Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: SilverKiria    26/07/2016    9 recensioni
Albus Silente. Se qualcuno avesse chiesto chi Tom Riddle temeva, l'unico che temeva, chiunque avrebbe risposto lui. Albus Percival Wulfric Brian Silente.
Ma si sarebbero sbagliati, tutti.
Sì perché prima, molto prima di Silente, ci fu un'altra persona che infastidì Tom Riddle.
Che gli fece dubitare di sé stesso.
O del destino che si era prefissato.
Una persona che era stata talmente simile a lui, per certi versi, da fargli paura.
Un passato e un futuro in comune.
Il presente?
Una continua sfida.
Qualcuno l'avrebbe chiamato amore, ma Riddle avrebbe riso.
No, era molto più di quello.
Quello stupido e lodato amore.
Riddle rispettava Meredith.
Riddle detestava i suoi ideali.
Riddle stimava Meredith.
E temeva i suoi poteri.
Perché?
Perché quegli occhi verdi l'avevano colpito più di tutti gli incantesimi che aveva ricevuto nella sua vita.
E non nel modo che ci si aspetterebbe.
DAL PROLOGO:
«Sei mia.»
«Io non sono di nessuno, Tom. Una persona non può appartenerti.»
«Questo lo credi tu.»
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Abraxas Malfoy, Albus Silente, Tom O. Riddle, Tom Riddle/Voldermort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



 

EPILOGO

 

«Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre, anche quando la persona che ci ha amato non c'è più. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.» (1)
 
 
[1 Settembre 1969]


Il fumo grigio che usciva dall’enorme espresso rosso scarlatto rendeva la leggera nebbia di settembre ancora più fitta, ricoprendo con delicatezza le persone che, tra urla e lacrime, si stavano riunendo sul binario 9 e 3/4.
Maghi e Streghe con abbigliamenti alquanto strani, nel vano tentativo di confondersi tra la folla di babbani che affollava King’s Cross, erano intenti a salutare i propri figli, mentre il rumore di risate e i versi confusi di gufi, gatti e forse anche qualche rospo, faceva da sottofondo a quei sentiti arrivederci.
Phoebe Lovegood emerse dalla colonna che collegava il mondo dei maghi con quello babbano e attese con pazienza il marito che si era fermato a parlare con dei colleghi del Ministero dall’altra parte del muro.
Aveva poco più di quarant’anni, ma nonostante ciò riusciva ancora a far voltare molti sguardi al suo passaggio: indossava un vestito bianco decorato con piccoli fiori azzurri sul bordo della gonna, che lasciava scoperte le gambe chiare, mentre dei piccoli sandali grigi le fasciavano i piedi piccoli, per i quali suo marito l’aveva sempre soprannominata “piede da Cenerentola”. Era un nato babbano, ma a lei questo non era mai importato: Adam Porter l’aveva conquistata parlando di natura, di creature magiche e leggende antiche. Lavorava all’ “Ufficio regolazione e controllo delle creature magiche”, e amava viaggiare per poi riportarle regali da paesi esotici e  notizie sconosciute di storie perse nel tempo.
Phoebe guardò distrattamente l’orologio azzurro allacciato al polso, e maledisse l’affascinante parlantina del marito: erano le già le dieci e quaranta.
Prese tra le mani i capelli biondi che le ricadevano in una treccia disordinata, tenuti insieme da piccole margherite magiche, e si voltò per poter individuare i capelli biondi e gli occhi azzurri uguali ai suoi. Lei era lì, stava ridendo e scherzando insieme ai suoi due migliori amici, coccolando distrattamente il gufo nero che sollevava felice le piume al contatto con la mano dell’amata proprietaria.
Phoebe sorrise, guardando l’amore della sua vita che si godeva l’inizio del suo ultimo anno scolastico ad Hogwarts, ma in un attimo la felicità si tramutò improvvisamente in tristezza.
Come l’avesse avvertito, lei si voltò e Phoebe cercò di mantenere il sorriso, mentre delle grosse lacrime rischiavano di colare giù dagli occhi come lava incandescente.
Era passato un anno.  Suo padre non avrebbe voluto vederla piangere e distruggersi ancora, anche se quello che la malattia aveva lasciato era stato tutto, fuorché suo padre.
Doveva smetterla.
Doveva vivere.
Per sua figlia, per Adam.
Per se stessa.
Si girò e cercò di asciugarsi gli occhi il più discretamente possibile, quando sentì un corpo scontrarsi col suo e il respiro mozzarsi, mentre indietreggiava sbattendo contro il carrello dietro di sé.
Alzò lo sguardo, confusa, e si ritrovò di fronte ad un uomo della sua età, che urlava infuriato nei confronti di una testa nera che correva spericolata verso un gruppo di persone più avanti.
«ARIAN NOTT! APPENA TI PRENDO GIURO CHE TI FACCIO DIVENTARE IL CULO ROSSO COME IL TRENO!»
Phoebe aprì la bocca, scioccata, mentre lo sguardò diventò d’un tratto tagliente e si sentì ringiovanire di venticinque anni come minimo.
«Wow, che finezza. Di certo me lo sarei aspettata da un ragazzino di diciassette anni, ma da un uomo adulto come lei, le assicuro che avrei pensato di meglio!»
L’altro si voltò a guardarla per la prima volta e per un secondo, quando i loro occhi si incontrarono, entrambi sentirono di aver perso qualcosa. Era una sensazione strana, tremendamente dolorosa, ma accompagnata da una strana dolcezza nel ritrovarsi, dopo tanto tempo.
L’uomo si riscosse, quasi senza fiato, e cercò di ritrovare il contegno che la sua levatura sociale esigeva.
Sfoderò uno dei suoi sorrisi beffardi, che nonostante il tempo continuavano a riscuotere continui apprezzamenti da parte del genere femminile, e lo allargò ancora di più quando Phoebe alzò un sopracciglio e mise su un cipiglio quasi disgustato da quei modi da seduttore.
«Sa, a volte la finezza non si dimostra nei modi, ma nella persona. E le persone incredibilmente affascinanti e carismatiche come me continuano a domarla senza problemi, poiché fa già parte della loro persona. Ma non ci siamo già visti? Anche se penso mi ricorderei di aver visto una tale…» sospese la frase qualche secondo, godendosi ancora la vista della donna, e allargò il sorriso malandrino «…bellezza. Io sono Amadeus Nott, e lei è…?»
Phoebe si sistemò un ciuffo di capelli ribelle dietro la treccia e sorrise fintamente, eguagliando l’aria superficiale dell’uomo di fronte a lei.
«Phoebe Lovegood. In effetti, credo di avere dei ricordi di lei al tempo di Hogwarts, signor Nott…»
«Signor Nott?» la interruppe Amadeus, avvicinandosi ancora un po’ e facendole girare la testa, come se una prepotente sensazione di déjà-vu le stesse rubando le forze mentali  «la prego, mi chiami Amadeus. O Nott, come fanno gli amici, se preferisce, Phoebe
Phoebe trattenne il fiato, sconvolta da come l’uso di tanta familiarità da parte sua le causasse sia sensazioni tremendamente negative, come la voglia di togliergli con la violenza quel sorriso beffardo dal viso, che l’orribile voglia inconscia di toglierlo in modi molto poco consoni.
Ma cosa le stava prendendo? No, doveva smetterla.
Si voltò una frazione di secondo, assicurandosi che la figlia non l’avesse vista, e notò con rammarico e, se lo immaginava lei?, felicità, che nemmeno il marito si era ancora fatto vivo.
«Sa, Nott, ora che mi ci fa pensare mi ricordo molto bene di lei.» civettò allora Phoebe, dimezzando ancora la loro distanza, lasciando solo pochi centimetri tra i loro visi ora vispi e vinti da un’alchimia che sembrava naturale come respirare.
Vicini, ma ancora troppo distanti.
«Ah sì?» domandò l’altro, curvando l’elegante espressione in un ghigno malizioso.
«Sì…» concordò Phoebe, sbattendo le ciglia degli occhi azzurri, preparandosi all’attacco.
«Amadeus Nott. La più tremenda, orribile e disgustosa persona mai capitata ad Hogwarts! Ecco chi è lei. Me lo ricordo benissimo, mentre seduceva una ragazza dopo l’altra, trattandoci tutte come fossimo solo oggetti per il suo piacere! Per non parlare delle sue compagnie…» sibilò Phoebe, ora minacciosa e con uno sguardo talmente assassino da far scappare perfino un lupo mannaro. Un lupo mannaro, ma non Nott.
Nott al contrario sentì il cuore accelerare pericolosamente, ed ebbe l’impulso di toglierle tutte quelle margherite profumate dai capelli e stringerla a sé, fino a far entrare il profumo dentro la loro pelle, dentro la loro anima.
Non comprese perché l’attrazione impellente sembrasse così giusta, così forte nonostante fosse la prima volta che vedeva quella donna nella sua vita.
Ma era così, era così maledizione e lei era sua come non aveva mai sentito di possedere nessuno nella sua vita!
«…compagnie che non avrà di certo abbandonato, eh? Mi disgusti, Amadeus Nott. Sei come loro, solo un bastardo pronto a rovinare la vita della gente, per seguire ideali malati. So cosa ti passa per la mente, e credimi, l’ultima cosa che vorrei è considerarti un conoscente, figuriamoci un amico!» esclamò Phoebe, le guance rosse per la rabbia e gli occhi ridotti a fessure, a pochi centimetri dai suoi enormi occhi scuri come la notte, che brillavano di una luce attraente, nonostante tutto.
Rimasero a fissarsi in silenzio, entrambi ansanti come se stessero facendo uso di tutto il proprio autocontrollo per non lanciarsi l’uno contro l’altra.
Tutti e due esausti, come se avessero iniziato a respirare solo in quel momento, dopo anni e anni di apnea.
Quando Nott parlò, lo fece con un sorriso sincero in volto e la voce limpida, così vera da confonderla e impedirle di rimanere infuriata con lui.
«Peccato, non possiamo essere amici. Ma, dopotutto, forse non sarebbe mai bastato, non credi, Phoe?»
Nott non seppe dove trovò il coraggio per usare quel diminutivo, e lei non seppe perché la fece sentire così viva che lui l’avesse usato.
Non sapevano come comportarsi, non sapevano cosa fare.
E solo il fischio del treno sembrò riscuoterli dalla bolla che si erano creati.
 
«Phoe…»
Phoebe e Nott si voltarono all’unisono e Adam Porter si avvicinò alla moglie, confuso quasi quanto loro.
Non li aveva sorpresi a fare niente di strano, stavano semplicemente parlando dopotutto, eppure si sentì come se avesse appena ricevuto il più grande tradimento della sua vita.
E lo sguardo colpevole di lei non fece che acuire la sensazione, mentre quell’uomo che conosceva solo dalle immagini della Gazzetta del Profeta continuava a guardare con impertinenza e, possibile?, desiderio, la donna che amava.
Phoebe fece un passo indietro, cercando di riacquistare un respiro normale, mentre il treno fischiava una seconda volta.
Si voltò verso il marito, ora solo piena di preoccupazione.
«E’ andata? L’hai salutata? Noi ci siamo salutate prima, ma eri con i Johnson e non volevo…»
«Sì, l’ho salutata. E’ salita sul treno e ha detto di tranquillizzarti, ci scriverà almeno una volta ogni tre giorni per assicurarci che vada tutto bene con la scuola. Vuole prendere i M.A.G.O. migliori di sempre, sai com’è fatta. E’ come te, dopotutto.» concluse Adam, sciogliendosi suo malgrado in un sorriso e baciando sulla guancia la moglie.
Troppo concentrato a guardare Phoebe, per notare il pugno di Nott che si era appena chiuso in un moto di rabbia, alla vista di quell’effusione.
«Sarà meglio andare, non ho messo troppi soldi nel parchimetro Phoe.» aggiunse poi Adam, squadrando ancora Nott, che di rimando gli sorrise superficialmente e continuò imperterrito a fissare Phoebe, con insistenza.
«Già, credo sia meglio. Dopotutto, Keira se la caverà benissimo.» sussurrò Phoebe, raccogliendo da terra la sua borsa e seguendo il marito, prima di sentirsi bloccata dalla mano di qualcuno.
Si girò, e vide Nott che la guardava stupito, gli occhi lucidi e le labbra tremanti.
«…Nott?» domandò Phoebe, facendo segno ad Adam di non intervenire.
Non sapeva perché, ma non erano affari suoi.
Lei era sua moglie, si sarebbe dovuta voltare e non girarsi mai indietro verso quello strano sconosciuto, ma non ci riuscì.
C’era qualcosa in quello sguardo, qualcosa di così familiare.
Così dannatamente familiare da farle venire da piangere.
«…Keira? Lei…l’hai chiamata Keira?» sussurrò piano Nott, mentre Phoebe si avvicinava a lui, lo sguardo magnetico perso l’uno negli occhi dell’altro.
«Sì. Si chiama Keira.» annuì Phoebe, sorridendo appena.
Nott si aprì in un sorriso talmente bello dal farle male, e iniziò a piangere silenziosamente.
«Mia…mia madre si chiamava così. Lei…lei se n’è andata tanto tempo fa e…» continuò poi l’uomo, cercando di asciugarsi le lacrime e continuando a sorriderle.
«Nott io…» iniziò Phoebe, sentendo ancora il calore della sua mano nella sua e, a malincuore, iniziando a lasciarla non appena vide lo sguardo ferito di Adam.
Fece qualche passo via da lui, ma si voltò un’ultima volta, scoprendolo a sorriderle ancora come un bambino.
E allora non seppe cosa successe, non seppe perché, seppe solo che era una cosa più grande di lei, di loro.
Tornò indietro correndo e gli strinse le mani nelle sue, con gli occhi lucidi.
«Sono sicura che le assomigli tantissimo e che… che lei sarebbe stata fiera di te.» sussurrò piano, prima di baciarlo sulla guancia e staccarsi subito da lui.
Se non l’avesse fatto subito, non ci sarebbe riuscita mai più, ne era certa.
«Addio, Nott.» mimò con le labbra Phoebe, allontanandosi sempre di più da lui.
 
«Addio, Phoe.» rispose Nott, con il cuore pieno di qualcosa di talmente folle da non poter essere pronunciato ad alta voce, mentre anche lui lasciava King’s Cross.
 
Col cuore pieno di amore per quella strana donna che se ne stava andando via con suo marito.
Per quella sconosciuta.
Già, solo una sconosciuta.
Solo quello, dopotutto.
 
 

***

 

[20 Gennaio 1970]

 
 
La Guerra Magica travolse con forza la comunità magica, costringendo mago e strega di ogni età a schierarsi tra le forze del bene, l’Ordine della Fenice fondato da Albus Silente, e le forze del male, i Mangiamorte, devoti seguaci di Lord Voldemort.
Evan Rosier quella scelta l’aveva fatta molto tempo addietro, quando girava per i corridoi di Hogwarts insieme al suo gruppo di fidati compagni, al cui vertice era ovviamente l’allora Tom Riddle.
Ma Tom Riddle era ormai scomparso da molti anni, lasciando il posto al mago più potente di tutti i tempi, secondo lui: Lord Voldemort era sorto con prepotenza, iniziando il suo cammino verso l’ascesa e l’istituzione di un regime magico completamente sottomesso alla sua volontà.
Ed Evan, insieme al suo miglior amico Amadeus Nott, alla fine dell’anno precedente aveva finalmente gettato la maschera e si era rivelato per quello che era: uno dei più grandi Mangiamorte in circolazione.
Aveva ucciso, dilaniato, torturato e brutalmente assassinato babbani e SangueSporco, in nome del Signore Oscuro a cui aveva asservito la sua vita.
La sua vita che anche in quel momento era in pericolo, mentre si muoveva con agilità in mezzo ai fiotti di luce provenienti da ogni direzione.
Il campo di battaglia era una radura sperduta nelle valli dell’Inghilterra, dove alcuni maghi dell’Ordine della Fenice avevano nascosto dei NatiBabbani dalle loro grinfie.
Fino a quel momento, almeno.
Evan si voltò e in pochi secondi un raggio di luce verde eruppe dalla sua bacchetta, colpendo al petto un altro mago dell’Ordine della Fenice.
Sorrise malevolo, godendo dell’adrenalina che pompava nelle vene e nel sangue un’eccitazione travolgente.
Un altro paio di morti, qualcuno lo ferì al piede ma il dolore non riuscì a scalfire l’emozione che ormai l’aveva posseduto.
Era nato per quello: uccidere.
Mosse silenziosamente la bacchetta e in un secondo una strega dell’Ordine si gettò a terra, urlando di dolore.
Evan le si avvicinò, incurante del pericolo che stava correndo nel caos della battaglia che ormai infuriava, per godersi lo spettacolo offerto dal suo Cruciatus.
La donna doveva avere poco più di trent’anni, lunghi capelli rossi e il viso coperto di efelidi.
Evan agitò la bacchetta e le urla salirono di volume, mentre con gli occhi azzurri iniettati di follia fissava il gracile corpo che, lentamente, si lasciava andare al dolore, sfinito.
Ma l’urlo che sentì dopo, quello fu il suo.
Confuso, si toccò la spalla e vide con orrore che era completamente fradicia di sangue. Tastò un secondo, prima di urlare di nuovo per il contatto, e scoprì che gran parte della carne era stata bruciata completamente.
Alzò lo sguardo vendicativo, in cerca del responsabile, e si scontrò con gli occhi azzurri di un uomo, a qualche metro di distanza.
I lunghi capelli biondi erano sporchi di sangue incrostato e polvere, i vestiti strappati in alcuni punti e il sangue cadeva silenzioso dalla mano destra con cui reggeva la bacchetta, puntata minacciosamente su di lui.
Evan ghignò malefico, accettando la sfida che quegli occhi gli offrivano, e iniziò a camminare verso di lui.
Non seppe perché ne fu così certo, ma non ebbe paura che l’altro potesse attaccarlo mentre gli andava incontro.
E’ troppo leale per fare cose del genere.
Non si chiese nemmeno da dove provenisse quella convinzione, ma si fermò solo quando fu a pochi metri di distanza dall’altro.
Ora che erano più vicini, Evan notò che lo sovrastava in altezza, e che il petto muscoloso bianco perlaceo si poteva intravedere  dai buchi nella maglietta, mentre si alzava e abbassava velocemente, cercando ossigeno.
«Hai appena fatto l’errore più grande della tua vita, lo sai questo? Anzi, mi correggo…» cominciò a dire beffardo Evan, alzando anche la sua bacchetta «…l’ultimo errore della tua vita.»
L’uomo di fronte a lui rise selvaggiamente, e per qualche astruso motivo al sentire la sua risata il cuore di Evan perse un battito.
L’uomo mosse la testa per spostare i capelli dagli occhi, ottenendo così una visuale perfetta di quelli di ghiaccio di Evan.
«Siete sempre così melodrammatici, voi schifosi Mangiamorte. Ti giuro, ognuno di voi, prima di morire, vuole farmi sapere che ho commesso l’errore di affrontarlo.» ghignò malevolo, muovendo piano la bacchetta e iniziando il duello tra i due, che però si scoprì presto essere come una danza.
Evan parava i colpi uno dietro l’altro, e il suo avversario non era di meno, riuscendo a schivare ogni maledizione che il Mangiamorte gli scagliava contro.
Dopo circa mezz’ora passata così, i due si fermarono contemporaneamente, riprendendo fiato e sorridendo, anche se effettivamente c’era poco da sorridere.
«Sei bravo Rosier, te lo devo concedere.» mormorò l’altro, asciugandosi il sudore sulla fronte.
Evan allargò il ghigno beffardo, sentendosi pervaso da uno strano calore all’altezza del petto mentre sentiva il complimento dell’avversario.
Idiota, che stai facendo? E’ solo carne da macello, come tutti questi maledetti dell’Ordine.
Eppure, non riusciva a credere alle sue stesse parole: lui non era come tutti gli altri.
Non lo era mai stato.
«Quindi…» iniziò Evan, cercando di ignorare gli strani pensieri che si susseguivano nella sua mente «…tu conosci il mio nome, ma io non conosco il tuo. Non tenete in modo patetico all’educazione, voi dell’Ordine? Non ti sembra un po’ ingiusto? Mi piace sapere chi sto per uccidere, ho anche io dei sentimenti, eh.» scherzò Evan, ottenendo come risposta un sorriso mellifluo.
«Seth Lovegood, qui per ucciderla.» esclamò l’altro, inchinandosi giocosamente e riservandogli un altro sguardo carico di passione animale.
Vuole solo ucciderti. Non cascarci. Vuole solo ucciderti.
E allora perché non si era mai sentito così vivo?
«Seth…» pronunciò piano, assaporando quel nome sulle sue labbra come un frutto a lungo proibito.
«Evan.» concluse Seth, sentendosi però tremare nel dire il suo nome.
«Allora? Ricominciamo?» esclamò l’ex-Corvonero, colto alla sprovvista dalle strane emozioni che si stavano accalcando dentro di sé.
In un secondo il duello riprese come prima, senza esclusione di colpi.
Entrambi però sembravano meno sicuri, quasi come se una parte di loro non volesse davvero ferire l’altro, e risultando quindi meno attenti alcuni colpi andarono in porto.
Evan si ritrovò presto con una gamba quasi del tutto scorticata, e il dolore lo accecava ma gli dava anche nuova forza per non arrendersi; mentre Seth aveva dovuto dire addio ad una parte della mano sinistra, colpita da una Maledizione Senza Perdono dell’avversario.
Erano sull’orlo della fine entrambi, e si ritrovano presto a fissarsi di nuovo, ansanti e stremati.
Evan approfittò di quella pausa per lanciare un urlo catartico, cercando di non svenire per il dolore alla gamba, mentre Seth si stava concentrando sul tenere gli occhi aperti e ben lontani da quello che restava della sua mano sinistra, scossa da tremori quasi incontrollabili.
«Hey, anche tu ci sai fare sai» rise follemente Evan, cercando di focalizzare la figura di Seth che ormai gli ondeggiava di fronte.
«Già, dillo alla mia mano.» rispose Seth, sorridendo.
Non dissero nulla, lasciarono cadere le bacchette all’unisono.
Era finita, il dolore era troppo per entrambi e lo sapevano.
Caddero l’uno di fronte all’altro, i visi a pochi centimetri e le mani che si sfioravano.
«Alla fine sei davvero riuscito ad uccidermi, Seth. Tanto di cappello, non avrei mai detto che una mezza calzetta dell’Ordine ce l’avrebbe fatta.» sussurrò Evan, tossendo sangue nel tentativo di parlare.
«Sempre così melodrammatici, voi Mangiamorte.» Seth sorrise, e senza sapere perché alzò con sforzo immane la mano destra, per poter accarezzare i capelli dell’altro, ora sporchi e incrostati di sangue come i suoi.
Fu un secondo, poco prima di annullare il tempo per sempre, e in un istante cambiò tutto.
Gli occhi azzurri dei due uomini brillarono di una luce bluastra, mentre l’incantesimo che molto tempo prima Silente aveva scagliato loro sotto le mentite spoglie di un succo di zucca perdeva il suo effetto.
Evan e Seth si guardarono, iniziando a piangere e stringendosi le mani più forte che potevano, mentre anche le ultime energie li abbandonavano per sempre.
«Evan io…» sussurrò Seth piangendo, prima di essere interrotto dall’altro.
«Anche io ti amo. Ti ho sempre amato.» sibilò Evan, accennado un sorriso sempre più difficile da mantenere.
«Vuoi sempre avere l’ultima parola, eh?» scherzò Seth, avvicinandosi il più possibile, fino ad appoggiare la guancia accanto a quella di Evan e accostare le labbra su quelle dell’altro.
«Ev…»
Ma Evan se n’era andato, Seth lo capì in un secondo, nel suo ultimo secondo, prima di seguire l’amore della sua vita.
 
E mai secondo fu più doloroso e felice allo stesso tempo.
 
 

***

 

[25 Giugno 1995]

 
 

«L'uomo magro uscì dal calderone, fissando Harry... e Harry a sua volta fissò il viso che da tre anni infestava i suoi incubi. Più bianco in un teschio, con grandi, lividi occhi rossi, il naso piatto come quello di un serpente, due fessure per narici...
Voldemort era risorto. » (2)

 
 
Lord Voldemort era risorto, più forte di prima, più forte di quanto sarebbe mai diventato.
Assaporò la sensazione inebriante di potersi muovere autonomamente, osservò le lunghe dita bianche e flessuose, il viso ormai quasi del tutto simile a quello di un rettile e gli occhi da diavolo.
Il verde scuro come le spire di un serpente aveva lasciato spazio al rosso assetato di sangue che ora sembrava bloccare ogni persona accanto a lui, peggio di un incantesimo.
Piegò la curva sottile della bocca, ormai senza labbra, in un ghigno malefico.
Era tornato, e sapeva cosa doveva fare.
Era tornato, e sapeva esattamente come fare in modo di non andarsene mai più.
 
 

***

 
 

[31 Agosto 1997]


 
«Hai compreso quanta fiducia io riponga in te, Severus, per affidarti questo ruolo?» sibilò piano Lord Voldemort, camminando per i corridoi di Hogwarts.
Sentiva il potere antico di ogni pietra su cui poggiava i piedi nudi, avvertiva il fascino della magia che molti anni addietro lo aveva sedotto e che ora invece emanava lui stesso.
I piani che erano nati lì, sotto le tende verde smeraldo del Dormitorio Serpeverde, ora si stavano realizzando, e Voldemort ghignò malevolo, immaginandosi sempre più vicino al suo obbiettivo: Harry Potter.
Albus Silente era morto due mesi prima, e all’inizio di agosto era finalmente riuscito ad impadronirsi formalmente del Ministero della Magia, incaricando un inetto O’Tusoe come burattino ai suoi ordini.
E adesso, con Severus al suo fianco, anche la grande fortezza, la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts era caduta sotto i suoi piedi.
«Ovviamente, mio Signore..» rispose piano l’uomo accanto a lui.
Lord Voldemort continuò a camminare senza accorgersene, tanto conosceva a memoria il luogo in cui aveva sognato di entrare da mesi e mesi.
«E sai quanto poco io gradisca le persone che tradiscono le mie aspettative, vero, Severus?» domandò ghignando.
La bacchetta di tasso soffiò delle scintille verdi da sotto il mantello del suo padrone, e il sorriso di Voldemort si curvò in un moto di fastidio.
Non aveva ancora compreso la connessione tra la sua bacchetta e quella di Harry Potter e, come dimostrato dall’ultimo scontro con il ragazzo il mese prima, il tentativo di sostituire la sua stecca si era rivelato vano.
Olivander non aveva saputo dirgli nulla di utile, ma ormai non importava. Pochi giorni dopo avrebbe fatto visita a Gregorovich, e sarebbe stato un altro passo avanti nel suo piano.
Quando arrivarono di fronte alla statua del gargoyle Lord Voldemort si fermò e, dopo un suo rapido cenno, Severus Piton, ora nuovo preside di Hogwarts, mormorò la parola d’ordine di modo che la statua si spostasse e rivelasse il passaggio segreto.
Lord Voldemort congedò Piton con un rapido movimento della mano e iniziò a salire i gradini, un sorriso di vittoria in volto, mentre accedeva all’unico posto che gli era fino a quel momento rimasto inaccessibile: lo studio di Silente.
 
Una volta arrivato in cima alle scale, impiegò solo qualche secondo di ricerca per individuare ciò che davvero stava bramando: il Pensatoio.
Il bacile di pietra era accostato alla parete di destra, e  a Voldemort bastò muovere pigramente la bacchetta affinché la boccetta di ricordi che gli interessava arrivasse alla sua mano.
Un’etichetta con la sottile calligrafia di Silente recitava: “Tom Riddle, quinto anno”.
Perfino leggere il nome da babbano del padre gli causava una rabbia incredibile, ma si trattenne mentre versava il contenuto vischioso nel Pensatoio.
Aveva bisogno di scoprire cosa effettivamente sapesse Silente dell’anno in cui aprì la Camera dei Segreti, aveva bisogno di dissipare la nebbia che chissà perché ricopriva i suoi ricordi di quel periodo, e di accertarsi cosa, di conseguenza, sapesse anche Harry Potter.
Ma ciò che vide, quello non se lo aspettò, nemmeno nei suoi piani più arditi.
Nemmeno nei suoi sogni proibiti.
 
Era lei, ovunque.
Erano loro, era lui.
Lui che stava con lei, che le parlava.
Lei che scappava, ma che ogni volta tornava da lui.
Lei con i suoi occhi verdi, lei con i suoi capelli mossi e profumati.
E lui che, come un’idiota, amava segretamente quel profumo.
Lord Voldemort lasciò spazio a Tom Riddle, un quindicenne ambizioso e con sentimenti tanto orribili quanto contrastanti nei confronti di lei, Meredith Smith.
Tom assisté alla scena della scoperta del cadavere di Meredith, e con orrore e rabbia cieca osservò nel Pensatoio lo svolgersi del piano di Silente: li aveva obliviati tutti, lui compreso.
Lo aveva ingannato per tutti quegli anni, maledizione e lui non si era mai accorto di niente!
Si scostò dal bacile di pietra e iniziò a distruggere qualsiasi cosa avesse attorno, per poi fermarsi, il respiro rotto dalla furia e il cervello che cercava di respirare anche per i polmoni, troppo impegnati a bruciare come fuoco.
Prese la bacchetta in mano e la guardò per qualche secondo, domandandosi se davvero volesse farlo, se davvero sarebbe stata una cosa saggia.
Avrebbe voluto dire avere una debolezza, oppure una forza?
«Io devo sapere.»
Mosse elegantemente la mano e iniziò a recitare incantesimi antichi, sentendo come uno strappo nella mente e la testa vorticare come in un uragano, mentre in un secondo i fasulli ricordi di una vita venivano rimpiazzati dalla verità.
Quando anche l’ultimo secondo di quegli anni rubati tornò al suo posto, Tom Riddle respirò a pieni polmoni, sentendo di aver imparato solo in quel momento a respirare.
La sottile linea della bocca si piegò in un sorriso disteso, il primo vero sorriso da…
…da quando si era scordato di lei.
Con calma innaturale mosse la bacchetta sul Pensatoio, pensando formule ad appannaggio di pochissimi maghi e, alla fine, sibilò minaccioso come un serpente.
 
«Dimmi dov’è lei.»
 

 
***

 
 
Varcò l’ingresso di quella casa babbana, a pochi passi dal Wool’s, e ghignò amaramente, pensando a come Silente avesse sempre amato essere poetico nelle sue scelte, quasi quanto lui.
L’aveva nascosta vicino a dove tutto era iniziato. L’aveva costretto a tornare Tom Riddle, nonostante tutto.
Salì le scale con calma, il cuore che batteva come un forsennato, non accennando a rallentare nemmeno di fronte alla volontà del suo padrone: sentiva le emozioni diventare sempre più difficili da controllare, come dopotutto era sempre stato.
Come era sempre stato con lei.
Raggiunse il primo piano e non ebbe esitazioni su dove dirigersi: lei lo stava chiamando, sentiva i loro poteri attrarsi come calamite.
Sentiva il profumo dei suoi capelli nella mente, ogni angolo era pieno di lei.
Aprì la pesante porta di legno e respirò a fondo.
Nella penombra della camera spoglia si poteva vedere solo una poltrona, al centro della stanza.
Era rossa, di velluto, e una piccola mano bianca ciondolava pigramente dal bracciolo, scossa da leggeri tremiti appena percettibili.
E lì, per la prima volta da che si ricordava, Tom Riddle ebbe paura.
Una paura folle di rivederla, di rivedere in quegli occhi ormai muti l’accusa di ciò che aveva fatto, o peggio la certezza di ciò che aveva sempre voluto e mai avrebbe conquistato: una vita con Meredith al suo fianco.
No, non poteva accettarlo: Lord Voldemort non aveva paura di nulla. E lui ormai era Lord Voldemort, continuò a ripetersi, mentre aggirava la poltrona e si avvicinava a quello che, nonostante le sue proteste e i suoi rifiuti, rimaneva la cosa più vicina all’amore che avesse mai provato.
Quando però le fu di fronte, rimase senza fiato.
La bella Meredith Smith che conosceva aveva ceduto il passo ad una donna anziana, dai lunghi e disordinati capelli argentati, il viso velato da rughe e tristezza, e cosa ancora più insopportabile per lui, ornato da occhi trasparenti.
L’iride ormai quasi irriconoscibile continuava a muoversi freneticamente, come se non riuscisse a mettere a fuoco, mentre le labbra mimavano parole ormai perse nel tempo.
Tom si rese conto che non aveva capito chi fosse, e non si vergognò di quell’unica lacrima che solcò il suo viso da serpente.
Un raggio di sole colpì qualcosa sul collo di Meredith, e Tom si avvicinò per vedere.
Era la collana a forma di volpe che in un tempo remoto gli aveva permesso di scoprire le origini della ragazza.
Riddle si inginocchiò, di modo di essere alla sua stessa altezza, e allungò tremante una mano in direzione della collana.
Accadde in un secondo, nel momento stesso in cui Tom toccò il metallo freddo: Meredith lo vide.
Gli afferrò le mani da rettile e le strinse, provocando in Tom un’ondata di calore che gli pervase il corpo.
«Meredith?» domandò Riddle, la voce così tremante dall’essere irriconoscibile a chiunque lo conoscesse.
Lei annuì piano, poi sempre più forte, fino a sorridere.
«Sei arrivato. Sapevi l’avresti fatto, quando l’avessi saputo. L’ho sempre saputo, Tom.» mormorò lei, la voce che vibrava, roca per la mancanza di uso eccessiva.
«Tu…tu mi vedi? Tu sei…come…?» sibilò lui, continuando a parlare piano, quasi avesse paura di farla sparire di nuovo.
Meredith negò col capo, continuando a mantenere il sorriso.
E Tom Riddle non seppe mentire a se stesso, constatando quanto gli fosse mancato il suo sorriso.
«No. Non vedo niente, sono completamente cieca. In questi anni però riuscivo a distinguere qualche parola di quello che mi diceva Silente, quando veniva a trovarmi. E’ stato come rimanere in un labirinto infinito, tra passato, presente e futuro. Vedevo scene della nostra infanzia, e poi Hogwarts. Poi tornava Silente, e in un secondo ero di nuovo bambina. Tom loro…tutti loro mi hanno dimenticata, vero?» domandò infine Meredith, le guance rigate da lacrime e la voce rotta ma comunque ferma.
Tom assentì, e le spiegò quello che aveva scoperto quel giorno.
Meredith cambiò espressione, diventando d’un tratto delusa e arrabbiata, ma non allontanò le mani da quelle di Tom.
E non vide quanto lo ferì la sua delusione.
«Quindi ce l’hai fatta, Tom. Sei diventato il mostro che tutti hanno sempre temuto diventassi. Il mostro che volevi diventare.» sputò lei, stringendogli le mani come a dimostragli tutto il suo dissenso.
Tom però non le lasciò andare, e anzi si sentì ancora più accalorato.
«Sono diventato quello che sono sempre stato destinato ad essere: vittorioso.» sussurrò lui, fiero.
Meredith negò vigorosamente col capo e aggiunse: «No. Sei diventato un assassino, un malvagio, sei diventato l’essere peggiore che sia mai esistito, Riddle.»
Tom piegò le labbra in un sorriso mellifluo e con finta dolcezza le rispose «Riddle? Wow, mi sembra di essere tornato ad Hogwarts: tu che mi insulti e io che ti provoco.»
Suo malgrado, Meredith accennò un sorriso, ma presto le sue mani iniziarono a tremare piano, e il viso si riempì di paura.
«Meredith?» la chiamò Tom, senza accorgersi di urlare.
Senza riuscire a domare la paura.
Non voleva perderla, non ora che l’aveva appena ritrovata.
«Sta finendo il mio tempo, Tom. Lo sento, sto per perdermi di nuovo. Promettimi una cosa Tom, ti prego, promettimela, me lo devi.» esclamò lei, stringendo sempre di più le mani di lui con quelle di lei che ormai tremavano incessantemente.
Riddle strinse le mani di Meredith nelle sue e le chiese cosa volesse.
«Uccidimi, Tom. Non farmi tornare lì, non ce la faccio più. Uccidimi, sei l’unico che può farlo, l’unico che sappia della mia esistenza. Uccidimi e poi prendi la mia collana…io voglio che…che un pezzo di me rimanga con te. Non servirà a farti cambiare, lo so, ma…» rise lei, piangendo sempre di più «…ma ci voglio provare. Lo sai che ci ho sempre sperato, nonostante tutto.»
Tom iniziò a respirare affannosamente, cercando la forza di acconsentire, di rifiutare, di fare qualsiasi cosa.
E all’improvviso si sentì riportato con la forza ai suoi quindici anni, quando Meredith era stata male  a causa del veleno di Erumpent e lui l’aveva vista morire sotto i suoi occhi, incapace di agire.
La stava perdendo di nuovo, sotto i suoi occhi.
Ma come spesso accade quando si ha bisogno di tempo, questo inizia a correre sempre più veloce, e Meredith se ne andò di fronte a lui: gli occhi ritornarono a muoversi freneticamente e le mani persero forza, lasciarono la presa.
Tom la chiamò una, due, cento volte, continuando a toccarle le mani e arrivò ad abbracciarla, ma fu tutto vano.
Si alzò con calma, e la guardò per l’ultima volta.
Aveva ragione lei: avrebbe dovuto ucciderla.
Se Harry Potter ne fosse venuto a conoscenza in qualche modo, Meredith sarebbe diventata la sua più grande debolezza.
Come lo era sempre stata.
Quindi si allontanò da lei e chiuse gli occhi, alzando la bacchetta.
Non volle vedere il lampo verde, non volle vedere il suo corpo cadere a terra, senza vita.
Non volle vedere quegli occhi trasparenti guardarlo per l’ultima volta, abbandonando questo mondo.
Non volle fare altro che richiamare a sé la collana, un attimo prima di porre fine alla cosa più bella che gli fosse successa.
E Tom Riddle se ne andò dalla casa, lasciandosi alle spalle l’unica traccia di umanità che mai lo caratterizzò.
 
Lasciandosi alle spalle l’unica che abbia mai temuto…e amato.

 

***


 

[2 Maggio 1998]


 
Era finita.
Tom Riddle era morto, ucciso dal suo stesso incantesimo, ed Harry Potter si sentiva sommerso da una tale quantità di felicità da non poterci credere.
Mentre da ogni angolo spuntavano facce conosciute e sconosciute, pronte ad abbracciarlo e strattonarlo, intonando un motivetto alquanto imbarazzante su come “Vold-è-mort”, Harry agognò solo un secondo di pace.
La prima vera pace dal giorno in cui Voldemort era risorto, dal giorno in cui i suoi genitori erano morti per proteggerlo, da…da sempre.
Si sedette accanto al corpo senza vita del suo nemico, in silenzio.
Guardò il volto di un uomo anziano, ormai privato delle sembianze da rettile, e dagli occhi verde scuro, ormai vuoti per sempre.
Poi, il suo sguardo venne catturato da un oggetto luccicante, accanto alla tasca del mantello di Tom Riddle.
Lo raccolse con cura, rigirandoselo tra le mani.
Era una collana di metallo, dal ciondolo a forma di volpe.
Dietro, inciso in una calligrafia corsiva, recava il nome di “Meredith”.
Harry ricercò nella sua memoria qualsiasi possibile connessione con Riddle, invano.
In nessuno dei ricordi che Silente gli aveva mostrato durante il suo sesto anno ad Hogwarts appariva una Meredith.
«Harry! Allora sei qui! Vieni a festeggiare, sei la star del party, non puoi mancare! La McGranitt ha fatto apparire cibo a volontà sulle tavole, delizioso.» esclamò Hermione, sedendosi accanto a lui con incertezza, una volta scoccato uno sguardo al cadavere di Riddle.
«Ron dov’è?» domandò Harry, guardando la migliore amica.
Il sorriso di Hermione si increspò, cercando di ricacciare le lacrime.
«Con sua mamma e George, sai…stanno…stanno per spostarlo.» mormorò, alludendo al cadavere di Fred.
Harry pensò che si sarebbe unito a quello di Remus, Ninfadora, Severus Piton e Colin Canon.
Cercò di odiare il corpo disteso accanto a lui, ma non ci riuscì: ormai tutto il male che aveva provato per Tom Riddle era morto con lui.
«Hey, guarda cos’ho trovato. E’ caduto dalla sua tasca.» disse Harry, porgendo ad Hermione il ciondolo.
Lei gli chiese se Meredith significasse qualcosa nella storia di Tom Riddle, ma Harry negò.
«Sembra…sembra una cosa da innamorati, no? Cioè so che è assurdo, ma non aveva parenti. Io terrei solo un ciondolo con scritto il nome di Ginny, di nessun’altra.» mormorò Harry, fissando insistentemente il corpo di Riddle, quasi potesse dirgli la verità.
Hermione osservò la collana in silenzio, ma poco dopo aggiunse, restituendola ad Harry:
«Avrebbe senso, ma Harry… è di Voldemort che stiamo parlando. Lui…lui non ha mai amato nessuno.»
Harry annuì, e si mise in tasca la collana, quasi volesse custodire quel segreto, l’unico segreto che era rimasto tra lui e Tom Riddle.
 
«Già. Hai ragione. Dopotutto… chi avrebbe mai potuto amare Tom Riddle?»





Note:

(1) Citazione di Harry Potter e la Pietra Filosofale
(2) Citazione di Harry Potter e il Calice di Fuoco



*Angolo dell'Autrice*


Eccoci qui, until the very end. E' finita figliouli, finalmente sono riuscita a concludere (anche se con mesi di ritardo, perdonatemi!) una long. E che long. Sono talmente fiera di tutti i miei personaggi, di questa fine, di com'è stata scritta, piangendo praticamente ogni due righe (SETH E EVAN GOD) e con tante, tante emozioni. Non so se sia rimasto qualcuno a leggere, ma se esiste quel qualcuno voglio ringraziarlo di cuore. Grazie per aver dedicato del tempo alla mia storia, per esservi ricordati di me dopo tutto questo tempo (sempre! - scusate, era più forte di me) e per essere stati con Meredith, Tom, Evan, Seth, Phoebe e Nott fino alla fine. 
Spero vorrete comunicarmi le opinioni finali, e spero di sentirvi presto, magari in un'altra storia, chissà!
Un bacione enorme, per l'ultima volta <3

SilverKiria

 

 
  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: SilverKiria