CAPITOLO 26
Giunti in caserma, prima il nostro gruppetto, e poi, dopo
qualche minuto, anche quello composto dal secondo carabiniere e da Luca e
Giulio, tra di noi regnava un’apparente calma.
Io ne approfittai un attimo per controllare il mio corpo, che
era stato percosso da calci e pugni che però effettivamente non avevano
provocato lesioni gravi ai miei organi, poiché di dolore non ne provavo più se
non sfioravo la mia pelle, che probabilmente nelle ore successive si sarebbe
ricoperta di lividi. Ero riuscito ad uscire dallo scontro ancora piuttosto
integro, e dovetti ammettere a me stesso che sarebbe potuta andare molto
peggio.
Riconobbi anche che forse il trio manovrato da Federico non
aveva voluto colpirmi con eccessiva forza, poiché altrimenti un solo calcio
ricevuto dai potenti zamponi di Davide mi avrebbe di certo spedito direttamente
al camposanto. Addossai quindi tutte le colpe a quell’indemoniato del mio
inquilino, con una fretta raggelante e spontanea, che forse non aveva neppure
tutti i torti a mostrarsi.
‘’Mi avevi avvisato di quello che ti volevano fare, e allora
io mi sono premunito. Appena ha suonato la campanella, sono sgusciato fuori dal
liceo in tutta fretta, e, col cellulare alla mano, mi sono precipitato nel
luogo del presunto agguato, dove ho notato che i furfanti si stavano già
appostando, e dal tanto che erano presi dai loro brutti intenti non hanno
neppure notato quando mi sono appostato dietro un auto in sosta, una decina di
metri più avanti del punto in cui ti hanno pestato’’, incominciò a narrarmi
Giacomo, all’orecchio, mentre mi sedevo e mi massaggiavo un braccio.
Attorno a noi c’era un gran via vai, e tante voci che
rimbombavano da ogni parte. I carabinieri erano davvero molto indaffarati, ma
comunque nella piccola caserma piuttosto spoglia di arredi del nostro piccolo
paese, i vari militari presenti sapevano i fatti loro e si muovevano agilmente
nel loro caos.
Uno di essi ci controllava a distanza, posizionato sulla
porta d’ingresso.
‘’Ho atteso quindi quei quattro minuti circa, poi sei
arrivato tu, ed ho notato dapprima la tensione sul tuo volto, e poi un leggero
sorriso da scemo, non ti offendere. E ti sei fatto beccare alle spalle da
Federico, sgusciato fuori dal suo nascondiglio dietro i cassonetti che facevano
angolo con la strada, senza neppure accorgerti di nulla in tempo, e facendoti
agguantare subito.
‘’Il resto è quasi inutile che te lo racconti, perché te lo
puoi immaginare; quando ho visto come ti hanno afferrato e trattato, ed ho
udito i tuoi gemiti di dolore, ho chiamato subito i carabinieri. Per fortuna
mio zio, uno dei due carabinieri che è intervenuto sul posto, oggi era in
servizio, e quindi ho avuto ancor meno difficoltà a raccontargli la vicenda, e
comunque in un attimo era subito qui assieme ad un suo collega’’, concluse il
mio compagno di classe, che a quanto pareva non aveva alcuna intenzione di
lasciarmi solo in quel luogo, anche se si trattava di una caserma popolata da
uomini in divisa e appartenenti alle Forze dell’Ordine.
‘’Non taccerò, anzi, sono qui per raccontare anch’io ciò a
cui sono stato sottoposto, e a sporgere la prima denuncia della mia vita.
Quegli stronzi gestiscono degli account su un social network in cui mi
sfottono, ed è giusto che siano svolte le dovute indagini e che siano puniti’’,
tornò a dire Giacomo a sorpresa, proprio quando mi aspettavo che avesse finito
di parlare.
Con la cattiveria e la scocciatura tipiche di una persona
stressata, dolorante e ammaccata, pensai che non mi sarebbe dispiaciuto se il
mio giovane e provvidenziale amico in quel momento fosse sparito, lasciandomi
un po’ solo a riflettere. Immaginavo che quello che era accaduto tra me,
Federico e il trio avrebbe avuto discrete ripercussioni, a partire proprio da
ciò che sarebbe poi successo tra le mura domestiche, quando i nostri genitori
avrebbero scoperto tutto il patatrac che era stato combinato.
Un gentilissimo carabiniere mi si avvicinò per chiedere
nuovamente se c’era bisogno di un’ambulanza, oppure di una visita al pronto
soccorso, ma rifiutai categoricamente. Non so se fosse stato il fatto che
finalmente mi ero tolto quel peso che mi bruciava dentro, ma mi sentivo davvero
meglio, nonostante tutte le legnate che mi erano state date.
Nel giro d’un ora accadde ciò che mi attendevo, ovvero
l’arrivo in caserma di mia madre e di Roberto e Livia, oltre che dei genitori
degli altri tre prepotenti aggregatisi al mio inquilino, anch’essi molto
preoccupati. Avevamo tutti chiamato casa per avvisare del nostro mancato
ritorno, senza spiegare troppo bene le motivazioni che ci avevano fatto finire
in caserma, e quindi, nonostante fossimo tutti quanti maggiorenni, i nostri
amati parenti volevano venire a sincerarsi dell’accaduto e a comprendere bene
la vicenda.
Mia madre fece per avvicinarsi a me e per parlarmi, e
probabilmente notando il mio viso dolorante, si accigliò, ma non riuscì a fare
nulla, perché fui chiamato dai militari per lasciare la mia deposizione e la
mia testimonianza.
Deviai quindi l’unico genitore che si preoccupava per me, e
lanciai un’occhiata a Roberto e Livia, chini sul figlio. Non seppi comprendere
le loro emozioni del momento.
Entrai nella stanza dove mi attendevano due carabinieri, che
mi fecero qualche domanda e mi chiesero dell’accaduto, e come stavo, e dopo un
quarto d’ora pieno di parole di routine e di accertamenti, fui libero di
andarmene.
Ero stato il primo ad aver affrontato quella sorta
d’interrogatorio, e notai che il prossimo a doverlo affrontare doveva essere
Davide.
Mi diressi verso l’uscita, salutando tra i denti Giacomo,
anche lui in attesa di avere l’occasione di andare a dire la sua, e incrociai
mia madre, che nel frattempo stava chiacchierando con Roberto, con fare
agitato. Livia invece era ancora china sul figlio, poco distante, quasi a
volerlo coccolare.
‘’Antonio, ma cos’è successo?! Spiegamelo per bene’’, mi
chiese subito mamma Maria, arpionandomi ad un braccio e facendomi sfuggire un
gemito di dolore. Non mi piaceva il fatto che stesse a me spiegare tutto, anche
perché pensavo che stesse ad altri narrare ciò che li aveva spinti a
comportarsi in quel modo, ma non potevo fuggire in quel momento.
‘’Mi hanno pestato, quelli lì. In strada, poco prima di
rientrare… e per fortuna Giacomo è stato rapido a chiamare i carabinieri, se no
mi avrebbero ammazzato’’, risposi, con semplicità allarmante e con un pizzico
di veritiera esagerazione.
Effettivamente, non potevo immaginare ciò che mi avrebbe
potuto fare Federico, con quella sbarra di ferro tra le mani. Per fortuna erano
prontamente intervenute le forze dell’ordine.
Per supportare le mie parole, alzai leggermente la felpa e la
maglietta della salute e mostrai un bel livido violaceo che si stava già
formando per bene sulla mia pelle magra e tirata. Mia madre emise un gridolino,
mentre Roberto s’incupì ancor di più.
‘’Tu e Federico vi comportavate in modo strano ultimamente,
ed in più non avete mai legato. Immaginavo che tra di voi ci fosse qualcosa che
nascondevate ai nostri occhi, e pensavo si trattasse solo di qualche rancore da
ragazzini, ma non mi sarei mai atteso che sarebbe andato tutto a finire in
questo modo. Voi due non andavate d’accordo, vero? C’erano stati altri episodi
violenti, prima di questo?’’, m’interpellò l’uomo, nervoso.
Io mi limitai ad annuire, chinando il capo.
‘’Lo immaginavo. Potevi dirmelo! Quante volte ti ho chiesto
se…’’.
‘’Basta! Lasciami in pace!’’, gli urlai in faccia,
interrompendolo, e punto nel vivo. Poi, con passo deciso, mi diressi verso
l’uscita, bordò in volto per via della mia orribile reazione. Non avevo mai
risposto in quel modo a nessuno, prima di quel momento, e l’imbarazzo e lo
sconforto stavano portando avanti una strenua lotta contro la rabbia e il
nervosismo che regnavano dentro di me.
‘’Antonio, aspetta!’’, mi disse mia madre, cercando di
venirmi dietro, ma un carabiniere la fermò.
‘’Attenda un po’ signora, abbiamo bisogno di parlare anche
con lei’’, le disse il militare, bloccandola. Ed io ebbi via libera per
andarmene.
Una volta uscito dalla caserma, con la promessa di tenermi a
disposizione se ci fosse stato bisogno di altri particolari da chiarire, presi
a correre come un forsennato lungo la strada. Casa mia era molto distante, ed
ero consapevole del fatto che avrei dovuto percorrere tutto il tragitto a
piedi, vista la mia precipitosa fuga.
Sapevo perché avevo reagito così male alle parole di Roberto;
sapevo che lui aveva ragione, e che avrei dovuto vuotare il sacco molto tempo
prima, senza giungere a quella situazione allarmante. E il peso della verità
bruciava ed ardeva dentro di me, così come anche la consapevolezza che si stava
facendo largo dentro la mia mente proprio in quel momento, ovvero di aver messo
in difficoltà anche mia madre. Volevano parlare anche con lei, e Dio solo sapeva
come fosse messa con l’affitto degli Arriga.
Abituata com’era a dare alloggio alla gente di passaggio e
solo per poche settimane massimo, non credevo che fosse in regola come una
sorta di pensionante agli occhi dello Stato, e quindi sarebbe di certo stata
multata e punita, se, come probabile, sarebbe venuto fuori tutto quanto. E
chissà, magari sarebbero stati fatti anche sopralluoghi in casa nostra, e il
casino avrebbe investito buona parte delle nostre vite, sempre vissute ai
margini della società e lontane dai riflettori della Legge.
Giacomo, quindi, grazie alla sua azione aveva sgominato in
modo magistrale la banda di Federico e l’aveva gettata tra le fauci dei
carabinieri, senza sapere che ciò forse avrebbe avuto ripercussioni indirette
su altre sfere della nostra vita privata.
Mentre percorrevo il mio cammino verso casa, camminando
frettolosamente lungo il ciglio della strada mentre un’infinità di automobili
sfrecciavano in entrambi i sensi a qualche centimetro da me, non mi sentivo in
pericolo, bensì con la coscienza a posto, e anche se mi creava dispiacere anche
solo il pensare che mia madre avrebbe potuto essere punita a causa mia, ero
perfettamente a conoscenza del fatto che anche lei sapesse che avrebbe potuto
correre rischi di ogni sorta.
Però, a quel punto, mi era rimasto un interrogativo
pressante, e che mi tormentava da tanto tempo, senza contare che esso poi
avrebbe potuto illuminare per bene ogni mia consapevolezza, dato che ciò poteva
nascondere altri guai per tutta la mia famiglia e per casa mia, ovvero cosa
nascondesse la camera di Federico.
In quel momento, nella mia mente continuava a frullare la
vaga impressione che al suo interno si nascondesse materiale illecito di una
qualche sorta. Inoltre, il nervosismo per la sorte dei miei vasetti mi aveva
tenuto sulle spine per fin troppo tempo.
Fu così che, mentre cercavo di giungere alla mia dimora al
più presto possibile, nacque dentro di me la voglia di commettere una follia.
Una voglia così forte che difficilmente sarei riuscito a contenere, dato che
era già da fin troppo tempo che stavo trattenendo la mia curiosità, e sapendo
che forse avrei avuto pure campo libero.
Però, prima di tutto finii per andare a recuperare il mio
zainetto nella zona incriminata, del quale mi ero pressoché totalmente
dimenticato dal momento in cui Federico mi aveva agguantato, e dopo averlo
raccolto da terra ed averlo ripulito dalla polvere e dalla sporcizia, me lo
gettai nuovamente in spalla e mi preparai a rincasare.
Quando giunsi a casa, avevo già preso una decisione.
Dopo aver dato un’occhiata in giro, notai che di mio padre
non c’era traccia, quindi molto probabilmente doveva essere andato al lavoro o
dove diavolo gli fosse parso, l’importante era che non fosse tra i piedi, in
quel giorno tanto delicato. Sapevo esattamente che tutti gli altri abitanti
della dimora erano ancora tutti trattenuti nella caserma, e allora, come un
fiume in piena, la mia curiosità e la mia voglia di far luce su tutte le ombre
che regnavano tra quelle quattro mura prese il sopravvento.
Sbarrai la porta d’ingresso lasciando la chiave all’interno della
serratura, in modo che da fuori nessuno potesse entrare senza che io non
intervenissi da dentro, così da non essere colto in flagrante mentre
ficcanasavo nelle stanze altrui, e mi diressi prontamente al piano superiore.
Ero ancora tutto ammaccato e dolorante, e, inutile a
ripeterlo, l’unica cosa che mi dava tutta quell’energia e quella voglia di
muovermi era proprio la curiosità. Quella era l’occasione buona, senza nessuno
in casa, per svelare tutto ciò che c’era da scoprire a pochi passi da me e che fine
avessero fatto i miei adorati vasetti. Inoltre, dentro alla mia mente
continuava ad aleggiare il vago sospetto che all’interno della camera del
prepotente ci fosse nascosto qualcosa che non si doveva vedere, e che di lì a
poco avrebbe potuto anche creare problemi a tutti.
A passi sicuri, ignorando ogni mio fastidio fisico, mi
diressi alla porta della stanza di Federico, e con decisione afferrai la
maniglia e feci pressione. Ovviamente, era chiusa a chiave.
Che ingenuo che ero stato a credere che tutto potesse essere
più facile! Dovevo rimediare.
C’era poco da fare, purtroppo, se non commettere un piccolo
illecito che, unito a quelli che avrei commesso negli attimi immediatamente
successivi, forse sarebbe anche potuto apparire come il più piccolo. L’unico
modo che avevo per entrare nella stanza di Federico era quello di soffiare il
mazzo di chiavi di riserva di mia madre.
Sapevo perfettamente che la mamma possedeva una seconda
chiave di ogni stanza di casa, anche di quelle che in genere affittava, semplicemente
per il fatto che nella vita non si poteva mai sapere la piega degli eventi e
comunque potevano risultare utili, se gli inquilini le perdevano e se fosse
sorto un qualsiasi problema. Lei ovviamente non andava mai a ficcanasare negli
ambienti altrui, grazie alle proprie riserve, e neppure io l’avevo mai fatto,
ma quello era un caso eccezionale, forse unico.
Mi diressi in camera di mia madre e, in tutta fretta,
estrassi il mazzo con tutte le chiavi delle porte di casa, tutte quante riunite
nello stesso portachiavi vintage e conservate all’interno del suo soprammobile
preferito, ovvero un vaso di ceramica laccato ed anch’esso dal vago gusto
retrò.
Ahimè, conoscevo tutti i segreti della stanza della mia cara
mamma, poiché da piccolo ficcanasavo sempre dappertutto, e lei non aveva il
vizio di cambiare di posizione alle cose, magari tentando di cercare
nascondigli più sicuri, anche perché forse si fidava di me. Comportarmi come
stavo facendo in quel momento mi costava davvero tanto, poiché sapevo che stavo
sbagliando, e che magari sarei entrato nella stanza del nemico solo per notare
i miei vasetti ben in ordine e a terra, e constatare che tutto era immerso in
una regolarità da brividi.
Questa ipotesi mi spiazzava e se si fosse rivelata vera mi
avrebbe di certo fatto sentire in colpa per i secoli a venire, ma la parte più
cattiva di me mi spronava a continuare di cercare di andare a fondo nella
vicenda, di togliermi di dosso ogni domanda e curiosità.
Giunsi in fretta e trafelato di nuovo di fronte alla porta
chiusa del mio nemico, e, sospirando, appoggiai la testa contro il suo legno,
facendomi forza e continuando a lottare sia contro il mio fisico abbattuto e
dolorante e sia contro la mia mente, divisa tra due scelte e due posizioni ben
distinte.
Ancora ostentando decisione, cominciai a provare con grande
fretta tutte le chiavi, poiché non sapevo quale era quella giusta, continuando
a rimanere appoggiato alla porta. Mia madre aveva segnato ciascuna con una
sigla conosciuta solo a lei, e quindi dovevo arrangiarmi.
Al quarto tentativo, con grande fortuna, la serratura scattò.
Avrei saltellato di gioia come un bambino, se solo il mio fisico me l’avesse
permesso, ma dato che era tutto ammaccato m’impedì ogni esternazione colma di
contentezza.
Poi, col fiato sospeso, finalmente feci capolino all’interno
della stanza.
Dentro era tutto avvolto dall’oscurità, logico segno che le
tapparelle erano abbassate, come potevo constatare, e quindi con la mano cercai
l’interruttore della luce, pronto a fare una leggera pressione su di esso e di
usufruire per un attimo dell’elettricità.
Conoscevo esattamente la sua posizione, così come quella
della mobilia all’interno della camera, poiché avevo aiutato tante volte mia
madre a fare le pulizie al suo interno quando i vari inquilini se ne andavano,
ed inoltre quella era stata la saletta dedicata a me e ai miei giochi, da
piccolo, essendo posta proprio di lato a quella che era stata la stanza da letto
dei miei nonni, in quel momento in mano ai coniugi Arriga, che in quel modo
potevano sempre avermi vicino quando mia madre non era a casa e sorvegliarmi meglio,
senza dovere lasciarmi gironzolare per tutta l’abitazione.
In ogni caso, quando sfiorai l’interruttore attesi poi un
attimo prima di premerlo, e quando lo feci e tutto di fronte a me s’illuminò, mi
trovai di fronte ad uno scenario inatteso e in grado di mozzarmi quel poco di
fiato che avevo trattenuto fino a quell’istante.
Quella stanza che mi era da sempre stata familiare e dalla
parvenza perfetta e sempre in ordine, a quanto pareva si era ridotta ad essere
una sorta di porcilaia, e per una frazione di secondo mi passò davanti agli
occhi la possibile faccia di mia madre, sempre maniaca dell’ordine e della
pulizia, se avesse avuto modo di vedere anche lei quello schifo.
Il letto, al centro di tutto, era rigorosamente sfatto, e a
terra tutt’attorno giaceva un’infinità di roba che andava dai panni sporchi
fino alle cartacce di qualche brioches. Calzini abbandonati un po’ ovunque, una
scarpa posizionata sul piccolo comodino, una felpa appesa alla maniglia interna
della porta, che cadde non appena cercai di aprirmi un varco maggiore,
facendomi sussultare. Subito dietro al letto, su una sedia erano posizionati i
vestiti che dovevano essere ancora puliti, assieme ad un po’ di biancheria
intima. Su tutto aleggiava un’aria pesante e dall’odore forte e strano, quasi
rivoltante.
Con un sospiro, riconobbi che non avrei neppure mai dovuto
pensare che l’aristocratica si mettesse a pulire e a mettere in ordine la
stanza del figlio, riconoscendo, non senza una buona dose di cattiveria, che la
signora doveva essere una di quelle inquiline che non appena se ne andavano da
una casa altrui ed affittata, lasciavano tutto sporco per far dispetto ai
proprietari, che poi avrebbero dovuto togliere la schifezza che regnava
dappertutto.
Mi chiesi solo il perché del fatto che Federico avesse
lasciato tutto il vestiario fuori o a terra, senza metterlo nell’armadio, anche
se magari in disordine, ma logicamente lì per lì mi parve di comprendere che
ciò non fosse accaduto a causa di un’eccessiva pigrizia.
Con una spinta, spalancai la porta, e, grazie alla maggior
visuale di cui potevo godere in quel momento, i miei occhi caddero sui piccoli
oggetti scuri posizionati sul davanzale della finestra, e sul pavimento proprio
sotto di essa. Si trattava dei miei vasetti.
Mi avvicinai con cautela, e notai che erano colmi di
terriccio, e che ciascuno conteneva una piantina striminzita, ancora abbastanza
piccola. Con un pizzico d’ironia, notai che almeno la signora aveva fatto
posizionare sotto di essi dei piccoli sottovasi, in modo da non allagare tutta
la casa, quando venivano innaffiate.
Mi chinai in fretta e con grande curiosità per comprendere di
quali piantine si trattasse, e non mi venne in mente nulla, guardando le loro
anonime foglioline ancora troppo piccole per essere osservate in modo chiaro e
distinto. Le pianticelle dovevano essere nate qualche giorno prima, e per un
attimo provai sollievo, constatando che almeno i miei vasetti erano un buono
stato e non erano stati disintegrati per farmi dispetto.
Fu solo quando alzai lo sguardo e con esso percorsi il resto
della stanza che quasi mi prese un accidente, e fui costretto a rimangiarmi
tutto quello che avevo pensato fino a quel momento.
Ad avere colpito la mia attenzione era stato l’armadio,
lasciato socchiuso, che da quella parte della stanza potevo osservare in modo
più diretto, dato che me lo trovavo di fronte e non più di lato, come quando mi
ero solo affacciato sulla porta. Infatti, da una delle due ante leggermente
discoste, avevo notato qualcosa di verde che sbucava timidamente, quasi a far
capolino all’infuori del buio che regnava all’interno del mobile.
Non comprendendo di cosa potesse trattarsi, dato che pareva
materia vivente, e ormai preso dalla curiosità, sapendo che non avrei potuto
poi tornare tanto facilmente a ficcanasare nell’habitat del nemico, mi diressi
prontamente verso l’armadio, scavalcando piccole pile di vestiti da lavare e di
cartacce gettate sul pavimento, tra cui spiccava anche qualche libro di scuola
ormai tutto stropicciato e rovinato a forza di essere abbandonato tra quella
spazzatura.
Stando attento a non creare ancora più disordine di quello
che c’era già, e di non mutare troppo il caos presente all’interno della
stanza, per far sì che al suo ritorno il prepotente non si accorgesse subito che
qualcuno era entrato nel suo spazio privato, giunsi all’armadio e stetti
attento a non sfiorare il letto, che a fianco del mobile aveva una discreta
parvenza sudicia.
Con una smorfia di disgusto, fui costretto ad ammettere che,
se tutto fosse sopravvissuto agli eventi di quel giorno e alla trascuratezza
dell’Arriga, alla fine della permanenza di quegli inquilini sarebbe stato
meglio contattare un’impresa specializzata nelle pulizie più profonde e nelle
disinfestazioni, o, ancor meglio, chiamare un camion della più vicina
discarica, in modo che potesse portare via ciò che era stato ormai rovinato.
Trattenendo lo schifo e il mio dolore fisico, che ancora mi
tormentava, perlopiù all’addome, aprii lentamente l’anta dell’armadio, e mi
trovai di fronte a qualcosa d’inaspettato che mi lasciò totalmente stupefatto e
senza parole. Infatti, all’interno del mobile erano state rinchiuse due grandi
piante, alte quasi quanto me, ma contenute in due vasetti piccolissimi ed ormai
rotti a causa della pressione delle radici.
Non avevo dubbi a riguardo della specie di quelle due; si
trattava di marijuana. Le loro foglie di un verde intenso quasi stuzzicavano il
mio naso, protendendosi verso di me e lasciandomi capire che non vivevano da
sempre dentro a quell’armadio, ma che dovevano aver vissuto anche fuori, in
giro per la camera, e sicuramente Federico doveva essersene preso cura con premura.
Notando l’eccessiva altezza, constatai che forse non erano neppure nate in casa
mia, quelle.
Di fronte all’evidenza, e con sotto agli occhi quelle foglie
così particolari e in grado di essere riconosciute da tutti, il mondo parve
crollarmi addosso. Non ebbi neppure più dubbi a riguardo della natura delle
piantine più piccole che avevo notato per prime, dato che dovevano di certo
appartenere a qualche altro vegetale produttore di sostanze allucinogene.
Allucinogene e vietate dalla legge.
Avere la consapevolezza di aver vissuto in casa propria con a
pochi metri da sé una vera piantagione di materiale illegale genera uno di
quegli strapazzi mentali in grado di far passare ogni dolore ed ogni problema,
e di far aumentare solo i battiti cardiaci. Altroché peperoncini della Guyana,
come aveva detto un mesetto prima l’aristocratica.
Non avevo mai saputo nulla di quelle cose, né io né mia
madre, ed ero allibito.
Appoggiandomi le mani sul volto e cercando quindi di
togliermi dal davanti quelle schifezze, che stavano crescendo in modo
rigoglioso, compresi che non sapevo davvero che fare e come comportarmi.
Sapevo che il prepotente non avrebbe mai rinunciato ai suoi
produttori di traffici illeciti, e che io non potevo arrischiarmi di fare
spifferate o altro, dato che avrei quindi ammesso di essere andato a
ficcanasare tra le cose altrui, e sarei stato soggetto a chissà quante altre
prese di mira. Inoltre, ero anche a conoscenza del fatto che, se i carabinieri
o la Guardia di Finanza avessero deciso di fare un sopralluogo a casa mia, dato
che molto probabilmente sarebbe venuto fuori di lì a poco che mia madre
affittava in nero qualche stanza a degli inquilini di passaggio, avrebbero di
certo trovato tutto quel materiale, e sarebbero stati guai ancora più seri per
tutti. Rischiavamo almeno di finire in tribunale, e dopo in carcere, con tutta
quella robaccia tra le mura domestiche.
Se avessi denunciato il fatto, di certo sarei stato indagato
pure io, assieme a mia madre. In ogni caso, potevamo solo finire in guai grossi,
e pure senza averlo immaginato.
Presi quindi in fretta una decisione, la più rapida della mia
vita, e anche la più pericolosa. Mi tolsi le mani da sopra gli occhi e mi
ripetei che quella roba doveva sparire, e anche subito, prima che qualcuno
tornasse a casa.
Avevo davvero paura per me e per mia madre, e per tutto, e la
paura mi tolse tutta la razionalità che possedevo. Pensai per prima cosa di
recuperare un sacchetto della spazzatura e gettare via tutto, indistintamente,
ma compresi che delle piante di quella misura non dovevano essere facili, da
cestinare.
E allora, ricorsi ad un’altra idea, e mi diressi il più
velocemente possibile in cucina, al piano inferiore, per poi rifare di nuovo il
percorso che mi avrebbe riportato al piano superiore zoppicando e stringendo
nella mano destra un coltello e un sacchetto della spazzatura, e nella sinistra
un piccolo tagliere di plastica, molto leggero e maneggevole.
Tornai nella stanza del nemico, e barcollando, mi feci un
poco di spazio libero sul pavimento, spostando con le scarpe il ciarpame che
regnava ovunque, tanto ormai mi pareva chiaro che se il mio piano fosse andato
in porto non appena Federico sarebbe tornato a casa avrebbe scoperto che
qualcuno era entrato a ficcanasare, e appoggiai a terra ciò che mi ero portato
dietro dal piano inferiore.
Poi, allungai di poco un braccio ed afferrai la prima delle
due piante più grandi, gettandola malamente fuori dall’armadio nel quale doveva
restare rinchiusa quando il suo proprietario non era presente, forse sempre
nella speranza che nessuno lo scoprisse.
Con rabbia, le ruppi il flebile ma alto stelo, e dopo averlo
ripiegato più volte su sé stesso lo appoggiai sul tagliere, e cominciai a
lavorare col coltello. In pochi secondi, quella che era stata una pianta
produttrice di droghe era diventata una sorta di poltiglia triturata, sotto i fendenti
della mia arma, spinta dalla mia ira.
Stavo scoppiando, lentamente, e il nervosismo costante mi
stava portando ad allontanarmi sempre più dalla realtà, spingendomi solo a
continuare la mia opera e a fregarmene di tutto il resto.
In men che non si dica, afferrai anche l’altra pianta adulta
e la sottoposi al medesimo trattamento, per poi estrarne anche le radici e
triturare pure quelle, con tanto di terriccio in mezzo. Non mi fermai e non
risparmiai neppure le piantine più piccole, che non seppi comprendere a quale
specie appartenessero, ma immaginando che anch’esse fossero produttrici di
sostanze illecite mi affrettai a distruggerle, sradicandole facilmente con un
dito e triturandole.
Conclusi la mia follia in pochissimo tempo, e raccolsi tutto
il materiale da me prodotto, gettandolo in tutta fretta dentro il sacchetto
della spazzatura, di cui mi ero munito in precedenza.
Dopo aver raccolto tutto, mi ripresi anche i miei vasetti di
plastica, deciso a non volerli lasciare tra le mani di quel furfante, e, con
tutte le forze che mi restavano, spinsi fuori dalla stanza tutto il materiale
che avevo portato fin lì pochi minuti prima, e dopo aver lanciato un’ultima
occhiata al caos che regnava all’interno di quella sorta di immondezzaio,
spensi la luce e poi richiusi la porta a chiave dietro di me, esattamente come
l’avevo trovata. Non mi preoccupai del lezzo che aleggiava ovunque, tanto anche
se avessi spalancato la finestra non sarebbe sparito tanto in fretta. L’unica
cosa importante per me in quel momento era far sparire tutto quel materiale
fisico e tangibile.
Scesi la piccola rampa di scale di casa carico come un
facchino, e rischiai anche di cadere, ma sapevo che dovevo tenere duro, poiché
ne andava quasi della mia stessa vita. Immaginavo che a breve qualcuno sarebbe
tornato a casa, e la consapevolezza di dovermela spicciare mi spinse ad avere
ancora più fretta.
In un batter d’occhio lavai in bagno sia il coltello che il
tagliere, che riposi poi dove li avevo trovati, e mi ritrovai con un sacchetto
della nettezza e i miei vasetti abbandonati sul pavimento.
Finii di svuotare e di ripulire senza alcuna difficoltà i
vasetti dentro al sacchetto, liberandoli dal terriccio che era rimasto al loro
interno, e ne gettai via due, poiché rotti dalle piante più grandi, poi li
impilai di nuovo e meglio l’uno sopra l’altro, ed essendo della stessa
grandezza fu facilissimo incastrarli per bene e ridurre il loro volume ad una
sorta di piccolo e semplice fusto di plastica.
Non sapendo come proseguire, dato che li avevo appena
strappati dalle mani del nemico e non potevo farmeli trovare di nuovo in giro
per casa, altrimenti li avrebbe di certo ripresi e riutilizzati, decisi che li
avrei nascosti da qualche parte.
Finita la parentesi frenetica, mi ritrovai nel bel mezzo del
corridoio di casa, assieme al sacchetto della spazzatura e alla mia piccola
pila di vasetti, senza sapere cos’altro fare. Il mio corpo reclamava
incessantemente riposo, ed io glielo avrei senz’altro fornito se non avessi
saputo che non potevo lasciare un lavoro a metà. In poche parole, dovevo
nascondere i vasi e sbarazzarmi della spazzatura.
Consapevole anche di essere stato fortunato a non esser stato
disturbato da nessuno, dato che la mia abitazione era sempre molto trafficata,
abitandoci in sei, decisi di non tentare oltre la fortuna e di proseguire nel
mio piano un po’ folle, ma giusto a mio avviso.
Afferrai la piccola e leggera pila di vasi e il sacchetto
pieno a metà di vegetali distrutti e triturati, mischiati col terriccio e le
loro radici, anch’esse irrimediabilmente rovinate e fatte a pezzi, e mi diressi
alla porta di casa, tornando a sbloccarne la serratura e uscendo in giardino.
Tutto era ancora tranquillo, e nessuno dei miei familiari o
inquilini sembrava voler fare ritorno a casa tanto presto, e quindi continuai
ad approfittarne, andando nel retro e nascondendo i miei vasetti in un luogo
dove Federico e sua madre non sarebbero mai andati a riprenderli o a cercarli,
ovvero nel mio piccolo orto confinante con la casa di Ottaviano, e ne
approfittai di un secchio che tenevo lì tutto l’anno per metterli al suo
interno, e chiuderlo con il suo apposito coperchio di plastica.
Soddisfatto del mio operato, fino a quel momento, decisi di
completare tutto e di andare a sbarazzarmi dei residui organici compromettenti
che mi erano rimasti tra le mani.
Tenendo ben stretto tra le mani il sacchetto della
spazzatura, ben sigillato, abbandonai a malincuore e dolorante il mio giardino,
per direzionarmi verso il primo cassonetto pubblico dell’organico. Non ebbi
difficoltà a notare il primo, ovvero quello pochi metri più in là del punto in
cui poche ore prima ero stato picchiato, ma decisi con ribrezzo di non fermarmi
lì.
Proseguii, e dopo altre due piccole traverse trovai un bel
cassonetto già quasi pieno di sfalci, totalmente anonimo e lontano da casa mia,
che poteva davvero fare al caso mio. Mi ci avvicinai, e non dovetti neanche
aprirlo, poiché la gente l’aveva già pressoché riempito di residui della
potatura di un alloro, dato che le foglie verde scuro della pianta erano
facilmente riconoscibili, ed il loro odore giungeva alle mie narici senza
difficoltà, e così mi decisi ad agire.
Mi guardai attorno, sperando che non ci fosse nessuno. Sapevo
che difficilmente qualcuno sarebbe andato a controllare ciò che un comune
ragazzo gettava in un cassonetto, ed in più ciò che stavo buttando era
praticamente irriconoscibile anche ad uno sguardo attento, ma la prudenza non è
mai troppa, si sa.
Anche in quella via regnava il mortorio del mio paese, e mi
affrettai a procedere. Rovesciai il sacchetto dentro al cassonetto, e lasciai
che i miei residui organici si mischiassero per bene con gli altri, e dal
frusciare che emisero compresi che parecchi di essi dovevano essere finiti sul
fondo, attraversando le fronde gettate in modo molto caotico all’interno del
grande contenitore.
Abbastanza soddisfatto anche lì, poi mi sbarazzai anche del
sacchetto della spazzatura, gettandolo nell’apposito cassonetto della plastica,
anch’esso presente in quel piccolo centro di raccolta della differenziata, e mi
accinsi a tornarmene a casa, strofinandomi le mani l’una sull’altra.
Mentre tornavo alla mia dimora, sentivo su di me tutto il
peso di ciò che mi era accaduto e di ciò che avevo fatto durante quella
giornata, e i miei pensieri s’ingarbugliavano freneticamente all’interno della
mia mente, senza darmi tregua, come loro solito ormai, e quando mi accorsi che
zoppicavo leggermente e che una caviglia mi faceva ancor più male del ventre,
mi limitai solo a cercare di giungere a casa il più in fretta possibile,
cercando di non cedere proprio in quel momento.
Fortunatamente rincasai in fretta, e ritrovando la mia
abitazione ancora vuota, ne approfittai per raggiungere di nuovo il piano
superiore e lasciarmi affondare nel soffice materasso del mio letto, dopo
essermi lavato attentamente le mani.
Non avevo idea di come avesse potuto reagire Federico non
appena sarebbe tornato a casa, non trovando più la sua fonte di guadagni
illeciti, ma immaginai che non avrebbe più potuto farmi nulla, visto come si
erano messe le cose.
Mentre la stanchezza e il tormento fisico cominciavano a
tediarmi in modo insopportabile, mi ritrovai a comprendere che durante quella
giornata ero riuscito a compiere due vittorie importantissime e necessarie sul
nemico, che forse quella volta l’avrebbero effettivamente messo in uno stato in
cui difficilmente avrebbe saputo rialzarsi e tornare prepotente come prima.
In sole tre ore, la situazione di netto svantaggio in cui
versavo si era tramutata in una più vantaggiosa e di predominio, anche se tutto
aveva lasciato segni sul mio corpo e nella vita mia e di mia madre, e
ovviamente anche di Roberto, immaginai. Ma tutto ha un suo prezzo, è sempre
stato così, purtroppo.
Mentre continuavo a restare sprofondato nell’abbraccio caldo
del mio letto, pensai che forse chiamare un’ambulanza non doveva essere una
scelta inappropriata, siccome il dolore continuava a tormentarmi sempre più ed
ovunque in giro per il mio corpo, in seguito dell’abbassamento drastico
dell’adrenalina che mi aveva spinto a compiere azioni che non mi sarei mai
aspettato di dover eseguire, ma decisi di tentare di starmene fermo ed
immobile, immaginando che dopo un po’ di riposo tutto sarebbe andato meglio.
Non avevo nulla di rotto, per fortuna, e le ammaccature sarebbero passare col
giusto tempo e col migliore riposo.
Tormentato e senza pace, mi lasciai scivolare lentamente in
un sonno leggero e turbato, che ben presto sarebbe stato interrotto dalle
persone che sarebbero ritornate in casa mia, ma decisi tuttavia di godermi quei
pochi minuti di tregua e di lasciarmi andare tra le braccia di Morfeo, che mi
stava reclamando quasi ad alta voce.
Mi addormentai in pochi minuti, bisognoso della pace e della
tranquillità che solo un breve periodo di sonno poteva offrirmi, dato che avevo
passato in modo insonne anche la precedente notte, preparandomi a mio modo ad
affrontare il ritorno di mia madre e le spiegazioni che le avrei dovuto offrire,
sapendo che non sarei più potuto scappare da lei e dalle due domande, giuste
tra l’altro.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici, e
grazie per aver letto anche questo capitolo.
Continuo a ripetere e a sottolineare che ciò che accade in
questo racconto è puramente frutto della mia immaginazione e non ha alcun nesso
con la realtà o con fatti realmente accaduti. I luoghi in cui si muovono i
personaggi e il protagonista sono gestiti da me in modo verosimile, ma
anch’essi non esistono e sono frutto della mia immaginazione.
Vi ringrazio per avere letto e ricopro di infiniti
ringraziamenti tutti i miei buonissimi, puntualissimi e gentilissimi recensori.
Senza di voi e il vostro costante supporto, forse il racconto si sarebbe
arenato molto prima del previsto.
Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.