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Autore: Halley Silver Comet    25/07/2016    3 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 19



- Capitolo Diciannovesimo -
Vento di Passaggio




E
ra una mattina dei primi di giugno quando, in anticipo di qualche giorno rispetto a quanto aveva annunciato, il signor Giancarlo rientrò finalmente a casa.
Nel vederlo comparire in salotto, il figlio, che stava finendo di bere il tè seduto sul divano davanti alla televisione accesa, scattò immediatamente in piedi, per poi rimanere fermo a guardarlo come se si trattasse di uno spettro.
«Buongiorno, Marcello» lo salutò quello, arrancando fino al centro della stanza, appoggiandosi a un bastone.
Il giovane notò subito quel particolare così dopo aver superato l’iniziale sorpresa dovuta a quell’apparizione inattesa, si concentrò meglio sul genitore, trovandolo molto provato, pallido e dimagrito; inoltre, qualche capello bianco aveva cominciato a fare capolino fra la chioma scura.
«Non vieni a salutarmi?» gli chiese l’altro, perplesso, vedendo che se ne stava lì impalato, rigido come uno stoccafisso. «Be’, forse sei ancora mezzo addormentato. In questo caso ti scuso» aggiunse.
«Ma... mi avevi detto che saresti tornato la mattina del sette!» riuscì finalmente a replicare il ragazzo, stralunato, muovendo con incertezza qualche passo nella sua direzione.
Quello, però, si limitò a scrollare le spalle, ribattendo con noncuranza: «Le mie condizioni erano stabili da giorni, così ho suggerito ai medici di liberare il letto per un altro ricovero e loro hanno accettato».
Per nulla convinto da quella versione, Marcello lo guardò trascinarsi fino al divano, con un misto di preoccupazione e angoscia, temendo che, ancora una volta, il padre gli stesse tacendo la verità, esattamente come aveva fatto quando aveva nascosto a tutti la sua malattia.
«Come stai?» gli domandò, cercando di nascondere una punta di tristezza.
«Oh, bene, bene» rispose l’uomo, mentre si adagiava comodamente sui cuscini, appoggiando il bastone da un lato. «L’unica seccatura è la dieta costituita da cibi leggeri e prevalentemente frullati, ma, tutto sommato, credo di poter sopravvivere».
Il figlio, colpito dalla sua prontezza di spirito, mostrata anche in quella drammatica occasione, aprì la bocca per ribattere, ma venne bloccato da un commento dell’altro, che era stato catturato dal telegiornale, il quale stava passando dal servizio sugli scontri in Libano all’aggiornamento sul quadro della politica nazionale in vista delle imminenti elezioni per la X Legislatura1.
«Quasi non mi sembra vero, sai, figliolo? Finalmente un notiziario che non sia in tedesco!» esclamò, infatti, il signor Giancarlo, lasciandolo di stucco, ma il giovane non si distrasse, per nulla intenzionato a cambiare argomento.
«Papà, se c’è qualcosa che non va, devi dirlo» affermò, deciso.
«Marcello, non sono ancora moribondo!» sbottò quello, in risposta, spalancando le braccia e 
spostando l’attenzione sul figlio, anche se, subito dopo, sospirò ed aggiunse, con tono più calmo: «Tranquillo, è la verità. Sto bene».
Mortificato, il biondo si sentì avvampare, rendendosi conto di aver esagerato con la sua insistenza, perché, dopo tutto quello che aveva subito, in quel momento, suo padre aveva bisogno solo di un po’ di tranquillità; pertanto, abbassò lo sguardo e mormorò: «Sì, scusa, hai ragione... Sei appena tornato, non volevo metterti sotto pressione».
Tuttavia, l’uomo scosse la testa e, sospirando, pentito, gli fece: «No, scusami tu. Purtroppo, sono molto... stanco. Credo di aver proprio bisogno di un po’ di riposo...»
A quel punto, sulla stanza cadde il silenzio che, però, venne interrotto quasi subito da urla e improperi provenienti dal corridoio, sempre più acuti e comprensibili man mano che si avvicinavano.
«Basta mancare qualche settimana e qui tutti battono la fiacca!» berciò la Matrona, entrando teatralmente in salotto, puntando in avanti il ventaglio chiuso come se fosse una spada. «La polvere in corridoio è alta due dita, dove sono quelle sfaccendate di Ottavia e Annetta?»
Davanti ad una simile sceneggiata, padre e figlio si limitarono a fissare la donna, quasi compassionevoli, mentre quella proseguiva nella sua invettiva, includendo tra le sue vittime anche il figlio maggiore: «Per non parlare di Tiberio! Quanto gli sarebbe costato portare in casa le valigie, invece di lasciarle sulla ghiaia?»
«Ben tornata, mamma» la salutò, allora, Marcello con un’inflessione volutamente ironica, lanciandole un’occhiata torva.
La Matrona si voltò immediatamente verso di lui ed, essendosi accorta solo in quel momento della sua presenza, rimase spiazzata per qualche secondo, prima di riappropriarsi della sua aria di perenne disgusto e squadrare con disappunto la maglietta ed i pantaloncini che indossava il giovane, per poi criticarlo: «Ah, sei qui? Perché sei ancora vestito per la notte e non al lavoro?» 
«Stavo proprio per andare a prepararmi» tagliò corto lui, evitando accuratamente di dirle che quella mattina se l’era presa comoda, poiché la notte precedente era rimato sveglio fino alle tre per aiutare Beatrice a ripetere fisica, assieme a Vittoria che, invece, le aveva dato una mano in filosofia. Infatti, se sua madre avesse saputo una cosa del genere, come minimo lo avrebbe accusato di concubinato.
Rapidamente, recuperò la tazza, piena fino a metà di tè ormai freddo, e stava proprio per lasciare in tutta fretta il salotto, quando il padre, gentilmente, lo richiamò: «Figliolo, prima di andare, mi accompagneresti in camera? Non vedo l’ora di spaparanzarmi sul mio comodissimo letto».
Preso alla sprovvista, Marcello si arrestò solo dopo qualche passo, prima di voltare il capo in direzione del genitore, realizzando che sarebbe stato imperdonabile se l’avesse lasciato lì, a sorbirsi le lamentele della moglie quando, invece, aveva tutto il sacrosanto diritto di stare in pace.
«Lascialo andare, è già in ritardo!» esclamò, però, proprio la Matrona, puntando i pugni contro i fianchi e scrutando severa il giovane.
«Non ci metteremo molto, Claudia» replicò bonariamente l’uomo, sporgendosi con il busto in avanti e sollevandosi appena con le braccia, per agevolare il figlio, che, ignorando la madre, si era precipitato ad aiutarlo.
Poco dopo, quando era già arrivato sulla soglia della porta, aggiunse candidamente, rivolto alla moglie: «Perché non ti fai dare una mano da Ottavia a disfare le valigie? Così comincerai a vedere un po’ d’ordine e poi sono certo che starai meglio».

Dopo che Marcello ebbe aiutato il padre a sistemarsi nel letto, rimboccandogli anche lenzuola e trapuntino, si sedette al solito posto accanto a lui, soffermandosi a guardarlo, malinconico. Quel mattino, infatti, nella stanza regnava un silenzio surreale, mentre solitamente non era raro che risuonassero dal vecchio giradischi composizioni verdiane, tra le quali la “Marcia Trionfale” dell’Aida, il “Va’, pensiero” del Nabucco oppure il “Libiamo ne’ lieti calici” della Traviata2, canticchiate dal signor Giancarlo mentre era impegnato a farsi la barba nel bagno attiguo.
«Mi hai comprato tutti i numeri che mi sono perso!» esclamò l’uomo,
con un sorriso compiaciuto, notando la pila di riviste di enigmistica che si erano accumulate sul comodino in sua assenza.
«Sì, era un modo per convincermi che saresti tornato a casa... e a fare i cruciverba» ammise il ragazzo, con un sospiro, non sapendo ancora quale santo dovesse ringraziare per quella grazia.
«Be’, almeno avrò qualcosa di intelligente da fare durante la convalescenza» commentò quello, con il suo solito tono scherzoso, prendendole in mano e divertendosi a contarle.
A quel punto, il giovane si lasciò scappare un sorriso sollevato e, alzandosi dal letto, gli disse: «Credo che ora sia meglio che ti lasci riposare».
Tuttavia, il padre, mise subito da parte i fascicoli e, sporgendosi verso di lui, lo trattenne per un braccio.
«No, no, rimani pure qui» gli sussurrò, con tono quasi supplice. «Sono settimane che non abbiamo modo di parlare come si deve, figliolo».
Di fronte a quell’espressione, così piena di sofferenza e dolcezza, il ragazzo non poté far altro che riaccomodarsi, riservando all’uomo un’occhiata intenerita e realizzando per la prima volta da quando lo aveva rivisto che era davvero tornato a casa da lui.
«Anche a me fa piacere parlare con te, papà, ma pensavo che magari preferissi un po’ di tranquillità» spiegò, subito dopo. «Non deve essere stato facile sopportare mamma che si lamentava di continuo di ogni cosa, perfino del cibo dell’ospedale!»
«Le sue lamentele sono solo apparenza» replicò, però, l’altro, abbandonandosi stancamente contro la pila di cuscini e chiudendo per qualche istante gli occhi. «In realtà, tua madre ha sofferto, in questi giorni, e non certo per i pasti insipidi che le hanno servito».
Tuttavia, tale rivelazione non lasciò particolarmente sorpreso Marcello, poiché, dalle conversazioni che aveva avuto al telefono con la genitrice, aveva intuito quanto fosse preoccupata per la sorte del marito, pur senza abbandonare la maschera da donna di ferro che si era costruita, criticando tutto e tutti appena ne aveva avuto l’occasione.
A quel punto, per qualche istante nessuno dei due parlò, finché il giovane, che desiderava sapere qualcosa di più sul vero stato di salute del padre, visto che poco prima, in salotto, era stato molto evasivo, non riprese la conversazione.
«Ti hanno dato qualche terapia da fare nel post-intervento?» chiese, osservandolo con attenzione, così da poter capire dalla sua espressione se stesse dicendo la verità.
«Un po’ di chemioterapia,» rispose quello, con la stessa noncuranza che esibiva quando il medico gli consigliava di prendere un’aspirina per l’influenza, «ma posso tranquillamente essere seguito qui a Roma dal dottor Conti, l’ho già interpellato».
Questa affermazione, però, invece di quietarlo, allarmò
all’inverosimile Marcello che, immediatamente, protestò con veemenza: «Papà, non sminuire la cura che devi fare, la chemioterapia è una cosa seria!»
«Lo so, ma sono dell’opinione che sia inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Non credi anche tu?» gli fece notare, allora, il padre, scrutandolo tra il severo ed il divertito. «Ora, però, basta annoiarci parlando dei miei malanni. Tu, invece, che cosa mi racconti?»
La particolare enfasi che il signor Giancarlo aveva messo sull’ultima frase, accompagnandola con un sorriso sghembo, non lasciò al giovane molte possibilità di interpretazione: era fin troppo evidente che avesse insistito per restare solo con lui solo per sapere se aveva fatto la proposta di matrimonio a Beatrice. In quel momento, Marcello si sentì tornare bambino, quando suo padre, sapendo che aveva combinato qualche marachella, riusciva a farlo confessare dopo pochi minuti di interrogatorio.
Anche quella volta, di fronte a quella domanda, il giovane rimase a bocca aperta, sbattendo le palpebre e avvertendo che le guance si stavano tingendo di rosso, per poi richiuderla e ridarsi un contegno, schiarendosi la voce.
«Ecco... io ho... finalmente chiesto a Beatrice di sposarmi» cominciò a raccontare, in leggero imbarazzo. «E lei... mi ha detto di sì».
A tale rivelazione, l’uomo, con gli occhi lucidi per l’emozione, si sciolse in un gran sorriso, riacquistando perfino un colorito più sano.
«Questa sì che è un’ottima notizia!» esclamò, felice.
A raffreddare gli entusiasmi, però, ci pensò una voce gracchiante che, facendogli eco, intervenne: «Per niente!»
Immediatamente, il ragazzo si voltò in direzione della porta e vide sua madre avanzare verso di lui, puntandogli minacciosamente un dito contro e sbraitandogli addosso: «Ti avevo ordinato di stare lontano da quella mocciosa!»
Per nulla intimidito da quell’atteggiamento aggressivo, al quale era fin troppo abituato, Marcello si alzò lentamente in piedi, portandosi le mani ai fianchi e squadrando la madre con gli occhi socchiusi.
«Non ti ubbidivo nemmeno quando ero bambino, non comincerò certo a farlo ora!» affermò, spavaldo, inclinando la testa con tono di sfida.
«Tu sposa quella disgraziata ed io ti diseredo!» ribatté, allora, la madre, avvicinandosi con incedere intimidatorio, il volto ridotto ad una maschera di rabbia e disgusto, ma il giovane faticò a prendere quella minaccia sul serio, poiché sapeva molto bene che la donna aveva già da tempo diviso i suoi averi tra i suoi figli, favorendo nettamente il maggiore.
«Mi diseredi?» ripeté lui, lanciandole un’occhiata incredula. «E di cosa, di preciso? Hai già dato tutto a Tiberio!»
«Rimane questa casa!» berciò lei, spalancando le braccia e alzando gli occhi verso il soffitto.
«Ti ricordo che tu e papà avete la separazione dei beni e che questa casa non è tua, ma sua, visto che l’ha fatta costruire nonno Antonio» rispose, però, il ragazzo con estrema calma, sicuro di ciò che stava dicendo. «Comunque sia, io non aspetterò certo la tua carità. Senza contare che guadagno abbastanza da poter mantenere dignitosamente me stesso, mia moglie ed eventuali figli».
A quel punto, Madama Claudia assottigliò lo sguardo, lasciando che una smorfia di stizza comparisse sul suo volto, giacché cominciava a rendersi conto di star esaurendo gli argomenti a sostegno della propria tesi.
«Forse dimentichi che è rimasta la villa di Viterbo, che appartiene alla mia famiglia da generazioni!» esclamò, all’improvviso, trionfante, come se fosse sicura di avere ancora l’ultima parola e Marcello stava proprio per ribadirle che non avrebbe saputo che farsene di quel vecchio casale che lei si ostinava a spacciare per gran villa, quando, inaspettatamente, intervenne il signor Giancarlo.
«In effetti, mia cara, credo che quella casa serva a noi due» considerò, con dolcezza, rivolto alla moglie, mettendosi le mani in grembo.
A quelle parole, moglie e figlio si voltarono istantaneamente verso l’uomo, convertendo l’ira in sorpresa.
«Come sarebbe a dire..?» domandò il biondo, stralunato, avendo perso momentaneamente le fila del discorso, cosa che, invece, non era accaduta a sua madre, la quale non perse tempo per inveire anche contro al marito, malgrado le sue precarie condizioni di salute.
«Il tuo piano era questo sin dall’inizio!» sbraitò, agitando con foga un pugno chiuso. «Confinarci in campagna, mentre quella pezzente prende possesso di casa mia!»
«Claudia, è giusto che anche nostro figlio minore si faccia una sua famiglia. Tiberio ha scelto la casa di Albano, perciò, se non ricordo male, avevamo deciso che Marcello avrebbe avuto quella di Roma» le spiegò pazientemente l’altro, restando appoggiato ai cuscini con espressione serafica, come se non temesse la sua reazione. «E poi, non ti sto portando in ospizio, ma nella casa che è stata prima dei tuoi genitori e poi di tua sorella, finché è rimasta in vita».
Allora, fissando alternativamente marito e figlio con gli occhi spiritati e i capelli crepitanti di elettricità, la donna si diresse verso la propria toletta e, in un impeto di rabbia, scaraventò a terra sia la boccetta del profumo che quella della cipria, mandandole in frantumi, passando poi a gettare sul pavimento tutto quello che le capitava sotto mano.
Davanti ad un tale raccapricciante spettacolo, Marcello, sbigottito, cercò con lo sguardo suo padre che, però, non mutò espressione, limitandosi a riservare alla moglie uno sguardo compassionevole.

Qualche minuto più tardi, quando non rimase più niente da distruggere, la Matrona espirò a fondo e si voltò verso i due uomini, raccogliendo il ventaglio che era caduto a pochi passi da lei e riappropriandosi della sua aria altezzosa.
«Io non alzerò un solo dito per organizzare questo matrimonio!» sibilò, all’indirizzo del figlio, sollevando lentamente l’indice per enfatizzare quanto detto.
«Che cosa?» esclamò il giovane, indignato, ridestandosi completamente dallo stato di shock in cui era caduto. «Beatrice non ha più la mamma... tocca proprio a te aiutarla con i preparativi, invece!»
«Non mi interessa, visto che vi sposerete contro il mio parere. Per quanto mi riguarda, potete anche andare a mettere le firme in Comune ed in chiesa solo voi due ed i testimoni» ribatté lei, caricando ogni parola di rancore e frustrazione.
«Però, hai aiutato Ortensia, che aveva anche sua madre a guidarla nell’organizzazione!» insorse l’altro, furibondo.
«Certo, perché Tiberio mi ha ubbidito, sposandola! Si è scelto una donna sciocca, è vero, ma ricca e dell’età giusta» replicò ancora la donna, insistendo su quello che, ormai, aveva capito essere il punto debole della difesa del figlio, forse sperando ancora di poterlo portare dalla propria parte.
Tuttavia, il ragazzo, nonostante avesse subito il colpo della madre, lo incassò alla perfezione e rispose, senza esitazione: «Beatrice è molto matura per i suoi diciannove anni».
A tale commento, la donna rimase ad osservarlo in tralice per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere con tutta la perfidia di cui era capace.
«Povero Marcello...
in fatto di donne, sei davvero un sempliciotto!» esclamò, con una smorfia, scuotendo lievemente la testa con finto rammarico. «Il fatto che quella sgualdrina sia una ragazza sveglia e... precoce non significa che sia matura, ma solo che ha capito quanto sia facile mettere nel sacco uno sprovveduto come te!»
Dopo quell’ennesima stoccata, il giovane socchiuse gli occhi, fremente dalla rabbia, incapace di accettare altre cattiverie gratuite su Beatrice e su se stesso da parte della madre. Aveva appena aperto la bocca per dirle che non avrebbe cambiato idea nemmeno se lo avesse minacciato di buttarsi dal ponte di Ariccia3, quando, per la seconda volta, fu suo padre ad intervenire.
«Ti ho già fatto presente una volta di non insultare Beatrice in mia presenza» scandì, con voce ferma, puntando negli occhi della moglie uno sguardo che non ammetteva repliche e quella, oltraggiata per la presa di posizione del marito in favore del figlio, ricambiò l’occhiata con freddezza.
«Anche tu sei contro di me? Molto bene!» replicò, con tono sorprendentemente calmo. Poi, si diresse verso lo specchio della toletta e si ravviò i capelli. «Sappiate, però, che non finirà qui!» aggiunse, poco dopo, guardando entrambi un’ultima volta attraverso il vetro, prima di girare i tacchi e dirigersi in tutta fretta fuori dalla stanza, come se avesse appena ricevuto una dichiarazione di guerra e dovesse correre a verificare l’entità dei propri armamenti.

Rimasto solo con il padre, Marcello impiegò qualche secondo per riprendersi da quel diverbio che era certo l’avesse lasciato più spossato che se fosse stato uno scontro fisico. Quando si voltò verso il genitore, però, preoccupato che potesse sentirsi male dopo una tale sceneggiata, non si aspettava di certo che quello gli rivolgesse uno sguardo così malinconico e sconsolato.
«Ora capisci perché ho insistito tanto affinché chiedessi a quella dolce ragazza di sposarti? Vi compensate a vicenda e sono convinto che non esista un’altra che possa renderti felice quanto lo fa lei» fece poi una breve pausa e si abbandonò ad un sospiro afflitto. «Non voglio che tu faccia i miei stessi errori o quelli che non sono riuscito ad impedire che facesse Tiberio».
«Di quali errori stai parlando?» chiese il giovane, confuso e sorpreso per quel discorso inaspettato.
Il signor Giancarlo, però, si limitò a fissarlo in silenzio con aria triste, voltando la testa verso la finestra socchiusa, come quando aveva dato l’annuncio riguardante la sua malattia.
«Quando si concretizzano unioni male assortite, si rischia di non andare d’accordo. Ovviamente, non sto parlando di bisticci o scaramucce tra moglie e marito come quelli ci saranno anche tra te e Beatrice, ma di divergenze di opinioni sulle cose importanti» spiegò, con lo sguardo perso nel vuoto. «In quel caso, a pagarne le conseguenze sono sempre i figli». 
«Tu sei stato un ottimo genitore, papà. È mamma che...» attaccò subito Marcello, infastidito da quell’assunzione di colpa che a lui sembrava del tutto fuori luogo.
«No, Marcello. Non è così» lo interruppe, invece, con voce ferma il padre, tornando a guardarlo negli occhi. «Non sono così perfetto come credi, sai? Per quanto mi sforzi, non riesco ad essere imparziale tra i miei figli e questo non fa altro che alimentare l’invidia che tuo fratello prova per te».
A quel punto, il giovane fece per ribattere, ma, quando capì ciò che aveva detto l’uomo, le parole si bloccarono in gola: in quel momento, fu come se fosse stato scoperchiato un vaso simile a quello di Pandora, solo che, invece di liberare i mali del mondo, questo aveva sguinzagliato le ombre che si aggiravano come spettri tra i componenti della sua famiglia. L’invidia ed il risentimento di Tiberio verso di lui da una parte ed i tentativi poco ortodossi della madre di accasarlo con una ragazza di buona famiglia dall’altra, infatti, sotto quella luce gli parvero più comprensibili, anche se il giovane continuava a non condividere il loro punto di vista. Tuttavia, la cosa che lo lasciò più sgomento fu il rendersi conto che non erano rivelazioni del tutto nuove, che, in fondo, nel suo subconscio, ne era sempre stato consapevole.
Allora, sbattendo le palpebre, Marcello fissò il padre e quello, in risposta, come se avesse intuito i suoi pensieri, aggiunse: «Anche se può sembrarti strano, quella di tua madre, più che cattiveria pura, è un misto di ignoranza ed insicurezza. Sai bene che è convinta che solo con il prestigio sociale e con i soldi si possa acquistare una certa credibilità».
Fece una piccola pausa e si sporse verso il comodino per versarsi un bicchiere d’acqua che poi bevve a piccolissimi sorsi, mentre il figlio lo guardava diviso tra la tenerezza, scaturita dal saperlo non ancora ristabilito del tutto, e la rassegnazione, derivata, invece, dalla consapevolezza che la madre non avrebbe mai accettato il suo matrimonio.
«E tuo fratello non è molto diverso da lei. Perciò, perdona la loro debolezza e la loro superficialità, se puoi» riprese l’uomo, poco dopo, spingendo sul ripiano il bicchiere ormai vuoto, prima di lasciarsi cadere a peso morto sui cuscini, esausto.
Per un po’, nessuno dei due disse nulla, ognuno immerso nei propri pensieri, finché Marcello non si decise a riprendere il discorso sull’eredità di Villa Aurelia.
«Ad essere onesto, questa storia del lasciarmi questa casa non convince neanche me» esordì, pensieroso. «Come farai ad andare a vivere a Viterbo, dovendo sottoporti alla chemio? I grandi ospedali sono tutti qui a Roma e...»
«Punto primo: prima che tu e Beatrice vi sposiate ci vorrà qualche mese, giusto?» lo fermò, però, immediatamente l’altro, prima che potesse andare avanti. «E, punto secondo: mi auguro che ospiterai il tuo povero padre malato, in caso di necessità» concluse, recuperando un briciolo del suo antico spirito.
«Ma che dici, papà!» esclamò il ragazzo, punto sul vivo. «Certo che...»
«Allora, va bene così. La verità, Marcello, è che sono stanco» fece il padre, tagliando corto e abbassando il tono. «Ho bisogno di tranquillità e, in questo momento, solo la campagna può darmi ciò che cerco».
Nonostante si fosse mostrato abbastanza sicuro di ciò che stava dicendo, il giovane rimase alquanto perplesso da quell’affermazione e riservò un’occhiata indagatrice, che, però, non sfuggì al genitore, che, infatti, gli rispose subito: «Non devi pensare a me, perché che io viva ancora altri sei mesi o un anno, o cinque o dieci... non è questo il punto».
«Ma...» tentò di protestare ancora il figlio, che non voleva nemmeno sentir parlare dell’eventualità di una recidiva.
«No, Marcello. Ora devi concentrarti sulla tua vita, che è ancora tutta davanti a te» concluse il signor Giancarlo, deciso, anche se, subito dopo, assunse un’espressione più dolce ed aggiunse: «Però, se nei progetti tuoi e di Beatrice dovesse rientrare anche un nipotino per me, sappi che non mi dispiacerebbe affatto».
A tali parole, il biondo arrossì vistosamente, mentre gli riaffiorava alla mente il ricordo di quando era stata la stessa fanciulla ad esprimere la volontà di avere un bambino; tuttavia, dopo un primo imbarazzo, ricambiò timidamente il sorriso del signor Giancarlo e ammise tra sé e sé che, in fondo, l’idea di diventare padre non gli sembrava poi così male.
***

Le lancette dei secondi passarono per la seconda volta sul sei, facendo capire a Beatrice che era passato più di un minuto da quando aveva cominciato a fissare l’orologio del salotto, in cerca della risposta alla domanda che le aveva fatto Marcello. In teoria, la conosceva perfettamente, ma aveva la testa così piena di formule e definizioni che non riusciva più ad associarle.
«Allora, cosa dice la seconda legge di Ohm, Beatrice?» ripeté il giovane, a braccia conserte, studiandola attentamente dall’altra parte del tavolo.
Giocherellando nervosamente con la matita e spostando lo sguardo sul foglio bianco davanti a sé, come in attesa di un’ispirazione dall’alto, la ragazza strizzò gli occhi, cercando di concentrarsi quel tanto che bastava per ricordare qualsiasi nozione affine a ciò che le era stato chiesto.
«In un conduttore metallico... l’intensità della corrente è... direttamente proporzionale...» cominciò, mentre l’immagine della pagina del libro si materializzava pian piano nella sua mente. Tuttavia, quando colse perplessità nell’espressione di Marcello, ammutolì di colpo.
«Quella è la prima» le fece notare con dolcezza lui, appoggiando le braccia sul quaderno che aveva aperto di fronte, dove era riportato l’infinito programma di fisica. Beatrice riservò ad esso un’occhiata angustiata, per poi tornare immediatamente a guardare il giovane.
«Ti prego, andiamo a fare due passi? Non ne posso davvero più!» lo supplicò, sentendo di avere davvero raggiunto il limite delle sua capacità di tolleranza: era dalla mattina presto che non faceva altro che ripetere, pertanto non le sembrò affatto strano essere arrivata al punto di confondere due argomenti simili. Anzi, era stata fin troppo brava a non citarne uno che non c’entrasse nulla!
In risposta, lui la fissò per qualche secondo, corrugando la fronte, come se stesse valutando i pro ed i contro dell’assecondare quella richiesta, e la fanciulla sperò vivamente che la risposta fosse positiva, perché, nonostante sapesse che mancava ancora parecchio alla conclusione del programma, era altrettanto consapevole del fatto che, se non avesse fatto una pausa, avrebbe rischiato un esaurimento nervoso.
«Accontenta questa povera ragazza!» esclamò, improvvisamente, Vittoria, entrando nella stanza assieme a Gerardo. «Merita un po’ di svago, non sta facendo altro che studiare!»
Marcello si voltò immediatamente verso l’amica aggrottando la fronte e ribatté, piccato: «Il giorno in cui non dirai più la tua opinione senza nemmeno essere interpellata, si congelerà l’Inferno!»
«Addirittura? Sei sempre il solito catastrofico» replicò lei, con un sorrisetto sottile. «Comunque, ho solo detto la verità».
A quella risposta, Beatrice si voltò verso il fidanzato e notò che aveva ridotto gli occhi a due fessure, irritato, mentre Gerardo, in evidente difficoltà, spostava di continuo lo sguardo dalla sua ragazza all’amico.
«Vittoria, ti avevo detto che sarebbe stato meglio bussare» la riprese poi pacatamente, ma con fermezza. Tuttavia, lei si limitò a lanciargli un’occhiata obliqua e a sbuffare, prima che nella stanza calasse un silenzio alquanto imbarazzante, durante il quale Beatrice si ritrovò a pensare che non vedeva davvero l’ora di non sentirsi più ospite in casa d’altri, poiché, nonostante l’amica fosse buona e cara, sentiva che era arrivato il momento di riappropriarsi dei suoi spazi.
«Comunque, sì, facciamo una pausa, perché, a questo punto, continuare sarebbe controproducente» sospirò, infine, il biondo, alzandosi dalla sedia.
«Tra l’altro, oggi si sta benissimo fuori, non fa nemmeno troppo caldo» intervenne, a quel punto, Gerardo, rilassandosi un poco e rivolgendo un sorriso a Beatrice. «Ti farà bene passeggiare un po’, almeno potrai distrarti».
La ragazza si alzò a sua volta e ricambiò il sorriso, avendo l’impressione che, in quelle parole, ci fosse un velato invito ad uscire di casa e restare sola con Marcello; d’altra parte, quel giovane doveva sapere molto bene che la fidanzata, anche senza volerlo, a volte poteva essere alquanto invadente.
Poi, poco dopo, mentre stava radunando tutte le sue cose, la fanciulla sentì l’altra battere le mani una contro l’altra
per richiamare l’attenzione di tutti e tre, come se si fosse appena ricordata di qualcosa.
«Ah, Marcellino, prima che te ne vada, devo riferirti una cosa!» esclamò, avvicinandosi al ragazzo. «Don Marco vuole avere quanto prima i certificati che vi ha chiesto. Sembra essersi ammorbidito un po’, anche se non credo abbia digerito il fatto che vi sposiate senza aver seguito il suo corso per fidanzati, soprattutto perché non si aspettava da te un simile tradimento».
Solo a sentirne il nome, a Beatrice vennero i brividi, poiché non aveva certo dimenticato tutte le innumerevoli difficoltà che aveva presentato loro, rischiando di mandare tutto all’aria, quando si erano recati da lui per prendere accordi per il matrimonio. E anche Marcello non doveva avere un bel ricordo dell’episodio, a giudicare da come reagì.
«Don Marco sa perfettamente perché siamo stati costretti a fare così. Inoltre, ci ha puniti abbondantemente facendoci scegliere tra il prossimo ventiquattro agosto oppure ottobre 1988».
«Ci si augura che non faccia troppo caldo...» aggiunse subito dopo la fanciulla, soprappensiero, preoccupata che l’estate appena iniziata potesse riservare loro temperature da tropici, sapendo che il clima, in quella zona e in quel momento dell’anno, era tutt’altro che piacevole.
«Non ci sperare» replicò, per l’appunto, l’altro, tetro, mentre recuperava il portafoglio e le chiavi dell’auto dal tavolo e se li metteva in tasca. «Posso solo immaginare la litania di commenti sgradevoli che farà mia madre!»
A tale considerazione, gli altri tre tacquero, poiché nessuno di loro, conoscendo la Matrona, se la sentì di controbattere; tuttavia, l’indole allegra di Vittoria non le impedì di tentare comunque di risollevare i toni della conversazione.
«Su, su, pensa al lato positivo: è il periodo migliore per fare il viaggio di nozze!» considerò.
«Se non ci saremo sciolti prima sulla soglia del Laterano, con quaranta gradi all’ombra, ovviamente» le fece, però, notare Marcello, oramai in caduta libera verso il pessimismo più nero, guardandola in tralice.
Nel vedere l’espressione indispettita dell’amica, Beatrice trattenne a stento una risata, poiché la profonda differenza di carattere tra la ragazza ed il suo fidanzato aveva un qualcosa di comico.
«Purtroppo, è l’unica data disponibile in tempi brevi» considerò poi la giovane, non appena fu sicura di non scoppiare a ridere in faccia a nessuno dei due.
«Secondo me non sarà così drammatico...» commentò, invece, Gerardo, calmo. «In fondo, molte coppie scelgono agosto, perché si dice che sia un mese che porta agli sposi molti cambiamenti in positivo».
La fanciulla, allora, voltò la testa verso di lui e si sorprese a pensare che, nonostante parlasse molto meno rispetto ai suoi amici, ciò che diceva era sempre molto confortante. Non aveva avuto molte occasioni per interagirci direttamente, ma le aveva sempre dato l’impressione di essere una persona molto buona e paziente, l’unico in grado di equilibrare il terzetto, limitando gli eccessi di Vittoria e smussando, al tempo stesso, la spigolosità di Marcello.
«E tu come lo sai?» gli chiese, infatti, proprio quest’ultimo, osservandolo tra lo scettico ed il sorpreso.
«Lo dice sempre mia madre. Sai, anche i miei si sono sposati ad agosto» replicò l’amico, facendo spallucce ed incurvando appena le labbra. «E il loro è stato un matrimonio felice».
Quella risposta dovette bastare al biondo, perché perse l’aria torva che aveva assunto, mostrandosi un po’ più rilassato e Beatrice finalmente si ritrovò a sorridere, rasserenata anche lei, giacché non sopportava che il suo fidanzato si incupisse per colpa della megera di sua madre, soprattutto dopo aver saputo che quella donna non li avrebbe aiutati ad organizzare nulla.
Dopo aver avuto occasione di toccare con mano la cattiveria della Matrona, la fanciulla non si aspettava più niente da lei, ma non credeva che avrebbe toccato il fondo, punendo anche il figlio solo perché non approvava la persona che aveva scelto come sua futura moglie.
Ovviamente era a conoscenza del proverbiale attrito tra nuora e suocera, ma lei aveva davvero trovato una delle peggiori e la considerazione che aveva della signora Claudia, dopo quell’ennesimo affronto, aveva raggiunto i minimi storici. Per fortuna, però, Marcello non era affatto uno di quegli uomini perennemente attaccati alle sottane materne e, per giunta, il signor Giancarlo si era dimostrato benevolo verso di lei, facendola sentire, almeno lui, apprezzata e benvoluta.
«Be’, visto che siamo in argomento, avrei da chiedere una cosa ad entrambi» fece poi il biondo, tutto d’un tratto, riservando ai suoi due amici un’occhiata estremamente seria, mentre anche Beatrice, ormai riscossasi dai propri pensieri, si voltava verso di lui, che proseguì: «Vittoria, Gerardo... ecco... mi farebbe molto piacere se foste i miei testimoni».
Non appena Marcello ebbe finito di parlare, la fanciulla vide entrambi giovani rimanere letteralmente a bocca aperta, stupiti, come se davvero non si aspettassero una simile richiesta; poi, visto che tutti e due sembravano aver momentaneamente perso l’uso della parola, il ragazzo aggiunse: «Non ditemi che non ve lo aspettavate! A chi pensate che lo avrei chiesto?»
«A dire il vero non ci avevamo proprio pensato...» mormorò Vittoria che, come era prevedibile, si riprese più rapidamente del fidanzato. Infatti, subito dopo, mostrò un ampio sorriso ed esclamò: «Comunque, non possiamo proprio rifiutare! Giusto, Gerardo?»
«Certo che no...» assentì questi, rivolgendo anche lui un gran sorriso a Marcello. «Anzi, grazie per volerci al tuo fianco anche in questo».
«Mi sembra il minimo, dopo più di vent’anni di amicizia, non trovate?» commentò, allora, l’altro, mantenendo una certa serietà, anche se Beatrice riuscì a cogliere la sua felicità nell’aver ricevuto una risposta così positiva.
La fanciulla aveva sempre trovato molto bello il legame che univa quei tre e, ogni volta che emergeva l’affiatamento che c’era tra di loro, si ritrovava a pensare che sarebbe piaciuto anche a lei avere delle amicizie così consolidate e partecipi. Purtroppo, però, non era stata molto fortunata: quando viveva a Firenze e andava a scuola lì, infatti, aveva avuto qualche amica più stretta, ma il fatto stesso che avessero interrotto i contatti dopo solo qualche mese dal suo trasferimento a Roma la diceva lunga su quanto profondi fossero quei rapporti.
«E i tuoi testimoni, Beatrice? Chi saranno?» le chiese all’improvviso Vittoria, distraendola dai suoi pensieri.
«L’ho chiesto alla signora Sofia e al signor Rossiglione, perché per me sono stati entrambi due guide importanti» rispose lei, stringendo al petto i libri e quaderni che aveva tra le braccia. «Hanno accettato subito tutti e due e ne sono felicissima».
In risposta, l’altra annuì soddisfatta, mentre la ragazza avvertiva una piccola fitta di dispiacere, poiché, se da una parte la sua felicità era reale, dall’altra non poté fare a meno di pensare che, se suo fratello fosse stato diverso e si fosse comportato meglio, avrebbe potuto chiederlo a lui. Invece, non avrebbe neanche potuto assistere alla cerimonia, poiché il giudice non gli aveva concesso il permesso d’uscita nemmeno per le nozze della sorella.
«Be’, ora penso proprio che dovremmo pensare al vestito, allora!» continuò poi Vittoria, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo. «Ne troveremo sicuramente uno che ti starà d’incanto!»
A tale esclamazione, però, Beatrice non poté fare a meno di guardarla perplessa, sbattendo le palpebre, non capendo a cosa si stesse riferendo.
«Quale vestito..?» domandò.
«Quale vestito?!» ripetè l’altra, spalancando gli occhi, sconvolta, «ma, ovviamente... l’abito da sposa
Nel ritrovarsi puntati addosso gli occhi di tutti i presenti, Beatrice si sentì avvampare, mentre prendeva coscienza di non aver proprio pensato ad un dettaglio fondamentale, facendo la figura della svampita, come era già capitato in passato.
«Ah, sì... giusto...» farfugliò. «Ehm, volevo dire, sì, magari, ci si penserà non appena l’avrò finito gli esami».
«Sì, hai ragione, una cosa per volta. Questo periodo si sta rivelando troppo impegnativo per te» la rassicurò subito Marcello con dolcezza. «Comunque... che cosa ne dici di andare adesso, Beatrice? Ci siamo trattenuti fin troppo».
Ben lieta che il fidanzato le stesse dando l’occasione per togliersi dal centro dell’attenzione, la fanciulla si affrettò ad annuire e a recarsi in camera sua per riportarvi i libri, ma, mentre saliva le scale, realizzò che non disponeva affatto dei soldi necessari per comprarsi un abito da sposa. Purtroppo, dato che non lavorava più e che aveva dato gran parte dei suoi stipendi passati alla zia, aveva da parte solo una modesta cifra che le avrebbe consentito di comprare, a malapena, un vestito usato.
Proprio in quel momento, però, sentì Vittoria salire a sua volta le scale di corsa, arrestandosi proprio davanti a lei.
«Perdonami per prima, Beatrice, non volevo metterti in difficoltà! Come mi hanno appena fatto notare Marcello e Gerardo a volte mi lascio... prendere troppo la mano» le disse, alzando le spalle e riservandole un sorriso dispiaciuto. «In effetti, credo che sia meglio fare come dici tu: prima finisci gli esami e poi sceglieremo il miglior negozio dove andare».
«Ecco, a dire il vero, stavo proprio pensando a questo» ammise lentamente la ragazza, accarezzando i propri libri. «Io non l’ho molti soldi da parte e non mi posso permettere un granché, perciò preferirei andare a cercare qualcosa in un negozio non troppo costoso».
«Ma è importante per una ragazza...» protestò l’altra; tuttavia, Beatrice si mostrò irremovibile.
«Oh, lo so, ma non tutte posson permettersi abiti da ffiaba. Sai, son grandicella per credere ancora nella fata madrina e non voglio che Marcello spenda una sola lira per me, perché so gche tutto cche riguarderà la cerimonia sarà a su’ carico. Quindi, l’è giusto che io compri il mi’ vestito con i mie’ risparmi» replicò, infatti, con decisione, la ragazza.
La giovane donna rimase a fissarla con un misto di perplessità e delusione, ma non si arrese e tentò di parlare ancora. Tuttavia, ancora una volta, Beatrice non le lasciò nemmeno aprire la bocca. 
«Non ti preoccupare, per me va bene lo stesso. Se l’avessi avuto più tempo, l’avrei cucito io stessa,» disse la fanciulla, portandosi un palmo aperto al petto e battendolo contro di esso due volte, senza, però, riuscire a celare una certa malinconia, «ma è andata così e son convinta che sarà bellissimo lo stesso».
Vittoria si limitò a fissarla con scetticismo per qualche secondo, ma lei si ostinò ad esibire un sorriso stiracchiato, pur sapendo di non esser convinta fino in fondo nemmeno lei; ciononostante, salutò l’amica e salì gli ultimi gradini con una certa fretta, pensando che, se fosse stato tutto perfetto, sarebbe stato irreale, pertanto doveva soltanto gioire di ciò che aveva: la fortuna di poter sposare l’uomo che amava.

Come in un paesaggio ritratto da un pittore impressionista, le chiome dei ciliegi giapponesi erano appena scarmigliate dal sottile venticello che spirava da ponente, animando le foglie sotto la luce del sole al tramonto.
Donati al Parco Centrale del Lago dal primo ministro nipponico nel 1959, quegli alberi rappresentavano una rarità botanica che attirava l’ammirazione di turisti e residenti, compreso Marcello che, infatti, non appena Beatrice gli aveva chiesto dove volesse andare, non aveva esitato a proporglielo.
I due giovani avevano passaggiato per qualche minuto accanto alle siepi che costeggiavano il laghetto dell’EUR, fermandosi poi nei pressi del molo delle canoe, dove erano radunate alcune anatre, talmente impegnate a lisciarsi le piume che a stento notarono il loro arrivo. Fu solo quando la fanciulla estrasse dalla borsa un sacchetto con dei pezzetti di pane raffermo e cominciò a distribuirli che quelle uscirono fuori dall’acqua e le si avvicinarono con la loro andatura barcollante.
«Quando son venuta la prima volta con la Vittoria, mi sarebbe piaciuto dar loro da mangiare, ma non avevo niente perciò son contenta di aver avuto un’altra occasione per farlo» spiegò, voltando la testa verso il giovane, mentre continuava a lanciare briciole ai pennuti. Lui, in risposta, annuì, trovando molto rilassante stare lì ad osservarla mentre sfamava e parlava con le anatre - senza ovviamente ricevere risposta - e, di fronte a quella vivacità che gli piaceva tanto, il biondo non riuscì a trattenere un sorriso.
Quando i pezzetti di pane furono terminati, la ragazza si scrollò le mani e, dopo aver salutato le sue nuove amiche, ritornò da Marcello, esordendo: «Mi son dimenticata di dirti ch’ho sentito Guido per telefono e, adesso, sembra proprio che le cose stiano andando meglio. Il nuovo avvocato lo tiene sotto scacco!» ridacchiò, facendo una piccola pausa, per poi riprendere quasi subito: «Ovviamente, non gl’ho detto che sei stato tu a farmi il nome del Martelli».
«Perfetto!» rispose lui, particolarmente compiaciuto. «Ed è così che devi continuare a fare».
«Grazie, Marcello» gli disse lei, guardandolo teneramente con le sue iridi color zaffiro.
«Non mi devi ringraziare, io l’ho fatto solo per te» replicò lui, burbero, giacché, se Guido non fosse stato il fratello di Beatrice, non lo avrebbe aiutato nemmeno se si fosse trattato di una questione di vita o di morte.
La fanciulla, però, parve intuire i suoi pensieri, poiché ribatté, con un dolce sorriso sulle labbra: «Appunto per questo, grazie».
Davanti a quell’espressione, il giovane deglutì, avvertendo la solita stretta allo stomaco che si manifestava quando era con lei, e gli astiosi pensieri che aveva avuto verso Guido furono presto sostituiti da qualcosa di più piacevole. Infatti, rimase a guardarla a lungo, come ipnotizzato, e lo stesso fece lei con lui finché non finirono a contemplarsi vicendevolmente come se si fossero trovati in un luogo dove c’erano solo loro due.
Improvvisamente, però, la fanciulla assunse un’espressione molto triste e distolse lo sguardo da quello di Marcello, per poi girarsi e cominciare a camminare lentamente verso la sponda del lago.
«Beatrice, che hai?» le domandò subito lui, preoccupato, non appena l’ebbe raggiunta. «Non starai ancora pensando a quel porco di Navarra, spero!» aggiunse, appoggiandole delicatamente una mano su un fianco.
«Oh, no, no!» rispose lei, scuotendo energicamente la testa e facendo danzare sulle sue spalle le ciocche ramate. «La verità è... è che avrei un altro favore da chiederti, ma non voglio disturbarti un’altra volta».
«Si tratta nuovamente di quel cretino di tuo fratello, per caso?» chiese, allora, il biondo, increspando le labbra e ricominciando istantaneamente ad inveire tra sé e sé contro il futuro cognato.
Tuttavia, Beatrice fece nuovamente segno di no ed aggiunse, con aria pensierosa e angosciata: «Per fortuna no, anche se l’è una cosa ancora più seria...»
«E... sarebbe?» la incalzò il giovane, che, a quel punto, non aveva proprio idea di cosa potesse aver fatto cambiare così repentinamente umore alla sua fidanzata. Per conoscere la risposta, però, non dovette attendere molto; infatti, dopo appena qualche secondo di silenzio, quella sospirò e alzò la testa nella sua direzione, guardandolo con aria seria.
«Come sai, qualche settimana fa sono stata a trovare Guido e... non si è solo lamentato della sua situazione, ma m’ha anche detto che ci son dei problemi con le nostre proprietà sull’Isola d’Elba» spiegò, afflitta.
Marcello corrugò appena la fronte, poiché, fino ad allora, Beatrice gli aveva menzionato la sua villa in Toscana solo quando gli aveva raccontato della sua infanzia, senza alcuna allusione ad ulteriori questioni economiche in sospeso. Poi, però, si ritrovò a pensare che era stato davvero sciocco a non prendere in considerazione quell’eventualità, vista la grande incapacità del fratello di lei nel gestire il patrimonio familiare dopo la morte dei loro genitori.
«Che genere di problemi?» si informò, desideroso di vederci chiaro.
«Non l’ho ben capito, a dire il vero, ma pare che il terreno non produca più olive e che, quest’anno, si rischi così di non poter produrre nemmeno una goccia d’olio» spiegò lei, socchiudendo gli occhi, sempre più angustiata. «Si perderebbero un sacco di compratori e...»
«Sono notizie un po’ generiche» commentò, allora, Marcello, riflettendo su quanto gli era stato appena riferito.
«Oh, io non me ne intendo e t’ho detto quanto so» fece lei, in risposta, stringendo le spalle. «Il contabile del mi’ babbo, a detta di Guido, sostiene che non ci sia molto da fare per risollevare la situazione e gl’ha consigliato di... vender tutto a lui».
Il tono con cui Beatrice aveva pronunciato quelle parole avrebbe commosso anche un sasso, tanto erano cariche di tristezza e sconforto, e il giovane, sapendo bene quanto lei fosse legata a quella casa, non faticò ad immaginare che gli avesse raccontato tutto per chiedergli di aiutarla a salvare l’ultima proprietà rimasta dopo che Guido aveva scialacquato tutto il patrimonio in donne e gioco d’azzardo. Inoltre, anche se non conosceva i dettagli, gli sembrava piuttosto strano che qualcuno potesse essere interessato all’acquisto di un terreno messo così male. A meno che, ovviamente, non ci fosse sotto qualcos’altro di cui, in quel momento, loro non erano ancora a conoscenza.
«Ma tu non vorresti, giusto?» le domandò, allora, con dolcezza, stringendo la presa sul suo fianco.
«Certo che no! Non venderei mai la casa della mi’ mamma, dove si è trascorso l’ultimo periodo di felicità tutti insieme» ribatté l’altra, con determinazione.
A quel punto, Marcello, che aveva ben capito tutta la situazione e non voleva certo veder soffrire di nuovo Beatrice a causa dell’inettitudine e della stupidità del fratello, si prese qualche minuto per riflettere e, poco dopo, le propose: «Facciamo così, allora: ti prometto che farò tutto il possibile per capire meglio come stanno le cose e, se necessario, andremo a vedere di persona, va bene?»
L’espressione di pura gioia che si dipinse all’istante sul volto della fanciulla, illuminandolo, portò il ragazzo a sorridere di riflesso e la sensazione di calore che provò fu talmente forte e appagante, che gli venne un’idea ancor migliore.
«Anzi, potremmo andare in viaggio di nozze a Marciana Marina... che cosa ne pensi?»
Come immaginava, tale suggerimento piacque alla giovane ancor più del primo e, infatti, quella non esitò nemmeno un istante a manifestargli la propria entusiasta approvazione.
«Io... non potrei davvero chieder di meglio» gli sussurrò, commossa e felice.
In risposta, il biondo le accarezzò una guancia e la rassicurò ulteriormente, dicendole: «Vedrai che sistemeremo anche quest’altro problema».
In quel momento, però, una fresca brezza riportò la loro attenzione al presente, facendo loro alzare la testa al cielo, giusto in tempo per notare che il sole aveva cominciato a tramontare e che per Beatrice era giunta l’ora di tornare sui libri.

Qualche minuto più tardi, mentre percorrevano Via Cristoforo Colombo, Marcello le chiese se, per quella sera, aveva in programma di ripassare qualche argomento ostico e preferiva che restasse con lei ancora un po’, ma la fanciulla lo rassicurò dicendogli che, dopo cena, si sarebbe rilassata dedicandosi a storia dell’arte.
«Vuoi che ti accompagni, la mattina del ventidue?» le domandò, allora, lui, all’improvviso, pensando che, non avendo amicizie tra i compagni di classe e trattandosi pur sempre dell’esame di maturità, per lei sarebbe stato meglio almeno recarsi a scuola in compagnia.
«Ti ringrazio, ma preferisco di no» gli rispose, inaspettatamente, lei, incurvando appena le labbra. «Sai, anche la Vittoria m’ha chiesto se volessi un supporto, ma credo di sapermela cavare da ssola».
Colpito da tanta fermezza, il giovane non poté far altro che annuire, anche se non mancò di aggiungere: «Come vuoi. Però, se dovessi ripensarci, sappi che puoi farmelo sapere anche la mattina stessa».
In quel momento, arrivarono davanti al cancello della casa di Vittoria e Beatrice, arrestandosi e facendo una giravolta su se stessa, si mise davanti a lui, guardandolo con determinazione.
«Be’, devo andare a sostenere l’esame di maturità, quindi devo dimostrare di esser matura ed in grado di badare a me stessa!»
«Non è questo il punto, Beatrice...» gli fece lui di rimando, perplesso. «Comunque, se vuoi così, rispetterò la tua scelta».
Dal canto suo, la ragazza si limitò a sorridere di nuovo e, voltandosi, si avviò verso l’ingresso, lasciando Marcello momentaneamente indietro a contemplarla a distanza per qualche secondo. Conosceva bene le difficoltà che la giovane stava affrontando, essendosi presentata da privatista, e averebbe fatto qualsiasi cosa per renderle quell’esperienza il meno traumatica possibile. Tuttavia, memore anche di quello che gli aveva detto suo padre, si ritrovò a sospirare, consapevole che, per quanto possa essere forte la volontà di proteggere le persone amate, la decisione finale sulle questioni della loro vita spetta comunque sempre a loro.
***

Per la terza mattina nell’arco della stessa settimana, Beatrice si ritrovò a percorrere Corso Trieste fino a fermarsi davanti all’edificio squadrato del liceo Giulio Cesare. La prima volta che la ragazza si era ritrovata a guardare quella sagoma imponente, si era sentita molto piccola a confronto e, per qualche istante, non era stata più sicura di voler affermare la propria indipendenza, desiderando che ci fosse Marcello al suo fianco. Quel giorno, invece, nonostante non ci fosse la torma di studenti che sostava accanto ai cancelli, come era stato le mattine degli scritti, si sentiva più tranquilla, forse perché, ormai, quel luogo le sembrava quasi familiare.
Inoltre, aveva sofferto molto l’assenza di compagni di classe con i quali condividere quell’avventura, poiché, come aveva immaginato, nessuno degli altri maturandi si era mostrato disposto a fare amicizia con lei, facendola sentire ancora più estranea di quanto già non fosse. Anzi, a dirla tutta, aveva avuto l’impressione che Bellocchi avesse fatto di tutto per caricarli ancora di più di disgusto nei suoi confronti.
Tuttavia, Beatrice aveva saputo rimboccarsi le maniche anche in quel clima di astio ed era riuscita a fare un ottimo lavoro sia nel tema di italiano, sia nella versione di greco4.
Quel giorno, mentre valicava i pilastri a pianta quadrata che sorreggevano il porticato d’ingresso, la ragazza inspirò a fondo, sperando che l’epilogo di quella mattinata fosse positivo e che il professore di italiano, di fronte al resto della commissione, non le tirasse troppi tiri mancini. Quando poi entrò all’interno della scuola, invece, la trovò immersa in silenzio tombale, tanto che il rumore dei suoi passi risuonò nell’atrio, accompagnandola fino all’aula che le avevano indicato come sede del colloquio.
Poiché si presentava come privatista, avrebbe fatto l’esame orale da sola, anche se, come era stato per gli esami d’ammissione, erano stati convocati con lei anche due testimoni, scelti tra coloro che avrebbero sostenuto la prova l’ultimo giorno. E, infatti, furono proprio loro i primi che trovò davanti alla porta scalcinata della seconda B. Quelli, vedendola arrivare, smisero immediatamente di parlottare tra di loro e la fissarono in cagnesco: erano un ragazzo ed una ragazza e, da quello che aveva avuto modo di carpire da alcuni commenti uditi nei giorni precedenti, erano i più bravi della classe, anche se davvero carenti in educazione, visto che non si degnarono nemmeno di rispondere al suo saluto.
Rassegnata a quell’ennesimo atteggiamento ostile, la fanciulla si disse tra sé e sé che sarebbe stato stupido pensare che qualcosa potesse cambiare proprio l’ultimo giorno, pertanto si mise accanto al muro e spostò lo sguardo in basso, in attesa di essere chiamata dai professori che, a giudicare dal vociare che proveniva dall’aula, dovevano essere già radunati all’interno.
Ad un certo punto, però, con sua grande sorpresa, Beatrice vide con la coda dell’occhio la ragazza che si avvicinava verso di lei e, immediatamente, alzò lo sguardo nella sua direzione, fissandola perplessa. Che cosa mai poteva volere?
«I tuoi capelli sono rossi naturali?» le chiese subito quella, indicandoli con un dito e contrando appena le labbra in una piccola smorfia.
«Ehm... sì...» rispose Beatrice, prendendosi tra le dita una ciocca cuprea e avvertendo che ciò che le avrebbe detto dopo non sarebbero stati certo complimenti. «Perché?»
In risposta, la ragazza scoppiò a ridere con cattiveria, scuotendo la propria chioma biondo cenere.
«Sono proprio orrendi! Se fossi in te, mi vergognerei talmente tanto che me li sarei tinti da un bel pezzo!» esclamò, poi, smettendo di sghignazzare e tornando a guardarla con aria di scherno.
«Be’, se tu avessi avuto i capelli come questa sfigata, non ti avrei mai chiesto di uscire, Daria» intervenne, allora, il ragazzo, riservando a Beatrice uno sguardo disgustato.
La giovane, a quel punto, spostò lo sguardo più volte dall’uno all’altra, sconcertata da tanta cattiveria: non la conoscevano nemmeno, perché dovevano prendersela con lei in quella maniera?
«La signorina privatista si crede fortunata solo perché la Valenti è dalla sua parte... ma quella non conta niente, è Bellocchi che vale di più ed è perfino amico di mio padre!» proseguì poi Daria, incrociando le braccia sul petto e scoccando alla fanciulla un’occhiata commiserevole e il giovane rincarò la dose, offrendo a Beatrice altri insulti.
«Roscia5, proprio alla nostra classe dovevi venire a rompere le scatole? Devo ripassare per l’orale e sto perdendo una mattinata per colpa tua!»
«Sono stati i professori a scegliervi, non io!» ribatté la diretta interessata, indignata e furente. Amava molto il colore dei suoi capelli e quei due non avevano alcun diritto di offenderla o usarla come capro espiatorio per sfogare la loro frustrazione. «Se fosse stato per me, non vi avrei voluti di certo!»
Dopo quella sfuriata, entrambi la fissarono stupiti, poi lui assunse un’espressione sofferente e patetica, mentre l’altra la squadrò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Tranquillo, Davide, chiederò a mio padre di raccomandare anche te con il prof» disse poi, senza staccare gli occhi da Beatrice.
«Io voglio il mio sessanta6, mi serve per l’ammissione all’università americana!» piagnucolò, allora, Davide, scrollando la testa con vigore. «Non posso rischiare di prendere un voto più basso per te, sfigata che non sei altro!»
A quel punto, Beatrice provò dentro di sé una sensazione così spiacevole, a metà strada tra il disgusto e la rabbia, che, se non avesse già digerito la colazione, avrebbe quasi sicuramente dato di stomaco; quei due erano solo dei figli di papà, meschini e arrivisti, esempio lampante del fatto che essere i primi della classe non significa necessariamente né essere persone rispettabili, né tantomeno intelligenti.
«Tanto sappiamo che sei antipatica al prof, quindi verrai bocciata!» ricominciò Daria, che sembrava aver trovato il modo migliore per scaricare la sua insoddisfazione per l’essere stata costretta a stare lì. «Roscia, perché non rinunci a fare l’esame e te ne torni a casa? Così, magari, anche noi possiamo andare a studiare».
«Io ho diritto a sostenere l’esame come voi, anzi, forse, più di voi, dato che siete solo due stupidi raccomandati!» buttò fuori, allora, la fanciulla sfogando tutta la rabbia che aveva accumulato in quelle settimane a causa delle vessazioni di ogni genere che aveva subito. A quel punto Davide, adirato per quella risposta, cominciò ad avanzare verso di lei con la mano alzata, come per schiaffeggiarla.
Per fortuna, in quel momento, fece la sua comparsa in corridoio la professoressa Valenti.
«Lo Masto!» esclamò, tra il sorpreso e l’indignato. «Stavi forse per picchiare una tua compagna, per giunta una ragazza
«Professoressa, ha cominciato lei!» lo difese subito Daria con una vocetta acuta, mentendo spudoratamente. «Ci stavamo solo difendendo!»
«Difendendo, Lanzi? Alzando le mani?» scandì, però, la donna, puntando le mani sui fianchi e guardando la ragazza con disapprovazione. «Cosa ne penseresti se un ragazzo picchiasse te, invece? A prescindere da chi abbia ragione? La violenza non è mai una soluzione! E quella sulle ragazze è qualcosa di vergognoso
«Professoressa, la privatista ci ha insultati!» insorse il compagno, con voce strozzata e gli occhi fuori dalle orbite, come se fosse sul punto di avere una crisi di nervi, anche se la Valenti non se ne curò minimamente.
«Quindi non sei pentito di ciò che stavi facendo, Lo Masto?» commentò, piena di sdegno. «Molto bene! Se le cose stanno così, per quanto mi riguarda, puoi scordarti il sessanta. E anche tu, Lanzi, visto che sei d’accordo».
Nell’udire quella sentenza, i due giovani strabuzzarono gli occhi e spalancarono la bocca, sbiancando e provando a balbettare qualcosa in risposta che, però, non servì a smuovere la donna.
«Non mi interessa, il compito di un’insegnante è anche quello di educare gli alunni» ribatté, infatti, quella, con voce molto ferma. «Io avrò a disposizione il mio voto e lo esprimerò, non mi interessa cosa faranno i miei colleghi».
Ancora una volta, Beatrice vide i ragazzi tentare un nuovo approccio per dissuadere la Valenti dal suo proposito, finendo, invece, per collezionare l’ennesimo buco nell’acqua, poiché la donna, anziché starli a sentire, si volto verso di lei e, con dolcezza, la invitò: «Vieni con me, Beatrice».
Furibondi per ciò che era successo, Davide e Daria si incamminarono a loro volta, borbottando qualcosa anche contro la professoressa. In particolare, il ragazzo ci andò giù parecchio pesante con le parole, ma quella non si scompose minimamente, anzi, non essendo né stupida, né disposta a farsi mettere sotto i piedi da un suo alunno così presuntuoso, prima di farlo entrare in stanza lo fermò sulla porta e gli fece, con voce carezzevole: «Che cosa c’è, Lo Masto, vuoi picchiare anche me, per caso?»

Il primo volto che Beatrice individuò fra quelli dei professori seduti dietro le due cattedre unite fu proprio quello di Bellocchi, il quale la guardò inespressivo, come se fosse stata la prima volta che la vedeva; ciò che, però, aiutò la giovane a scaricare la tensione, fu notare che almeno gli altri quattro uomini, i membri esterni della commissione, stavano sorridendo.
«Buongiorno» li salutò, leggermente tesa.
A quel punto, il presidente, il professor Arcani, un uomo dal viso rubicondo e un simpatico paio di baffoni castani, le sorrise affabilmente e la invitò a sedersi sulla sedia di fronte a lui, appositamente preparata per lei, mentre la professoressa Valenti tornava al suo, anche lei sorridente.
«E così avrai tu l’onore di aprire le danze!» esordì scherzosamente quella.
«Abbiamo fatto tutti un’abbondante colazione, quindi, stai tranquilla che non ti mangeremo» fece poi Arcani, proseguendo con quel tono faceto, avendo probabilmente notato che la ragazza era in apprensione.
Nel frattempo, dietro quest’ultima, Daria e Davide continuavano a parlottare tra loro - “sicuramente ce l’han con me” pensò, infastidita, Beatrice - e si zittirono solo quando il professor Sallusti, quello di latino, ebbe loro intimato di smettere.
Quando, finalmente, calò il silenzio, la ragazza sentì l’agitazione salire pian piano, ma si impose di restare calma e di non lasciar trapelare nemmeno il più piccolo segno di disagio per evitare che gli insegnanti pensassero che volesse strappar loro la promozione a suon di pianti e sceneggiate, anziché affrontando dignitosamente l’esame. In quel momento, le tornarono utili le raccomandazioni di Vittoria, che le aveva consigliato, in caso di panico, di concentrarsi sulla propria respirazione. Un, due: inspira, respira.
«Presidente, se lei è d’accordo, direi di far vedere alla ragazza gli scritti solo al termine della prova e di cominciare subito l’orale, così finiremo prima» propose, a quel punto, la Valenti, girando la testa in direzione di Arcani, che stava appunto per confermare, quando fu interrotto dall’intromissione di Bellocchi.
«Mi sembra un’ottima idea, presidente. La mia collega ha avuto senz’altro un’intuizione eccellente nel voler agevolare questa ragazza, che è svantaggiata rispetto ai suoi compagni, che hanno seguito un anno di lezioni».
Sia la ragazza che la professoressa si voltarono nello stesso momento verso l’uomo, il quale esibiva un’espressione così composta e apparentemente naturale che chiunque avrebbe pensato che fosse in buona fede; tuttavia, a Beatrice, invece, non sfuggirono le sottili e velate insinuazioni che aveva messo in quelle parole, ma, purtroppo, non fu lo stesso per il capo della commissione.
«Sono d’accordo» fece, infatti, questi, annuendo. Poi, si rivolse agli altri insegnanti: «E voi, professor Sallusti e Modesti? E anche lei, professor Antonioni? Che cosa ne pensate?»
Mentre i docenti di latino, storia dell’arte e fisica esprimevano la loro approvazione, la fanciulla si dedicò a studiare a fondo il volto del suo nemico, scorgendovi il ritratto della soddisfazione.
Che ipocrita!” pensò, essendo arrivata alla conclusione che quell’uomo, molto probabilmente, intendeva accaparrarsi la simpatia del presidente per raccomandare proprio i due cretini che avevano maltrattato lei e chissà quanti altri sfortunati compagni.
«Antonioni, vuole iniziare lei?» chiese improvvisamente Sallusti al collega, membro esterno di fisica che aveva preso il posto di Bellocchi-bis, ridestando immediatamente Beatrice e procurandole una bella tachicardia: perché dovevano cominciare proprio con la materia che le era più ostica? Poi, però, la ragazza rifletté meglio sulla questione e si accorse che, forse, sarebbe stato meglio togliersi di torno il prima possibile le discipline in cui era meno ferrata, anche se iniziare bene l’orale le avrebbe garantito una buona prima impressione.
Antonioni accettò la proposta e subito, passandosi ripetutamente una mano in mezzo ai capelli corvini, meditabondo, mise un foglio bianco davanti alla fanciulla e le porse una penna, scrutando concentrato il ripiano della cattedra, sicuramente pensando a quale domanda farle. Dopo qualche secondo, finalmente, si decise e, sollevando lo sguardo su di lei, parlò.
«Vediamo... perché non ci parli della... seconda legge di Ohm?»
Per qualche istante, la giovane rimase ferma a fissarlo, ancora con la mano con cui aveva preso la penna ancora a mezz’aria, pensando all’ostinazione e alla pazienza che le aveva dimostrato Marcello nell’insistere affinché studiasse bene quell’argomento a cui, a dirla tutta, se fosse stato per lei, avrebbe dedicato il minimo dell’attenzione. Così, mandando un silenzioso ringraziamento al giovane e annuendo all’insegnante, Beatrice appoggiò la penna sul foglio e iniziò.
***

«Vittoria, si può sapere dove stiamo andando?» si arrischiò a domandare Gerardo, dopo più di un’ora di marcia forzata, durante la quale nessuno dei due aveva emesso una sola sillaba.
«Lo scoprirai presto!» replicò la ragazza, senza nemmeno voltarsi indietro, continuando a camminare con passo spedito e sicuro.
Perplesso per quella risposta lapidaria, il giovane si guardò bene dal fare altre domande, limitandosi a seguire la sua fidanzata per le vie del centro cittadino, ignaro di cosa le stesse passando per la testa. Infatti, lei quella mattina l’aveva quasi buttato giù dal letto dicendogli soltanto che avevano una missione da compiere per il bene di Marcello e Beatrice, anche se poi non gli aveva fornito ulteriori particolari, né, soprattutto, quale fosse il suo ruolo.
Tuttavia, quando Vittoria si arrestò davanti alla porta della merceria di Via della Mercede, fu come se le sinapsi del ragazzo si fossero attivate tutte insieme e quello finalmente intuì che la famosa missione riguardava il matrimonio del loro migliore amico.
Non appena i due giovani entrarono nel negozio, il tintinnio della porta richiamò Alessio e Valentina che, ormai in vacanza, trascorrevano quasi tutto il tempo nel laboratorio della madre.
«Gerardo!» lo salutò subito la bambina con un gran sorriso, correndogli incontro.
«Sei da solo? E Marcello dov’è?» gli chiese, invece, Alessio, alzandosi sulle punte e sbirciando dietro di lui, come se si aspettasse che il biondo si fosse nascosto per fare loro una sorpresa.
«Oggi è rimasto in ufficio, aveva molte cose da sbrigare» spiegò il ragazzo, abbassandosi all’altezza dei due e facendo spallucce, «però, non sono da solo» aggiunse, sollevando il capo verso la compagna e i fratelli, seguendo la direzione che aveva indicato loro, scorsero Vittoria, squadrandola per qualche secondo senza parlare.
«Io ti ho già vista» notò poi Valentina, inclinando la testa da un lato e dondolando sul posto.
«Vengo molto spesso a fare acquisti qui» replicò la ragazza, incurvando le labbra con dolcezza. «Anche io vi ho già visto, solo che non ci siamo ancora presentati».
Invece, Alessio, diffidente come il solito, si limitò a scrutarla ad occhi socchiusi, mentre la sorella, più intuitiva, dopo aver guardato attentamente prima l’uno e poi l’altra, si voltò verso Gerardo e gli chiese, con innocente candore: «Lei è la tua principessa?»
A quella domanda, quello si tirò su immediatamente, sentendosi andare a fuoco e, imbarazzato, balbettò un ehm, sì. Tale rivelazione, però, fece cambiare repentinamente espressione ad Alessio, che si avvicinò subito a Vittoria.
«Come ti chiami?» le chiese.
«Vittoria» rispose lei, sorridendogli.
«Hai un nome da regina!» notò lui, ammirato. «A scuola, la maestra ci ha raccontato di una regina d’Inghilterra che si chiamava come te».
«Vittoria, hai già baciato Gerardo?» intervenne, a quel punto, Valentina, che non aveva affatto dimenticato la conversazione che lei ed il fratello avevano avuto con il giovane prima di Natale.
Vedendo però che il ragazzo non rispondeva, esibendosi, invece, nella sua perfetta imitazione di un pesce rosso, la bambina si sentì in dovere di raccontare a Vittoria anche il resto: «Sai, ci ha detto che è un principe ranocchio e solo con un tuo bacio può trasformarsi» spiegò.
A quel punto, quella parve capire tutto e si voltò verso il giovane che, sempre più rosso, ricambiò l’occhiata, sbattendo le palpebre: mai avrebbe immaginato, infatti, che un giorno la sua fidanzata sarebbe venuta a conoscenza di quell’aneddoto e, in quel momento, avrebbe voluto solo sparire nel nulla.
La ragazza, però, fu di tutt’altro avviso, come lasciò intendere quando rispose, intenerita: «Certamente. Anzi, direi che è diventato un principe perfetto!»
A quel punto, con un provvidenziale intervento, la signora Sofia attirò l’attenzione su di sé, permettendo a Gerardo di tirare un sospiro di sollievo.
«Alessio, Valentina, si può sapere chi state importunando?» domandò, severa, avanzando verso i figli con le braccia incrociate sul petto. Poi, però, scorgendo il giovane, assunse un’aria sorpresa.
«Ah, ciao Gerardo! È parecchio tempo che non ti vedo» commentò, scrutandolo pensierosa. Dal canto suo, lui non si meravigliò per la sua reazione, poiché era quasi certo che la donna si era ricordata che l’ultima volta che si erano visti era stata in occasione del rapimento di Beatrice, e rispose, educatamente: «Buongiorno, signora. Sì, è passato qualche mese».
La sarta, allora, aprì la bocca, forse per chiedergli se potesse fare qualcosa per lui, quando notò Vittoria.
«Oh, ciao, cara. Perdonami, non ti avevo vista» si scusò. «Hai un viso conosciuto, o sbaglio? Mi sembra che non sia la prima volta che vieni qui».
«Sì, ha ragione, sono una sua cliente, anche se oggi sono venuta per farle una richiesta un po’ particolare» spiegò subito Vittoria, togliendosi la borsa dalla spalla e posandola in un angolo del bancone.
«Di che cosa si tratta?» chiese, allora, la donna, appoggiandosi a sua volta contro di esso e guardando incuriosita la sua interlocutrice.
«Io ed il mio fidanzato vorremmo fare un regalo speciale ad una coppia di amici» spiegò la ragazza, facendo arrossire nuovamente Gerardo, questa volta sotto l’occhiata interessata della donna. Il giovane, infatti, non aveva ancora imparato a non imbarazzarsi vistosamente ogni volta che veniva presentato o si presentava lui stesso come il ragazzo di Vittoria, poiché gli sembrava ancora troppo bello per essere vero.
«Come saprà, Beatrice e Marcello si sposeranno il prossimo agosto, ma l’orgoglio di quella cara ragazza sta mettendo seriamente a rischio la possibilità che abbia un abito da sposa degno di questo nome» proseguì, intanto, l’altra, dimostrando una particolare delicatezza nel riferire con poche e semplici parole il succo della discussione che aveva avuto con l’amica in merito alle scarse finanze di cui disponeva e alla sua ostinazione a voler fare tutto da sola.
In risposta, la signora Sofia sospirò, portandosi una mano su un fianco e l’altra sulla guancia, in atteggiamento addolorato.
«Quella povera bambina è stata molto sfortunata,» mormorò, quasi tra sé e sé, avendo capito perfettamente la situazione, «perciò, se potrò dare una mano per renderla felice, lo farò volentieri».
 
Dopo una tale risposta, il giovane vide la compagna congiungere di colpo le mani e, a giudicare dal sorriso che si era appena dipinto sul suo volto, capì che doveva aver raggiunto il suo scopo.
«Ero sicura che sarebbe stata d’accordo. Sono convinta che, unendo le nostre forze, potremo regalare a Beatrice un abito eccezionale!» esclamò, felice di aver trovato un’alleata.
Fu proprio allora che anche a Gerardo fu chiaro ciò che aveva architettato Vittoria e dovette ammettere che la ragazza non smetteva mai di stupirlo: si prodigava sempre molto per gli altri, arrivando anche a mettere se stessa da parte, come era accaduto il giorno del suo compleanno che, cadendo poco più di una settimana prima dell’inizio della maturità, aveva preferito passare a casa ad aiutare l’amica, decidendo di rinviare i festeggiamenti al momento in cui anche Beatrice avrebbe potuto prendervi parte.
A quel ricordo improvviso, il ragazzo sorrise, sentendosi fiero di lei.
«Ovviamente, alle spese penseremo noi, vero, Gerardo?» gli chiese proprio in quel momento lei, togliendolo ai suoi dolci pensieri.
«Certo. Non sarò un esperto di vestiti e cucito, ma anche io voglio dare il mio contributo» rispose lui, regalando all’altra un sorriso partecipe e quella, subito dopo aver ricambiato, tornò a rivolgersi alla donna: «Però, lei, in quanto sarta, ci dovrà aiutare con la realizzazione».
«È implicito!» ribatté subito la signora Sofia. «Aspettatemi un attimo, vado a prendere alcuni cataloghi di abiti da sposa, d’accordo?» aggiunse poco dopo, sparendo rapidamente nel retrobottega e riemergendone una manciata di minuti più tardi, con le braccia cariche di raccoglitori e fascicoli con la copertina translucida.
«Sì, che bello, regaleremo a Beatrice un abito da principessa!» fecero i bambini, in coro, cominciando a saltellare per il negozio come caprioli.
«Ecco, a proposito di principesse... la prego di non pensare a nulla di pomposo come i modelli che vanno ora» si raccomandò Vittoria, prendendo un catalogo e cominciando a sfogliarlo, aggrottando la fronte. «Mi spiace per Lady Diana, ma il suo vestito era orrendo... Su Beatrice vedo più qualcosa alla Grace Kelly».
«Oppure qualcosa come questo, simile al modello che l’atelier delle Sorelle Fontana realizzò per Linda Christian7, anche se non è una principessa in senso stretto» propose, invece, la sarta, staccando un pieghevole da un raccoglitore e sottoponendolo all’attenzione della ragazza, che lo prese e cominciò a studiarlo attentamente in tutte le sue parti.
Gerardo, nel guardare la sua fidanzata così presa, non poté far meno di buttare anche lui un occhio su tutte quelle foto e, per quanto sapesse di non essere un esperto di moda, si ritrovò a pensare che la sua Vittoria, con indosso uno di quelli, sarebbe stata davvero bellissima. Tuttavia, si rese anche conto che, prima di portarla all’altare e di vederla vestita di bianco, avrebbe dovuto chiederle di sposarlo...
«Anche noi vogliamo partecipare! Non lasciateci fuori!» protestò in quel momento a viva voce Valentina, mettendo il broncio e annodando le braccia sul petto.
«Sì, Beatrice è anche nostra amica!» le diede man forte Alessio, alzando orgogliosamente il mento.
Divertita da quell’intervento, la giovane si voltò verso quelle due pesti e si chinò verso di loro, appoggiando le palme sulle ginocchia.
«Certamente, bambini» disse loro, facendo l’occhiolino. «Per fare una
sorpresa con i fiocchi... c’è bisogno della collaborazione di tutti!»




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Come sempre, grazie alla mia Anto e alla sua pazienza.
***

[N.d.A]
1. scontri in Libano... X Legislatura: nel giugno 1987, la Siria intervenne militarmente a Beirut (capitale del Libano) per porre fine agli scontri tra sunniti e sciiti (attivi dal 1975), anche se la guerra civile terminerà solo nel 1990; 14 giugno dello stesso anno, in Italia, si svolsero le elezioni politiche per la X Legislatura;
2. “Marcia Trionfale”... Traviata: forse questa nota è inutile, ma mi sento di dover giustificare gli articoli che ho messo davanti ai vari titoli. La “Marcia Trionfale” perché è sottinteso che è un’aria, il “Va’, pensiero” perché è un coro e il “Libiamo ne’ lieti calici” perché è un valzer. Inoltre, faccio presente che nel Va’, pensiero ho aggiunto l’apostrofo (Va’ è forma apocopata di Vai), nonostante nel libretto orginale la grafia ne fosse priva, perché preferisco la forma più moderna (e più corretta);
3. ponte di Ariccia: si tratta di un monumentale viadotto che collega Ariccia e Albano Laziale. È conosciuto con il nome di ponte dei suicidi, poiché, vista la sua considerveole altezza (60 metri), molte persone si sono gettate da esso per togliersi la vita. Considerato l’alto tasso di morti, l’ANAS, a partire dal 2000, ha disposto delle barricate di contenzione lungo tutto il percorso del ponte, così da ridurre i tentativi di suicidio;
4. tema... greco: tra le tracce della prima prova del 1987, ho pensato che per Beatrice fosse perfetta quella che invitava ad argomentare e commentare una frase di Norberto Bobbio sulla definizione di cultura; invece, la seconda prova del liceo classico fu una versione di Platone;
5. Roscia: nel dialetto di Roma e dintorni, la storpiatura roscio dell’aggettivo rosso (riferito ai capelli) per lo più ha una valenza dispregiativa, in accordo con la credenza popolare che i possessori di capelli rossi portino sfortuna e, addirittura, possano essere creature malvagie;
6. sessanta: ovviamente, negli anni ‘80, la votazione all’Esame di Stato era in sessantesimi, quindi il sessanta rappresenta il voto massimo (e non il minimo, come oggi);
7. un abito pomposo... Linda Christan: Lady Diana si è sposata il 29 luglio del 1981 e lo sfarzoso modello del suo abito nuziale ha influenzato molto la moda delle spose di tutti gli Anni ’80. Invece, i vestiti di Grace Kelly (sposatasi il 19 aprile del 1956) e di Linda Christian (la mamma di Romina Power, sposatasi il 28 gennaio 1949), seppur nella loro ricercatezza,
appartenendo ad altri momenti storici, hanno avuto una linea più semplice.
***

Salve a tutti!
Arrivati a questo punto, posso dire che ci troviamo in un momento di transizione - come già annunciato dal titolo -, poiché la seconda parte di questo racconto è ufficialmente conclusa e, dal prossimo aggiornamento, comincerà la terza ed ultima, in cui tornerà a farsi sentire la componente “poliziesca”.
Prima di passare ai saluti, ringrazio di cuore chiunque sia ancora qui tra i lettori, chi aspetta con pazienza che questa storia arrivi alla sua fine, chi l’ha messa tra le seguite/ricordate/preferite, chi mi ha lasciato un’opinione la scorsa volta (Feynman, Aven, Anto).
In ultimo, vi lascio, come il solito, il link alla mia pagina facebook
, dove presto pubblicherò un estratto dal capitolo ventesimo e altre cinque curiosità sulle mie storie (ho visto che la precedente iniziativa è stata apprezzata da diverse persone).
Alla prossima!
Halley S.C.

  
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