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Autore: simocarre83    26/09/2016    3 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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8 – LEFT OUTSIDE ALONE
La sera stessa passammo tutto il tempo a chiacchierare sui progetti che volevamo realizzare una volta rimasto solo in casa: sarebbero venuti a suonare il campanello in piena notte, forse saremmo riusciti anche a mangiare insieme e qualche volta anche a dormire insieme.
Stavamo parlando proprio di quello quando Francesco ed Emanuele videro arrivare il loro padre, e se ne andarono perché non lo vedevano da una settimana.
Pochi secondi dopo un motorino sfrecciò per la via principale.
A mia insaputa, quel motorino avrebbe cambiato la mia vita. Di certo avrebbe cambiato la mia giornata. Ancora prima di sapere che quello non sarebbe più stato un giorno bellissimo, udii il motorino che curvava, che entrava nella traversa della nostra via e si fermava subito dopo l’incrocio della via in cui eravamo. Vedemmo, poi, un ragazzino scendere dalla via e venirci incontro. Aveva il casco, non se lo era tolto, ma Giuseppe lo riconobbe comunque e sorrise per quella visita inaspettata.
“Angelo! Ciao!” gridò immediatamente Giuseppe. Era un suo compagno e non si vedevano da che era finita la scuola. Tirai un sospiro di sollievo e mi rilassai.
“Ciao Giuseppe. Stasera un ragazzino mi ha avvicinato e mi ha consegnato questa busta per te. La busta è scritta al computer, quindi non ho potuto riconoscere la calligrafia, e il mittente non c’è. Scusa ma ora devo andare. È da stamattina che sono in giro e devo andare a casa. Ciao. Poi uno di questi giorni organizziamo una partita di calcetto”.
Riprese la via e se ne andò, esattamente come era arrivato. Giuseppe, che non aveva mai avuto troppi segreti con me, aprì immediatamente la lettera. Era scritta a computer. Erano tre semplici righe. Sembrava niente di particolare. Giuseppe velocemente le lesse, richiuse la lettera e salì a casa sua.
In pochissimi minuti, rimasi da solo, fuori da casa di Giuseppe, dal quale cercai qualche spiegazione. Citofonai a casa sua e, come al solito, ebbi accesso immediato. Parlai brevemente con la madre di Giuseppe, le dissi che c’era mia nonna che la cercava e ottenni il permesso di salire in camera di Giuseppe. Avanzai per le scale e, trovandomi di fronte alla porta, non feci altro che bussare. “Avanti” fu l’unica risposta che udii dall’altra parte. Molto timidamente, entrai e richiusi la porta dietro di me.
Trovai Giuseppe sdraiato sul letto. Con lo sguardo fisso verso il soffitto, col viso impassibile e pallido. Tutte e tre (posizione, sguardo e viso) che non richiedevano nessun particolare potere per farmi capire che c’era decisamente qualcosa che non andava.
“Cos’hai? Qualche problema? Vuoi parlare di cosa c’era scritto nella lettera?” chiesi, con la dovuta cautela.
“Cosa c’è scritto. Non l’ho buttata, non preoccuparti. Non farei mai una cosa simile. Sarebbe troppo rischioso”.
“In che senso?”.
“C’è chi ha pagato per molto meno. Ora, per favore, lasciami stare. Devo dormire”.
“Non avresti dovuto parlare di che?”, chiesi ancora, sicuro di ottenere una risposta chiarificatrice.
“Non devo parlare di quello che c’è scritto nella lettera. Non tentare di fregarmi con quella tattica. Ti conosco troppo bene. Ciao”.
Liquidato così velocemente, mi mancarono le parole per aggiungere qualcosa. Salutai, chiusi la porta dietro di me, scesi le scale e uscii da quella casa.
Mi ritrovai così, di nuovo, da solo in mezzo a quella via. Immediatamente mi accorsi che da sotto lo scivolo pedonale che stavo per percorrere giungevano le voci di due ragazzini che parlavano.
Chiamatelo sesto senso, chiamatela eccessiva prudenza, non lo so. Semplicemente ebbi paura. Avevo il dubbio che fossero appostati e che stessero aspettando proprio me. Evidentemente però, non era il caso di andare a chiederglielo.
L’unico passaggio libero per casa mia, quindi, era la strada superiore. Iniziai a camminare in quella direzione, solo che mi accorsi che la luce del lampione che si trovava sulla strada principale aveva fatto scoprire l’ombra di un’altra persona che mi stava spiando da dietro l’angolo.
Questo altro particolare mi convinse completamente del fatto che tutti loro fossero lì per me.
Mi fermai. Fortunatamente ero ancora vicino alla finestra di casa di Giuseppe e il padre di Giuseppe, che vedeva la televisione in cucina, poteva offrire una certa protezione in caso di pericolo. Questo mi diede il tempo di pensare il più velocemente possibile ad una via di fuga.
E poi mi venne un’idea. Giuseppe, qualche giorno prima, sfruttando la regola del nascondino al contrario che ci impediva di entrare nelle porte delle nostre case, per sfuggirci, entrò in casa sua dalla finestra della cucina e uscì dalla finestra che dava sull’altra strada. Ovviamente la regola fu cambiata.
Ma non era il momento, quello, di ragionare sulla portata legale della soluzione di Giuseppe. Quella furbata non fece altro che darmi lo spunto giusto per elaborare il piano della mia fuga da quella situazione che si faceva sempre più pericolosa.
Era vero che i miei nonni non tanto sentivano. Ma era altrettanto vero che, se telefonavo a mio nonno, potevo dirgli di aprire la finestra della camera da letto ed entrare direttamente in casa da lì, come peraltro avevo fatto anche in altre occasioni.
Fortunatamente rispose mio nonno. Gli chiesi di aprire la finestra. Lui lo fece e pochi secondi dopo era al sicuro in casa mia. Una volta dentro, però, telefonai a Giuseppe. Era inevitabile. Tutte e tre le volte nelle quali era accaduto che Giuseppe mi avesse risposto male c’erano di mezzo Michele e i suoi. Ero certo che le cose stessero così anche questa volta. Rispose la madre di Giuseppe. Con la scusa di voler fare una sorpresa a Giuseppe, le chiesi di passarmelo dicendo che ero un suo compagno, Angelo, che doveva informarlo sulla prossima partita di calcetto. Lei stette al gioco e chiamò il figlio. Giuseppe ci mise pochi attimi ad arrivare al telefono.
“Ciao Angelo. Senti, ho avuto un problema e non so se potrò darti una mano a organizzare il torneo di calcetto di quest’anno”.
“E chi se ne importa, sono Simone!”.
“Cosa vuoi da me? Ti ho già detto di lasciarmi stare. Non ho assolutamente intenzione di parlare. Perché mi hai telefonato?”.
A quel punto, che di stress, ne avevo accumulato tanto in quei giorni, risposi: “Non chiederlo a me. Chiedilo piuttosto a quei ragazzi che erano sotto lo scivolo e dietro l’angolo della tua via. Non avevano intenzioni molto piacevoli. Stavano aspettando me. Non dirmi che è una coincidenza lasciarmi solo. Sicuramente, ed è questo il motivo per cui ti ho telefonato, la lettera doveva dirti qualcosa che io non dovevo sapere. Qualcosa che non doveva sapere nessuno di noi tre. Ora non tirare fuori la solita storia del troppo pericoloso perché non ci casco più. Voglio sapere tutto. Qualcuno, oggi, ha cercato di farmi qualcosa che non era sicuramente solo insultarmi. Non permetterti perciò di tirare fuori altre scuse e dimmi quello che c’era scritto sulla lettera! Subito!”.
Immaginai dall’altra parte della cornetta Giuseppe che, senza voce, per non incorrere nell’ira di sua mamma, pronunciava una parolaccia, poi che avvampava diventando tutto rosso. Il tutto nel giro di due, massimo tre secondi. Ma quel tempo bastò.
“Va bene. Vieni di nuovo qui e ti spiegherò tutto. Per passare porta tua nonna a casa mia. Non ti faranno niente con tua nonna. Ciao”. Attaccò. Compresi che doveva essere successo qualcosa di veramente grave e immediatamente presi mia nonna e l’accompagnai dalla madre di Giuseppe. Per la strada non vidi più nessuno. Erano scomparsi. Probabilmente, non avendomi più visto, se ne erano andati. Questo non fece altro che avvalorare l’ipotesi che quelle persone fossero lì proprio per me. In pochi secondi fummo a casa di Giuseppe. Sua madre accolse mia nonna ed io salii direttamente in camera di Giuseppe.
Per poco, non mi scontrai con Giuseppe. Entrammo in camera da letto e Giuseppe chiuse la porta dietro di sé.
“Scusa per prima” dissi, ritenendo doveroso ammettere di aver esagerato “ma non ne potevo più. Non sai la paura che mi sono preso quando ho visto quelle persone e mi sono reso conto che aspettavano proprio me e che non lo facevano per salutarmi”.
“Si, ma tu non sai la paura che mi sono preso io quando ho letto la lettera che mi avevano dato. Adesso te la do, ma sappi che lo faccio semplicemente perché ormai non serve più allo scopo per cui l’avevo ricevuta” e, così dicendo, mi porse la lettera. Che aprii e lessi in un sol fiato:
“Se vuoi vivere ancora per molto tempo non dire niente, sali in casa. Se Simone sale a casa tua non dirgli niente. Se non ubbidirai verrai al più presto punito come tu ben sai. Non cercare di fregarci, se vuoi vivere ancora per molto tempo”.
Questo era il testo della lettera. Sotto c’era anche un disegnino di tre omini stilizzati. La richiusi e la riconsegnai al legittimo destinatario. “Ho capito tutto quello che dice questa lettera, ma perché dovremmo avere paura? Non può essere qualche scherzo?” fu la semplice domanda che gli feci. Non poteva trattarsi di una semplice bricconata di qualche nostro amico mattacchione che aveva messo in piedi quella messinscena per farcela fare sotto e poi finire tutto in una bella risata?
“No. Per due motivi: prima di tutto lo stile. Scrivere la stessa frase all’inizio e alla fine della lettera. Poi i tre bambini stilizzati, un segno che nessun abitante di Policoro vorrebbe vedere scritto su una lettera indirizzata a lui”.
“Una specie di firma?” azzardai, cercando di lasciar intendere di aver capito, anche se ancora non avevo capito proprio niente.
“Non una specie di firma, purtroppo. La firma. Quella che incute più timore di tutti. Chiama immediatamente Francesco e Emanuele e digli di venire qui. Digli di stare molto attenti e di fare il più presto possibile”.
Ancora stupito per quella ferma presa di posizione di Giuseppe che non lo aveva mai caratterizzato, telefonai ad Emanuele. Pochi minuti dopo erano informati anche loro delle ultime novità.
Iniziò così un’animata discussione sulla questione.
“Ma veramente non sai chi firma in quel modo? Veramente non sai chi sono i Tre Fratelli?” mi chiese Francesco stupito di quella novità.
“No!” risposi timidamente, stringendo le spalle, come per far capire che non c’era niente di male a non sapere chi fossero quei “Tre Fratelli”.
“Sono i tre capi della banda giovanile di Policoro. La più malfamata e la più pericolosa di tutte. Non bisogna avere mai a che fare con loro, se si vuole vivere calmi e tranquilli”.
“Ma non starete un po’ esagerando? Non vi sembra un po’ troppo, considerarli così pericolosi?”.
“Pensa quello che vuoi ma, se Michele ha parlato con uno di loro tre, faremmo bene a preoccuparci seriamente e tu faresti bene ad andartene su a Milano, piuttosto che rimanere qui solo”.
“E se Michele fosse stato affiliato a quella banda da prima di quella serata? Non hanno agito prima, perché proprio ora?” chiesi.
Di nuovo Emanuele “Impossibile. Sono certo che quando ci siamo visti l’ultima volta, quella sera, non faceva ancora parte della banda!”
“Ripeto che secondo me state un po’ esagerando”.
“No!” aggiunse Emanuele “Non pensarla così. È più grave di quanto pensi. Qualche tempo fa erano state diffuse le foto di un ragazzo scomparso. Voci di corridoio della scuola dicevano che erano stati i Tre Fratelli a rapirlo. Si dice che l’avessero torturato fino ad ucciderlo, ma nessuno seppe mai niente con certezza, né dove sarebbe stato nascosto il corpo. Poi, dopo qualche giorno, le bocche furono tappate con lettere simili a questa. Anche io ne ricevetti una. Il tempo fece in modo di cancellare ogni traccia. Ma ogni tanto, di notte, mi capita ancora di ripensare a quei momenti, e non sono assolutamente calmo, neanche il giorno dopo. Convinto ora?”.
“Tu stesso hai detto che si tratta di voci di corridoio”.
“Si, ma il corpo non è stato più ritrovato. Non se ne è saputo mai più niente; e poi le lettere non possono semplicemente essere delle finte. Simone, e penso di parlare a nome di tutti e tre, abbiamo paura. Siamo preoccupati. Non ci era mai capitata una cosa del genere e neanche avremmo voluto che ci capitasse”.
“Hai ragione, ma purtroppo è capitato. Non ci sono più possibilità di risolvere questo problema pacificamente. Se tutto va bene tra poco il tempo cancellerà tutte le nostre preoccupazioni”.
“Ok! Speriamo che le cose vadano così. Adesso cerchiamo di mantenere un basso profilo e non fare stupidaggini” concluse Emanuele.
Ci fu un attimo di silenzio. Poi, presi l’unica decisione possibile. Anche se con una rabbia indescrivibile dentro di me, continuai: “Allora penso che sia meglio che me ne vada. Non voglio mettere assolutamente a rischio la vostra e la mia incolumità. Almeno fino a quando non si saranno calmate le acque penso proprio che non ci rivedremo più”.
“Simone” disse Emanuele “Non vogliamo che tu te ne vada. In fondo non è colpa tua o nostra se ci siamo ritrovati in questa condizione. Le cose sarebbero dovute andare a finire così. Avremmo dovuto prima o poi incontrare un ostacolo maggiore di noi che ci avrebbe sconfitti. Purtroppo le cose sono finite così. Ci dispiace di averti fatto passare delle vacanze così”.
“Non vi sto imputando la colpa di niente. Però salutiamoci. Non sto scherzando. È bene che vada via. Non prendetela per codardia. Io non sono fatto per continuare in un modo così pericoloso questa battaglia”.
Preferii non permettere più a nessuno di aggiungere qualcosa che mi avrebbe fatto soffrire inutilmente. Semplicemente uscii da quella porta, ridiscesi velocemente le scale e altrettanto velocemente presi la strada di casa. I miei nonni erano già andati a dormire. Chiusi la porta. Non era ancora tardi. Decisi perciò che avrei telefonato quella sera stessa a mio padre per dirgli che sarei ritornato pure io a Milano, e che poi avrei deciso se fosse stato il caso di ritornare a Policoro in un secondo momento. Mio padre giustamente volle sapere il perché di quella decisione, ma non volli dirgli niente. Ci lasciammo.
Una telefonata più o meno della stessa durata avvisò anche Maria dell’accaduto.
Decisi di uscire un po’. Rimasi davanti a casa mia, seduto sulla  panchina a pensare. Da lontano si potevano scorgere le ultime macchine che procedevano lungo il corso. Pensai a quante belle cose avevo fatto a Policoro, a quante emozionanti avventure di bambino avevo passato con Giuseppe e i suoi compagni, quando giocavamo a nascondino, con anche altri amici. Pensai soprattutto all’amicizia che mi univa a Giuseppe.
Pensai anche all’amicizia che mi aveva legato per molti anni anche a Michele e a come fossero cambiate repentinamente le cose in quegli ultimi due anni. Cercai ancora una volta di capire quello che poteva essere successo senza giungere a delle conclusioni ragionevoli. Sentivo di essere ancora ignorante di molte, troppe cose, per capire la verità. Alcune mi si presentarono quella sera stessa come domande. Altre sottoforma di dubbi. Col senno di poi direi che, sebbene mancassero ancora troppe cose per giungere ad una soluzione definitiva di quella situazione, ci ero incredibilmente vicino. Le domande erano quelle giuste. Le lacune erano quelle che avrei dovuto colmare. Ma obiettivamente ne avevo ancora troppe, di lacune, per giungere alla vera soluzione.
Finché dall’angolo della via vidi spuntare Giuseppe. Con calma arrivò fino alla panchina dove ero seduto.
“Sono venuto per parlare con te, da solo” furono le uniche parole che disse prima di sedersi al mio fianco.
Rientrai un momento in casa, presi due bottigliette di Coca-Cola, le stappai, riuscii, porgendone una a Giuseppe.
Da lontano sembravamo due uomini che sorseggiavano una birra mentre si interrogavano sui massimi sistemi o parlavano di donne. In realtà eravamo due ragazzini con in mano una bottiglietta dal contenuto assolutamente analcolico, che avevano voglia di parlare di quella giornata. Bella, fino a un’ora prima. E brutta, troppo brutta per quegli ultimi sessanta minuti.
E ancora ero troppo riservato e troppo emozionato per parlare con un’altra persona dei miei sentimenti verso le ragazze. Dei miei sentimenti verso una ragazza. Insomma, di Maria.
“Grazie, perché anche io avevo voglia di pensare e farlo con te è sicuramente meglio” gli dissi abbozzando un mezzo sorriso. “È per questo motivo che mi hai trovato qui e non a letto”
“Senti. Non cerchiamo di nasconderci dietro delle maschere. Io e te siamo entrambi poco convinti di quello che stai facendo, e soprattutto siamo poco convinti del fatto che quello che tu stai facendo sia la cosa migliore. E allora perché farlo?”.
Mi resi immediatamente conto del repentino cambiamento dei toni di quella conversazione. Ed iniziai a convincermi del fatto che Giuseppe potesse veramente aver cominciato ad essere il ragazzo saggio che avrei conosciuto successivamente. Decisi quindi di dargli qualche spiegazione in più. Anche perché sapevo che aveva interpretato correttamente la mia situazione. E a lui, come a nessun altro, proprio non potevo nascondere il fatto che avessi un bel po’ di paura.
“Giuseppe. Vedi, il discorso non è cosa sia meglio fare, ma che cosa sia meno dannoso. Anch’io, come hai potuto ben notare, sono molto dispiaciuto e molto triste al solo pensiero di dover ritornare su a Milano dopo neanche un mese di permanenza qui a Policoro. Ma, credimi, io sono il primo a dire che se non fossi stato pienamente sicuro di fare queste cose per il bene mio e vostro, non le avrei mai fatte”
“Ma perché pensi di farlo per il nostro bene?”
“Tu mi hai sempre conosciuto come un ragazzo che, benché, pacifico, non si lascia mai scoraggiare dalle difficoltà. Questo non è vero. Sono semplicemente vissuto in una città grande, dove la maggior parte delle difficoltà che abbiamo già affrontato insieme sono delle cose normalissime che mi era già capitato di affrontare. Questa invece è un’esperienza nuova anche per me. Una cosa che mi è successa mi ha fatto pensare. I Tre Fratelli hanno fatto in modo di farvi andare via prima di farmi qualsiasi cosa. Probabilmente il motivo è che con voi non hanno niente da dire. Vogliono semplicemente fare del male a me. E ribellarmi a questa loro decisione potrebbe mettere voi in condizioni di reale pericolo. E queste sono due cose che mi fanno paura. Quindi l’unica cosa che mi sento di fare in questo momento è lasciare il campo di battaglia. Diciamo che si tratta di una ritirata strategica. Perché, per quanto non avrei mai voluto trovarmi in una situazione del genere, vorrei tanto ritornare in futuro qui a Policoro e risolvere questa situazione una volta per tutte sicuro di non provocare ulteriori problemi e felice di poterne parlare dopo insieme”.
Giuseppe vide nel mio sguardo qualcosa. Capì che non era possibile in quel momento aspettarsi da me qualcosa di più importante e coraggioso. Si accontentò del mio breve accenno alla paura e di quel raggio di speranza che avevo cercato di dargli.
“Non mi hai convinto. Però ti ringrazio. Vorrei tanto che fossero qui anche Emanuele e Francesco, perché anche loro avrebbero sicuramente voluto ringraziarti. Scusa se ho dubitato della tua buona fede”
“Non preoccuparti. Sappi solo che un posto nel mio cuore per Policoro e per voi ci sarà sempre, e, anche se non ci rivedremo per un po’ di tempo, state sicuri che quando ritornerò le cose in un modo o nell’altro saranno cambiate”.
Tutto si concluse poi con un abbraccio, così denso di emozione e di significato che nessuna parola può descriverlo. In quell’abbraccio c’erano quattordici anni di lunga amicizia, che di sicuro nessuno avrebbe mai potuto rompere. Ci lasciammo e, mentre osservavo Giuseppe che se ne andava, notai che aveva anche passato la mano sugli occhi, probabilmente inumiditi dalla situazione improvvisa nella quale ci eravamo venuti a trovare in poche ore, e decisi di rimanere un altro po’ a pensare nel tentativo di convincermi che quella era veramente la decisione migliore.
Era giusto quello che stavo facendo? Avrei potuto prendere una decisione diversa? Fu allora che mi convinsi del fatto che era l’unica cosa che si poteva fare. Fu allora che, seppur dispiaciuto per quello che stava per succedere, decisi che era comunque la cosa migliore da fare. Ormai avevo capito quello che era giusto e quello che era sbagliato e, sicuramente, rimanere lì, non era la cosa più giusta. Era vero: il motivo più importante per cui me ne andavo era la paura. Compresi però che andarmene non era la cosa migliore, ma la cosa meno dannosa. Per tutti. Il giorno dopo sarei partito da Policoro, e, probabilmente non avrei più visto quella città per un anno.
Il giorno della partenza lo passai in casa. Non volli vedere nessuno. Solo verso sera, come era mia abitudine fare prima di andarmene, andai a casa di Giuseppe per accomiatarmi con lui, con la sua famiglia e con Francesco ed Emanuele. Ancora una volta cercarono di convincermi a rimanere, ma solo una cosa mi sentii di dirgli ancora in relazione a quel discorso.
“Non preoccupatevi. Da adesso in poi non avrete più problemi. In fondo lo sappiamo tutti e quattro: vogliono mandare via me. Voglio però che per quanto sia possibile rimaniamo ancora amici e risolviamo ancora insieme i problemi”.
Detto questo, me ne andai. Le valigie erano già pronte e non avrei dovuto fare altro che prenderle e andarmene. E quello feci.
Il treno partì in orario. Pensando il contrario Giuseppe e gli altri cercarono di raggiungermi prima della mia partenza, ma arrivarono in stazione poco dopo che il treno aveva iniziato a muoversi. E non li vidi neanche.
La conferma di quello che gli avevo detto arrivò dopo qualche giorno. Infatti un’altra lettera giunse a Giuseppe. Immediatamente la fece leggere ai suoi due amici. Diceva che i Tre Fratelli avevano ritirato le “accuse” contro di loro e che se io non mi fossi fatto più vedere da quelle parti non sarebbe successo niente. Lessero la lettera con il nodo alla gola. Non avrebbero mai voluto che tutte quelle cose accadessero, ma ora si sentivano molto più rilassati al solo pensiero che tutto era finito. Il peggio era passato. Anche se senza di me, avrebbero cercato di seguire le mie istruzioni: non sarebbero stati tristi ma avrebbero cercato di godersi quello che rimaneva dell’estate. D’altra parte erano ancora a metà Luglio. Nello stesso tempo fecero pervenire una copia della lettera anche a me nella quale erano contenuti anche i loro ringraziamenti e una lettera speciale nella quale mi salutavano e mi dicevano tante cose belle.
Non vollero neanche più parlare di Michele e la sua banda. Questi, infatti, non si erano fatti più vedere, forse perché gli era stato ordinato così dai loro tre nuovi capi. Erano infatti entrati a far parte della banda dei Tre Fratelli, e adesso dovevano, anche loro tre, ubbidire ciecamente a quello che questi gli ordinavano.
Qualcosa che cambiava, però, c’era. E cioè che noi stavamo crescendo. E che quando si cresce difficilmente si è sottomessi a quello che ci ordinano gli altri, soprattutto se non siamo proprio d’accordo. Giuseppe aveva visto in me una debolezza che non aveva riferito agli altri. Ma mi aveva anche visto profondamente deluso per la mia stessa impotenza.
Sapeva, quindi, fino in fondo, che io non mi sarei arreso a Policoro. aveva capito che la battaglia era rimandata e che, definitivamente, la guerra non si era conclusa. Che era, semplicemente, come tutte le estati, rimandata all’estate successiva. Cercò però di reprimere i suoi dubbi comportandosi con me come sempre, scrivendomi e ogni tanto telefonandomi. Sempre, però, ho avuto l’impressione che Giuseppe volesse fare di tutto per evitare di farmi rimuginare il passato e pensare al futuro.
Io ero riuscito a convincere mio padre che preferivo rimanere a Milano con i nonni invece di scendere nuovamente con il resto della famiglia. Così passò l’estate e ricominciai la scuola felicissimo di aver ritrovato i miei compagni, e con alcuni di loro me la sentii di parlare di quello che era successo.
In particolare ad Alessandro, il mio miglior compagno di classe, raccontai proprio tutto l’accaduto. Lui, che solitamente non era di carattere così mite come me, disse immediatamente che se fosse stato al posto mio li avrebbe “ammazzati” a tutti di botte. Mi misi a ridere. Pensai che fosse una fortuna, per lui, non essere al posto mio. E che tutto era finito bene.
Tutto sommato avevo fatto la scelta migliore. Avevo mantenuto l’incolumità dei miei amici e la mia.
Come spesso accadeva, la scuola e altre attività mi distrassero a tal punto da riuscire a farmi smettere di pensare a certe cose.
E fu meglio così.

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Buongiorno a tutti!! eccoci giunti ad un punto di svolta. ringrazio tutti/e coloro che hanno recensito fin qui questa storia (compreso  alessandroago_94 che sta azzeccando QUASI tutti i miei pensieri e intenzioni per il futuro)... e al prossimo capitolo!!
  
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