Finnick
e Gale aspettavano pazienti, senza fare il
minimo rumore.
Sapevano
bene di dover attendere il momento propizio
per agire, ed erano pronti a sfruttare la minima occasione che si fosse
presentata loro. Entrambi avevano lo sguardo fisso sul loro obiettivo:
il
carcere di Yuma. Le alte mura che circondavano l’edificio non
lasciavano
intravedere quasi nulla, se non le imponenti torri di guardia.
Irrompere nel
carcere e provocare un’evasione era un’impresa
disperata, ma tirarsi indietro
era l’ultimo dei loro pensieri.
Ad
un tratto, qualcosa catturò la loro attenzione:
il minaccioso cancello nero si stava aprendo. Qualche minuto dopo, ne
uscì una
diligenza circondata da cinque uomini a cavallo; il gruppo
imboccò la pista per
Yuma e si allontanò.
Finnick
e Gale si guardarono.
“Hai
visto?” chiese il primo.
“Certo”
rispose l’altro. “Finalmente se ne sono
andati.”
Finnick
tornò con la mente a qualche ora prima,
quando l’arrivo della carrozza e della sua scorta li aveva
sorpresi e costretti
a ritardare l’irruzione.
“E
adesso qual è il momento migliore per attaccare?”
chiese Finnick.
Gale
ci pensò su, stuzzicandosi con le dita il
sottile strato di barba incolta sul mento. “Credo subito dopo
l’ora del pranzo”
disse infine. “In genere tutti ne approfittano per
riposarsi.”
L’altro
annuì. “Sei ancora sicuro del tuo piano?”
“È
l’unica possibilità che abbiamo”
ribatté Gale.
Finnick
non avrebbe saputo dire se l’ex-soldato
stesse cercando di convincere lui o sé stesso.
“Piuttosto,
dovremmo cominciare a prepararci” continuò
Gale.
“Prepararci?”
ripeté Finnick.
“Già…
se fossi in te mi toglierei quel cinturone”
suggerì l’altro, mentre tirava fuori da una
bisaccia una giacca blu dall’aria
familiare.
Qualche
decina di minuti dopo, Finnick cominciava a
sentirsi a disagio. L’assenza del cinturone con le pistole lo
faceva sentire
fragile e indifeso, e la corda che gli stringeva i polsi a
mo’ di manette di
certo non lo aiutava.
“Non
avrai stretto troppo?” azzardò.
“Se
la corda fosse più lenta, tutti si
accorgerebbero della messinscena” rispose Gale, che era
tornato a tutti gli
effetti un capitano dell’esercito.
“Così, invece, sarai un perfetto
prigioniero.”
Il
sole brillava alto nel cielo quando i due si
misero in cammino verso il carcere.
“Alt!”
disse perentoria la sentinella, non appena si
furono avvicinati. “Identificatevi!”
“Sono
Glenn Stark, capitano dell’unità 401”
ribatté
Gale senza esitare. “Ho un prigioniero con me.”
La
sentinella li osservò per alcuni secondi, che a
Finnick sembrarono ore. Il ragazzo si sentì sollevato quando
capì che era stato
dato l’ordine di aprire il cancello.
Gale
lo spinse avanti e i due entrarono, Finnick a
passi incerti e l’ex-soldato con un’andatura molto
più sicura.
Non
appena il cancello si fu richiuso alle loro
spalle, si ritrovarono circondati e sotto tiro.
Senza
scomporsi, Gale cominciò a parlare.
“Quest’uomo è Finnick Odair. Coriolanus
Snow lo cerca vivo, e io gliel’ho
portato. Ma è un maledetto serpente a sonagli, e non mi
sentirò tranquillo
finché non l’avremo sbattuto in una
cella.”
Le
guardie si scambiarono sguardi incerti, ma alla
fine quello che doveva essere il più esperto prese la
parola. “D’accordo”
disse. “Lo porteremo in cella, seguitemi. E voi, tornate
sulla torre!”
concluse, rivolgendosi agli altri.
I
tre attraversarono il cortile e si diressero verso
l’edificio principale, una tozza e minacciosa costruzione
bianca.
Finnick
trasse un sospiro di sollievo quando capì
che ad accompagnarli sarebbe stata solo una delle guardie. Mentre
incespicava
in avanti, alle sue spalle udì i due parlare.
“Io
sono Darius Payne” si presentò la guardia.
“Come
hai detto che ti chiami, ragazzo?”
“Glenn
Stark” ripeté Gale. “Vengo da Fort
Defiance.”
“È
strano… mi sembra di aver già sentito questo
nome” disse l’altro.
Finnick
resistette all’impulso di voltarsi verso
Gale. Perché aveva scelto quel nome?
“Sai,
anche io ero nell’esercito, tempo fa”
continuò
la guardia.
“Probabilmente
mi avrai sentito nominare lì, allora”
tagliò corto Gale.
Troppo
in fretta,
pensò Finnick.
“Potrebbe
darsi” rispose Darius, in un tono che al
ragazzo sembrò tutt’altro che convinto. La guardia
si rivolse ancora a Gale. “A
quanto pare in questo periodo Coriolanus Snow cerca un sacco di
gente” disse
ammiccando.
“Cosa
vuoi dire?”
“Voglio
dire che ieri ha fatto portare qui un altro
uomo” fece una pausa, poi si corresse. “Beh,
più che un uomo, un ragazzo,
direi. Lo ha fatto sbattere in cella e stamattina si
è… soffermato
ad interrogarlo.”
“Davvero?”
chiese Gale, socchiudendo gli occhi.
“Già.
Non so cosa abbia fatto quel ragazzino, ma
direi che ora ne sta pagando le conseguenze.”
A
quelle parole Finnick sentì montare la rabbia
dentro di sé. Serrò bruscamente i pugni, ancora
legati dietro la schiena.
“Cos’hai,
biondino? Hai paura che mister Snow faccia
visita anche a te?” lo schernì Payne.
“Preparati, perché domani mattina sarà
di
nuovo qui. Scusatemi un minuto” disse poi, allontanandosi dai
due.
“Io
lo uccido” sussurrò Finnick, fremendo dalla
rabbia.
“Stai
calmo” disse piano Gale. “Lui è la
nostra
chiave per arrivare a Peeta.”
Darius
Payne tornò qualche minuto dopo con un grosso
mazzo di chiavi. I tre erano ormai giunti al grande portone del
carcere, che
emise un lungo gemito non appena venne aperto dalla guardia. Darius
condusse
Gale e Finnick lungo il grande corridoio in penombra. Le buie celle
sembravano
quasi tutte occupate, ma il silenzio era assoluto, fatta eccezione per
i loro
passi che riecheggiavano.
“Stai
tranquillo, biondino, vedrai che ti troveremo
una stanza confortevole” disse beffardo Payne.
“Goditela, perché forse domani
mister Snow ti sbatterà nella Cella Oscura assieme
all’altro ragazzino.”
Finnick
strinse i denti, ma non disse nulla e continuò
a camminare. Cominciava a chiedersi quando avrebbero dato inizio al
piano: il
tempo cominciava a stringere.
“Ehi,
Darius” disse Gale all’improvviso. “Cosa
c’è
lì dietro?”
Finnick
si voltò: il suo amico stava indicando una
porticina socchiusa sulla parete del corridoio.
“È
solo un ripostiglio… Cosa pensi di
fare con quella pistola?”
“Ti
auguro una buona permanenza nel ripostiglio”
disse Gale. Poi, senza dargli il tempo di reagire, calò con
forza il calcio
della pistola sulla testa di Darius Payne. La violenta botta lo fece
stramazzare a terra, privo di sensi.
“Bel
colpo, amico!” si complimentò Finnick con un
sorriso. “Ora però slegami. Cominciavo a pensare
che ti fossi calato fin troppo
nella parte del carceriere.”
“Dovevo
aspettare il momento giusto” ribatté Gale.
“In
effetti sei stato davvero un ottimo prigioniero, ma adesso aiutami con
questo
tipo.” Si chinò e afferrò Darius Payne
per le braccia. Finnick annuì e prese le
gambe della guardia.
Insieme
trascinarono l’uomo nel ripostiglio, che
venne chiuso a chiave da Gale. “Così non
disturberà nessuno, quando avrà
ripreso coscienza” disse.
“Questo
verme ci ha anche detto dove tengono Peeta”
disse Finnick. “Ora dobbiamo scoprire dove si trova questa
Cella Oscura. Pensi
che dovremmo dividerci?”
Gale
scosse la testa. “Non credo. Se incontrassimo
qualche sorvegliante, in due potremmo metterlo al tappeto
più facilmente.”
“Ehi,
voi” una voce strascicata li fece trasalire
entrambi. Finnick si voltò di scatto: a parlare era stato un
uomo nella cella
più vicina.
“Già, dico proprio a te,
biondino” continuò, sogghignando. “Ho
visto che avete steso quel bel tipo, e ho
visto anche che avete un mazzo di chiavi
dall’aria… invitante.”
Il suo sguardo si posò sulla mano di Gale.
Finnick
si avvicinò lentamente alle sbarre.
“Abbiamo
bisogno di informazioni, amico.”
“Apri
questa maledetta porta e ne riparliamo” disse
l’uomo in tono minaccioso.
“A
me sembra che siamo noi dalla parte giusta delle
sbarre” ribatté Finnick senza esitare.
“Quindi ti conviene aiutarci: dove si
trova la Cella Oscura?”
L’uomo
fece una smorfia. “È un gran brutto posto.
Talmente brutto che non si trova nemmeno qui.”
“Cosa
vuoi dire?” chiese bruscamente Gale.
“In
fondo a questo corridoio c’è un’uscita.
La Cella
Oscura è lì vicino, ma è parecchio
sorvegliata.”
“Non
ci sarà nessuno quando ci andremo” disse
Finnick.
“Cosa
stai dicendo, biondino?” chiese l’uomo in tono
aspro. “Le guardie si danno il cambio, è sempre
sorvegliata!”
Quando
rispose, il ragazzo aveva un sorrisetto sulle
labbra.
“Non
se farete abbastanza confusione.”
Una
decina di minuti dopo, Finnick e Gale guidavano
un gruppo di trenta persone, ormai libere dalle loro celle.
“Dovremmo
vergognarci per quello che stiamo facendo”
disse il primo. “Questi uomini sono criminali e assassini, e
noi li stiamo
rimettendo in libertà.
“Forse
hai ragione” rispose l’altro. “Ma in
mezzo a
loro ci sono sicuramente dei nemici di Snow. E di certo sono
innocenti.”
“Già”
convenne Finnick, sospirando. Poi si rivolse
agli evasi. “Va bene, ora statemi a sentire tutti quanti.
L’ultima cosa che gli
sbirri si aspettano è un’evasione di massa. Quindi
quello che dovete fare è
saltare fuori da questo maledetto posto come se foste dei diavoli
appena usciti
dall’Inferno. Siete dei pendagli da forca, quindi dovreste
saperlo fare
abbastanza bene.” Fece una pausa, temendo di avere esagerato,
ma negli occhi
degli evasi vide solo lampi di eccitazione.
Sono
davvero dei pendagli da forca,
pensò, prima di
continuare a parlare. “Sono stato abbastanza chiaro? Dovrete
mettere in corpo a
quegli sbirri una paura tale che anziché provare a fermarvi,
se ne andranno a
cercare la latrina più vicina!”
“Sai
parlare bene, biondino” disse uno degli evasi.
“Oh,
è solo un piano di evasione” rispose Finnick
con noncuranza. “E adesso, mostrate agli sbirri che i veri
uomini siete voi, e
non dei codardi in divisa. Avanti, diavoli, portate l’Inferno
fuori da qui!”
Esaltati
dal discorso, gli evasi corsero verso
l’uscita proprio mentre una guardia entrava nel corridoio.
Gli ormai
ex-prigionieri si avventarono su di lui con una tale furia che Finnick
dovette
distogliere lo sguardo.
“Li
hai caricati per bene” osservò Gale con una
smorfia.
“Quel
poveretto mi rimarrà sulla coscienza” ammise
Finnick. “Ma tutto questo ci permetterà di
liberare Peeta.”
“Già,
dobbiamo muoverci” lo esortò l’altro.
I
due attraversarono con cautela il corridoio. Non
impiegarono molto per capire quale fosse la porta che dava
sull’esterno, ma
prima che potessero raggiungerla, una flebile voce familiare
attirò
l’attenzione di Finnick.
“Lupo…
Vendicatore” lo chiamò la voce.
Il
ragazzo, incredulo, si avvicinò alla cella dalla
quale proveniva il richiamo.
“Thresh?”
chiese, incerto. “Sei davvero tu?”
“Finnick,
cosa succede?” chiese Gale, impaziente.
“Non abbiamo molto tempo!”
“Non
posso, Gale!” rispose il ragazzo.
“Peeta
ha bisogno di noi!”.
“Non
è l’unico” rispose Finnick.
“Per favore, Gale,
vai avanti. Ti raggiungo subito!” aggiunse, quasi in tono
supplichevole. Con
suo sollievo, l’ex-soldato acconsentì, non senza
riserve, e continuò ad
avanzare.
Con
le grida degli evasi che si allontanavano sempre
più, il ragazzo scrutò all’interno
della cella. Lì, appoggiato alle sbarre,
c’era un uomo dai tipici lineamenti dei Nativi. Sembrava
malconcio ed era
emaciato all’inverosimile.
“Thresh!”
chiamò ancora.
“Sono
io, Lupo Vendicatore” rispose a fatica
l’indiano.
“Come
sei finito qui?”
“Uomini
bianchi… mi hanno fatto prigioniero molte
lune fa.”
Finnick
ebbe un brutto presentimento. “Erano uomini
in divisa?” chiese ancora.
“No”
rispose subito l’altro. “Non avevano la
divisa.”
Il
ragazzo capì che i propri timori erano fondati.
Thresh era stato preso dagli stessi uomini di Snow, chissà
quanto tempo prima.
Perché Falco Nero non gliene aveva parlato? Thresh era il
capo dei guerrieri
Apache, e la sua scomparsa non era di certo passata inosservata. In
ogni caso,
doveva portarlo fuori da lì, e alla svelta: Gale poteva
già essere in
difficoltà.
Con
movimenti frettolosi cercò la chiave giusta e,
una volta trovata, la infilò nella serratura e
girò.
“Ce
la fai a camminare?” chiese a Thresh, che non
sembrava per nulla sicuro sulle sue gambe.
“Ce
la faccio” rispose lui, dimostrando che l’indole
del guerriero Apache non lo aveva affatto abbandonato.
“Allora
seguimi, svelto!” lo esortò Finnick.
Insieme
si diressero verso la porta, che trovarono
socchiusa. Gale doveva essere già uscito.
Una
volta fuori, la prima cosa che i due udirono fu
il rumore degli spari: lo scontro fra gli evasi e le guardie era
cominciato.
Lo
sguardo di Finnick guizzò in tutte le direzioni:
il posto sembrava deserto, finché non riuscì a
scorgere Gale che avanzava
rasente alla parete dell’edificio. In breve tempo, i tre si
trovarono davanti
il loro obiettivo. L’ingresso della cella era più
stretto rispetto alle altre e
sulla pietra che sovrastava le sbarre era incisa
un’inequivocabile scritta:
«Cella Oscura».
“Sembra
che il diversivo abbia funzionato” disse
Gale, e senza indugiare scelse la chiave giusta ed entrò
nella cella.
Quando
ne uscì, Finnick dovette trattenere un
gemito: l’ex-soldato sorreggeva Peeta. Il volto dello
sceriffo era tumefatto e
incrostato di sangue, ma a destare l’orrore del ragazzo fu il
suo torso nudo,
coperto di lividi e
di ustioni.
Le
avrebbero curate in seguito, decise Finnick.
“Dobbiamo
andarcene in fretta!” esclamò, rivolto
agli altri.
Gale
annuì e i quattro si misero in marcia aggirando
l’edificio.
Una
volta arrivati nei pressi del grande cancello,
lo spettacolo che si parava davanti ai loro occhi era terrificante: gli
evasi
stavano disperatamente cercando di aprirsi un varco verso
l’unica uscita
possibile, mentre le guardie li respingevano con armi da fuoco; molti
corpi
giacevano inermi a terra.
Finnick
si voltò verso Gale e scoprì che
l’ex-soldato lo stava già guardando. I due si
erano capiti all’istante: non
avrebbero mai aperto il fuoco contro i difensori della prigione.
Alla
fine, l’impeto degli evasi ebbe la meglio sulle
pallottole delle guardie e i fuggitivi riuscirono ad aprire il
cancello. Fu
allora che Finnick, Gale, Peeta e Thresh colsero l’attimo e
corsero verso
l’uscita, unendosi al gruppo degli evasi. I quattro sentivano
i proiettili
fischiare attorno a loro, ma in qualche modo ne uscirono indenni; senza
fermarsi si diressero verso la sommità della collina, dove
avevano lasciato i
cavalli.
Prima
di continuare a scappare, Finnick lanciò
un’ultima fugace occhiata alla sanguinosa battaglia e,
osservando ancora il
massacro che si stava compiendo, si chiese per l’ennesima
volta se la sua
missione valesse ancora qualcosa.