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Autore: Lilith in Capricorn    27/07/2016    1 recensioni
In un mondo in cui la magia è scomparsa da ben 1300 anni e gli dèi hanno smesso di parlare con i mortali ormai da tempo, l'Impero Katileo è all'apice del suo sviluppo tecnologico e la sua sete di conquista sembra incontrastabile. Ha ormai sotto il suo controllo gran parte del Grande Continente, ma una nuova alleanza di regni del nord sembra essere in grado di tenergli testa: la guerra con il Wesmark Settentrionale e Meridionale, infatti, va avanti già da diversi anni e sembra non vi sia modo di uscire dall'impasse ... Finché l'Imperatore Kut non ha un'idea brillante e ambiziosa e decide di mettere insieme una spedizione per realizzarla.
Intanto, antichi misteri, enigmatiche profezie e arcaiche forze da tempo sopite iniziano a riemergere dalle profondità dell'oblio, ma non tutti sembrano rendersene conto ...
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Capitolo 5: La scelta di Urem Tolban
 
Al volgere del nuovo giorno, Mereis si sentiva stanca e affamata come mai in vita sua. Proprio come il vecchio Dinke aveva predetto, svanito l'effetto delle misteriose foglie stava persino peggio di qualche ora prima e pregò il dio Fezàr di mantenere il suo corpo abbastanza saldo e in forze da non perdere i sensi, e la dea Depna di preservare la sua lucidità mentale ancora per qualche ora.

«Sono certo che andrà per il meglio, mia cara» la rincuorò Dinke, annodandosi il fazzoletto da collo che meglio si abbinava al suo vestito più elegante.

L'abito era ridicolmente elaborato e arzigogolato per i costumi semplici della regione in cui si trovava Kendart, ma quella era la moda ufficiale di Katils ed era così che, evidentemente, ci si doveva presentare davanti ad un raffinato signore della capitale.

«Spero che il Signor Tārmend non si arrabbi troppo con te, quando saprà che mi hai aiutata.»

«Se Urem Tolban sceglierà te, non credo che avrà da lamentarsi, dato che il gioielliere dovrà comprarti e, se ben ricordo, il tuo precedente padrone ti ha, per così dire, donata al suo caro fratello.»

«Potrebbe comunque licenziarti per essere stato mio complice.»

«Con queste parole lo fai sembrare quasi un crimine» ribatté l'altro, scherzoso.

«Ai loro occhi forse lo è.»

L'uomo esitò un momento. «Mereis, qualunque cosa accadrà oggi non pensare a me. Non preoccuparti per me: se anche dovessi perdere l'impiego, ho conservato abbastanza denaro per tirare avanti per quel poco che mi resta da vivere.»

«Non parlare così, per favore» lo rimproverò la schiava, quasi con disgusto. Odiava quei discorsi: la morte non l'aveva mai spaventata, anzi, ma da quando era arrivata a Kendart questa aveva assunto una connotazione molto più triste e oscura, del tutto priva di senso di pace o di gloria.

«Attenzione, prego! Signori intagliatori, prestate attenzione!» esordì improvvisamente il grasso e vecchio Tārmend con voce stentorea in cima ai gradini, all'ombra della sua bella veranda. «Fra poco il nostro gentile ospite, Urem Tolban, gioielliere di grande fama e raffinatezza, esaminerà le vostre pietre e più tardi sapremo chi di voi verrà scelto come suo nuovo assistente. Indipendentemente dall'intagliatore che godrà di tale onore e privilegio, auguro buona fortuna a tutti voi e che gli dèi vi sorridano. Prego, ora seguitemi» concluse, facendo loro strada all'interno della sua grande casa, decorata con tinte biancastre e dorate.

«Ricorda, Mereis» le bisbigliò Dinke, prima di unirsi alla piccola folla di uomini imbellettati che procedeva ordinatamente verso la sfarzosa dimora. «Non pensare a me. Qualunque cosa accada.»

*

Le visite dei gioiellieri costituivano uno dei pochi aspetti positivi della vita a Kendart. In presenza di ospiti, infatti, gli schiavi venivano caricati di lavoro un po' meno del solito e tutte le punizioni da impartire venivano alleggerite o rimandate. Mereis sospettava che fosse per non urtare la sensibilità della gente benestante che viveva in città, dove evidentemente gli schiavi venivano trattati con un po' più di riguardo. Non si spiegava, altrimenti, perché molti dei gioiellieri lanciassero loro fugaci occhiate in parte incuriosite e in parte mortificate.

Quel giorno, questo si rivelò particolarmente utile per Mereis, poiché già si sentiva sfinita e sul punto di crollare a terra, nonostante non fosse trascorsa neanche metà mattinata. Il suo incarico per quel giorno costituiva semplicemente nel pulire e oliare i macchinari usati dagli intagliatori e, nonostante fosse il meno faticoso dei compiti, ci stava mettendo una vita. Si sentiva le braccia incredibilmente pesanti e la stretta delle dita era tanto debole che lo straccio per oliare le era caduto di mano più volte.

A un certo punto un guardiano che aveva notato la fiacchezza dei suoi movimenti tirò fuori il bastone flessibile per picchiettarle una spalla, ma quando glielo puntò contro, spingendo appena un po', Mereis perse subito l'equilibrio e rovinò a terra. In quel momento tutta la stanchezza, la fame e l'indolenzimento che la tormentavano si tradussero in una rabbia accecante.

Serrando i pugni, prese un lento e profondo respiro per calmarsi, ma picchiettandola di nuovo il guardiano le intimò: «Alzati subito, schiava.»

«Smettetela!» sibilò lei senza riuscire a trattenersi, attirando su di sé gli sguardi degli altri schiavi.

«Come hai detto?» chiese l'altro, più incredulo che indignato.

Mereis alzò la testa e lo guardò dritto negli occhi. «Io credo che abbiate sentito.»

Il guardiano la fissò sbigottito ancora un istante, poi aggrottò la fronte e ripeté: «Alzati.» Di nuovo, la picchiettò con la punta del bastone.

«Fatelo ancora e giuro che ve ne pentirete!» Sapeva di stare rischiando grosso, ma tutto il risentimento accumulato ormai stava traboccando e, con la consapevolezza che forse sarebbe presto andata via di lì, non aveva più né la forza, né la volontà di arginarlo.

«Non lo ripeterò una quarta volta: alzati immediatamente!» disse nuovamente il guardiano, stavolta sferzandola con forza.

Mereis balzò su spinta dalla cieca rabbia e, digrignando i denti, ringhiò: «Possa Zèchtos fulminarvi a morte! E quel maledetto bastone potete anche infilarvelo nel ...»

L'ultima parola fu inghiottita dal fragore dei cardini del portone e a quel suono il guardiano sobbalzò terrorizzato. Chissà, magari avrà pensato che Zèchtos avesse esaudito l'invocazione della schiava, scagliando su di lui una saetta. Un altro guardiano varcò la soglia appena aperta e, lanciando un'occhiata attorno a sé, chiamò: «Mereis?»

«Sono io» rispose prontamente la giovane donna, sforzandosi di cancellare la rabbia e la sfrontatezza dal proprio volto.

«Seguimi.» Tirandola per un braccio, l'uomo la scortò verso l'uscita e lo sguardo sardonico del guardiano a cui si era ribellata davanti a tutti la seguì finché non fu uscita dall'officina. Senza rallentare un solo istante, l'uomo la trascinò ai confini del campo, verso la lussuosa dimora della famiglia Tārmend, spingendola all'interno.

Lo spettacolo che le si parò davanti appena varcata la soglia la lasciò stordita per qualche istante: non ricordava di aver mai visto una dimora più sfacciatamente ricca, dal mobilio dalle linee arrotondate ed eleganti, al pavimento meravigliosamente liscio e lucido; dalle tende in preziosa seta, alle colonne a spirale e ai corrimano metallici, impreziositi di luccicanti gemme variopinte. Per non parlare delle pareti immacolate, dei dipinti, dei lucernari, della scala a chiocciola ...

Mereis aveva fantasticato diverse volte sul misterioso interno della dimora del ricco proprietario di Kendart, ma nemmeno nelle sue più sbrigliate fantasie aveva mai immaginato una ricchezza tanto elegantemente ostentata. Ne era rimasta letteralmente travolta e solo quando il guardiano arrestò finalmente la loro corsa si riprese.

Nella stanza in cui era stata condotta erano presenti tutti i migliori intagliatori, schierati uno dopo l'altro davanti ad un lungo tavolo di lucido legno scuro, ognuno con il frutto del proprio lavoro orgogliosamente messo in mostra davanti a sé, su di un piccolo quadrato di seta. Ognuno di loro aveva gli occhi puntati su lei: quasi tutti la squadravano increduli, alcuni con invidia, qualcun'altro persino con astio. Dinke, il più vecchio del gruppo, le rivolse un sorriso incoraggiante.

«Per tutti gli dèi, signore, avreste potuto almeno farle indossare delle scarpe pulite!» esclamò il grasso Signor Tārmend, mettendosi un fazzoletto ricamato davanti al naso e alla bocca con un gesto plateale. Mereis trattenne a stento una risata: per una volta, non le dispiaceva tanto di essere così sudicia e puzzolente. Il guardiano, invece, era a dir poco mortificato.

«Dunque» disse un uomo imponente dalle mani ridicolmente piccole, avvolto in un abito semplice, ma decorato con un sottile filo d'oro. «È questa la brillante intagliatrice di cui mi parlavate?»

«In persona, signore» rispose fiero il vecchio Dinke.

Urem Tolban la squadrò da capo a piedi, senza tradire alcuna particolare emozione. Poi prese la pietra nella quale Mereis aveva riposto tutte le sue speranze e gliela porse dicendo: «Ditemi, avete davvero realizzato voi questo taglio?»

La donna esitò un istante: già era strano che l'avesse definita "brillante intagliatrice", invece di "schiava", e ora le dava addirittura del "voi"?

«Ebbene?»

«Sì. Sì, è opera mia.»

«Oh, ma per favore ...» bisbigliò indignato uno degli intagliatori, ma Urem Tolban lo ignorò.

«Dove avete imparato?»

«Nella terra da cui provengo conosciamo da secoli l'arte dell'intaglio. L'ho appresa dai miei genitori, come essi la appresero dai loro prima di me e così via, fino a risalire ad un tempo tanto lontano che nessuno ne ha più memoria» spiegò Mereis, orgogliosa.

«Ma sì, è ovvio» ribatté il gioielliere, rivolgendole un ampio sorriso. «Rinno!»

«Come lo avete capito?»

«Dai vostri lineamenti, dai vostri occhi, dai vostri capelli: la vostra isola è rimasta così a lungo isolata che la sua gente possiede dei tratti unici in tutto il mondo.»

Giusto, avrebbe dovuto intuirlo, dopotutto: nell'Impero Katileo c'era tanta gente con i capelli neri, gli occhi verdi e la pelle scura, ma nessuno poteva vantare un nero così lucido, o quella particolare sfumatura di verde scuro nelle iridi. Per non parlare dei tratti somatici. «Mi complimento con voi, siete un ottimo osservatore.»

Urem Tolban annuì quasi solennemente. «Una dote indispensabile, se si vuole essere un buon gioielliere. Come avrei potuto notare, altrimenti, la minuscola imperfezione in questo diamante, che voi siete riuscita a camuffare con tanta maestria?»

«Non poi così tanta, se siete riuscito a vedere la macchia.»

«Non siate così severa con voi stessa: ad un osservatore meno esperto sarebbe certamente sfuggita. Parola mia, mai visto un taglio migliore eseguito su un diamante» si complimentò il gioielliere, osservando estasiato la pietra con una lente a tubo, simile a quella degli occhiali creati da Dinke.

«Sono ... Sono onorata che un gioielliere esperto e talentuoso come voi apprezzi tanto il mio taglio.»

«Dovete esserlo» ribatté l'uomo, tornando a guardarla. «Il vostro lavoro è impeccabile. Peccato, però, che siate soltanto una schiava. E per di più una vile ladra di diamanti, a quanto pare» aggiunse severo e il sorriso svanì dal volto di Mereis.

«Co ... Cosa?» mormorò sconcertata, sentendo un tuffo al cuore.

Il gioielliere scoppiò a ridere, accarezzandole un lato del volto, senza curarsi della sporcizia che lo ricopriva. «Dovreste vedere la vostra faccia!» Mereis lo fissò ammutolita e tutt'altro che divertita. «Che importa cosa siete? Questo taglio è uno dei migliori che abbia mai visto e per di più eseguito su un diamante! È questa l'unica cosa che conta.»

«Con questo volete dire che ...»

«Esatto: la mia scelta ricade su di voi, sempre che il caro Signor Tārmend sia disposto a vendervi» disse il gioielliere, incrociando lo sguardo col diretto interessato.

Il grassoccio padrone di Kendart si strinse nelle spalle. «Se proprio ci tenete ad assumervi il rischio di avere una ladra come assistente, amico mio.»

«Con tutto il rispetto, non credo che questa donna sia una vera ladra: dopotutto, non ha preso il diamante per sé, o per venderlo. Io la definirei piuttosto intraprendente

*
 
L'ora successiva fu una delle più imbarazzanti e umilianti che Mereis potesse ricordare. Poiché era fuori discussione che lasciasse Kendart tutta sudicia e conciata come una stracciona, il Signor Tolban ordinò ad altre tre schiave di lavarla, districarle i capelli e vestirla con abiti decenti. Mereis non era mai stata particolarmente pudica, ma l'esperienza di essere denudata e strofinata da cima a fondo da tre donne che a malapena conosceva fu tutt'altro che piacevole.

Quando le tre donne ebbero finito con lei, finalmente Mereis venne lasciata in pace e, come prima cosa, si fiondò verso un grazioso specchio con l'intelaiatura argentata che sembrava abbastanza lungo perché potesse riflettere la sua immagine dalla testa ai piedi. Ad un passo dalla meta, però, si sentì come bloccata e non riuscì più ad avanzare.

Erano passati anni dall'ultima volta che aveva potuto specchiarsi ed era certa che avrebbe trovato un riflesso molto diverso da quello che ricordava. Era consapevole, ad esempio, di essere molto più emaciata. Anche i capelli dovevano essere più spenti e sottili. Per non parlare della pelle ricoperta di lividi, croste e cicatrici, soprattutto lungo la schiena. La cosa che più la spaventava, però, era l'eventualità di scoprire nei propri occhi lo stesso sguardo vuoto che avevano alcuni schiavi.

Facendosi forza, si posizionò davanti allo specchio e, quando riuscì finalmente a guardarsi in volto, vide che i tratti del viso si erano un po' induriti. I capelli erano sfibrati e informi e lo sguardo, benché non fosse spento o morto, era privo di allegria e carico di stanchezza e rimase tale anche quando le sue labbra si stesero in un sorriso. Per fortuna era ancora percepibile una scintilla di vitalità nei suoi occhi verdi e nel suo corpo emaciato.

Ciò che la colpì maggiormente, però, furono le rughe di espressione tra le sopracciglia. Non che fossero poi tanto evidenti, anzi, ma considerando che solo qualche anno prima neanche esistevano non poté fare a meno di riflettere: la sua vita era stata per lo più felice e aveva avuto moltissime occasioni di sorridere, in passato, eppure i primi segni che erano apparsi sul suo volto si trovavano nella zona che esprimeva sofferenza, rabbia e paura.

*
 
Qualche ora dopo Mereis fu portata in un confortevole studio, in compagnia di Urem Tolban. La stanza odorava di legno nuovo, cera per candele e fogli di carta; le pareti erano interamente ricoperte di libri, custoditi in scaffali dall'intelaiatura elaborata. Leggendo le scritte sul dorso, vide che si trattava per lo più di libri di conto e altri documenti che riguardavano Kendart, ma tra di essi era presente anche qualche trattato sulle pietre preziose e sulle piante tipiche dei Monti Scintillanti. C'erano persino un paio di raccolte di poesie, ma Mereis dubitava che un uomo laborioso e pragmatico come il Signor Tārmend le avesse mai sfogliate.

«Sapete leggere?» domandò sorpreso Urem Tolban, osservando il suo sguardo vagare fra i tomi.

«No» mentì Mereis, ben sapendo che molti non vedevano di buon occhio uno schiavo istruito.

«Bene. Meglio così, in fondo.»

Il suo vecchio padrone fece ritorno con una boccetta di inchiostro e vi intinse il curioso pennino meccanico, tutto rotelle e ingranaggi, che la giovane schiava non aveva mai visto prima. A quanto pareva, era in grado di risucchiare una quantità sufficiente di inchiostro da durare per una pagina intera e lasciava molte meno macchie delle tradizionali penne d'uccello.

«Dunque» esordì l'uomo, «dove eravamo rimasti? Ah, sì ... Come vi dicevo, Mereis mi è stata donata da mio fratello Genan. Forse avrete sentito parlare di lui, è un alto graduato dell'esercito Katileo.»

«Non ho molta familiarità con i gendarmi, o con i guerrieri in generale.»

«Naturalmente, è comprensibile. Come stavo dicendo, questa schiava mi è stata donata e non ho nessun contratto di vendita che la riguardi, neanche la copia di quello con il quale mio fratello la acquistò, perciò posso dichiarare e documentare con certezza che Mereis ha scontato solamente quattro dei dieci anni di schiavitù previsti dalle nostre leggi e ...»

«Ma non è giusto» protestò indignata la donna. «Dovete aggiungerci almeno due anni! Chiedetelo a vostro fratello, se voi non avete ...»

«Mereis, siediti» ordinò l'uomo. Neanche si era accorta di essere saltata in piedi, tanto era indignata.

«Signore, per favore, vi giuro che ho già scontato almeno sei anni.»

«Sono spiacente, ma non ho alcun documento che possa dimostrarlo.»

«Signore, ascoltatemi, voi dovete ...»

«Io non devo fare proprio nulla, ma ti ordino di sederti e di stare zitta, schiava!»

Mereis era sul punto di esplodere, quando la voce ferma e severa di Urem Tolban rimbombò nella stanza. «Mereis, siediti, per favore.»

La giovane si voltò a guardare la sua espressione indurita e un po' sconcertata. Che sciocca: che senso aveva rischiare di mandare tutto all'aria per un paio di anni? Cos'erano due anni in confronto alla morte nell'oscurità della miniera?

«Chiedo scusa» sussurrò imbarazzata, abbassando lo sguardo.

Dopo che si fu seduta, il Signor Tārmend riprese: «Bene. Queste sono le due copie del contratto, mio caro amico, la mia e la vostra. Ho compilato il testo con tutti i dettagli concordati, compreso il prezzo. Se volete, potete rileggerlo ancora una volta, prima di firmare.»

Urem Tolban fece scorrere rapidamente lo sguardo tra le righe vergate con una grafia perfettamente leggibile, ma tutt'altro che elegante. Poi si fece passare il curioso pennino meccanico e aggiunse la propria firma in fondo a entrambe le pagine.

«Voi, Mereis, dovete firmare qui» disse poi, indicandole il punto sul foglio. Bizzarro, pensò la giovane tra sé e sé: da quand'in qua anche gli schiavi firmavano i contratti? L'Impero dei Katili si rivelava un luogo ogni giorno più strano.

«Se non siete in grado di scrivere, potete anche ...» iniziò Urem Tolban, ma subito dovette interrompersi, quando la vide vergare il suo nome senza esitazione e in bella grafia. Entrambi gli uomini la guardarono sorpresi e Mereis, facendo spallucce, si giustificò: «So solo come si scrive il mio nome.»

*
 
Con grande sollievo di Mereis, il gioielliere decise che sarebbero ripartiti da Kendart quel pomeriggio stesso. Ancora non le sembrava vero di essere finalmente riuscita a lasciarsi quell'inferno alle spalle. Si sentiva leggera, quasi traslucida, come se avesse smesso di esistere nel proprio corpo e si fosse accomodata di nascosto in quello di qualcun'altro.

Si era appena rimessa gli stivali e stava seguendo Urem Tolban fuori dalla meravigliosa casa del suo ormai ex padrone, quando le venne in mente qualcosa che la fece pietrificare sul posto. Come aveva potuto dimenticare una cosa tanto importante? «Signore? Signore?»

«Cosa c'è, Mereis?» domandò l'uomo, paziente.

«C'è una cosa che devo fare, prima di andare. Ci vorrà solo un minuto, vi prego.»

«Cosa dovete fare?»

«Devo ... Devo salutare un amico» rispose, mentendo solo in parte.

«Il vecchio intagliatore, suppongo?»

«Sì. Sì, proprio lui.»

«Permesso accordato. Ma fai alla svelta, non voglio passare un solo istante di più in questo postaccio.»

E io meno di voi, pensò Mereis tra sé e sé, ma disse solo: «Vi ringrazio. Vi raggiungerò al più presto.»

Voltandosi di scatto, iniziò a correre a perdifiato verso il capannone nel quale aveva dormito negli ultimi quattro anni, pregando gli dèi che nessuno avesse già disfatto la sua vecchia cuccetta pidocchiosa. Era vero che voleva salutare Dinke, ma doveva anche recuperare una cosa molto importante che aveva nascosto nel rudimentale materasso di paglia.

«Mereis!» si sentì chiamare dalla voce affannata del vecchio intagliatore, a pochi passi dal capannone. «Mereis, finalmente! Ti ho cercata ovunque!»

«Perdonami. Mi hanno tenuta tutto il giorno a casa Tārmend. Stavo giusto venendo a cercarti, non volevo partire senza averti prima salutato e ringraziato.»

«Non dimentichi anche un'altra cosa?» disse il vecchio, raggiungendola e stringendola in un abbraccio. Poi si guardò furtivamente attorno e si sfilò dal collo proprio l'oggetto che la donna era tornata a recuperare: un piccolo rettangolo di cristallo trasparente, appeso ad una semplice catenina d'argento. La pietra era incastonata in una sottile cornice argentata, ricoperta di antichi segni incisi nella perduta lingua degli dèi.

«Dove lo hai preso?»

«Lo ha trovato uno schiavo che stava disfacendo la tua cuccetta. Fortuna che sono arrivato appena in tempo, o lo avrebbe sicuramente sgraffignato.»

«Cosa farei senza di te?»

«Saresti perduta, mia cara. Ma dimmi, cos'è questa? Non mi sembra una delle tue creazioni.»

La donna ponderò la risposta per qualche istante. «No, infatti. Diciamo che serve per capire dove andare.»

Il vecchio annuì sovrappensiero. Poi le mise in mano il cristallo e disse: «Beh, spero che d'ora in avanti possa guidarti nella direzione giusta, mia cara.»

Mereis lo guardò in silenzio per qualche istante. «Mi mancherai, Dinke.»

L'altro, stringendola a sé, rispose: «Lo so. Ma se gli dèi lo vorranno ci rivedremo ancora, un giorno.»

«Quel giorno saprò ripagarti di tutto quello che hai fatto per me.»

«Mereis, ti prego, te l'ho detto tante volte ...»

«Non mi importa: io sento di avere un grosso debito verso di te e giuro che riuscirò a saldarlo, un giorno.»
   
 
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