Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Helsingoring    05/08/2016    1 recensioni
Leto è una ragazza di 18 anni con un nome pesante, una bocciatura alle spalle e sogni che faticano a spiccare il volo.
In un anno scoprirà che il mondo le è meno ostile di quello che pensa, che anche con un'ala spezzata è sempre possibile volare e che l'amore è tanto misterioso quanto complicato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Peter è seduto su una delle panchine del chiostro mentre l’intero corpo studentesco si riversa, come un fiume in piena, fuori dalla scuola. Ha una sigaretta spenta in bocca e osserva la torma che sguscia via dall’edificio color rosa salmone.
Io, invece di andarmene con gli altri, mi sposto verso di lui. L’ultimo gruppo di ragazzi osserva per qualche attimo i miei movimenti, poi sparisce al di là dell’ingresso, lasciandomi definitivamente sola con Peter. Beh, sola non proprio. La maggior parte degli insegnanti è ancora dentro l’edificio e un paio di classi sono ancora chiuse in aula per via della sesta ora. Però lì nel chiostro ci siamo io e lui. E basta.
‘Hi,’ mi saluta.
‘Hi,’ rispondo io.
‘Com’è andata la giornata?’
‘Tutto ok.’
Da quando mi sono messa a fare banale conversazione con un professore?
Si piega in avanti verso di me. ‘Senti, Leto,’ sussurra, ‘io vorrei fumare, ma non posso qui. It’s forbidden. E visto che mi devo anche – come si dice – ah, sì, scusare con te, pensavo…ti va un panino?’
Silenzio imbarazzato. Non so cosa rispondere. O, meglio, lo so. Ma sono in mezzo a un doppio fuoco incrociato. Il cervello dice assolutamente no, non pensarci nemmeno, ma lo stomaco si ribella con un ma cosa t’importa, hai fame. Ed è una lotta senza esclusione di colpi perché entrambe le parti coinvolte mi proiettano scenari apocalittici in cui o vengo sorpresa dall’intero provveditorato agli studi a pranzo con un professore o muoio di fame su una delle strade della città, maledicendomi per non aver accettato il pranzo.
Chi dice che ho una fervida fantasia non si sbaglia e questa ne è la perfetta dimostrazione.
‘Ok,’ dico infine, ma è flebile e poco convinto.
Peter non pare badarci e sfodera un sorriso a trentadue denti. ‘Very well!’
 
***
 
Finiamo per sederci al bar dell’angolo in uno dei tavolini esterni. Peter può finalmente accendersi la sigaretta e pare l’uomo più felice del pianeta mentre sbuffa fumo nella calda aria pomeridiana.
Nel frattempo aspetto. E non parlo del cibo che dobbiamo ordinare. Aspetto quello che mi deve dire e che sembra non arrivare mai. Lui è concentrato nella sua sigaretta, poi nel cielo azzurro, poi nella scelta del pranzo.
Io scelgo un panino col tonno e pomodoro, lui un’insalata con un nome strano. Una bottiglietta d’acqua per entrambi.
E aspetto. E aspetto. Ma non una parola esce dalle sue labbra. Traffica col cellulare, ancora con la sigaretta, ancora col cellulare. Per non farlo sentire solo, traffico anch’io con il mio. C’è un messaggio di Val che mi chiede dove sono sparita a fine lezioni.
Ed ora cosa le dico? Ah, sì, scusa sono fuori a pranzo con Peter. Sì, quello della sigaretta? Direi di no.
Scrivo rapida: scusa, sono stata trattenuta a scuola da Caine. Mi deve parlare. Per la storia della sigaretta: me ne ha offerta una sabato perché non le avevo con me. Tutto qui.
Val risponde poco dopo: o.O
L’avevo incontrato all’Adda. Tutto qui.
Ah. Sembra un tipo simpatico :)
Credo di sì.
Il panino e l’insalata arrivano e, con essi, anche le prime parole di Peter.
‘Scusa per sabato,’ dice. ‘A volte sono…maleducato.’
Ma maleducato non lo è stato assolutamente! Sono io quella che mi dovrei prostrare ai suoi piedi e chiedere scusa perché mi sono comportata in modo imperdonabile. Prostrare letteralmente no, ma le scuse sono d’obbligo da parte mia.
‘No, no. Anzi, sono io ad essere stata di una maleducazione indicibile. Prendermela in quel modo per…per niente.’
‘Ma sono stato io a dire quelle cose, a presumere di conoscere te. E avevi tutto il diritto di essere arrabbiata.’
L’accento inglese suona sempre strano alle mio orecchie. Soprattutto a il diritto di essere arrabbiata diventa quasi impossibile non ridere. Ma riesco a mantenere la serietà. Non c’è nulla di buffo nel sentire le scuse di un professore, accento o non.
‘No, no, davvero. Sono io la casinista…’
Casinista? What does…scusa, cosa significa?’
‘Ah. Una che fa casino, cioè confusione. Casino non è proprio il termine giusto da usare. È un po’…maleducato.’
Sorride. ‘Impolite,’ dice.
‘Come?’
‘Maleducato si dice impolite.’
Ma stiamo facendo lezione d’inglese o cosa? ‘Comunque, dicevo che sono stata io a farne un problema, lei non ha detto…’
Tu.’
‘Tu?’ chiedo, confusa.
Tu non hai detto. Credo di avere già detto che le formalities non mi piacciono.’
‘Ok,’ dico, ancora un po’ imbarazzata. Lo so che odia le formalità, ma in certi momenti ancora non ce la faccio a dire tu Peter come se fosse, per l’appunto, il mio vicino di casa. ‘Tu non hai detto niente di offensivo, sono io che sono un po’…selvatica. A volte.’
Peter ridacchia. ‘Selvatica?’
‘Sì, insomma, un po’…’
‘…anticonformista,’ conclude lui.
Già, anticonformista lo sono sempre stata. E perché me la sia presa così tanto sabato me lo devo ancora spiegare. Perché io sono io, irrimediabilmente selvatica, mi dico, e i giudizi affrettati mi piacciono poco, soprattutto se dati da altri.
‘Comunque era un giudizio positivo,’ dice, come leggendomi nel pensiero. ‘Mi piacciono le ragazze anticonformiste. Cioè, volevo dire, che le trovo interessanti. Cioè, mi stanno simpatiche. Non volevo dire, ecco, nell’altro senso.’
Ed io non avrei neanche lontanamente pensato che intendesse nell’altro senso, se non l’avesse sottolineato tre volte nella stessa frase.
‘Sì, sì. Avevo capito,’ mi affretto a rispondere, sperando che l’argomento si chiuda lì.
Fortunatamente, si chiude lì. Peter affonda la forchetta nell’insalata e per un po’ di tempo restiamo in silenzio, ognuno preso col proprio pranzo. E nell’uomo che divora l’insalata di fronte a me non riesco proprio a vederci il mio professore d’inglese. È una sensazione strana, lo ammetto, perché mi pare di stare tranquillamente al tavolo con un conoscente – se non un amico – e non con il professor Peter Caine.
Sarà anche l’età a fregarmi. Quanti anni può avere, dopotutto? Se fosse incartapecorito tipo Bianchi, non mi porrei neanche il problema. Ma è giovane. Lo si vede nelle linee del viso, nello sguardo, nei folti capelli castani, nel fisico. Mi verrebbe da chiedergli l’età, ma è un po’ inappropriato. E va bene che sono anticonformista, ma vorrei evitare di passare per la pazza che va in giro a chiedere l’età degli insegnanti. Anzi, non degli insegnanti, di un solo insegnante. Il che, dopo la sigaretta e il pranzo, scatenerebbe un bel po’ di gossip nell’ambiente scolastico.
E il gossip è l’ultima cosa che cerco: mi ha già creato abbastanza problemi il secondo anno, quando, per ragioni che non riesco ancora a spiegarmi, qualcuno ha sparso la voce che io stessi insieme a Mattia, un ragazzo con cui avevo scambiato sì e no quattro parole. Per tre mesi mi sono dovuta sorbire risatine soffocate e frecciatine a destra e a manca solo per aver parlato con una persona. Un incubo.
Quindi, no, grazie. Il gossip su me e Peter lo voglio proprio evitare. Anche perché mi vedo gli occhi della Tavazzi se la cosa venisse fuori. Sarei morta nel giro di una mattinata.
‘E così non ti piace l’inglese,’ Peter dice, interrompendo il viavai della forchetta dal piatto alla bocca.
Beccata. Di sicuro è stata la Tavazzi. Chi altri?
Mentire spudoratamente mi sembra da stupidi, perciò rispondo: ‘Diciamo che non siamo mai andati molto d’accordo.’
‘Perché?’
Già, perché. Bella domanda.
Alle medie m’interessava proprio poco. Innanzitutto perché avevo una cotta assurda per un attore francese e il francese mi sembrava l’unica lingua degna di essere imparata, poi perché la tizia che insegnava al tempo pareva una lumaca. Bavosa. Una di quelle che finiscono per farti odiare anche le cose che hai sempre amato. Tipo quella volta che aveva tentato di farci vedere About a Boy – uno dei miei film preferiti al tempo – in lingua originale e avevo finito per odiarlo con tutte le mie forze.
Poi era arrivato il liceo. E dal mio otto politico – dico politico perché mi veniva quasi dato sulla fiducia – delle medie sono precipitata al quattro. Nel test d’ingresso. Lo ricordo ancora: un bel numero rosso che sovrastava tre pagine fitte di esercizi di grammatica. Inutile dire che fu il voto più basso. Una vergogna da cui non mi sono mai ripresa pienamente. Uno smacco, una macchia su una carriera scolastica che, fino a quel momento (poi sappiamo bene com’è andata), era stata intonsa. L’incredulità negli occhi dei miei genitori è ancora ben impressa nella mia mente.
Con il quattro, ovviamente, mi sono subito inimicata la Pecchi. E con lei, l’intera lingua inglese. Tanto che, alla fine, ero giunta a dirmi che studiare era inutile: a me non interessava per niente e lei non faceva nulla per facilitarmi il compito.
Se ci penso bene, però, non so perché non mi piace. A parte le esperienze catastrofiche con l’insegnamento, non è che odio l’inglese. Per esempio, quando mi serve per le canzoni, sono anche piuttosto bravina. È la parte di studio che non mi va giù: la pronuncia, le regole di grammatica, Shakespeare. Ecco. Soprattutto Shakespeare. Ho sempre arrancato con Shakespeare. È colpa mia, lo so. Ma come fai a farti piacere una cosa quando odi il suo autore più rappresentativo? Ma anche lì, perché lo odio? È una domanda a cui non so dare una risposta precisa. Lo odio perché è la Pecchi ad avermelo fatto odiare? Forse. O è uno di quegli odi a pelle, tipo quello che ho per Giambattista Marino? Forse.
Alla fine la risposta giusta non la ho. Non l’ho mai avuta. È un banale caso di perché no. Se fosse qualcun altro, so che la conversazione si chiuderebbe lì. Ma ho l’impressione che Peter non si arrenda facilmente, anzi, che non s’arrenda proprio.
‘Non saprei di preciso…’ dico.
‘È la grammatica?’
‘In parte. E in parte la pronuncia. E le parole che non riesco a ricordarmi. E Shakespeare.’
‘Shakespeare?’ Peter strabuzza gli occhi. ‘Non ti piace il Bardo?’
Beep. Risposta sbagliata, Grifoni. Dovevi evitare di citare Shakespeare.
‘Non è che non mi piace…’
Bugia. Lo odio. Lui e i suoi sogni in una notte di mezza estate. Lui e le sue bisbetiche domate. Per non parlare di Cesare, Ottaviano e Marco Antonio.
‘…è che è difficile,’ gli dico, forse salvandomi in corner.
‘Lo è per tutti. Ma credi che il vostro Dante sia più easy?’
Mi diverte quando infila una parola d’inglese in mezzo a tutto il suo italiano mal pronunciato. E mi fa sorridere il fatto che abbia citato Dante, il mio autore preferito. Altro che il Bardo.
Rido. ‘Non si può paragonare.’
‘Si può, si può. Senza Dante, Shakespeare non sarebbe mai nato, vero. Ma Dante non ha scritto Hamlet.’
‘E Shakespeare non ha scritto la Commedia,’ rincaro la dose.
‘E Dante non ha scritto King Lear.’
Se è una sfida, non voglio perderla. ‘E Shakespeare non ha scritto Le Rime Petrose.’
‘E Dante non ha scritto Macbeth.’
‘E Shakespeare non ha scritto la Vita Nuova.’
‘Ma Dante non ha nemmeno scritto Romeo and Juliet.’
‘Non mi pare di ricordare il De Vulgari Eloquentia tra le opere di Shakespeare.’
Stavolta è lui a ridere. È la prima volta che lo sento ridere sul serio. In classe, al massimo, ci ha deliziato con qualche risatina, ma in questo caso ride di gusto. Ha una risata intensa, che parte lenta ed esplode all’improvviso, tipo un vulcano dormiente. E lo riempie e lo trasfigura: se già mi appariva amichevole e sincero, in quell’istante diventa la persona che avrei sempre voluto conoscere, quella che capita all’improvviso e che non aspettavi, quella a cui potrei raccontare la mia vita senza sentirmi in imbarazzo.
Peccato che nell’istante in cui la risata finisce, la magia si sfaldi e Peter torni ad essere un simpatico professore d’inglese, ma nulla di più.
‘Non ti arrendi mai, vero?’ mi chiede con gli occhi ancora pieni di riso.
‘Non su Dante.’
‘Per questo non capisco…’ mi dice, tornando serio. ‘Insomma, ti conosco poco, ma vedo che sei determined, determinata. Quindi perché ti butti giù così sull’inglese? Non è così difficile, sai.’
‘Io e l’inglese non ci capiamo proprio.’
‘Nemmeno un po’?’
‘No.’
‘Nemmeno dopo la mia prima lezione su Hamlet?’
Presa in contropiede. E canestro da tre punti per Peter. ‘Quella non era stata male,’ ammetto, ‘ma poi siamo tornati a quella noiosissima grammatica.’
‘Senza grammatica – anche se noiosa – non c’è Hamlet.’
‘Forse è per questo che odio Shakespeare. Troppa grammatica?’
‘Forse ti è stato solo spiegato male. Forse tutta la lingua inglese ti è stata spiegata male.’
Si ferma un secondo e tira fuori una sigaretta. La accende. Fa un paio di tiri. Mi guarda. Ritira fuori il pacchetto, me ne offre una. Tentenno. È la terza sigaretta che mi offre in tre giorni e non saprei proprio come ripagarlo. Accenno un no con la testa, ma lui allunga ulteriormente il braccio.
‘Su, quando ero studente come te avrei pagato per qualcuno che mi dava le sigarette. E non è un tentativo di corruzione.’
Mi fa l’occhiolino ed io capitolo. ‘Grazie,’ dico, afferrandone una.
‘Comunque era di questo che volevo parlarti,’ mi dice. ‘La mia collega, la professoressa Tavazzi, mi ha proposto questo corso di conversation al pomeriggio. Io sono d’accordo. È un piacere aver la possibilità di aiutare gli studenti. E poi non è che ho molto da fare il pomeriggio!’
S’interrompe per fare un altro tiro. Poi riprende.
‘E mi ha parlato, nello specifico, di te. Ha detto che sei una studente…studentessa, giusto?’
Annuisco.
‘Una studentessa capace ed intelligente, ma l’inglese è il tuo punto debole. E mi ha detto che vuole assolutamente che tu partecipi. Perché ne ha bisogno, mi ha detto.’
Mi sento arrossire. La Tavazzi non è una che si prodiga in aperti complimenti. Spesso ne fa, ma in modo contorto. Per esempio, per dirti che hai fatto un’ottima versione di greco, ti potrebbe paragonare a qualche scrittore dell’antichità, tipo Sofocle o Euripide. E per dire che crede in te spesso si prodiga in discorsi sull’importanza dello studio. Ma dirti direttamente quello che pensa, quello mai. Questo succede se sono cose positive. Quelle negative sono sempre dirette, come le ventitré pugnalate date a Cesare.
Quindi sentirmi dire che sono capace e intelligente è una specie di rivelazione.
‘Però,’ Peter continua, ‘io non voglio che tu sia forced, sorry, obbligata a farlo.’
Penso di non aver capito. ‘Come?’
‘Gli obblighi. Li odio. Finisci per fare tutto unwillingly. Aspetta, come si dice in italiano?’
E che ne so io? È la prima volta che sento quella parola. ‘Non saprei.’
‘È qualcosa che si fa…non volontariamente,’ cerca di spiegare.
Illuminazione. ‘Ah, contro la mia volontà!’
‘Ecco, sì. Non voglio che tu venga contro la tua volontà.’
‘Ma la Tavazzi, cioè, la professoressa Tavazzi ha richiesto la mia presenza e…’
‘Anch’io la chiedo. Mi fa dispiacere che una persona intelligente e capace non ami la mia lingua. E mi piacerebbe che tu partecipassi.’
E allora non capisco. Non vuole obbligarmi ad andare, ma vorrebbe che andassi. Questo è peggio dell’essere o non essere. ‘Non capisco,’ dico.
‘Non voglio che sia un obbligo, Leto. Se lo fai contro la tua volontà, non impari niente. Ti annoi e basta. E non è il motivo per cui io ho deciso di accettare la proposta. Io voglio che la gente che partecipa al corso lo faccia perché vuole migliorare, perché vuole imparare. Capisci ora?’
Capisco, sì. Mi sembra un bel ragionamento, soprattutto da parte di un professore. Dall’altra parte, però, non capisco dove voglia andare a parare. Se la Tavazzi mi obbliga e lui non mi vuole se mi sento obbligata, cosa devo fare? Dividermi in due? Trovare un modo per partecipare e non partecipare allo stesso tempo? È una situazione impossibile.
‘E allora?’ chiedo speranzosa.
‘E allora ho un proposal.’
‘Un che?’
Proposal. Sorry, proposta.’
Fa una pausa. Appoggia i gomiti sul tavolo e si avvicina a me. Per istinto lo faccio anch’io. E mi rendo conto troppo tardi che la distanza che ci separa è minuscola. Mi pare quasi di sentire il suo respiro sulla mia pelle. Sono tentata di scostarmi un po’ indietro, di lasciare più spazio tra me e lui, ma sarei scortese: parrebbe che mi stessi spostando perché non sopporto il suo alito.
Lui sorride. Non capisco se per i miei tentativi di spostarmi senza farmi vedere o cosa.
Ma poi se ne esce con un: ‘Hai proprio un bel colore di occhi.’
Ed io avvampo. Credo che le mie guance siano dello stesso colore dei miei capelli.
‘Sembrano diversi da lontano,’ dice lui. ‘Più gialli, ma da vicino sono più…verdi.’
Proprio come i gatti selvatici. Ho il cuore che mi batte e la salivazione assente. Tento di distrarmi. Penso che non sia un complimento, ma solo un’osservazione. Ovvio che sia un’osservazione e non un complimento, dico tra me e me. Nessun complimento. Solo un’osservazione. Identica a quella fatta da Val quando cominciavamo a conoscerci meglio. Anche lei si era stupita del colore cangiante. Non è nulla di cui preoccuparsi.
Ma non riesco a distogliere i pensieri da quell’osservazione. Non riesco proprio. E, in automatico, è il mio sguardo a finire sugli occhi di Peter. Anche i suoi sono diversi da vicino e da lontano. Meno blu e più tendenti all’acquamarina. Sono, però, sempre in movimento: curiosi e vivaci. Non ho mai visto degli occhi come i suoi.
‘Già,’ dico, senza riuscire a proferire una sillaba in più.
‘Sono belli,’ ripete.
E allora è proprio un complimento. Ed io devo inspirare un paio di volte per calmarmi. Siamo vicini, troppo vicini. Trovo la forza di muovermi indietro di un paio di centimetri.
‘Qual è la proposta?’ chiedo ridacchiando.
Ridacchiare è la mia arma contro l’imbarazzo.
Anche lui si sposta un po’ indietro e distoglie per un secondo lo sguardo, poi dice: ‘Sarai la mia assistente.’
Ha sbagliato parola. Non voleva dire assistente, questo è certo. Lo guardo basita.
‘Cosa?’
‘Assistente. Non posso obbligarti a seguire le lezioni, ma puoi venire come mia assistente.’
Non capisco proprio. Assistente di cosa, poi? Io come assistente non mi ci vedo proprio. Se spera che così tiri fuori le mie qualità nascoste in inglese, si sbaglia di grosso. E cosa dovrei fare? Conversare con lui in inglese? Panico.
‘Cioè?’ chiedo, un filo di paura a velare la mia voce.
Ride di nuovo. La stessa risata esplosiva di prima. ‘Dovrai portare i libri, aiutare a sistemare la classe prima dell’arrivo degli studenti. E poi essere la mia sparring partner quando ho bisogno.’
‘La cosa?’
‘Se c’è un dialogo da leggere, lo leggerai con me.’
‘Ma faccio pena!’
‘Per questo è meglio che tu lo faccia con me.’
Non ne sono convinta. Avrebbe bisogno di una persona più capace, una che sa la lingua. Glielo faccio presente.
‘Ma davvero non so nulla!’
‘Dimentichi che ti ho sentito su Hamlet. E non era andata male. In più, come assistente, leggerai il dialogo in anticipo. E puoi chiedermi quello che non capisci in anticipo. Mi sembra un buon patto, no?’
Non so se sia un buon patto. A dir la verità, mi pare pure peggio di andar lì a seguire e basta. Seguendo dal fondo dell’aula potevo anche distrarmi, far finta di seguire. Tutte cose che, nel ruolo di assistente, non mi sono più permesse. Dall’altra parte, però, l’idea di vedere prima ciò che si farà m’impedirà di fare figuracce di fronte al resto degli studenti, no? Dovrei ben bilanciare i pro e i contro della vicenda per decidere, ma Peter non demorde.
‘Prometto di non chiederti più di quello che chiederò agli altri. È un sì?’
Tentenno. Tentenno visibilmente.
‘Ok,’ dice Peter. ‘Ti lascio del tempo per scegliere.’
Poi mi fa l’occhiolino e mi allunga un pezzo di carta.
‘Questo è il mio numero di cellulare. Entro stasera voglio un sì o un no.’
Incastrata. Mi ha incastrata per bene.
 
***
 
Ore nove e mezza di lunedì sera.
Sono seduta alla scrivania con tre libri aperti di fronte a me e un dizionario di greco sulle gambe, tentando di districarmi nella traduzione di una decina di versi dell’Odissea. La Tavazzi adora assegnare Omero da tradurre, con maledizioni a destra e a sinistra da parte degli studenti perché copiare una qualsiasi traduzione da un qualsiasi libro è infattibile: sembra conoscerle tutte, anche quelle fatte nel 1720. Quindi, il segreto è metterne due o tre insieme e ficcarci dentro qualche errorino di lessico. Solo che il tempo impiegato per questo è lunghissimo e, in più, devo pure fare l’analisi parola per parola del testo.
Poco discosto dall’Odissea della Calzecchi Onesti c’è ancora il bigliettino col numero di Peter. Me lo sono rigirata tra le mani una decina di volte, tentata di buttarlo via e lasciar perdere tutto. Non ci sono riuscita. Così sta lì ad assolvere la sua doppia funzione: uno, mi ricorda che dovrei prendere una decisione entro stasera; due, continua imperterrito a ricordarmi gli occhi di Peter. È una persecuzione. Non faccio in tempo a dargli un’occhiata che, improvvisamente, mi appare davanti la faccia di Peter. Ed è vicino, molto vicino, dannatamente vicino. E mi dice che ho dei begl’occhi con quel suo accento che dovrei trovare buffo e che, invece, non mi fa ridere affatto. Anzi, mi causa non ben pochi problemi a livello cardiaco. E mi fa dimenticare la Calzecchi Onesti, l’Odissea e le crasi e i raddoppiamenti del dialetto eolico.
Forse sto impazzendo. Il complimento di Peter può essere ancora solo un’osservazione. Magari è solo la mia sfrenata fantasia a vederci altro. Fantasia che, tra l’altro, non mi aiuta ad avere la mente completamente lucida, dato che, di tanto in tanto, mi regala immagini assolutamente non volute di me e Peter. Nulla di scandaloso, anzi. Tutte cose innocentissime che, però, hanno il magico potere di farmi avvampare.
Succedeva anche con Alberto. Quando le nostre mani si sfioravano, la mia immaginazione proiettava nel mio cervello scenette in cui io e lui camminavamo mano nella mano lungo il fiume, scenette dove uscivamo a cena e poi ‘uscimmo a riveder le stelle’. Ed io arrossivo. Cioè: arrossisco ancora.
Certo, c’è una bella differenza tra Alberto e Peter. Alberto lo amo, Peter è un professore. Quindi il discorso dovrebbe chiudersi lì, senza possibiltà d’appello. Ma l’appello c’è ed io continuo ad arrossire.
È il telefono a svegliarmi dall’ennesima indesiderata fantasia. Val.
‘Pronto?’
‘Leto, ora tu mi spieghi cosa succede.’
Il tono è perentorio. Di quelli che non ammettono un niente. Però non capisco di cosa stia parlando.
‘In che senso?’
‘Letizia mi ha mandato adesso un messaggio dicendo che Laura le ha mandato un messaggio dicendole che ti ha visto a pranzo con quello d’inglese. In atteggiamenti, come si può dire, intimi.’
Quella strega. Ovvio che tra tutte le persone che possono incrociare me e Peter deve proprio esserci Laura. Che, ovviamente, è la regina della manipolazione della realtà. Atteggiamenti intimi dove? E da quando è reato parlare con un professore? Vorrei averla davanti agli occhi solo per sputar fuori tutta la bile che mi ha fatto ingoiare in questi anni.
‘Val, quella secondo me si fuma qualcosa,’ le rispondo calma. ‘Gli atteggiamenti intimi li ha visti solo lei. Io sono, forse, solo colpevole di aver accettato un invito a pranzo.’
E di aver accettato un biglietto col suo numero, quella canaglia del mio cervello mi ricorda. E di continuare ad arrossire in maniera impropria, aggiunge. Stai zitto, lo minaccio tra me e me, non è successo nulla.
‘Mi sembrava scortese rifiutare. Doveva parlarmi del corso di conversazione che la Tavazzi ha in mente…’
‘Ah, sì. Quello di cui mi hai parlato stamattina.’
‘Proprio quello. Insomma, lui non vuole che partecipi controvoglia.’
‘Eh?’
‘Ha detto che sa che sarebbe inutile e che non vuole obbligarmi.’
‘Ma la Tavazzi…’
‘Appunto, la Tavazzi. Quindi mi ha proposto di partecipare, ma in modo un po’ diverso.’
‘In che senso?’
‘Ha detto che devo fargli da assistente.’
‘Da assistente? Tu?’
‘Secondo lui è più semplice, perché avrò la possibilità di vedere le cose che faremo in anticipo.’
Sento gli ingranaggi del cervello di Val muoversi nel silenzio che segue.
‘Secondo me gli piaci,’ mi dice alcuni secondi dopo.
Avvampo. Piacergli, io? Ma che cavolo vai a pensare, Val!
‘P-piacergli?’ balbetto.
‘Intendo come persona, non fisicamente,’ mi dice, apparentemente non cogliendo la mia esitazione. ‘E Laura è la solita che s’immagina cose. Certo, è strano andare a pranzo con un prof, ma mica siete finiti a letto insieme!’
Ride e rido anch’io, ma la mia risata mi pare stranamente forzata.
‘Non avrei dovuto dar credito ad una sciocchezza simile, ma ammetto che atteggiamenti intimi mi aveva preoccupato!’
‘Beh, se con atteggiamenti intimi la strega intende un pranzo…’
Sì, era solo un pranzo. Un solo e normalissimo pranzo. Niente di scandaloso. Anche Val lo conferma. E allora perché continuo a sentirmi colpevole? E il numero di Peter sulla scrivania mi occhieggia complice.
‘Secondo me è sessualmente frustrata,’ Val dice.
‘O repressa.’
‘Lei lesbica? Zeus me ne scampi! Pensa se ha una cotta segreta per me! La prima donna che s’interessa a me in questo buco di posto è Laura Miceli. Fuggo in Alaska, giuro. O cambio sesso.’
Rido. Stavolta di gusto.
‘Con tutta quella gelosia che ha nei miei confronti, mi sa che è innamorata di me, allora!’ dico.
‘Oh, cazzo. Hai ragione! La soluzione?’
‘Cambio sesso pure io?’
Ride. ‘E andiamo a vivere in Alaska?’
‘Ma sì, la pesca dei salmoni mi ha sempre entusiasmato!’
Entrambe ridiamo a crepapelle per un minuto buono, senza riuscire a fermarci. Poi Val torna seria.
‘Cos’hai detto poi a Caine?’
‘Peter,’ la correggo involontariamente.
‘Come?’
‘Vuole che lo si chiami Peter. Me lo continua a ripetere.’
‘Ah, vero. Mi ci devo ancora abituare.’
‘Idem. Comunque non gli ho dato una risposta. Ero indecisa.’
Why?’ mi canzona Val.
‘Non ti ci mettere anche tu! Però, in realtà, non lo so. Non so se come assistente farei meglio.’
‘Sta di fatto che non puoi saltare il corso o la Tavazzi ti griglia viva.’
‘Modello inquisizione?’
‘Modello so-bene-che-quel-compito-lo-hai-copiato-e-ora-affronterai-la-mia-ira .’
‘Sono fritta.’
‘Con patatine.’
‘Quindi devo accettare?’
‘Dai, ti permette di vedere prima quello che dovete fare, io direi che un bel ci sta tutto. Alla faccia della Tavazzi.’
‘E del suo dannatissimo Omero!’
‘Oddio, è vero! Tu ti stai ancora torturando su quella roba!’
‘Non girare il dito nella piaga…’
‘Non che noi siamo messi meglio. Qui si va di Edipo Re.’
‘Dal tono deve essere facilissimo.’
‘Ho quattro libri davanti. Quattro libri per venti righe. Comunque digli di sì.’
‘Sicura?’
‘Non te lo direi se non lo fossi.’
‘Ok allora!’
‘E buona fortuna!’
‘Per cosa?’
‘Per il tuo nuovo ruolo da assistente. E per Omero…’
‘Ne ho proprio bisogno! E tu buona fortuna con Sofocle!’
Chiudiamo così la conversazione. Ed io mi ritrovo alle prese con il biglietto spiegazzato. Digito le cifre sul mio cellulare come se fossero numeri mistici e come se comporre il numero completo faccia apparire Satana in persona in camera mia.
Anche scrivere il messaggio comporta una pazienza che non mi si addice. Lo riscrivo sei volte, ogni volta cancellandolo e tornando a quello precedente.
Alla fine me ne esco con un semplice: Sono Leto. Va bene per il corso.
Che non è assolutamente chiaro. Ma scrivere va bene per il posto da assistente mi faceva tremare le ginocchia. Spero che Peter capisca.
Cinque secondi dopo, mentre sto tentando di recuperare la concentrazione su Ulisse e la maga Circe, il cellulare vibra. Numero sconosciuto, ma che io riconosco immediatamente per aver passato tutto il pomeriggio ad averlo davanti agli occhi.
Ok, sono contento. Mi fa piacere averti come assistente. Si inizia lunedì prossimo dalle 3 alle 4.
Ha capito. Ma ad assistente il mio cuore fa l’ennesimo balzo. Rileggo il messaggio un paio di volte, poi cancello la conversazione. Mai e poi mai gli manderò un altro messaggio.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Helsingoring