Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Himenoshirotsuki    28/07/2016    3 recensioni
[Fantasy Steampunk]
La Dogma e la Chiesa, le colonne portanti di questo mondo. L'una che agisce con il favore dell'ombra, chiamando a raccolta i suoi cacciatori, gli Slayers, per combattere i mostri; l'altra che muove le sue armate di luce contro le vessazioni e i miscredenti in nome di un dio forte e misericordioso.
Luce e ombra, ying e yang che si alleano e si scontrano continuamente da più di cinquant'anni.
Ma è davvero tutto così semplice? La realtà non ha mai avuto dei confini netti e questo Alan lo sa. In un mondo dove nulla è come sembra e dove il male cammina tranquillo per le strade, il cacciatore alla ricerca della sua amata si ritroverà coinvolto in un qualcosa di molto più grande, un orrore che se non verrà fermato trascinerà l'umanità intera nel caos degli anni precedenti l'industrializzazione. Perchè, se è vero che la Dogma e la Chiesa difendono gli umani dai mostri, non è detto che non sarebbero disposte a crearne per difendere i loro segreti.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Slayers '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Slayers
Act.3 - Flight

Il mezzelfo Calathes era alto, superava di parecchio il metro e ottanta d’altezza. I capelli, tanto chiari da sembrare bianchi, erano legati in una lunga coda di cavallo, che ondeggiava sulla schiena a ogni spiffero di vento. Gli occhi grigio-verdi, grandi e a mandorla, e le orecchie leggermente appuntite denotavano la sua natura di mezzosangue. Stava appoggiato alla parete della torre dell’orologio a braccia conserte, sistemandosi spesso le due falde della redingote. Lui stesso aveva scelto il luogo dell’appuntamento e, su richiesta del cliente, un alto funzionario dell’amministrazione, aveva optato per uno molto affollato, lontano dagli occhi e dalle orecchie indiscrete che pullulavano nelle stradine e nei locali di Chasterm, in cui avrebbero potuto passare inosservati. Peccato che era circa mezz’ora che attendeva e non era ancora arrivato nessuno.
Sospirò e tirò nuovamente fuori l’orologio da taschino, trattenendo un moto di stizza quando vide che le lancette segnavano le dodici e un quarto.
“Un’ora e dieci di ritardo.”
- Capo, mi sa che qui non arriva nessuno. -
- Non ho chiesto la tua opinione, Pulce. -
La mezzelfa al suo fianco sbuffò, prese il pacchetto di sigarette dai calzoni e con uno schiocco di dita ne accese una. Era poco più bassa di lui e aveva la pelle olivastra e gli occhi grandi e scuri, tipici delle popolazioni costiere.
- Certo che, con tutte le precauzioni che abbiamo preso, poteva degnarsi di mandare qualcuno, no? - insisté col suo solito tono insolente.
Calathes alzò gli occhi al cielo: - Sarebbe comunque venuto qualcun altro. Sono uomini di un certo calibro quelli che riforniamo. -
Pulce fece spallucce, sottolineando il suo disinteresse per l’argomento.
- Arriverà qualcuno. - aggiunse dopo un istante, - Ormai ha finito la scorta del mese. -
Con noncuranza si accarezzò il petto all’altezza del cuore, dove teneva la busta con circa cinquanta milligrammi di Akosmia. Socchiuse le palpebre e si godette il tiepido calore del sole. Sì, era sicuro che qualcuno sarebbe arrivato, erano stati il viso sudato e le mani tremanti del funzionario a dargli quella certezza. E se non si fosse presentato, avrebbero fatto un prezzo di favore alle puttane di Levenshulme. Sicuramente, rifletté, anche madame Bouvarìe avrebbe dovuto rifornirsi in quei giorni.
In quel momento, lo scalpiccio di un cavallo attirò la sua attenzione. Calathes si esibì in un sorrisetto soddisfatto, ma l’uomo con i capelli scompigliati bianchi e rossi e il lungo soprabito sdrucito che lo raggiunse non era il funzionario. Prima che Pulce potesse tirar fuori la pistola e lui potesse dire qualcosa, lo sconosciuto saltò giù di sella e, senza tante cerimonie, gli mise in mano le redini, assieme a un sacchetto di monete piuttosto pesante.
- Tra, diciamo, tre giorni metti il cavallo sul primo treno diretto a Readings e di’ al capotreno di lasciarlo nella casa bianca di fianco alla stazione. -
I due mezzelfi si scambiarono un rapido sguardo d’intesa, ma prima che Calathes potesse sfoggiare il suo famoso ghigno minaccioso, le pupille dello sconosciuto divennero due fessure verticali e le labbra un’unica, pallida linea sottile. Non c’era alcuna emozione in quello sguardo da predatore.
- Hai capito quello che devi fare? -
La voce era fredda, non permetteva repliche. Calathes annuì e così anche Pulce, i visi terrei, il cuore in gola.
- Bene. Lì dentro c’è il denaro per il viaggio e una piccola ricompensa per il vostro gentile servizio. - gli si accostò all’orecchio e si scoprì il collo, mettendo in mostra i segni di un morso recente, - Sappi che sono un amico molto stretto di Qayin, il capo della gilda dei tecnomanti, giusto perché non ti venga in mente di tentare di fregarmi. -
Il mezzelfo sussultò quando udì quel nome.
- Chi… chi mi dice che non stai mentendo? - balbettò.
- Puoi credermi oppure andare direttamente da Qayin a chiedergli la natura del nostro rapporto. Penso sarà felice di parlarvene, anche se non apprezza che si metta in dubbio il suo operato. Sapete, è un uomo che tiene molto alla propria immagine. Quindi volete che andiamo subito da lui per chiarire, col rischio che vi stacchi la testa dal collo, o preferite scattare? -
Pulce deglutì a vuoto e Calathes e si ritrovò a scuotere il capo con veemenza.
Lo sconosciuto lo fissò intensamente, per poi rivolgere la sua attenzione a Pulce, che ancora teneva la mano sul calcio della pistola. Non disse nulla, non servì. La mezzelfa lasciò ricadere il braccio lungo il fianco.
- Fantastico, vedo che ci siamo accordati. Spero non ci siano intoppi di alcun genere. - un sorriso sgradevole gli arcuò le labbra e a Calathes si gelò il sangue nelle vene.
Quando sparì tra la folla, i due mezzelfi tornarono a respirare. Il cavallo nitrì e tirò le redini, infastidito da tutto quel via vai di persone attorno a loro.
- Chi era quello? - domandò Pulce.
- Non lo so. Di sicuro qualcuno che spero di non rivedere mai più. -
Quando si girò, si imbatté nella faccia confusa dell’attendente del funzionario, che si stava avvicinando. Calathes inspirò profondamente, assumendo l’espressione più calma e impassibile del suo repertorio, e sperò di concludere l'affare in fretta.
 
Alan rientrò nella stazione quasi correndo, facendosi largo in mezzo alla folla a spintoni e a gomitate, lo sguardo rivolto in alto, sui tabelloni delle partenze nazionali. L’aeronave diretta a Midwinter sarebbe decollata dal Gate 4 tra un’ora e lui non aveva abbastanza soldi per salirci. Imprecò tra i denti, maledicendo la tirchieria della Dogma e la propria tendenza a sperperare denaro in dolci e birra. Avanzò lungo il corridoio col pavimento a mosaico, l’orecchio teso per captare frammenti di conversazione utili.
- Accidenti, siamo in ritardo! Sbrigati, stanno per chiudere il Gate. -
- Oh, tesoro, è uscita la nuova collezione di Madema Alère. Guarda che bello quel collier! -
- Ah, anche tu sei qui per l’inaugurazione del nuovo progetto Hildagarde 3? -
- Mi sembra ovvio, non posso di certo farmi scappare una cosa del genere! Un paio di foto ben piazzate e il capo sarà costretto a darmi la promozione. -
“Non posso essere l’unico stronzo che vuole andare lì, andiamo!”
Fingendo indifferenza, si appoggiò alla parete vicino a una libreria, facendo saettare lo sguardo a destra e a sinistra come se stesse aspettando qualcuno. Di tanto in tanto percepiva gli occhi dei gendarmi su di sé, ma li ignorò.
La stazione di Chasterm era una delle più celebri di New England. Era stata rimodernata per ospitare, oltre i treni, anche le grandi aeronavi e, dopo circa vent’anni di progetti e lavori, la città poteva vantare uno dei più grandi centri nevralgici dei trasporti, con partenze e arrivi provenienti da ogni dove. Dalle due rampe di scale ai lati della biglietteria fluiva una folla continua, un torrente umano che si muoveva in ambedue le direzioni, parlando, dissertando e berciando in una cacofonia linguistica talmente varia, che persino per lui era difficile afferrare qualche parola di senso compiuto.
Con la coda dell’occhio teneva sotto controllo le lancette dell’orologio centrale, quello che era settato sul fuso orario di Dranlon, mascherando il nervosismo crescente dietro una maschera d’impassibilità che si incrinava ogni minuto di più. Provava una voglia incontenibile di andare al secondo piano, sbattere controllori e guardie a terra e salire sull’aeronave con o senza biglietto, ma la ragione e il buonsenso lo trattenevano, ricordandogli che il piano che aveva ideato poteva dare risultati di gran lunga migliori e, soprattutto, utili alla sua causa se avesse evitato azioni impulsive.
- Papà, dobbiamo davvero andare a trovare il nonno? Midwinter è lontanissima! -
- Ti ho già detto di sì. -
- Ma io non voglio! -
Il bambino che si era lamentato strattonò la mano dell’uomo al suo fianco, che in risposta gli assestò uno scappellotto che lo fece barcollare. Non era forte, ma bastò per fargli venire le lacrime agli occhi e abbassare lo sguardo mortificato.
- Quanto sei manesco, Richard. Guarda, l’hai fatto quasi piangere! - lo rimproverò la donna che era con loro, probabilmente la madre, che si affrettò a prendere in braccio l'infante e a cullarlo.
- Tu sei troppo buona con tuo figlio. -
- Si dà il caso che questo sia anche figlio tuo, Richard. -
- Se piange per così poco, si vede che non è sangue del mio sangue, Maddie cara. -
La donna avvampò oltraggiata e il suo viso, dapprima indispettito, si deformò in una smorfia che a stento celava la rabbia. Alan non dovette attendere molto, prima che i due cominciassero a litigare.
Camminò nella loro direzione, le mani dentro le tasche e gli occhi fissi sui biglietti ripiegati nella tasca dei pantaloni dell'uomo.
Quando fu a una decina di passi, il bambino scoppiò a piangere.
- Vedi? Lo hai fatto piangere, vergognati! -
- Lo avrebbe fatto comunque, piange sempre. -
- Piange perché tu lo tratti sempre male. -
- Stai zitta, Maddie, o giuro che… -
Non terminò la frase, perché Alan lo urtò. Ovviamente per sbaglio.
- Oh, scusatemi, non vi ho visto. Stavo guardando i tabelloni e… -
Richard lo fulminò con un'occhiata omicida, massaggiandosi la spalla. Il bambino, invece, lo guardò con occhi sgranati, pieni di sorpresa e curiosità. Aveva le iridi verde-oro, come quelle dei gatti.
- La prossima volta state più attento. - borbottò e si spazzolò la giacca, senza nemmeno premurarsi di nascondere l’espressione schifata, - Potreste non incontrare un gentiluomo paziente come me. -
- Avete ragione, perdonatemi. - fece un lieve inchino con la testa e sorrise affabile.
Poi, sempre con le mani in tasca, si diresse verso le scale alla sua destra. Una volta al piano superiore, si girò per controllare sui tabelloni delle partenze nazionali se non ci fossero stati dei cambiamenti. Infine guardò i tre biglietti: partenza da Chasterm e arrivo a Queen’s Sky, la città più grande di Midwinter. Si diresse verso il Gate 4 e, dopo che il controllore gli ebbe obliterato il biglietto e lui gli ebbe mostrato l’emblema della Dogma, passò oltre.
Un tetto di ferro e vetro smerigliato copriva il lungo marciapiede lastricato con il mosaico della bandiera nazionale newenglandese, tre croci rosse in campo blu, e le dieci banchine, che si innalzavano in ampie scalinate fino all’altezza dello scafo delle aeronavi. Dei bracci metallici e delle spesse catene di lynium sostenevano caravelle con un ampio castello di poppa e un grande pallone aerostatico, galeoni con casseri e polene elegantemente ornati e caracche più simili a velieri da guerra che a navi commerciali. I passeggeri salivano a bordo e gli aeromarinai facevano gli ultimi controlli al timone e ai flap prima della partenza. Alla sua destra, al Gate 10, c’era un grande assembramento di persone, tutte raccolte attorno a un elegante vascello con i alti pennoni, alberi e verghe in abete, che svettavano verso il soffitto con le vele spiegate, ricamate con l’emblema della corona. Sotto la polena dal viso di una splendida sirena, sullo scafo di legno scuro, era stato inciso il nome “Hildagarde”.
“Sarà bella quanto vi pare, ma io preferisco Brunilde.”
Avvicinandosi alla sua aeronave, Alan scorse il capitano, un uomo dall’ispida barba nera, intento a parlare con quello che intuì essere il tecnomante della nave, uno gnomo dai baffi giallo zafferano e furbi occhi azzurri. Quando passò loro accanto, udì qualche frammento di conversazione che gli fece capire che non c’era niente che non andasse. Anzi, erano in perfetto orario e avevano il vento a loro favore.
Si appoggiò alla balaustra e fissò il vuoto sotto a sé.
Gli ultimi passeggeri salirono sull’aeronave e il capitano diede l’ordine di sciogliere gli ormeggi. Nell’aria riecheggiò lo schiocco dei bracci metallici e la bassa vibrazione della magia che passava nelle catene, dissolvendole in schegge di luce, mentre, contemporaneamente, le eliche a prua si attivavano e il pallone aerostatico si sollevava, tendendo le mille corde che lo sostenevano in diagonali perfette. L’aeronave decollò, sospinta da un potere silenzioso, e si lasciò alle spalle la stazione. Il silenzio, interrotto solo dal ronzio delle eliche, dal saltuario movimento dei flap e dal chiacchiericcio di sottocoperta, divenne il padrone incontrastato della nave. Di tanto in tanto, il vento portava la voce stridula di qualche madre o gli ordini di un aeromarinaio, che rimproverava i bambini di non tirare le cinghie dei paracadute. Alan ne aveva contati una cinquantina, appesi lungo il parapetto.
Il primo giorno sostarono a Minbirgham. Attraccarono sul far della sera e, mentre l'equipaggio si occupava di riempire il pallone con l’elio e il tecnomante scendeva sottocoperta per verificare le condizioni del motore, i passeggeri poterono uscire dalle cabine per rifocillarsi. A bordo c’erano le cucine, ma la loro aeronave, come d’altronde quasi tutte quelle di proprietà dello stato, non era abbastanza avanzata per offrire cibo più sofisticato di panini e porridge da riscaldare. Alcuni rimasero all’interno delle loro cuccette, altri, la maggior parte, decisero di andare a farsi un giro nella stazione di Minbirgham.
Anche Alan scese, più per scaricare la tensione che per vera necessità. Non aveva fame, aveva giusto mangiato della pasta scotta per non arrivare a stomaco vuoto a cena. L’unica cosa che gli interessava era arrivare a Midwinter e trovare Frejie e Angelika per assicurarsi che stessero bene e confermare che la sua era stata solo una sensazione, una paranoia dettata dalla stanchezza e dagli eventi degli ultimi tempi.
Sospirò e si stropicciò gli occhi: era a malapena passato il primo giorno e già si sentiva sfinito per via dell'angoscia che gli serrava la gola e la bocca dello stomaco.
Dopo aver fatto il giro di tutta la stazione per ben sei volte, si decise e risalire sull’aeronave. I pochi uomini svegli, per lo più aeromarinai alle prese con la manutenzione, lo guardarono appena, per poi tornare subito al lavoro. Probabilmente non era il primo Slayer che avevano visto a bordo nella loro carriera.
Ripartirono all’alba della mattina seguente. Il controllore, una donna piatta come una tavola e con la pelle dorata per il sole e per il vento, obliterò il biglietto dei precedenti passeggeri con una seconda tacca, che contrassegnava la partenza dalla nuova stazione.
Quando si alzarono in volo, Alan udì due aeromarinai discutere del tempo: il più vecchio sentiva nelle ossa che sarebbe peggiorato. Il suo ascoltatore, un giovane nano con la barba che non gli arrivava nemmeno alla cintola, se ne andò ridendo a giocare a scacchi sottocoperta.
Poco dopo, in lontananza, si stagliò il profilo scuro e minaccioso di nuvole temporalesche, che non tardarono a rovesciare loro addosso una tempesta di grandine e pioggia. Dal letto della sua cuccetta, il cacciatore osservò i rigoli d’acqua che scivolavano sul vetro doppio dell'oblò, lo sguardo fisso sul cielo nero che avrebbe accompagnato il loro viaggio. A Midwinter nevicava sempre, si diceva, e quello non era altro che un assaggio di ciò che lo aspettava.
A notte fonda, quando il temporale si fu trasformato in una semplice pioggerella fastidiosa, Alan si alzò e scese nella vecchia stiva, dove sapeva essere situata la sala macchine. Nessuno gli disse nulla o provò a fermarlo, forse perché, come poi constatò, una barriera magica invisibile bloccava l’accesso al cuore del vascello. Al di là di quel muro invalicabile, c’era un cristallo arancione alto circa due metri, che splendeva di una luce calda e quasi abbagliante. Attorno ad esso, immerso in mezzo a cavi, macchine strane e sbuffi di vapore, si muoveva il tecnomante. Lo vide tirare leve, oliare cilindri e pistoni e controllare le lancette dei due motori impiantati nel pavimento, gli occhi che guizzavano dalla valvola della pressione principale alle altre decine poste sugli ingranaggi, che sembravano costituire le pareti stesse di quella stanza.
Lo gnomo non sembrò accorgersi di lui, o forse non ci fece caso, e lasciò che lo Slayer lo osservasse mentre lavorava. Non tentò di cacciarlo e Alan gliene fu profondamente grato, curioso com'era di vedere un tecnomante all'opera.
Il terzo giorno, giunti alla stazione di King’s Lam nel tardo pomeriggio, il cacciatore andò a farsi un giro nella stazione della città, una struttura che constava di una trentina di piani impilati l’uno sull’altro come i massi di un antico torrione. Come potesse tenersi in piedi una cosa del genere, questo era per Alan un mistero.
Forse fu il viavai continuo di gente a spingerlo a tornare sottocoperta prima del tempo. Oppure, molto semplicemente, il bisogno di tenere occupata la mente e il corpo. Quando viveva alla fortezza di Mohor, gli bastava prendere la spada ed esercitarsi, non c’era giorno in cui mancasse di allenarsi. Alle volte lo faceva perché gli veniva imposto, altre, la maggior parte, per scacciare dai muscoli e dai pensieri l’odioso intorpidimento delle emozioni, quella sensazione di gelo che lo assaliva quando si rendeva conto di cosa aveva lasciato a casa. Di cosa avrebbe perso, se non fosse mai tornato. Adesso, a distanza di anni, rimpiangeva i silenziosi campi d’allenamento della rocca. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tenersi in forma e distrarsi dalle continue domande a cui avrebbe dovuto trovare la risposta da sé.
Si appoggiò alla parete di fronte alla porta della sala macchine, rimanendo lì fino al calar della sera. Presto, però, cominciò a sentire gli occhi pesanti e decise di tornare in cabina. Quando si stese sul letto e chiuse gli occhi, il sonno sciolse il nervosismo e l’ansia nel delicato torpore del sogno.
 
Quando si svegliò, constatò con stupore di essere ancora vivo. Non ricordava bene come fosse arrivato in quel letto - l’unica cosa di cui era certo era che il cane della signora Finnigan era un bastardo in tutto e per tutto -, ma il gonfiore sulla gamba e le contusioni sulle braccia erano un chiaro indizio. Il fatto che fosse ancora vivo significava che aveva vinto.
Con un notevole sforzo, si issò sui gomiti e si guardò intorno, catturando i dettagli della stanza in penombra, stranamente familiari. C'era una libreria stracolma di pergamene e vecchi tomi, un tappeto colorato con un medaglione circondato da papaveri rossi, un pesante lampadario di ottone adornato con cristalli squadrati, uno scrigno intagliato a mano, aperto su una grossa scrivania cosparsa di rune, sotto la finestra.
Sorrise e fece per alzarsi. In quel momento, la porta si accostò e una mano invisibile lo sospinse di nuovo disteso sul materasso.
- Stai fermo. -
Quello di Velia era un ordine, non un suggerimento.
L'elfa si stagliò sulla soglia della camera, lo scrutò severa per qualche attimo ed entrò. Prese posto su una sedia di fianco al letto, con gesti naturali e automatici. Forse, pensò distrattamente Alan, non era la prima volta che veniva a vedere come stava.
- Cosa è successo? - la interrogò confuso.
Il viso della maga si indurì in una smorfia stizzita: - Come al solito, hai lasciato il cervello a casa prima di uscire. -
- Non hai risposto alla domanda. -
Velia sospirò e volse lo sguardo verso la finestra. La luce crepuscolare le illuminava parzialmente il viso, mettendo in risalto i lineamenti delicati e il sinuoso drago d’argento che, partendo dal lobo, si arrampicava su tutto l’orecchio destro.
- Sappi solo che stavi per spaccarti la testa. -
Alan ghignò, serrando e distendendo le dita ritmicamente. Amava quel materasso e il profumo fresco di resina e fiori d’acanto che emanavano le lenzuola, l’aveva sempre trovato rilassante fin da quando aveva messo piede per la prima volta in casa Barazethai.
La porta si aprì di nuovo scricchiolando e la signora Elith entrò con in mano una tazza di porcellana fumante.
- Hai fatto quello che ti ho chiesto? - le domandò la sua padrona.
La donna annuì, appoggiando la tazza sul comodino e rivolgendole un sorriso affabile. Il corpetto aderente metteva in risalto il seno delicato e le piccole mani, intrecciate sul grembo, quasi sparivano nelle ampie maniche e sottomaniche in battista, piene di ricami.
- Va bene, puoi andare. Me la vedo io. -
La serva chinò lievemente il capo e, in un frusciare di gonne, sparì così com’era arrivata. Alan la seguì con lo sguardo finché non chiuse la porta e il suono dei suoi passi si perse nell’eco del corridoio.
- Perché la tenete ancora con voi? Pensavo che tuo padre non ne volesse sapere di… -
- Mio padre ha cambiato idea. - lo interruppe in tono secco, quello che usava quando non voleva essere contrariata, - Ora prendi la tazza e bevi. Piano, a piccoli sorsi, sennò ti strozzi. -
Nel liquido Alan riconobbe il sapore del ginepro e della menta. Era un infuso che la madre di Eluaise, la loro madre, gli preparava sempre quando si svegliava in preda agli incubi nel cuore della notte, quando il calore di Elly non bastava a scacciare i demoni nascosti nelle lunghe ombre della stanza. Sorseggiò l’infuso lentamente, concentrandosi per capire quali altre erbe fossero state aggiunte. Ravvisò il gusto acre della calendula, quello fresco dell’anice e quello leggermente piccante della caienna. Ad ogni sorso, percepiva i suoi muscoli rilassarsi sotto la pelle e il dolore alle braccia e alle gambe divenne solo un semplice formicolio.
- Mio padre voleva mandarla via, ma mi sono imposta. - disse Velia, riallacciandosi al discorso precedente, - Non ha più una famiglia, non è giusto che dopo quasi due secoli di servizio presso la casata dei Barazethai sia lasciata a morire da sola. -
Alan annuì e posò la tazza sul comodino. Il conte Lanliss Barazethai era un uomo freddo e autoritario. Non lo aveva visto spesso, ma sapeva quanto fosse poco piacevole la sua compagnia. E anche quanto Velia avesse preso da lui.
L'elfa si alzò in piedi e si diresse verso il camino per ravvivare il fuoco con l’attizzatoio. Le fiamme crepitarono e si levarono in alto, lambendo fameliche l’enorme ceppo. La fuliggine e la cenere vorticarono e si incendiarono, brillando come lucciole, per poi ricadere in un grigio nevischio sulla brace accesa.
Il cacciatore si mise a sedere e approfittò della luce per osservare la sua amica. Il vestito che indossava, una lunga veste dal colletto alto, abbottonata con alamari e bottoni che scendevano delineando una spezzata linea dorata fin sotto l’ascella, mettevano in risalto la sua figura snella, la vita stretta e le gambe lunghe, affusolate, sensuali eppure ancora sottili, come quelle della bambina con cui aveva giocato fino a qualche anno prima. I capelli neri e lisci ricadevano sulle spalle, legati in una semplice coda, che metteva in mostra le leggere orecchie a punta. La carezza liquida delle fiamme si spegneva in quella serica chioma corvina e riluceva sulle ciocche sfuggite alla costrizione delle forcine e dell’elastico, spandendosi i bagliori caldi, rapide pennellate di luce in un invernale mare notturno.
Quando lei si voltò, Alan non si prese nemmeno il disturbo di fingere di guardare altrove. Velia amava avere gli occhi degli altri puntati addosso, le piaceva essere al centro dell’attenzione e detestava la falsa modestia. Sapeva di essere bella e, anche se disprezzava profondamente il sangue elfico che l’aveva generata, non poteva che compiacersi delle occhiate che catturava nelle strade di Eartshire e da lui. Soprattutto da lui.
- Hai fatto bene a non dargliela vinta. Se il tuo desiderio era tenerla al tuo fianco, non vedo perché tuo padre dovesse impedirtelo. - riuscì a dire con voce ferma.
Il sorriso che arricciò le labbra di Velia gli fece intuire di aver detto la cosa giusta. La vide camminare verso di lui ancheggiando appena, i due profondi spacchi laterali che lasciavano intravedere il laccio della biancheria nera.
- Quando hai la Prova? - gli domandò, sedendosi sul bordo del letto.
- Tra circa sette mesi. -
La maga annuì lievemente e Alan si abbandonò a un’imprecazione sottovoce quando avvertì una fitta. Sì, decisamente, il cane della signora Finnigan, un Baubau grosso e massiccio quasi quanto un lupo, era un gran bastardo. Un gran bastardo morto, ma pur sempre un gran bastardo.
- È la gamba. - svolse le bende e arricciò il naso, - Stai fermo, adesso passa. -
Il cacciatore percepì un’improvvisa ondata di calore diffondersi in tutto il corpo, mentre il dolore sulla coscia cominciava a scemare. La pelle in quel punto tirava, sembrava che potesse spaccarsi da un momento all’altro, ma i punti di sutura erano stati fatti da mani esperte.
- Purtroppo non posso fare più di così. Anche il chierico, dopo aver estratto il veleno e averti medicato, mi ha raccomandato di tenerti a riposo. -
Alan sospirò e chiuse gli occhi. In realtà non era stanco, non più di quanto non lo fosse dopo i duri allenamenti con i maestri della rocca, ma non voleva più guardarla, non voleva più darle la soddisfazione di incontrare i suoi occhi. Così rimase immobile, sotto la carezza languida dello sguardo di Velia, che, con calcolata noncuranza, aveva accavallato le gambe. Lo faceva sempre quando stava riflettendo su qualcosa.
- Non te la sei cavata male. - disse dopo un po'.
- Ci alleniamo per questo. Se bastasse un Baubau ad ammazzarmi, non varrei nulla. -
- Non ho dubbi sul tuo valore, ma resta il fatto che non hai ancora affrontato la Prova. -
- La chiamano così, però non è la prima caccia. Se lo fosse, probabilmente ora staresti raccogliendo i pezzi del mio cadavere. - replicò con una risata stanca, - Credevi davvero che non mi fossi mai trovato faccia a faccia con un mostro prima d’ora? -
- A giudicare dalla ferita che ti sei procurato, sì. -
- Era così grave? -
- Abbastanza da far sbiancare il chierico che è venuto qui, soprattutto quando ha visto che i lembi di pelle stavano cominciando a ricongiungersi da sé. - spostò lo sguardo dalla gamba alle altre contusioni, - Il fatto che tu sia uno Slayer, ha detto, non è sufficiente a spiegare come tu abbia fatto a sopravvivere. -
Alan non rispose e l'elfa inarcò con eleganza un sopracciglio.
- La prima cosa che ha notato è stato il polso che pulsava quattro volte più lento di quello di una persona normale. Eppure non sarebbe servito, se non avessi avuto in circolo almeno due o tre litri di sangue in più rispetto a un uomo. Non eri pallido quando sei arrivato, almeno non più di quanto tu lo sia già. Però eri divorato dalla febbre, una febbre talmente violenta da farti delirare. Non hai idea di quante farneticazioni mi sia sorbita. -
Il cacciatore socchiuse le palpebre. Era esausto, l'infuso stava iniziando a fare effetto. Doveva riposare, così da essere in piena forma quando Eluaise sarebbe arrivata ad Eartshire. Aveva bisogno di vederla, di baciarla, di stringere le sue mani piccole e soffici.
- C’è una cosa che ha attirato la mia attenzione. - continuò Velia.
- Cosa? -
- A un certo punto hai detto “Elly, ti prego, non morire”. Ho pensato che la febbre ti stesse facendo di nuovo sragionare, ma l’hai ripetuto spesso, come se fosse un ricordo ricorrente, uno scherzo crudele della memoria. -
- Non me lo ricordo. - borbottò, stringendo i pugni sulle coperte.
- Menti. -
- Non sono cose che ti riguardano. - grugnì irritato.
- Potrei intrufolarmi nella tua testolina per ottenere le risposte. -
- Fallo, allora. - la sfidò, trafiggendola con un’occhiata gelida.
L’espressione di Velia era imperscrutabile, una maschera di granito che celava a stento il fastidio, ma Alan non si scompose. Era il loro segreto, suo e di Eluaise, e lui aveva promesso di mantenerlo.
Dopo un lungo silenzio, Velia si alzò di scatto, ma il movimento rimase incompiuto, arrestato ancor prima che le gambe si distendessero. Si rilassò di nuovo, abbozzò un sorriso e gli prese la mano tra le proprie.  Le fiamme danzarono sul profilo delicato del piccolo naso, del mento stretto, delle labbra ben disegnate. Alan non si ritrasse e lei non provò a continuare la conversazione. Non sarebbe servito, erano due testardi. Le parole, come al solito, avrebbero solo rovinato tutto.
- Vuoi che me ne vada? -
- No. -
Da fuori, forse dal teatro all’aperto, si innalzò la voce di una donna, chiara e alta. Quando Alan era arrivato in città, aveva visto che stavano facendo le prove per lo spettacolo “Le mille notti alla corte del re”.
La donna stava dicendo: - Dimmi, cos'è l'amore? Forse tu sai spiegarmelo, tu che di quest'arte conosci i migliori artifici e le tecniche più eleganti. Forse tu mi sai spiegare come fa Amore a irretire l'anima, a vincere le battaglie più aspre; mi saprai dire perché ogni volta che ti guardo, il cuor mi balza in gola. Ti prego, Amore, dimmi, dimmi quante maschere ha questo famoso saltimbanco: è il riso traditore di una dama nascosta dietro l'angolo, è l'albore che avvolge dolcemente il cielo, è il sole che incendiò i campi e le spighe dorate, è il pianto d’ un uomo dal cuore insanguinato? Amore è davvero delirio, follia, salto nel vuoto. È un istinto irrefrenabile, una forza che travolge cuore e anima e corpo. È una malattia che s'insinua attraverso gli occhi, è un assassino col pugnale sempre arrossato. E il cuore non trova scampo a questo continuo tormento: sanguina percosso, frustato, straziato. Amore è contraddizione. Perché io ti amo e ti odio, fuggo e inesorabilmente torno da te, da te che sei la mia condanna e la mia salvezza. - 
- Alan… - lo richiamò l'elfa, distogliendolo dal monologo.
Il cacciatore percepì una strana titubanza. Incuriosito, si girò a guardarla e riconobbe nella smorfia amareggiata una profonda tristezza. Poi lei sciolse la stretta sulla sua mano e passò le dita sul suo avambraccio in una carezza delicata, incerta, come se temesse che lui si ritraesse.
- Scusami, Velia, ma non posso rispondere alle tue domande. -
- Non puoi o non vuoi? -
- È un segreto, ho promesso di mantenerlo. -
La maga assentì e spostò l'attenzione sulle fiamme. Avevano consumato quasi del tutto il ceppo e la brace ardente si stava lentamente spegnendo.
La voce di un giovane uomo sostituì quella della donna e decantò: - Mia dama, voi mi chiedete di dirvi cosa sia l’amore. Nessuno conosce Amore, nemmeno i cantastorie più famosi, e se dicono il contrario, mentono. Anche io ho mentito, non sono altro che un bugiardo, un tessitore di trame che da quando vi ha incontrato è diventato un’ombra, un povero attore che si pavoneggia sul palco per poi svanire senza che se ne sappia più niente. Mia signora, non guardatemi con quegli occhi di stella, non piangete, questo povero bardo non merita le vostre lacrime. V’amo, v’amo follemente. Se foste una contadinella o una gitana dall’ampia gonna, v’amerei anche ora sotto il viso candido della luna, contro la pietra intrecciata d’edera, con le spalle rivolte ai passanti che ci segnano a dito, ridendo e sussurrando di noi e del vizio chiamato Amore. V’amerei come s’ama la prima pioggia estiva e la prima nevicata dell’infanzia, con le mani giunte sull’altare degli antichi e dei profani e la fronte distesa dalle tristi rughe. V’amerei come i ragazzi si amano all’ombra dei cipressi, ancora più lontani della notte, molto più in alto del giorno, nell’abbagliante splendore del loro amore. Ma sono solo un bardo, mia signora, canto l’amore senza che Amore da me giunga mai. -
- Tu credi nel destino, Alan? - riprese Velia.
- Eh? Uhm, sì, direi di sì. -
La maga indugiò sul suo viso, gli occhi socchiusi e il riflesso delle fiamme inglobato nelle iridi celesti: - Credi all’esistenza del filo rosso? Il filo che si dice leghi indissolubilmente due persone? -
- Sì. - rispose sicuro.
- È per questo che stai sempre con Eluaise? Pensi che lei ti sia destinata? -
Quell’ultima domanda la sibilò tra i denti, rotolò fuori dalle sue labbra in un sussurro così basso che, se non fosse stato per il suo udito ipersviluppato, Alan non l’avrebbe colta. Il vento fece stormire le foglie e si introdusse nella camera, facendo scoppiettare il fuoco.
La risposta della principessa dal cuore spezzato scivolò nella stanza, struggente e carica d'emozioni: - Col cuore in mano, una sola cosa ti chiedo: che tu ricordi il mio nome tra i mille che hai scritti nella memoria, così che, quando andrai via, il tuo pensiero tornerà a me, alle notti trascorse tra le lenzuola profumate di resina e di acanto, alle stanze ventose piene di sussurri, alla principessa di popoli senza re. Che tu possa avere, Amore, sempre il vento in poppa, che tu venga sempre baciato dal sole e che il vento del Destino, di quello stesso Destino che mi ha legata per sempre a te ancor prima che nascessi, ti porti in alto a danzar con le stelle. Addio, Amore, che gli occhi degli Dei veglino su di te. -
Alan ascoltò in silenzio. Velia, appurando che non avrebbe mai appagato la sua fame di conoscenza, desistette da ogni altro tentativo di farlo parlare. Andò alla finestra e ammirò il panorama. Poi si voltò di nuovo con espressione seria, determinata. Quando parlò, non c’era esitazione nella sua voce.
- Il Destino non esiste, Alan. È una forza inventata dagli uomini per trovare qualcosa su cui scaricare la responsabilità dei loro fallimenti. Non posso credere all’esistenza di un’entità che ha instillato in me questi sentimenti ancor prima che nascessi, che potessi incontrarti. E se anche questa forza esistesse e avesse deciso cosa fare della mia vita, la combatterei. Quel che provo per te è mio e soltanto mio, così come il desiderio di averti al mio fianco. E un giorno ti avrò, ne sono sicura. -
Un sorriso divertito arricciò le labbra del cacciatore: - Sempre per una questione d’orgoglio? -
- Mio caro, non esiste battaglia che io non possa vincere, o traguardo che non possa varcare. - sorrise sensuale e gli scoccò un'occhiata penetrante.
 
Un grido acuto e il calpestio frenetico nei corridoi delle cuccette lo destarono dal sonno. Alan sbarrò gli occhi e si tirò seduto, la mente ancora annebbiata e i sensi intorpiditi. Per un istante valutò di distendersi di nuovo e tornare a dormire, ma il rumore si era fatto talmente insistente che non poté far altro che alzarsi. Afferrò la spada ai piedi del letto e corse sul ponte.
Dapprima non capì cosa tutti i passeggeri e gli aeromarinai stessero guardando, quale fosse l’evento fenomenale che li teneva tutti lì, assiepati contro le balaustre, con gli occhi sgranati e il terrore dipinto sul viso, così li imitò e guardò anche lui.
Il corpo di una donna si era materializzato nel vuoto, a due metri dell’aeronave. Le lingue d’energia verde, simili a sinuosi serpenti d’acqua, le volteggiavano freneticamente intorno, come se la volessero sostenere, disperdendosi al vento in cenere evanescente.
“Frejie?”
Si fece largo a spallate, spostando le persone che aveva davanti senza curarsi dei borbottii e delle imprecazioni, il cuore in gola e gli occhi puntati in alto, sulle lunghe ciocche bionde che le volteggiavano davanti al viso, mentre il vento le gonfiava la tunica scura e priva di ornamenti.
Quando anche l’ultima lingua d’energia cominciò a dissolversi, la sconosciuta scrollò la testa e allungò le braccia nella direzione della nave, muovendo le mani avanti e indietro, come se stesse tirando a sé un filo invisibile. Quando un refolo d’aria le scoprì il viso, il cacciatore vide due occhi verdi, spalancati e pieni di paura.
Fu allora che Alan capì. E fu allora che Angelika cominciò a precipitare invocando il suo nome. Intorno a lui si scatenò il panico.
- Oddio, si schianterà! Che qualcuno la salvi! -
- Fermate i motori! Dove sono i soccorsi?! Presto! -
Urla, caos, agitazione, isteria. Un'esplosione di suoni riecheggiò su tutto il ponte. C'erano uomini che correvano, donne che cercavano di proteggere i loro figli dalla bolgia, bambini che additavano verso il basso, ma Alan non vi badò. C’erano solo lui e Angelika che cadeva nel vuoto.
Fu il suo corpo ad agire, prima ancora che la mente e il buon senso potessero imporre un freno, prima che chiunque potesse anche solo immaginare cosa sarebbe successo. Lasciò cadere a terra la balestra, si legò il fodero della spada alla cintola, lo strinse bene per essere sicuro che non cadesse, e afferrò un paracadute, stringendo le cinghie attorno al petto e alla pancia.
Alle sue spalle c’era un uomo grasso alle sue spalle che gli riservò uno sguardo trasecolato, senza riuscire ad articolare una parola o dare l'allarme agli aeromarinai che sfrecciavano qua e là. Esalò appena un grugnito quando Alan lo spinse via, scaraventandolo addosso alla folla. Il suo peso fu più che sufficiente per mandare una decina di persone a terra come birilli.
Quando saltò sul parapetto, percepì gli occhi degli astanti su di sé. Esitò giusto una frazione di secondo, poi con uno slancio si tuffò nel vuoto. Il vento gli fischiava nelle orecchie, la velocità gli feriva gli occhi, ma strinse i denti e si irrigidì. La gravità e la spinta lo trascinarono giù, verso Angelika, che stava già protendendo la mano. Le loro dita si sfiorarono un istante, cercando di ghermirsi a vicenda. Dopodiché, quelle del cacciatore si serrarono attorno al polso della ragazza ed entrambi tirarono un sospiro di sollievo. Tuttavia, non ebbero il tempo di esultare o rilassarsi.
All’improvviso, nell'aria si diffuse un boato assordante e una colonna di fuoco squarciò le nuvole, avviluppandosi nel cielo, simile a un drago di lava e fiamme.

 


 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Himenoshirotsuki