettando. Prego.

Lo vidi aprire lo sportello posteriore di quell’auto e fammi gentilmente cenno di entrare. Gli sorrisi e, ringraziatolo, salì all’interno dell’abitacolo. Sembravo un tipo abbastanza strano, ma in senso buono. E, poi, quel nome ero certa di averlo sentito da qualche altra parte, ma non sapevo proprio dire dove con certezza.
 
 
 
***
 
 
 
Avevo praticamente atteso tutta la vita il momento in cui avrei potuto finalmente essere un agente e, adesso, me la stavo facendo letteralmente sotto. E lo so, lo so che non è carino da dire, ma quella era la verità. Ero completamente terrorizzata non solo perché stavo fingendo di essere qualcun altro in un’epoca a cui non appartenevo, ma anche perchè stavo facendo tutto quello per aiutare Peggy.

Non una persona qualunque, ma Peggy Carter – la donna che era praticamente diventata il mio modello. Non volevo deluderla in nessun modo possibile. Se lo avessi fatto, probabilmente non sarei mai più riuscita a perdonarmi.

Oh sì, e poi c’era questa piccola festicciola a cui avevo finito per imbucarmi. Avevo persino indossato un abito nero elegante, giusto per l’occasione. L’ultima volta che si era verificato un evento del genere avevo cinque anni, ma chi è che ci sta a pensare.

Visto e considerato che il mio livello di isteria non aveva ancora raggiunti picchi allarmanti, avevo finito per incrociare – finalmente – questo fantomatico Howard. D’accordo, nella famiglia Stark doveva esserci un qualche gene particolare perché – porca miseria – avevano il loro dannato fascino.

Fu proprio nel momento in cui stavo per mandare giù un sorso di champagne che vidi Howard avvicinarsi nella mia direzione. Inutile dire che rischiai di farmi andar storto quello che avevo appena bevuto.

Tu devi essere Marion.

Aveva sussurrato inarcando un angolo delle labbra all’insù in un sorriso malandrino e, ormai abbastanza vicino, finì per afferrare la mia mano e posarvi sopra un bacio. D’accordo, non ero mai stata un tipo che si faceva infinocchiare con questo tipo di smancerie, ma quella volta finì per vacillare appena. Avrei potuto sempre dare la colpa allo champagne e, poi, onestamente avrei voluto vedere chiunque altra donna al mio posto. Nonostante tutto, era stata abbastanza stoica.

In persona. Lei, invece, non ha bisogno di presentazioni.

Oh, per favore, chiamami Howard.

Mi auguro che tu non ti sia già fatto riconoscere.

Lo aveva ammonito Peggy comparendo improvvisamente al mio fianco. Lui si ritrovò a sollevare gli occhi al cielo, non senza lasciarci sfuggire un sorriso.

Andiamo Pegs, stavo solo cercando di fare conoscenza.

Non ne dubito. Adesso, però, sarà il caso di darci una mossa. Cosa sei riuscito a scoprire?

Non molto, ma vedrò di fare in modo di lasciar circolare molto più alcol.

Aveva sussurrato Howard facendoci l’occhiolino, prima di defilarsi tra la folla. Mi ritrovai a sorridere continuando a seguirlo con lo sguardo, quando la mia attenzione non fu attirata nuovamente dalla donna al mio fianco.

Credo che sia il caso che ci dividiamo, copriremo molto più terreno in questo modo. Io darò un’occhiata qui. Mr. Jarvis è in giardino a servire quelle che credo siano tortine, tu puoi andare al piano di sopra. Ci ritroviamo qui tra una decina di minuti.

Mi aveva sussurrato sorridendo. Io non avevo potuto fare altro che annuire semplicemente, troppo presa a osservare lei che si muoveva e parlava con una disinvoltura e una sicurezza che le invidiavo. Aveva un modo di fare che non avevo visto in nessuna donna prima di allora. Non che avessi avuto poi tutti questi modelli femminili nella mia vita, mia mamma era morta troppo presto e mia nonna, beh, lei era una forza della natura e le volevo bene, ma Peggy continuava ad avere quel qualcosa in più.

Restai a fissarla per qualche secondo, fino a quando il flash di una macchina fotografica non finì per riportarmi con i piedi per terra. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte, prima di tornare a mettere a fuoco quello che mi circondava e senza perdere altro tempo mi avviai al piano di sopra. Quei corridoi erano semi vuoti, a eccezione di quelle poche persone che di tanto intanto si dirigevano in direzione del bagno, o che ve ne uscivano. Incrociai un uomo di mezz’età – occhialuto – e mi ritrovai a ricambiare il suo cenno del capo con un lieve sorriso.

Presi a camminare lentamente lungo quei corridoi, quando non mi accorsi di una porta semi socchiusa. Al di là di essa vi era una stanza adibita a studio, ma al suo interno non vi era nessuno. Lanciai un’occhiata intorno prima di scivolare al suo interno. Niente, proprio non ce l’avrei fatta a farmi i fatti miei. Non era poi così politicamente corretto entrare di soppiatto in quel modo, ne ero pienamente consapevole ma non ero riuscita a farne a meno. Alla fin dei conti non stavo facendo nulla di male, avevo solo dato un’occhiata ad alcuni libri e a qualche oggetto sparso qua e là senza toccare veramente nulla. Se solo lo avessi fatto c’era un’alta probabilità che avrei finito per distruggere mezzo studio, e non mi pareva proprio il caso. Mi ero avvicinata un po’ di più per osservare una foto posata sulla mensola del camino, quando non udì una voce maschile provenire dal corridoi, subito dopo seguita da una più giovane. Corrugai la fronte e – incuriosita – mi avvicinai in punta di piedi. Mi sistemai dietro l’anta della porta rimasta semichiusa – l’orecchio premuto contro il legno e il respiro rallentato. In quella posizione non sarei riuscita a vedere i volti di quei due uomini – non senza farmi scoprire a origliare – ma per lo meno avrei sentito di cosa stavano parlando. Non che avesse poi molto senso quello che stavano dicendo, non per me quanto meno.

Parlavano di una cella, al cui interno sembrava esserci qualcuno molto importante per loro. Non avevano mai pronunciato il suo nome, ma doveva essere una qualche sorta di scienziato perché sembrava che servisse loro per portare a termine un esperimento. Quale fosse non mi era dato saperlo. Corrugai la fronte cercando di evitare qualsiasi rumore, e per poco non divenni un tutt’uno con l’anta di quella porta.

Farlo uscire da lì non sarà un problema, il governo ha bisogno di scienziati da sfruttare e noi ne trarremo vantaggio. Sarà una vittoria per tutti.

D’accordo, ma cosa facciamo nel frattempo? Abbiamo seguito ogni singolo passaggio che ci era stato indicato.

Continuato a tenerlo sotto ibernazione…

Fu quell’unica parola – posta al posto giusto, al momento giusto – a farmi collegare tutti i pezzi al proprio posto. Sussultai, e dovetti portarmi una mano alla bocca per impedirmi di fare rumore. Stavano parlando di Bucky, era lui l’esperimento non vi era alcun dubbio. Il periodo coincideva e non mi risultava difficile capire a quale scienziato si stessero riferendo. Un senso di nausea finì per assalirmi con talmente tanta forza che dovetti chiudere gli occhi, e fare respiri profondi. Quando tutto quel subbuglio di emozioni sembrò calmarsi appena, strinsi la mano intorno al pomello pronta a uscire da lì e fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

Non ne ebbi il tempo. Dei rumori provenire da qualche parte di quel corridoio finirono per spaventare i due uomini che velocemente si defilarono. Uscì da lì immediatamente pronta a seguirli, o quanto meno riuscire a capire chi diavolo fossero. Fu in quel momento che vidi Peggy venire dritta verso di me, dietro di lei Mr. Jarvis e un uomo che ero certa di non aver visto prima – camminava appoggiato a una stampella. Tirai un sospiro di sollievo avvicinandomi nella loro direzione.

Grazie a Dio siete qui. Credo di sapere…

Non ebbi il tempo di terminare la frase che un pugno mi colpi in piena faccia. Barcollai all’indietro prima di piegarmi appena, una mano sul punto colpito. Sgranai gli occhi guardando Peggy sorpresa. Ma che diavolo era appena successo?

Chi diavolo sei?

A quella domanda tutto aveva più senso e, sì, me lo ero decisamente meritato. Feci un passo indietro sollevando istintivamente le mani in aria, in segno di resa. Non avevo intenzione certo di mettermi contro Peggy, non più di quanto non avessi già fatto. E, cavolo, se picchiava duro. Quel livido mi sarebbe rimasto per giorni, ci avrei giurato ma alla fine me l’ero andata a cercare.

Marion Beckett è uno dei miei agenti, e decisamente non somiglia a te.

A parlare era stato l’uomo dai capelli scuri, stampella alla mano. E adesso? Per la miseria Lenny, ci fosse una volta che non ti cacci in qualche guaio – pensai, sollevando gli occhi al cielo.

Posso spiegare tutto.








 
NdA:
Ciao a tutti. :)
Eccoci qui con il nuovo capitolo in cui, finalmente, si scopre dove è andata a finire Eleanor. Sicuramente qualcuna di voi si era fatta un'idea riguardo l'anno in cui era stata catapultata Lenny e qualcuna si era avvicinata, ma non troppo. Ebbene sì, l'anno in questione è proprio il 1949. Data che non è stata scelta a caso, in raltà. Nel prossimo capitolo scoprirete che cosa è successo nel '49, nel frattempo sentitevi libere di fare tutte le ipotesi che preferite e se vi fa piacere fatemelo sapere. Spero proprio che la storia vi stia continuango a piacere e che continuerete a seguirla, nonostante le mille disavventure di Eleanor - quella ragazza ha bisogno di un miracolo. xD In ogni caso, volevo solo dirvi che, a parte Peggy e Howard, non so che cosa ne sarà degli altri nel 1949 e dubito che mai lo sapremo. Mi piace ancora il cuore all'idea che Agent Carter sia stata cancellato, ma ciò nonostante mi piaceva avere alcuni degli altri personaggi in questa storia così mi sono permessa di prendermi qualche licenza. A essere onesta credo che ormai di licenze me ne sia prese fin troppe, ma serviva per collegare tutti i punti insieme. Spero solo di aver fatto un buon lavoro. 

Un bacione e a presto, 
- LadyBones. 

 
   
 
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