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Autore: Terre_del_Nord    18/05/2009    17 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Hogwarts - II.014 -  Festa di Natale

II.014


Sirius Black
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre 1971

Guardai fuori dalla finestra, sbuffando di noia, come succedeva spesso durante le lezioni di Storia. Mancavano ancora pochi minuti, poi quella tediosa giornata di scuola sarebbe finita. Ormai le ombre erano scivolate da est, annunciando l’avvicinarsi della notte, il buio delle colline si specchiava tetro sulle acque placide del Lago Oscuro e dava una nota più cupa del solito anche alla Foresta Proibita. Il cielo era stato tenebroso per tutto il giorno, il sole da settimane era solo un pallido ricordo, non c’era stato più nemmeno il classico vento del nord: tutto era immobile, cristallizzato, sotto una morbida coltre di neve che ammantava colline, alberi, costruzioni e sentieri. Mancava meno di una settimana al Solstizio d’Inverno. Ancora poche ore e sarei tornato a casa. Sospirai. James mi diede una gomitata e tornai a fingere di seguire la lezione, il professor Binns svolazzava nell’aula raccontando una non meglio specificata battaglia di Folletti. Avevo solo voglia di dormire. Avevo voglia… nemmeno io sapevo di cosa… Sapevo solo che non volevo tornare a casa. Non appena la lezione finì, la maggior parte di noi fuggì via dai banchi, pronta ad allontanarsi da quella stanza, per ritornare nei propri dormitori, sistemare le ultime cose e prepararsi per la grande cena e la festa di Natale. Io svogliato raccattai le mie cose e ancor più lentamente le misi in ordine per poi uscire. I miei amici mi aspettavano sulla porta, l’espressione in parte scocciata, in parte preoccupata: in quegli ultimi giorni spesso diventavo di colpo taciturno, me ne rendevo conto da solo.

    “Si può sapere che cos’hai? Non sei contento delle vacanze? Del Natale? Dei regali… ”

Quando faceva così, odiavo James Potter fin nel profondo della mia anima: era così esasperante, con quella sua vocetta acuta che dava ai nervi; l’avrei volentieri trasformato in qualcosa, qualsiasi cosa che stesse ferma e soprattutto zitta, per non vedermelo zampettare attorno, con le sue battute da "so-tutto-io".

    “… Di non vedere il brutto muso di Snivellus per qualche giorno?”

Ma James era James. E gli volevo bene per questo: per la sua capacità di farmi ridere, anche quando non ne avevo voglia. Finii col ridere anche in quell’occasione. Perché, in effetti, non vedere Snivellus per qualche giorno era una buona cosa. L’unica buona cosa. Nelle ultime settimane la sua prosopopea era diventata ancora più fastidiosa: ora era apprezzato tra i suoi compagni di Casa, perché aveva reso una testimonianza in tutto identica a quella di Meissa, contribuendo a impedire che Rigel fosse espulso e che i Serpeverde perdessero il più forte cercatore di Quidditch dai tempi leggendari di Alshain Sherton. Alcuni dicevano che avesse anche salvato le chiappe a Malfoy e a mia cugina, anche se non avevo capito né in che modo, né per quale motivo: era impossibile che Narcissa si fosse messa nei guai. Sarebbe stato interessante cercare di scoprire cosa c’era sotto.

    “Miss Perfezione” nei guai.

Sì, era il tipo di situazione su cui avrei volentieri indagato, se non avessi avuto i miei guai a cui pensare.

    “Ti stupirò, Potter: resterei volentieri qui, se solo potessi scegliere!”

Mi guardarono storto. Non potevano capire, non avevo mai parlato in maniera seria ed esauriente della mia vita a Grimmauld Place, né tantomeno della mia famiglia. I miei amici sapevano che i miei rapporti con loro erano rimasti condizionati pesantemente dal risultato del mio smistamento, ma avevano il tatto di non fare domande, aspettando che prima o poi trovassi la voglia o il coraggio di parlarne spontaneamente. Avevano scoperto casualmente persino l’esistenza di mio fratello, ma solo perché avevano sentito Meissa pronunciare più volte il suo nome, chiedendomi se erano arrivate altre sue lettere. Regulus, zio Alphard e Andromeda erano, in effetti, gli unici parenti che mi avessero scritto alcune righe in quei primi mesi. Le loro lettere e un pacco di vestiti da mio padre. E gli insulti di mia madre. Ecco tutto quello che avevo ricevuto dai Black da quando ero finito a Grifondoro. Sospirai di nuovo. La verità era che, appena fossi tornato a casa, mia madre mi avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora, mi avrebbe messo in punizione nella camera del sottotetto, da cui sarei uscito solo per ritornare a Hogwarts: mi avrebbero lasciato a Londra, da solo, per non farsi umiliare dalla mia presenza presso amici e parenti durante le feste, impedendomi di assistere al matrimonio di Mirzam e quindi di stare con Meissa. Non potevo dire nulla di tutto questo ai miei amici, non avrei sopportato la loro faccia piena di compassione per me: io ero pur sempre un Black, e un Black non si mostra mai debole. Mai. Dovevo continuare a sbandierare la mia faccia sprezzante, e recitare irriverente le mie imitazioni di Walburga Black, che sveniva di fronte al mio cravattino da Grifondoro, facendoli ridere tutti. Prima di tutto, però, dovevo vedere Meissa e parlarle. Dopo la cena di Natale difficilmente ci sarebbe stato il modo di stare insieme, da soli: il mattino dopo saremmo partiti per King’s Cross e, ammesso che fossi riuscito a stare nello scompartimento con lei, non mi andava di trattare l’argomento “casa” davanti ai miei amici. Lei era l’unica che capisse, senza bisogno che dicessi più del necessario. Lei sapeva, lei la pensava come me riguardo a mia madre.
Il mio orgoglio Black m’impediva di rivelare agli altri quanto mi turbasse e spaventasse la reazione dei miei genitori, ma con lei non c’era bisogno di parole: su certe cose ci bastava uno sguardo per dirci tutto. Tornare nei dormitori di Grifondoro, alla fine, mi fece bene: ritrovarmi tra quelle mura, ormai familiari e accoglienti, allontanò da me l’agitazione e alleviò la paura che m’incuteva il pensiero di cosa mi aspettasse a Londra. Amavo quella stanza: non avevo mai sentito un posto più mio di quello, nemmeno a Herrengton mi ero sentito altrettanto bene. La differenza… la differenza la facevano i miei amici. Quelle ultime settimane erano trascorse lentamente, tra lezioni più o meno noiose, interrogazioni e serate passate a fare a cuscinate invece di studiare. Remus aveva cercato spesso di contenerci, ma di solito lo mettevamo in minoranza: avevamo scoperto che, dopo le perplessità iniziali, si adattava ed entusiasmava rapidamente per i nostri modi di fare e spesso, quando ci battevamo alla guerra del solletico e dei cuscini, era un avversario persino più temibile di James. Peccato fosse tanto cagionevole di salute: nelle ultime sei settimane, dopo la festa di Halloween, era finito in infermeria altre due volte, per fortuna nulla di grave, solo febbre e tanta debolezza. Eppure mangiava voracemente almeno quanto me e James. Nessuno di noi, però, arrivava ai livelli di voracità di Peter: Pettigrew si era confermato il più interessato tra noi al cibo, al punto che, spesso, a metà pomeriggio, prima di andare in biblioteca, mi faceva da spalla presso gli elfi cucinieri, aiutandomi a mettere in atto la “commedia del malandrino affamato”. In questo modo riuscivamo a ottenere le abbondanti scorte alimentari necessarie a rifocillarci al termine delle nostre battaglie notturne. E infine, James: Potter, tra noi, era il più poliedrico e inventivo, capace di organizzare all’ultimo minuto uno dei suoi esperimenti che miravano ad alleviare la noia di un pomeriggio di studio o a organizzare avventure di più ampio respiro. Il suo piano d’attacco ai segreti di Hogwarts procedeva in maniera metodica e rigorosa, sotto i suggerimenti inaspettati e razionali di Remus: i due avevano finito con il suddividere il castello in almeno una decina di aree di possibile interesse e Lupin aveva stilato un calendario provvisorio delle escursioni, con la prima data fissata il sabato successivo alle vacanze di Natale. James cercava di alterare il calendario a suo piacimento, inserendo ulteriori escursioni soprattutto al settimo piano e ai sotterranei, suscitando le proteste di Remus: lo scopo evidente di Potter era riempire quante più “caselle” possibili, fino a maggio inoltrato, per impedire a Remus di coinvolgerci nelle sue serate di ripasso generale, che vanamente cercava di introdurre nell’“agenda del malandrino”. Di solito i ragionamenti tra i due finivano in zuffe, molto piacevoli da vedere perché, inaspettatamente, Remus riusciva a ridurre alla ragione James in poche battute: all’inizio avevo scommesso contro Peter sui risultati di quegli incontri di “pugilato”, riducendo di molto le sue scorte di Cioccorane, ma presto fu palese a tutti l’inferiorità fisica di James e Peter non volle più saperne di scommettere su d lui. Per quello che mi riguardava, avevo anch’io un certo interesse per quelle escursioni, volevo verificare l’attendibilità dei racconti rubati a mio padre e ad Alshain: se avessi avuto una conferma di quelle storie, era possibile che Alshain dicesse la verità anche sul vero carattere di mio padre, che non riuscivo proprio a immaginarmi come il ragazzo vitale e scapestrato che a volte filtrava da certe frasi e alcune battute. C’era però una cosa che non mi ritornava nel magistrale piano di Potter: non capivo come pensasse di eludere la sorveglianza di Gazza e dei prefetti. Ogni volta che esprimevo i miei dubbi, mi osservava con un ghignetto molto malandrino che non prometteva nulla di buono. Doveva avere un asso nella manica, ma per quanto mi spremessi le meningi e lo spiassi, in quei quasi quattro mesi non ero venuto a capo di nulla. Ed ero troppo orgoglioso per fare domande, non volevo capisse che mi stavo macerando nella curiosità. Stavo persino pensando di frugare tra le sue cose, in cerca d’indizi, in fondo ero un vero segugio: con mio fratello mi ero divertito innumerevoli volte a scoprirgli gli altarini. L’unica differenza era che, per la prima volta, mi vergognavo di quei pensieri e sentivo che non era quella la strada giusta da seguire, non quando si trattava dei segreti dei miei amici.
Mentre pensavo a quanto fossi diventato onesto e Grifondoro, recuperai tra le mie cose uno degli oggettini di Magia Oscura, che mi aveva regalato mio padre dicendo che poteva tornarmi utile a Hogwarts contro i Grifoni. Rimasi stupito e imbarazzato, soprattutto quando percepii lo sguardo perplesso di Remus: non doveva essergli capitato molto spesso di trovarsi davanti qualcuno che possedeva una vera “Mano della Gloria” funzionante. Vergognandomi come un ladro per le mie origini “oscure”, mi affrettai a gettare quella porcheria nel marasma delle mie cianfrusaglie e misi a posto gli ultimi libri e la divisa. Il grosso baule sarebbe rimasto a Hogwars, sarei partito leggero, con un paio di libri, qualche vestito e i regali che avevo fatto acquistare per mio fratello a Rigel, prima che finisse in punizione e non potesse più andare a Hogsmeade. Per i mesi successivi avrei dovuto cercare una soluzione diversa: l’unica logica, Narcissa, mi sembrava anche la meno probabile. Vedere il mio bagaglio così leggero mi faceva bene: sarei stato a casa per un breve periodo e nel giro di pochi giorni sarei tornato tra i miei amici. Quest’idea mi risollevava, mi dovevo aggrappare a essa o il pensiero di affrontare mia madre e mio padre mi avrebbe tolto il sonno e la fame. E non mi avrebbe fatto apprezzare per niente la cena di Natale.

    “Dai, Black, basta con quella faccia scura, è ora che ti prepari per la tua bella!”

James ghignò, mi aveva preso a lungo in giro col fatto che lui, non io, era riuscito a ballare alla festa di Halloween con Meissa e per farmi arrabbiare tendeva a ricordarmelo fin troppo spesso. Sospirai. Mei, dopo Halloween era stata male, una settimana con la febbre alta, primo sintomo del “Morbillo dei Maghi”: era stata una delle prime di un folto numero di studenti, soprattutto del primo e del secondo anno. Io e mio fratello avevamo avuto il morbillo quando avevo sei anni, e così anche James e Remus; Peter andò in giro per un paio di giorni con una specie di fazzoletto avvolto attorno alla bocca per evitare il contagio, diceva lui, noi lo deridevamo, perché tutti sapevano che non c’erano contromisure per chi non aveva avuto quella malattia: nel giro di nemmeno tre giorni, infatti, anche Peter era finito in infermeria con tutti gli altri. Alshain Sherton tornò a Hogwarts per assicurarsi delle condizioni di Mei, portandosi dietro una squadra di Medimaghi che, stando a Peter che l’aveva visto, non doveva avere nulla da invidiare allo squadrone che metteva in campo nostro padre quando io o Regulus ci ammalavamo. Con notevole dispiacere non ebbi modo di parlargli nemmeno in quell’occasione: avrei voluto raccontargli della strana allucinazione di Meissa, magari mi avrebbe rassicurato, dicendomi che il delirio della febbre dava allucinazioni piuttosto vivide… Quando Mei si era rimessa, io avevo lasciato correre e non ne avevamo parlato più, era rimasta troppo turbata da quello strano fenomeno ed io volevo solo che tutto tornasse come prima. Il più presto possibile.
Le cose, però, dopo la malattia, non erano tornate esattamente come prima. Mei a volte diventava strana, spesso taciturna e un pò irascibile: non sapevo perché, non me ne aveva voluto parlare, ma aveva bisticciato con almeno due delle sue compagne di stanza e ora volavano scintille ogni volta che vedeva la Parkinson. Inoltre quando eravamo insieme in biblioteca o a chiacchierare per i corridoi, sembrava che si vergognasse se la guardavo, si sottraeva quando le davo la mano, si teneva a distanza: tutte cose che non aveva mai fatto da quando la conoscevo. Se la osservavo da lontano, poi, mi accorgevo che non era solo una mia sensazione: Meissa a volte camminava in modo strano, come se si volesse nascondere per qualche motivo. Ero preoccupato per lei anche se in parte sollevato dal fatto che il suo comportamento non sembrava dipendere solo da me; ma non riuscivo a venire a capo di cosa stesse accadendo, perché se le dicevo qualcosa, si offendeva, metteva il muso e non mi parlava per giorni. Alla fine avevo capito che la cosa migliore era fingere che non stesse accadendo niente, e Meissa sembrò apprezzare la mia decisione.

    “Ancora problemi con la principessa delle Serpi?”
    “Non sono affari tuoi, porcospino…”

James ghignava, il senso di amarezza se ne andò, sostituito dalla voglia di dare una lezione a quel ragazzino: avrei approfittato della notte per non fargli più dimenticare chi fosse Sirius Black. No, non se lo sarebbe scordato per tutte le vacanze: ero più che intenzionato a rapargli quel cespuglio che aveva in testa, con un po’ di fortuna mi avrebbero pure punito e magari non sarei dovuto tornare a casa. Remus sghignazzava: anche lui era sicuro che stavolta Potter avrebbe pagato, e visto che aveva un paio di conti in sospeso anche con lui, la sua occhiata stava a suggerire che era pronto a darmi una mano qualsiasi cosa avessi in mente. Alla fine, in un clima strano e surreale, eravamo pronti per scendere a cena. Mi ammirai allo specchio: avevo un classico abito da cerimonia, giacca e pantaloni neri, camicia di seta, tutto scelto con cura da mia madre. Tutto tranne il cravattino con i colori del Grifondoro. Dopo tanti mesi non mettevo la divisa ma l’abito da sera fatto preparare pochi giorni prima della partenza e che gli elfi di Hogwarts mi avevano sistemato allungandolo un po’: ero cresciuto in altezza di diversi centimetri, in quei pochi mesi. Scansai le chiome corvine dalla faccia, riconoscendo immediatamente nei miei, i gesti con cui mio padre eseguiva sempre quell’operazione. Guardando James al mio fianco, ghignai: il mio amico per quanto si sforzasse, non riusciva a domare i suoi, per cui, anche se vestito in maniera una volta tanto dignitosa, aveva sempre lo stesso aspetto trasandato. Peter si era fatto sistemare all’ultimo la giacca, perché gli tirava sulla pancia: era appurato che i suoi spuntini notturni andavano in qualche modo limitati. Remus, infine, seppur vestito con un abito modesto, aveva un aspetto ordinato e dignitoso, quasi pari al mio. Con una strana sensazione di oppressione al petto, scesi con James al mio fianco e Remus e Peter dietro di me, diretto in Sala Grande. Non prestai attenzione ai loro discorsi per quasi tutto il tempo, solo a un tratto, poco prima di entrare, mi colpì la vocetta stridula e preoccupata di Peter, che si agitava non sapevo per che cosa.

    “Dite davvero? Davvero dobbiamo ballare? Merlino… Voi come pensate di trovare una dama?  O c’è qualcuno cui avete già chiesto? Io non lo sapevo, non ci ho pensato e poi… mi vergogno…”

Pettigrew stava per andare in iperventilazione, Remus e James lo canzonavano, ma parvero per la prima volta porsi anche loro il problema: io appena entrai nella Sala mi diressi ai nostri soliti posti e vagai con lo sguardo in cerca di Mei, che non era ancora arrivata. Non c’era nemmeno Rigel, presto sarebbero apparsi insieme. Al tavolo di Serpeverde la mia stupenda cugina catalizzava su di sé lo sguardo ammirato di tutta Hogwarts: se già con la divisa era bellissima, negli abiti a lei più adatti, come quel meraviglioso abito lungo e semplice, color pervinca, che risaltava le sue forme e il colore dei suoi occhi, sembrava un’apparizione celestiale. Accanto a lei, Lucius Malfoy incarnava la controparte maschile della perfezione purosangue, attirando a sua volta su di sé, lo sguardo adorante di tutte le ragazze presenti in sala. Dopo la storia di Meda e il controverso matrimonio di Bellatrix, zia Druella avrebbe fatto un monumento a sua figlia se fosse riuscita ad accalappiare Malfoy. Quel giovane era e rappresentava prestigio, denaro, potere. Dal mio punto di vista, però, dopo quanto era successo un anno prima ad Amesbury, possedeva anche un animo infernale. Presi il mio bicchiere di succo di zucca e scuotendo la testa, ragionai sull’infelicità insita nell’essere un purosangue Serpeverde.

    Peggio ancora se Black.

All’improvviso la porta si aprì e vidi entrare Rigel con i suoi inseparabili compagni di Quidditch, Beckett e Cox, disposti in una strana forma triangolare con una figurina decisamente più piccola in mezzo. Non capivo il perché di quella messinscena, ma Meissa riuscì a entrare in Sala Grande in pratica resa invisibile dai colossi amici di suo fratello, per cui riuscii a vederla bene solo quando si sedette al suo posto: indossava qualcosa di deliziosamente rosso e aveva i capelli raccolti, ma avrei dovuto aspettare il momento del ballo per capire qualcosa di più.

    “I soliti sbruffoni di Serpeverde!”

Guardai all’indirizzo di James, offeso, lui mi rimandò il solito ghignetto che mi suscitava i migliori istinti omicidi. Presto, però, la nostra attenzione fu attratta dalla figura di Dumbledore che prese la parola per parlarci della festa, augurarci buon Natale e infine diede il via alla cena.

***

Meissa Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre 1971

    “No!”
    “Meissa, per favore, non fare la bambina!”
    “Io non lo faccio, scordatelo!”

Rigel mi aveva intercettato sulla via della biblioteca, con la scusa di un argomento di vitale importanza da trattare prima di cena. Sapeva che non sarebbe stata un’impresa facile convincermi e prima d’iniziare a parlare mi aveva dato la lettera di nostro padre che era arrivata già da alcuni giorni, a dimostrazione che non avevo scelta. Per non avere brutte sorprese e per non passare tutto il tempo a litigare con me, però, aveva avuto la brillante idea di non dirmi nulla fino all’ultimo minuto.

    “Meissa… devi farlo, anche a me toccherà la figlia di Stenton, lo sai?”
    “Io con “quello”, qui a scuola, non ci ballo. Puoi dirglielo fin da subito!”
    “Smettila! Offendi lui e offendi papà se ti comporti così…”
    “Affari tuoi! Dovevi dirmelo quando è arrivata la lettera, così avrei avuto tutto il tempo per fingermi malata… io con William Emerson non ci ballo…”
    “Qual è il problema? Non c’è una ragazza a Hogwarts, che non sarebbe felice di ballare con lui! Perché solo tu devi fare tante storie per uno stupidissimo ballo?”
    “Lo guardano tutti, e guarderebbero anche me, ed io… io non voglio!”

Mi prese per un polso e mi strattonò, lo odiavo e lui lo sapeva e non faceva mai niente per migliorare le cose tra noi. Due ragazzi di Tassorosso avevano osservato la scena e sembravano pronti a intervenire poi, quando si accorsero che eravamo entrambi Serpeverde, lasciarono correre.
 
    Vigliacchi!

    “Ti guarderebbero tutti anche senza Emerson, sorellina… lo vuoi capire? Anzi, ti guarderebbero pure di più se facessi di testa tua, piccola stupida! William sarà il tuo cavaliere alla festa di Mirzam e la tradizione vuole che stasera, almeno un ballo lo facciate insieme… Quindi basta… quando la cena sarà finita e inizieranno le danze, lui verrà da te e tu accetterai il suo invito… non mi farai fare una figuraccia, chiaro?”
    “Stupido pallone gonfiato! Ti odio! Ti odio!”
    “Smettila di fare scene, Mei… Non ci vorranno più di dieci minuti! Meno farai la difficile, prima potrai stare con il tuo Black…”

Divenni rosso porpora come accennò a Sirius e mi calmai all’istante, smettendo di rispondergli male e di provare a divincolarmi, Rigel ghignò divertito: non accennava a lasciarmi il polso e continuava a tenermi bloccata, sapeva che, non appena avesse mostrato un attimo di esitazione, mi sarei rifugiata in camera e a quel punto ci sarebbe voluto un miracolo per tirarmi fuori da là dentro. Io volevo andarmene il più presto possibile, volevo fuggire prima che non riuscissi più a trattenere le lacrime. All’improvviso mi abbracciò e mi diede il tempo di calmarmi e riprendere un po’ di contegno, mi accarezzò la testa: di solito mio fratello non si comportava così con me, mi staccai per guardarlo, la sua espressione però era come sempre impassibile. Riprendemmo a camminare, lentamente e in silenzio, diretti ai sotterranei. Sfruttammo un paio di scorciatoie, poi, poco prima di entrare nel corridoio che immetteva alla Sala Comune, si fermò, deciso ad andare a fondo della storia, prima di tornare in mezzo agli altri.

    “Qual è il vero problema, Mei? Perché non vuoi goderti questa dannata festa come tutti?"
    “Fatti gli affari tuoi, Rigel... ”
    “Perché? Spiegami perché non vuoi venire alla cena di stasera… L’altra volta ti sei divertita e devi ancora un ballo a Sirius, mi pare… Quindi ... che cos'è cambiato? Hai litigato con Black? Ti ha offeso? Ci penso io, se è così…”
    “No! Sirius non c’entra niente!”

Stavolta non mi guardava con la sua solita aria odiosa, sembrava davvero preoccupato.

    “Allora che cosa c’è che non va?”
    “Tu lo sapevi che non possiamo metterci la divisa stasera?”
    “Che domande fai, Meissa? Certo! A cosa pensavi servissero quei bei vestiti che ti ha fatto preparare la mamma ad agosto?"
    “Io li odio quei vestiti!”
    “Ma… Hai fatto i salti di gioia per giorni quando la mamma ti ha comprato quello rosso. Ti sta benissimo!”
    “Mi stava bene allora…”

Ero diventata rosso fuoco, e mi guardavo la punta delle scarpe, quando alzai lo sguardo, Rigel mi stava soppesando ed io m’imbarazzai ancora di più.

    “Tutto qui il problema? Guarda che anch’io mi sono alzato in questi mesi e ho dovuto farmi aggiustare i vestiti… Gli elfi stanno qui apposta, e sono bravi come quelli di casa nostra, quindi non farti problemi assurdi…”
    “Tu non capisci!”
    “Cosa diavolo c’è da capire? I vestiti si allungano, si stringono, si allargano, si sistemano… Senti… Io non saprei dirti come aggiustare il tuo vestito, non so niente delle robe che vi mettete addosso voi femmine, ma… Non puoi parlare con una ragazza più grande? Di sicuro Narcissa Black saprebbe indicarti l’elfa più adatta a correggerti il vestito, lei è sempre perfetta! Ora te la cerco!”
    “No!”

Non c’era più niente da fare: mio fratello era partito in quarta senza più guardare in faccia niente e nessuno. Lo odiavo! Quando mi trattava così, poi… “Lo odiavo” non rendeva bene quello che pensavo di lui in quel momento. Sapevo che Rigel era talmente perso per quella ragazza che avrebbe colto qualsiasi occasione per poterle parlare, ma non avrei mai immaginato che avrebbe approfittato pure della mia debolezza. Quando entrammo in Sala Comune, Narcissa e due sue compagne del sesto anno stavano chiacchierando con il solito modo di fare civettuolo sul divano centrale, occhieggiando i ragazzi dell’ultimo anno e facendosi ammirare da tutta la popolazione maschile dei sotterranei. Rigel si fiondò volando verso di loro, mostrando la migliore faccia galante e tipicamente Sherton. Io avrei voluto sotterrarmi in quel preciso istante, soprattutto quando vidi Alecto Carrow seguire con interesse il discorso di mio fratello e rivolgermi un ghigno sardonico. Rigel spiegò la situazione a Narcissa, la quale, gentile come sapeva essere solo con la gente sua pari, si rivolse a me, disponibile: sentivo i loro occhi addosso e sapevo che, grazie all’imbecillità di mio fratello, da quel momento sarei stata oggetto dei pettegolezzi di mezza scuola per i successivi sei anni. L’avrei volentieri ucciso sul posto.

    “Scusa, Narcissa, ma… non c’è bisogno che ti disturbi… io … Mio fratello… è un idiota, lo sai…”

Vidi Rigel gettarmi uno sguardo carico d’odio, mentre Narcissa non sembrava per niente infastidita, Alecto, al suo fianco, come immaginavo, era pronta a cogliere un ghiotto pettegolezzo: divenni di nuovo rosso fuoco.

    “Sento parlare zia Walburga di questo famigerato vestito rosso da agosto, l’ha talmente colpita che per la prima volta l’ho sentita lamentarsi di non avere una figlia femmina anche lei... ”

Risero, di quella classica risata leggera e un po’ civettuola, quella risata che rendeva Narcissa deliziosa a tutti. Vidi Lucius Malfoy alzare lo sguardo dalla sua “Gazzetta” e indugiare a lungo su di lei, immediatamente la ragazza prese colore sulle guance. Per fortuna, dovevamo tutti prepararci così, in breve, Alecto e le altre andarono nelle loro stanze, io rimasi in silenzio ancora pochi minuti con Rigel e Narcissa, che sembrava volermi aiutare davvero.

    “Se nell’abito c’è qualcosa che non va, chiama Wallya: tra tutte le elfe di Hogwarts, è quella più abile, da quando l’abbiamo scoperta, io e le mie amiche ci facciamo sistemare i vestiti solo da lei. Farà un lavoro perfetto in pochi minuti, fidati!”

Rigel ringraziò e ci lasciò scendere nei dormitori, io mi avviai con Cissa per le scale a chiocciola che smistavano ai vari appartamenti delle ragazze: ero convinta che non vedesse l’ora di lasciarmi per potersi preparare, quella sera probabilmente sarebbe stata in compagnia di Lucius Malfoy per tutto il tempo, invece si fermò concedendomi ancora un po’ della sua attenzione.

    “Non è per il vestito che sei preoccupata, vero? C’è qualcosa di più serio a turbarti…”

La guardai: i suoi occhi azzurri così penetranti sembravano capaci di leggermi fino in fondo al cuore. Avevo già capito da tempo, osservandola, che la sua aria frivola era una semplice maschera, Narcissa Black l’indossava per rassicurare il prossimo, fingendo di essere come gli altri si aspettavano: una ragazza bellissima, egoista e superficiale, che non si faceva troppe domande sul mondo che aveva intorno. Chi non si fosse fermato alla superficie, però, avrebbe scoperto quanto fosse diversa.

    “Non è nulla… E’ solo che… Non voglio essere obbligata a ballare con chi non conosco e preferirei non dovermi mettere in ghingheri per….”

Narcissa rise, una risata molto più vera di quelle che le sentivo spesso con le sue amiche. E anche molto più triste.

    “Tutto questo turbamento solo per un ballo? Salazar! Che cosa ne sarà di te in seguito? Questo è il destino di quelle come noi, Meissa Sherton… E’ il tributo che dobbiamo alle nostre famiglie, al loro prestigio, e al loro futuro. C’è chi dice che gli Sherton siano diversi dagli altri, ma io non ci credo… fossi in te… io imparerei la lezione in fretta… Noi veniamo al mondo solo per far concludere un ottimo affare alle nostre famiglie… Cerca di far coincidere il loro interesse con il tuo, è l’unica cosa che puoi fare per te stessa e per la tua felicità.”

Mi salutò senza aggiungere altro, lasciandomi da sola, basita, davanti alla stanza in cui avrei passato i successivi sei anni della mia vita. Presi di nuovo fuoco, mentre entravo: Zelda, Georgina e Penny stavano rimirandosi già pronte allo specchio, Maela Dickens stava finendo di sistemarsi i capelli. Quando posai gli occhi su di lei, il mio senso d’inadeguatezza peggiorò ulteriormente: con quei suoi lunghi capelli biondi, sembrava una Veela in miniatura, aveva l’incarnato da bambola, gli occhioni azzurri, dolci, e il corpo di una quattordicenne, alta e già formosa. Io non potevo uscire con quel dannato vestito addosso e subire il confronto con Maela o altre ragazze come lei. Non potevo. Il bell’abito rosso che mia madre mi aveva fatto realizzare apposta stava sul letto, invitante e spaventevole. No, non l’avrei mai indossato e ancor meno avrei ballato con William Emerson, cercatore dei Corvonero, uno dei ragazzi più ambiti di Hogwarts. Avrei voluto piangere… Già odiavo dover andare a quella festa, figurarsi poi essere esposta così sotto gli occhi di tutti. Mi ero messa quel vestito circa una settimana prima, per assicurarmi che non ci fossero lavori da fare, mi calzava perfettamente, con la bella gonna lunga e liscia, leggermente svasata, il corpetto intrecciato che terminava con l’alto collo, le maniche lisce che finivano a becco e la schiena parzialmente scoperta, esaltata dai capelli che avrei intrecciato in alto. Era un bell’abito, sontuoso ma non eccessivo, e mi stava pure bene… A parte per un particolare… Si vedeva bene, troppo bene, che stavo iniziando a crescere: con la divisa non si vedeva, ma con quell’abito, anche incurvandomi, non potevo nascondermi ed io non volevo affrontare gli occhi di tutti, non ce l’avrei mai fatta. Wallya si materializzò nella stanza: appena la vidi temetti che mi dicesse di indossarlo lì, davanti a Maela e alle altre, così andai a nascondermi in bagno col vestito e poco dopo riemersi, osservai di sbieco la mia figura riflessa allo specchio, notai gli sguardi invidiosi di Maela e quelli competenti di Wallya. La piccola elfa iniziò a muoversi attorno a me, con il suo occhio efficiente aveva capito subito come ottenere il meglio, ma nonostante le rassicurazioni e il lavoro perfetto, continuavo a essere terrorizzata all’idea di presentarmi così di fronte a tutta la scuola.

    “Perfetto e anche signorina perfetta…”
    “Grazie, Wallya…”

Era la prima volta che ringraziavo un elfo in vita mia… Lei sparì con un inchino, lasciandomi sola, le mie compagne erano già pronte da un pezzo e forse mi attendevano in Sala Comune. Di sicuro stavano facendo le smorfiose con i ragazzini più grandi. Con la faccia degna di un funerale, mi avviai in Sala Comune.

***

William Emerson
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre 1971


Mi specchiai per la ventesima volta, ero sempre stato soddisfatto del mio aspetto, ma quella sera non riuscivo a far pace con la mia immagine. Nervoso mi aggiustai il cravattino di nuovo e sospirando decisi che meglio di così non potevo fare. In realtà, quella sera, volevo apparire al peggio delle mie possibilità, avevo voglia di far scappare tutti, presentarmi come un pazzo cavernicolo, un troll e, al diavolo la mia reputazione di bravo ragazzo e studente modello, cambiare totalmente l’opinione che di me avevano gli altri. Mathias Ferguson sulla porta sghignazzava, aveva assistito a tutto il mio cerimoniale sbellicandosi dalle risate e prendendomi in giro senza pietà. Non sapevo cosa ci fosse da ridere, visto che quello che dovevo fare non volevo farlo e che probabilmente stavo per rovinare tutto il mio futuro con quella serata odiosa. Quando mi videro prendere il mio mantello, anche Thomas Chapman capì che finalmente ero pronto a scendere e poteva iniziare la seconda fase della loro tortura nei miei confronti: qualsiasi bella ragazza avessimo incontrato, mi avrebbero fatto di “no” con la testa, ricordandomi che da quella sera, probabilmente potevo considerarmi ufficialmente accasato.

    “Ma perché non ti cuci quella boccaccia, Tom?”
    “Dai Will, non fare la Serpe….”

Lo fulminai con lo sguardo. Quei due, i miei ormai ex-amici, risero ancora più sguaiatamente, sembravano due stupidi Grifondoro, non più due diligenti studenti di Corvonero.

    “Basta con quella faccia da funerale, Will… dicono sia davvero molto bella…. E non dicono solo quello…”

Ghignò, facendo un gesto che mi pareva davvero fuori luogo, visto che stavamo parlando di una ragazzina di undici anni.

    “Idiota! Poi l’ho già vista altre volte, sia a scuola sia a Inverness: è una normalissima bambina di undici anni, per di più disgustosamente Serpeverde e viziata!”
    “Su, su… tutte le grandi storie d’amore iniziano con una folle antipatia!”
    “Ma vai al diavolo!”

Aprii in malo modo la porta della Sala Grande, rimanendo affascinato dalla bellezza e spettacolarità dell’allestimento, per un momento tutta la mia tristezza e il malumore lasciarono il posto al solito senso di meraviglia che spesso mi coglieva nel magico castello di Hogwarts. Dumbledore, checché ne dicesse quella Serpe razzista di mia madre, era un genio nell’organizzare feste spettacolari: dodici meravigliosi e imponenti alberi, abbelliti con i più straordinari decori natalizi che avessi mai visto, erano distribuiti in Sala Grande, le tavole erano ancor più ricolme della sera di Halloween, il fuoco nei caminetti danzava scoppiettanti, ovunque c’era l’odore fresco di resina e i segnaposti a forma di piccoli babbi natali di neve cantavano i tipici canti natalizi. Il soffitto incantato riversava su di noi una neve leggera, che si materializzava sulle tavole sotto forma di farfalle di cioccolato bianco, le luci ondeggiavano a mezz’aria, il colore oro fuso al rosso riluceva su ogni cosa, persino sugli stendardi delle Case. In poche parole, era tutto bellissimo. Vagai con lo sguardo tra i tavoli fino a raggiungere quello in cui riconobbi il viso familiare di uno dei miei più cari amici. Conoscevo Rigel Sherton da quando eravamo bambini, le nostre famiglie celebravano sempre insieme i riti canonici del Nord, a parte l’ultimo Yule, perché mi ero ammalato. Avevamo persino preso le Rune insieme a Inverness, due anni prima e questo ci univa nel destino e nel sangue: a parte il legame ufficiale che la tradizione ci imponeva, e nonostante stessimo crescendo a Hogwarts in due Case rivali, io lo consideravo il fratello che la sorte non mi aveva dato. Mio padre, Donavan Kenneth Emerson, di Inverness, dalla morte del nonno era il massimo esponente dei Corvonero tra i maghi del Nord e il suo voto era importante presso la Confraternita, quanto quello del padre di Rigel; mia madre invece, Mahira Pucey, era una brillante e straricca strega di Manchester, che era riuscita a convincere la sua famiglia rigorosamente Serpeverde a farla sposare con un Corvonero, giocando d’astuzia e ricordando loro che gli Emerson non erano dei Corvi qualsiasi, ma abbracciavano le teorie sulla superiorità dei Purosangue, come tutti gli altri Maghi del Nord. Il loro matrimonio, in realtà, non era stato fortunato come i due si aspettavano all’inizio, perché la natura Serpeverde di mia madre era venuta fuori prepotentemente subito dopo la mia nascita:

    “Ti ho dato un primogenito maschio e purosangue, ora devi darmi anche tu qualcosa in cambio!”

Di fatto i miei genitori da quasi un decennio non vivevano più insieme, presentandosi come una coppia solo nelle occasioni ufficiali. Questo però non voleva dire che mia madre fosse fuori dalla nostra vita, e soprattutto che non condizionasse pesantemente il mio futuro con le sue serpentesche macchinazioni: la sua influenza su mio padre era ancora fortissima e sfruttare al massimo l’amicizia che lo legava ad Alshain Sherton era uno dei suoi principali obiettivi. Questo faceva sì che, da quando era iniziato il mio terzo anno a Hogwarts e la figlia di Sherton era stata miracolosamente smistata a Serpeverde, andando a rompere una sciagurata tradizione millenaria di figlie Corvonero oltre a un patto siglato con i Malfoy, la mia vita era scivolata nell’incubo. Non riuscivo più a godermi i miei tredici anni, né la mia nomina a cercatore di Corvonero e il mio aspetto piacevole stava diventando un motivo di odio verso me stesso, invece che un dono da cui trarre vantaggio. Non mi godetti neppure la cena di Natale e quando alla fine il vegliardo annunciò che potevamo finalmente scatenarci nel ballo, la mia fu la reazione del condannato al patibolo. Scorsi con gli occhi fino a intercettare quelli di Meissa: era senza dubbio una ragazzina carina, ma io vedevo in lei e nel ballo di quella sciagurata sera, solo la prima tappa verso una vita infelice come quella di mio padre.
Odiavo le ragazze di Serpeverde, tutte, nessuna esclusa, perché avevo vissuto sulla pelle, con mia madre, cosa si celava dietro la loro finta maschera affascinante e meravigliosa. Mentre la magia trasformava la Sala Grande in una magnifica sala in cui ballare, tra sculture di ghiaccio, decori natalizi, strani coriandoli di neve e farfalle che scendevano dal cielo gelido e stellato, mi alzai come un automa e percorsi i pochi passi che mi separavano dal tavolo delle Serpi. Con il mio pedigree, il mio nome e le mie forti amicizie, ero uno dei pochi Corvonero che potevano arrischiarsi ad avvicinare le Serpi senza temere insulti o attacchi più concreti. Tra l’altro, per quell’anno, non c’era più nemmeno il Quidditch, per loro, a infiammare gli animi.

    “Posso ballare con te, Meissa Sherton?”

Alla fine eravamo arrivati al momento della verità. Avevo detto a Rigel cosa ne pensavo di tutta quella faccenda, trovandolo piuttosto comprensivo, e l’avevo pregato di dire a sua sorella che volevo togliermi il pensiero il prima possibile: vista da lontano, dovevo ammettere che non sembrava una di quelle sciocche ochette che ti mettono in imbarazzo di fronte a tutti, ma non la conoscevo tanto bene, quindi non potevo sapere cosa avrebbe combinato. Probabilmente avrebbe sghignazzato tutto il tempo pavoneggiandosi con le amiche e finto di scivolare solo per farsi raccogliere: non era la prima stupida che avevo visto comportarsi così. Guardai Rigel, osservava a turno me e sua sorella con cipiglio teso e severo, probabilmente doveva svolgere anche lui controvoglia il ruolo del fratello maggiore preoccupato, sentii il brusio eccitato di un paio di ragazzine, di sicuro non avevano idea che lo stessi facendo per solo per dovere. Sospirai, sapevo che sarebbe finita così e mi preparai al peggio. Meissa, però, non si lanciò entusiasta verso di me, anzi, pareva esitare, alla fine si alzò, la vidi sfuggire il mio sguardo e spaziare tutto intorno. Seguii i suoi occhi e mi resi conto che stava guardando verso un gruppetto di piccoli Grifoni: ci misi poco a riconoscere tra gli altri il giovane Black, quello strano, quello che aveva gettato nello scandalo l’antica casata dei “Toujours Pur” facendosi smistare tra mezzosangue e babbanofili. Mi veniva quasi da ridere, ma cercai di rimanere composto e di comportarmi come pretendeva l’etichetta. Perplesso e in parte sollevato le diedi la mano, era diventata molto più alta dal Solstizio d’estate, e portava con grazia un abito che la mostrava meno bambina di quanto ricordassi. Ma era soprattutto il suo atteggiamento misurato a colpirmi: stava facendo di tutto per non farsi notare, né da me né da chi ci stava intorno, anche se sapevamo entrambi che non era possibile. Le sorrisi incoraggiandola, si muoveva con grazia, ma questo lo sapevo già, tutti sapevano che Deidra Sherton curava personalmente certi aspetti dell’educazione dei suoi figli perché fossero impeccabili nelle occasioni mondane come nella preparazione nello studio. Forse non era male nemmeno parlare con lei, ma dubitavo che mi avrebbe detto una parola di più di quanto dovuto dall’etichetta. Per la prima vola da quando avevo ricevuto la lettera di mia madre che mi obbligava a invitarla, ebbi dapprima il sospetto poi la certezza che nemmeno lei apprezzasse le macchinazioni dei miei genitori: era sufficiente osservare con quanta apprensione cercava di non perdere  di vista il piccolo Black che ballava con cipiglio severo con la figlia dei Dickens. Quando la musica finì, mi sorrise e con l’assoluta fredda gentilezza delle frasi di circostanza mi congedò: la guardai allontanarsi, raggiungere suo fratello, scambiare alcune battute con lui e subito dopo dileguarsi verso il gruppetto capitanato da Black. Anche lui aveva evidentemente lasciato perdere la propria provvisoria compagna. Sorrisi. Di certo a casa mia non avrebbero apprezzato molto quella scenetta, ma a me faceva piacere oltre che un’infinita tenerezza. I miei amici mi accerchiarono, facendo apprezzamenti sul fatto che ero ancora vivo, che lei era davvero molto carina e meno stupida di tante, ma io li lasciai alle loro chiacchiere e mi avvicinai all’unica e sola che avrei invitato, fin dall’inizio, se fossi stato libero di fare di testa mia.

    “Marlene, ti va di ballare?”

Fece un po’ la difficile all’inizio, come sempre, ma finalmente Marlene McKinnon si alzò e mi diede la mano, e per tutto il resto della serata ballai con lei.


*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP
(maggio 2010).
Valeria


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