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Autore: simocarre83    10/10/2016    3 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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10 – SERE NERE
Arrivai a Policoro più stanco dell’anno prima. Se, l’anno precedente, ero riuscito a evitare, per uno strano caso, l’‘effetto Bollywood’ adesso mi ci frantumai in pieno. Treno stracolmo, bagni intasati, aria condizionata mal funzionante. Insomma, tutto era tornato normale. Non valeva più la pena di illudersi neanche per quello. Di certo, arrivato a Policoro, mi feci più furbo dell’anno prima. Niente perdite di tempo in respiri, sudare, camminare. Appena sceso dal treno, mi fiondai alla pensilina del pullman. E riuscii a prenderlo, godendomi quel viaggio di due minuti con l’aria condizionata e un autobus quasi completamente vuoto, visto che a quell’ora ancora non c’era il “ritorno grosso” dal mare. Avevo sentito Maria per pochi minuti e quindi il telefono era carico abbastanza per avvisare i miei nonni del fatto che il treno avrebbe fatto ritardo. Anche se, circa dieci minuti dopo l’arrivo alla stazione di Policoro del treno, ero felicemente sotto la doccia a rinfrescarmi.
Per quanto l’esperienza sfiorata con i Tre Fratelli era stata quasi completamente adombrata dall’aria estiva e marittima di Policoro, c’era però qualcosa che non andava. Per quanto fosse normale che non ci sentissimo per qualche tempo, da quando avevo mandato l’ultima lettera dopo Pasqua, Giuseppe non mi aveva risposto. Né per iscritto. Né telefonicamente. Né via e-mail. Né via piccione viaggiatore, o telegrafo, o radio amatoriale, o con un annuncio sul giornale o con una missiva portata a cavallo, con segnali di fumo, con lettere minatorie. Nulla. E questo non mi faceva piacere per niente quella situazione. Poi il messaggio del giorno prima, a cui non aveva risposto. Poi quel giorno, e di solito, sapendo del mio arrivo, lui voleva essere il primo a farsi vedere a Policoro. Infatti, anche l’anno prima, e nonostante le minacce e i divieti di Michele, avevo rivisto Giuseppe prima addirittura dei miei nonni.
Voleva significare qualcosa? Pur avendo paura della risposta a questa domanda, pur avendo paura che la risposta implicasse in qualche maniera i Tre Fratelli, non potevo fare a meno di porgermela. E la risposta, almeno quella breve, la conoscevo benissimo: Sì. È che non sapevo cosa di così brutto potesse essere successo nelle ultime settimane per provocare quel mutismo da parte sua. Cercai di convincermi che non aveva credito e probabilmente che aveva avuto un impegno improrogabile che lo teneva lontano dai suoi amici per quel giorno. Ma non ero convinto neanche io di quell’ipotesi.
Mangiai e verso le due mi addormentai, stanco del viaggio impossibile. Ed un’ulteriore dimostrazione di questo l’ebbi al momento del risveglio accorgendomi che quel pomeriggio me l’ero fumato con cinque ore di sonno profondo e pesante. Quasi istintivamente consultai il cellulare, per scoprire che da Giuseppe neanche uno smile. Decisi di uscire a fare un giro al castello. Non ci andavo da almeno 4 anni. Mi ricordavo ancora perfettamente quella volta, ad esplorare la parte più nascosta del castello. Mi ci sarei perso, se non foste stato per… decisi che volevo dimenticare quel particolare. In quel momento certe persone non meritavano neanche di essere ricordate. Ero riuscito a non pronunciare quel nome per un anno intero e non volevo neanche pensarlo, se non fosse stato assolutamente inevitabile.
Stavo per arrivare al castello quando, girando un angolo, per poco non mi scontrai con un ragazzino. Timidamente mi scusai e iniziai a ritornare verso casa. Questo ragazzino, che intanto, per questo tratto di strada, mi precedeva, si fermò, si voltò e mi chiese come mi chiamavo.
“Simone!” risposi. “E tu? Ci siamo già visti da qualche parte?”
“Non credo. Comunque mi chiamo Giovanni! Ciao” mi rispose.
Ricambiai il saluto e ciascuno proseguì per la propria strada. Decisi di tornare a casa, ma fui anche parecchio incuriosito da quello che era accaduto. E da quel ragazzino. Decisi quindi di fare una cosa che non facevo, anch’essa, da quattro anni. Seguire quel ragazzino. Continuai per qualche minuto a girare nelle viuzze del castello, quando vidi il ragazzino entrare in una casa. Giunsi fino al cancello e quando vidi il cognome scritto sul citofono sobbalzai, correndo via come un pazzo: senza essermene accorto avevo seguito uno dei Tre Fratelli fino a casa sua. Corsi via cercando prima possibile di ritornare ai più amichevoli lidi del mio vicinato. Almeno, più amichevoli pensando che fossero tali.
Decisi di attraversare la via dove abitava Giuseppe da una posizione più alta, In modo da vederli senza essere visto. Ma quello che vidi era tutto molto, molto strano. Nella via non c’era nessuno. Vidi anche che Emanuele e Francesco erano al balcone di casa loro. Quindi ritornai sulla parallela e corsi velocemente sulla prima traversa, in modo da trovarli ancora sul balcone. Ed infatti così fu. Passai e con la coda dell’occhio li vidi. Mi voltai e li salutai con un gesto del braccio. NESSUNA RISPOSTA. Mi guardavano, fissi, ma non rispondevano al saluto. Ci riprovai.
“Oh! Ciao!!”
Niente. Mi sembrò che Francesco mi facesse un cenno con la mano. Appena se ne accorse, Emanuele lo prese e con forza lo spinse dentro casa, chiudendo dietro di sé la porta del balcone.
Senza neanche pensarci corsi giù, verso casa di Giuseppe. C’era, a quel punto, una sola persona che poteva darmi delle spiegazioni. E a lui le avrei chieste. Non c’erano auto in tutta la via. Evidentemente erano soli in casa. E anche Giuseppe lo era. Suonai insistentemente al citofono.
“Chi è?” fu la risposta: dall’altra parte del citofono c’era proprio Giuseppe.
“Giuseppe! Sono Simone!”. Non feci neanche in tempo a dirlo che il citofono si chiuse. Attesi qualche secondo, immaginando Giuseppe che, dal piano di sopra, scendeva velocemente ad accogliermi. Ma nulla di tutto ciò accadde.
In quel momento, come un fulmine in un cielo già livido di nuvole, un pensiero attraversò la mia mente, già piena di preoccupazioni per quello che stava succedendo. Ritornai con la mente all’ultima sera passata a Policoro l’anno prima. Capii che, come allora, ero solo in quella via. Non c’era nessuno, proprio nessuno, che avrebbe potuto proteggermi in quel momento.
All’improvviso, da dietro l’angolo della via, vidi spuntare due persone. Una non la conoscevo, almeno non di persona. L’altra l’avevo conosciuta pochi minuti prima. Era il ragazzino che avevo seguito. A giudicare dalla fisionomia dell’altro, dovevano essere i due fratelli minori di Cosimo. Erano fermi all’inizio della strada. Mi ero bruciato quella via d’uscita. Sapevo che probabilmente al termine dello scivolo pedonale avrebbe potuto esserci un’altra coppia di persone, come l’anno prima.
Era incredibile come in quell’anno ero riuscito a raggiungere vette sempre più alte di paura. Quasi panico, ma per fortuna non ero ancora arrivato a quel punto, dal momento che, lo sapevo, il panico sarebbe stato peggio di qualsiasi altra forma di paura potevo provare.
Fu strano, anche in quel caso, per me, parlare di fortuna. Non ci credevo, e non ci credo tuttora. Eppure quella fu l’ultima volta che ebbi una fortuna così sfacciata. Perché intanto si erano fatte le otto.
Mio nonno, essendo quasi in partenza, aprì la finestra per chiamarmi. Non fece neanche in tempo ad aprir bocca che schizzai in casa come una molla. Tirando un sospiro di sollievo per averla scampata anche in quell’occasione.
Ancora nell’incoscienza di quello che stava realmente accadendo, mi gustai gli ultimi minuti in compagnia dei miei nonni. Mi avevano lasciato casa pulita, frigo pieno e un’immensa libertà. Tenere la casa in ordine, pulire, sistemare, cucinare, lavare, fare la spesa, erano tutte preoccupazioni che, in quel momento, non mi sfioravano neanche lontanamente. Come qualsiasi mio coetaneo, a quel tempo, pensavo di potermela cavare tranquillamente. Un loro amico passò a prenderli e se ne andarono.
Avevo già mangiato e solo a quel punto mi sdraiai un attimo sul letto a riflettere. E giunsi al vero inquadramento del problema. Evidentemente era successo qualcosa. Evidentemente i Tre Fratelli si erano fatti vivi con Giuseppe, Francesco e Emanuele. Ma perché? La risposta a questa domanda mi venne subito dopo. Perché sentii, pienamente nascosto dalla vista di tutti, quello che accadde in quella via. I passi, veloci e giovani, di due persone. Si fermarono davanti alla casa di Giuseppe. Citofonarono e pochi secondi dopo Giuseppe aprì la porta. Si salutarono sotto voce. Senza dire niente si avvicinarono e si sedettero sul marciapiede proprio sotto la mia finestra a parlare. Ingenuamente.
“Mi dispiace tantissimo non aver potuto parlare con Simone, ma le istruzioni erano quelle e non possiamo permetterci di disubbidire” disse Emanuele.
“Non so se riusciremo a continuare così. Pensate che questo pomeriggio, appena l’ho visto, stavo per salutarlo. Meno male che Emanuele me lo ha impedito, altrimenti non oso pensare a quali conseguenze avremmo potuto avere” aggiunse Francesco.
“Non preoccupatevi. Anche io mi sento male al solo pensiero che il mio migliore amico è in casa e che noi, da qui fuori non possiamo neanche salutarlo” concluse Giuseppe, “ma per il momento questa è l’unica cosa che possiamo fare”.
Altro che “ingenuamente”. Quei tre, adesso ne ero sicuro, l’avevano fatto apposta. Capii infatti che quello era l’unico modo che avevano per comunicare rendendomi edotto di quanto stava accadendo. E avevano sfruttato il momento, sapendo che i miei nonni erano appena partiti e che dopo una serata come quella, evidentemente non avevo tanta voglia di uscire e dovevo essere rimasto in casa. Il citofono e la porta che rumorosamente si apriva e si chiudeva erano l’ottima esca per costringermi ad ascoltare attentamente quello che avevano da dire. Anche perché, detto questo, si separarono ritornando ciascuno a casa propria.
Non sapevo se essere contento di quel tentativo riuscito di comunicare con me, o, seppur perfettamente cosciente di quanto stessero soffrendo, sentirmi deluso e arrabbiato per una decisione del genere presa dai miei tre amici. Alla fine avevano deciso di mollarmi da solo e ubbidire a quelle istruzioni.
Potevo cercare tante scusanti a quella situazione, ma le cose, almeno in quel momento, stavano così. Avvisarmi e farmelo sapere era, per me, qualcosa a metà tra il danno e la beffa.
Da un punto di vista tattico era una pessima scelta. Anche se, vigliaccamente anche io, l’anno prima, con la scusa della prudenza, mi ero comportato nello stesso modo.
In un primo momento, quindi, pensai di essermela cercata. Però, pensai, io ero tornato. Ero lì e se avessero tenuto veramente alla mia amicizia, forse, avrebbero capito che quello era il momento buono per essere tutti insieme lì, uniti a combattere, piuttosto che mollarmi così. Quel ‘se avessero tenuto veramente alla mia amicizia’ che mi balenò in testa in quel momento aprì e mi gettò in un baratro che mi sarebbe costato tantissimo.
Nel comportamento di Giuseppe, Francesco e Emanuele stavo intravedendo il rischio che qualcosa nel gruppo potesse rompersi, e se a rompersi fosse stata proprio quella cosa che l’aveva mantenuto unito, l’amicizia, allora era proprio finita.
Più di ogni altra cosa non volevo che succedesse una cosa del genere. Non volevo che si rompesse quel gruppo che per quasi sedici anni era stato così affiatato. Non lo volevo. Mi era già successo una volta con una sola persona e non mi era piaciuto per niente. Non lo volevo, soprattutto questa volta. Decisi allora che avrei fatto qualsiasi cosa per impedirlo. Non ci sarebbe voluto molto. D’altra parte il telefonino ce l’aveva anche Giuseppe. Decisi semplicemente di mandargli un messaggio, che tanto, prima o poi, avrebbe dovuto leggere. Gli chiesi semplicemente: “PERCHÉ IO?”. Che erano due semplici parole, ma quando Giuseppe lesse quel messaggio, non ci fu neanche bisogno di vedere il numero del mittente per capire chi glielo avesse scritto.
E rispose con poche parole ed un breve commento: “RESISTI, NON CI SENTIREMO PIU’. È inutile che provi a telefonare tanto spengo il telefono”. Quegli ottantanove caratteri furono, per me, i peggiori che potessi mai leggere. In due giorni passati a Policoro, per altro separati da quasi un anno di lontananza fisica, quella banda, composta da persone che neanche conoscevo, era riuscita ad annullare anni di amicizia, che nessuno di noi, fino a pochi secondi prima di saperli scesi in campo, avrebbe mai e poi mai messo in dubbio.
Con quell’sms era finito tutto. Amicizie, giochi, amori, tutto ciò che poteva essere collegato a Policoro, nella mia testa da sedicenne, era finito con l’arrivo, sul mio cellulare, di quel messaggio.
Provai, nonostante il chiaro avviso, a telefonare a Giuseppe. Nessuna risposta. Il cellulare era spento.
Provai a chiamare a casa. Niente.
Chiamai al cellulare di Emanuele. Stesso risultato.
Per la prima volta in vita mia provai un sentimento che avevo solo sfiorato fino a quel momento e che mi faceva paura. Molta paura. Troppa paura. Mi sentii solo. Per la prima volta in vita mia mi sentii veramente solo. Lontano da chiunque potesse anche solo sapere di essere mio amico.
La cosa che mi dava più fastidio non era la solitudine in sé. Era la paura di quello che poteva succedermi per quella solitudine a spaventarmi.
Perché finché attaccavano un gruppo di persone come noi, eravamo pressoché imbattibili contro altri ragazzi della nostra età. Ne ero assolutamente certo. Ma essere solo mi faceva sentire anche indifeso. E se qualcuno spiava la casa? E se qualcuno non faceva altro che aspettare che uscissi da solo per attaccarmi? E se fossero stati in più persone ad attaccarmi? Avrebbero potuto fare di me qualsiasi cosa.
Purtroppo, però, in fondo al baratro di cui ho parlato prima, non ero ancora arrivato.
L’amicizia, per me, fino a quel momento, era stato il sentimento più importante della mia vita. Avevo appena scoperto l’amore. E comunque era ancora un sentimento molto acerbo. L’amicizia, invece, l’avevo fatta maturare nella mia vita, seppur ancora adolescenziale.
Significava che quelli che avevo scelto come amici, come migliori amici, non lo erano veramente? Significava che avevo sbagliato giudizio? Significava che (e questa volta pur con tutta la voglia di non pensarlo neanche il suo nome, dovetti farlo) Michele, quel pomeriggio aveva ragione? Significava che avevo sbagliato tutto? Che quei tre avevano semplicemente sfruttato la mia amicizia per poi disfarsene al momento più opportuno?
Atterrare in fondo al baratro non poteva essere più doloroso.
Per la prima volta, Policoro non era più il mio pensiero felice. Era un paese che non mi apparteneva più. Dove non avevo più alcun legame. Quel pomeriggio mi aveva cambiato la vita. In peggio.
Sentii il bisogno violento di sfogarmi. Vidi la prima cosa che avevo davanti. Il muro. Non lo avevo mai fatto. Caricai tutte le mie forze nel braccio destro. Strinsi il pugno. Non sapevo quello che mi aspettava. Ma avevo bisogno, l’estremo bisogno, di farlo. Si sentì un rumore cupo per tutta la stanza. Seguito da altri due. Alla fine, con le dita doloranti ed arrossate, mi accasciai per terra. In preda alla disperazione.
E Giuseppe, come aveva potuto comportarsi così con me? Dopo tutto quello che avevamo fatto, detto, tutta l’amicizia che ci aveva legati. Dopo avergli dato tante prove della mia amicizia, non ultima la presa di posizione nei confronti di Michele di tre anni prima. Come poteva essersi comportato in quel modo?
In quel turbine di sentimenti e di pensieri, ad un certo punto fui colto da una stanchezza inverosimile. Vidi l’orologio, erano circa le dieci, ed ero già a letto. Mi addormentai. Sognai di essere in una buca profonda, e non riuscire a risalire. Ad un certo punto sentivo passare da lì Giuseppe e gli urlavo di aiutarmi con una corda. In tutta risposta lui mi urlava “Resisti! Non ci sentiremo più”. E buttava nella buca la corda intera, impedendo non solo a me di sollevarmi e uscirne, ma anche a chiunque altro di aiutarmi. Urlai, nel sogno, e mi svegliai improvvisamente. Mi sollevai, seduto sul letto, completamente sudato e ansimante. Gli occhi sbarrati per quell’incubo. Dopo qualche frazione di secondo mi sovvenne che quell’incubo poco si discostava dalla realtà. E lo spavento cedette il posto alla depressione. Ma durò solo per qualche altro secondo. Perché poi un urlo lo udii veramente. Era l’urlo di qualcuno che urla per difendersi ma che, contemporaneamente, riceve un colpo che gli toglie il fiato. E, indubbiamente, l’autore di quell’urlo era Francesco.
Senza neanche pensare alle future implicazioni che quell’azione avrebbe potuto avere nella nostra vita, mi alzai dal letto e corsi alla finestra, spalancandola e buttandomi dall’altra parte. Istintivamente compresi che quello era il tragitto più sicuro per arrivare di là, non sapendo se ci fosse stato qualcuno a spiarmi.
Non c’erano ancora le macchine dei loro genitori. Corsi immediatamente verso Francesco. Era per terra e perdeva sangue dalla bocca e dal naso. In quel momento la porta di casa di Giuseppe si aprì e corsero fuori anche Emanuele e Giuseppe. I due si avvicinarono più velocemente di me a Francesco. E intervenni.
“Così lo soffocate! Lasciatelo respirare! Francesco! Cos’è successo?”
Nessuno rispose. Quel silenzio irreale, a parte il pianto di Francesco, era a dir poco imbarazzante. Poi, però, capii che per quell’amicizia si poteva fare ancora qualcosa. E avevo tutta l’intenzione di questo mondo di farla. Dovevo, mai come prima, prendere in mano la situazione. E feci proprio questo. Avanzai verso Francesco, spinsi ai miei lati sia Emanuele che Giuseppe e lo aiutai ad alzarsi. I due al mio fianco non ebbero neanche la forza di reagire.
“Francesco ha bisogno di cure. Vedete di affrontare la cosa da ragazzi maturi piuttosto che da bambini”. E, così dicendo, l’accompagnai alla mia finestra, che scavalcò, entrando in casa mia, seguito da me. Giuseppe ed Emanuele, visto il modo in cui mi ero imposto, non si azzardarono a ribattere. Anzi corsero verso casa di Giuseppe, richiudendosi dietro il portone.

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