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Autore: MaxB    30/11/2016    7 recensioni
Raccolta di one-shots e mini-long basate su immagini di Rboz e Blanania, che mi hanno dato l'autorizzazione. Gajevy totale con accenni ad altre coppie.
Elenco dei capitoli per genere o caratteristiche:
- Serie di immagini: 1, 6, 8, 9, 14
- Immagini singole o a coppie: 2, 5, 7, 12, 18, 19, 23, 24
- Drammatiche: 3, 13
- AU: 5, 15, 18, 19, 20, 22, 24
- Pirates AU: 10, 11 (conclusa)
- School AU: 4, 15, 20
- Council Gajevy: 16, 21
- Gajevy Week 2015: 17
Scrittura e disegno sono due forme d'arte che se accoppiate fanno scintille!
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden, Pantherlily, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Non isponibileAnywhere AU

Disegnatrice: Almandium (Fioren Nights?)
Universo: AU
Caratteri: IC
Genere: romantico; avventura
Personaggi: Gajeel Redfox; Levy McGarden; Pantherlily.
Coppie: GxL;
Rating: verde
POV: esterno
Lettura: /
Contestualizzazione: imprecisata
Avvertimenti: nessuno.

 


Nessuno può dire con precisione matematica quando ci sarà un terremoto.
Nessuno può sapere con certezza quando la propria vita cambierà totalmente.
Nessuno, in ogni anfratto e nascondiglio della terra, può essere preparato per lo scoppio di una guerra in piena notte.
Muri che crollano, urla che lacerano la gola di chi le emette e l'animo di chi le ode. Polvere, schegge di pietre che volano senza controllo.
Nel caso della principessa, statue di marmo che venivano fatte a pezzi e frantumi di oro e argento che si posavano come petali sul pavimento ricoperto di tappeti e del sangue dei domestici che erano morti nel tentativo di salvarla.
Con solo la vestaglia da notte a coprirla, la principessa si sentiva terribilmente esposta. Esposta agli occhi degli uomini, esposta al freddo autunnale e alla tragedia.
La sala del trono era diventata un osservatorio a cielo aperto, senza più il tetto infinitamente alto e riccamente intarsiato a proteggere le loro teste da quelli che erano gli scoppi dei cannoni.
La voce straziata della principessa si levò in un grido implorante spiegazioni a cui la madre, la regina, in piedi al centro di quella devastazione di pietra, non aveva risposte.
Continuò a dare le spalle alla figlia mentre osservava freddamente i corpi straziati del marito e degli altri due figli più grandi, crollati come semplice e scadente mobilio.
Il pianto della principessa sembrò infastidire la regina, e un soldato accorse a trattenere la piccola tredicenne che desiderava solo svegliarsi da quell'incubo e correre dai fratelli e dall'amato padre.
Voleva solo il conforto della madre, nient'altro.
Ciò che ottenne, invece, fu un ordine secco e indiscutibile della regina che ingiunse di portarla “in quel luogo e lasciarcela”.
La principessa venne portata via senza spiegazioni e, strepitando in prenda all'orrore, seppe che non si sarebbe mai scordata la vista della schiena che la madre, con il naso puntato al notturno cielo rosso, le rivolse.
Quella schiena che sostituì il volto della madre stessa nella memoria della figlia per i successivi tre anni.
 
La principessa viaggiò tre giorni e tre notti, facendo a malapena le soste impostele dal suo organismo.
Il soldato che l'aveva presa in custodia stava guidando quella carrozza che correva troppo velocemente perché la ragazzina potesse provare a buttarsi fuori durante la corsa, in un disperato tentativo di fuga.
Sarebbe stato un suicidio.
Accanto al suo rapitore, un altro soldato la scortava nel viaggio, dando il cambio al primo quando era stanco. Nessuno dei due considerava la principessa, sembravano sordi alle sue proteste. Le servivano due frugali pasti al giorno, a base di pane, formaggio, acqua razionata e occasionalmente un po' di latte.
La principessa meditò sul fatto che non le sarebbe stato di nessun aiuto rifiutarsi di mangiare, perciò consumò ciò che i soldati le servirono finché non sentì il latte irrancidirsi e il formaggio diventare verde di muffa.
Lei non li avrebbe nemmeno considerati pasti, se confrontati con i sontuosi banchetti cui prendeva regolarmente parte al castello.
Castello che forse non esisteva nemmeno più, e lasciava spazio alle erbe incolte lì dove non sorgevano le macerie di quella che un tempo era casa sua.
All'alba del quarto giorno, quando il pane era diventato così duro da poter essere scambiato per un sasso, la principessa poté distinguere a pochi minuti di carrozza le guglie nere e in rovina di un castello antico e, lo sentiva, imbevuto di magia in ogni mattonella che componeva le mura.
Odiava essere parte di piani che la riguardavano, ma di cui non era a conoscenza. La faceva sentire prigioniera della sua stessa vita. E sua madre, la regina, non le diceva mai nulla. A soli tredici anni la principessa sapeva già che avrebbe avuto il coraggio di farla sposare con uno sconosciuto nel giro di due giorni. E questo la terrorizzava.
Non passò molto tempo che la carrozza si fermò davanti ad un cancello fatiscente eppure minaccioso, nero come il resto del castello in rovina. Il ferro battuto sembrava ancora nuovo nonostante l'aspetto sgangherato, e le punte acuminare che sulla sua sommità si protendevano verso l'alto scoraggiavano chiunque ad addentrarsi in quella dimora maledetta.
Uno dei soldati aprì la porta del convoglio e la principessa, pronta, la spinse via per poi schizzare fuori e scappare. Ma la sua fuga durò ben poco, bloccata dallo shock: si trovavano su un'altissima montagna brulla e ripida, e loro erano proprio sul ciglio del burrone. Il soldato afferrò la principessa per un braccio e la tirò indietro, guidandola verso il castello.
- Stia attenta, principessa. Vogliamo proteggervi, non vedervi morire! - l'avvisò la guardia, spingendola garbatamente verso il cancello.
A nulla valsero i tentativi della giovane di ribellarsi a quella costrizione, a nulla servirono le urla e le implorazioni.
In pochi secondi, la guardia aprì il cancello e il secondo soldato spinse la principessa all'interno, chiudendolo alle sue spalle.
La giovane gridò e si scagliò contro di loro, cercando di aprire il pesante battente, ma ciò che sentì la bloccò: una scossa fece tremare l'inferriata e il suolo stesso, cogliendola di sorpresa e facendola pertanto barcollare.
La principessa incespicò nei suoi stessi piedi e si ritrovò seduta per terra in maniera scomposta, interdetta.
- Il gatto della strega! È il gatto della strega! Scappiamo! – gridò uno dei due soldati che avevano scortato la fanciulla fino a quel luogo, agitandosi come una gallina che tenta di fuggire da una volpe e in realtà fa solo confusione senza concludere nulla.
I due guardiani, in preda al panico, salirono sulla carrozza e sfrecciarono via come se i cavalli che trainavano il pesante convoglio fossero stati dieci e non due, poveri, sfibrati equini.
La principessa cercò senza risultato di spostarsi alcune ciocche cerulee dal viso, in modo tale da poter vedere chiaramente cosa stesse accadendo. Se non poteva capire, poteva almeno sperare che l’ambiente circostante l’aiutasse a vederci chiaro.
Ciò che comprese, invece, scrutando in quella fitta foresta, fu che i due valorosi e audaci soldati ai quali la regina aveva affidato la propria figlia, altri non erano che omuncoli che si spaventavano alla vista di un gatto. Infatti, vicino alla fanciulla sedeva un quieto micio dal folto pelo color del tronco dei pini, con una cicatrice più chiara che formava una piccola e tenera mezzaluna sull’occhio sinistro del felino.
Il gatto la fissava impassibile, con sguardo intelligente e comprensivo.
Capire stava diventando sempre più complicato.
Cosa ci faceva lei lì, nel giardino di quel castello fatiscente infestato da erbacce invadenti e protetto da un’alta inferriata che impediva la fuga anche dei suicidi più temerari?
Qualche eremita conduceva lì una vita ascetica e ritirata?
Perché sua madre, la regina, aveva incaricato due dei suoi uomini, sicuramente più utili in battaglia, di portarla lì e lasciarcela?
Un cupo miagolio la distolse dai suoi ingarbugliati pensieri, riportandola alla realtà: era ancora seduta per terra.
La principessa si alzò, si spazzolò il vestito per liberarlo dalle foglie secche che vi si erano appiccicate come sanguisughe, e si voltò per fronteggiare la solenne entrata di quello che un tempo doveva essere stato un castello da sogno, invidiabile anche dai più potenti e ricchi sovrani.
Una scalinata di marmo candido, ormai ricoperto di muschio e macchiato in più punti, conduceva all’imponente portone d’ingresso, parecchio lontano dal cancello d’entrata. Una fontana gigantesca si frapponeva tra la recinzione di ferro e il castello, donando a quel luogo un aspetto spettrale e triste. Sulla sommità della fontana, la statua di un fauno con in mano un vaso sembrava implorare acqua, piuttosto che donarla. Un tempo doveva essere stato quel fauno a far sgorgare l’acqua in quella meraviglia rocciosa, decorata con pietre preziose ormai sbrecciate.
Le aiuole che in un’altra epoca dovevano essere state minuziosamente curate e colorate si erano mischiate con le erbacce e sul suolo erboso si poteva ammirare solo un’accozzaglia di distinte tonalità di verde, inumidite dal clima e dall’altezza in cui si situava l’edificio.
Per un attimo la principessa chiuse gli occhi per immaginarsi quel giardino ai fasti di un tempo, e dopo un tempo che non avrebbe saputo quantificare rabbrividì di freddo. Il gatto, che non si era mosso dal suo fianco, miagolò per attirare la sua attenzione, e quando i loro occhi si incontrarono si diresse verso l’entrata, spronandola a seguirlo.
Circospetta, la fanciulla valutò le opzioni: restare fuori a congelare oppure entrare in quella che a tutti gli effetti doveva essere una dimora maledetta.
L’ululato di un lupo, in lontananza, fugò tutti i suoi dubbi: la principessa corse verso il castello, conscia del fatto che il cancello alle sue spalle non si sarebbe più aperto per molto, molto tempo.
 
Dopo essersi chiusa alle spalle i pesanti battenti della rocca, la giovane si prese alcuni istanti per osservare l’interno della dimora dismessa, certa del fatto che avrebbe scorto solo cocci e brandelli di mobilio un tempo prestigioso, polvere e animaletti.
Invece rimase senza fiato.
Un fuocherello vivace ardeva nel caminetto posto alla destra dell’entrata, e il salone che si apriva davanti alla principessa era brillante di pulizia, immacolato. Di fronte al portone vicino al quale lei si trovava, in lontananza, c’era una specie di piccolo soggiorno molto moderno, dotato di comodi divani di velluto rosso che sembravano appena acquistati. Sulla sinistra la fanciulla indovinò che ci fossero le grandi cucine degne del castello e la sala da pranzo.
Una gigantesca scala di marmo conduceva ai piani superiori, da dove la principessa sentì sopraggiungere dei botti. Spaventata, si irrigidì e osservò il gatto, che però non si era mosso e sembrava tranquillo come solo un padrone di casa può essere. Dopo poco i botti cessarono, e alla ragazzina parve di percepire uno spostamento d’aria che però non avrebbe saputo definire.
Alla fine si decise a camminare verso i divani in fondo alla sala. Mille domande cominciarono ad affollarsi nella sua mente confusa: cosa ci faceva lì? Perché sua mamma l’aveva mandata via senza spiegazioni? Cosa stava succedendo a casa sua, al suo regno? E…
Chi abitava quel castello moderno e decisamente pulito?
La principessa si affacciò alle brillanti finestre che mostravano il retro del castello, e rimase piacevolmente sorpresa dall’esplosione di colore che vi notò: il giardino posteriore era curato quanto l’interno dell’edificio, al contrario dell’ingresso.
Perché?
Voltandosi, sempre più confusa, la principessa parve intravedere una grossa sagoma scura con la coda dell’occhio, ma pensò che fosse solo uno scherzo della sua mente spaesata.
Il gatto aveva preso posto su un morbido cuscino ocra, e sembrò invitarla a fare lo stesso. La principessa, quasi automaticamente, si sdraiò vicino a lui e sospirò: erano giorni che non dormiva come si doveva, su un giaciglio comodo e soprattutto fermo.
Così, nel giro di pochi minuti si addormentò profondamente.
 
Un refolo di vento scompigliò i capelli della bambina, facendole storcere il naso.
Un secondo soffio d’aria la fece rabbrividire.
Il terzo la svegliò, irritandola.
La prima cosa che la principessa vide alzandosi sui gomiti fu lo sguardo incuriosito del gatto dal pelo scuro.
Sembrava che stesse… aspettando qualcosa.
Poi la giovane sentì un altro sbuffo d’aria.
Voltando la testa di fronte a sé, rimase interdetta.
Due grossi buchi neri facevano uscire ad intervalli regolari fiotti d’aria alquanto potenti, e due cavità rosso fuoco si aprivano e chiudevano ritmicamente.
Che fossero rubini?
La principessa non riusciva a capire, era destabilizzata da quella visione, come da quel gigantesco blocco di metallo posto in mezzo al salottino. Prima non c’era.
Poi, parte di quel metallo si girò in direzione del gatto, che miagolò quietamente, e la giovane poté notare un dettaglio fondamentale: denti.
Aguzzi.
Quell’ammasso metallico non era acciaio morto, era un essere vivo. I buchi che emettevano aria erano narici e i rubini erano in realtà vigili occhi dalle pupille strettissime, che non lasciavano presagire nulla di buono. Il resto era un corpo ricoperto di squame metalliche con una lunga coda e quattro possenti zampe.
E due ali.
La principessa urlò e saltò giù dal divano, scappando via. Corse su per le scale, al piano superiore, e si chiuse nella prima stanza che trovò. Il ruggito del drago, al piano di sotto, la fece scoppiare a piangere, e la giovane ragazza non poté fare altro che raggomitolarsi su sé stessa e seppellire il volto nelle ginocchia mentre i singhiozzi le scuotevano il corpo senza ritegno.
Abbandonata da sua madre, orfana di padre, lontana dal suo regno, lei, una bambina di sangue nobile di tredici anni, si trovava costretta a vivere in casa con un drago di ferro.
Che misero destino.
Terrorizzata, affamata, sfibrata e scoraggiata, la principessa attese con bramosia il sonno annebbiante che poteva concederle qualche ora di finta pace.
Quando, finalmente, arrivò, sprofondò in un profondo oblio che le donò ristoro. Forse l’ultimo della sua vita.
 
La principessa si svegliò per colpa del ritmico suono raschiante alle sue spalle e del panino che aveva appena sognato.
A casa sua mangiava sempre pane con il formaggio per merenda, quando lei e i suoi due fratelli riuscivano a scappare per qualche minuto dai doveri di corte e potevano farsi viziare dalla cuoca dolce quanto le torte che preparava.
- Il pane non è un alimento che si addica a giovanotti del vostro rango – li incalzava la severa madre, la regina, ogni volta che li coglieva in flagrante con la bocca ancora cosparsa di briciole. – Non siete mendicanti che elemosinano un tozzo di pane duro e secco e bevono l’acqua che il cielo provvede loro.
In quel momento, la principessa avrebbe mangiato volentieri un pezzo di pane nero, alimento povero che in casa sua veniva evitato come la peste, pur di calmare la violenta fame che le attorcigliava le viscere. Non mangiava da due giorni, da quando in carrozza erano finiti i viveri, e alla bambina sembrava che il suo intestino stesse cercando di mangiarsi da solo.
Appena l’ennesimo cupo brontolio di protesta del suo stomaco vuoto si placò, la principessa poté concentrarsi sul suono alle sue spalle: un grattare regolare contro la porta. Alzandosi, la giovane gemette di dolore: si era accasciata contro il muro il giorno prima, nel disperato tentativo di fuggire dal drago d’acciaio, e il sonno l’aveva colta quando ancora era raggomitolata sul pavimento. Di certo, non era il giaciglio migliore in cui aveva dormito negli ultimi tredici anni di vita.
Un miagolio la rassicurò riguardo alla fonte del cadenzato raspare: non era il drago.
Circospetta, la fanciulla aprì la porta, e il gatto dal manto scuro fece il suo ingresso solenne nella stanza.
Solo allora la principessa pensò di osservare l’ambiente in cui si trovava. Purtroppo, però, immerso nel buio com’era, poteva distinguere vagamente forme e oggetti, ed era impossibile farsi un’idea precisa della camera.
Così, procedendo lentamente, passettino dopo passettino, la ragazzina si fece strada fino alle tende da cui filtrava un tenue bagliore, non prima di aver sbattuto il piedino contro qualcosa di decisamente duro.
La luce che entrò nella camera come un’esplosione la costrinse a chiudere gli occhi per alcuni istanti, prima di poter osservare l’ambiente: era una camera da letto decisamente non molto sobria. Un gigantesco letto a baldacchino, simile a quello di sua madre e di suo padre, occupava la maggior parte dello spazio. La principessa notò con sorpresa che dieci di lei avrebbero potuto occupare comodamente quel materasso dalle fattezze indubbiamente pregiate.
Una porta di fronte al letto conduceva in un’altra stanza adibita a guardaroba, zeppo di vestiti e scarpe di cui la principessa riuscì solo a distinguere i molteplici colori. Un’altra porta, nell’angolo più a sinistra della camera, conduceva ad un bagno riccamente decorato, occupato da un mobile da toeletta come nemmeno sua madre aveva mai avuto. Piccoli scalini che partivano dal pavimento conducevano ad una vasca da bagno ricavata direttamente dal muro. Infine, oggetti d’arredamento, piccoli mobili d’appoggio per libri o altri effetti personali, tappeti spessi e quadri così vividi da sembrare una finestra sul mondo decoravano quella stanza tinta in colori tenui e degna dei più ricchi sceicchi d’oriente.
- Ma come…? – mormorò la principessa, che osservava la luce filtrare dalle pesanti tende vermiglie per rivelare quella che sembrava una camera delle favole.
L’orlo del vestito venne tirato, e la bambina abbassò la testa per osservare il gatto che richiedeva la sua attenzione. Senza perdere il contatto visivo, il felino si diresse verso la porta, invitandola a seguirlo.
- No! – esclamò, terrorizzata, prima di schiarirsi la rauca voce, inutilizzata per un giorno intero. – No, di sotto c’è un drago, non voglio scendere – mormorò impaurita.
Il gatto miagolò, corse di nuovo verso di lei passando sotto al letto, le morse una caviglia e scappò verso la porta.
- Ehi! Mi hai fatto male!
Il gatto miagolò di nuovo e grattò la porta.
La principessa lo raggiunse, lo fece uscire e poi si chiuse dentro, scusandosi.
Per nessuna ragione al mondo sarebbe tornata di sotto, con quel drago famelico.
Avrebbe dovuto evitare anche il gatto, decise.
 
Quindici brontolii di stomaco e ventisette minuti di miagolii e grattate alla porta dopo, la principessa urlò la sua esasperazione e la spalancò, fiondandosi fuori per osservare il gatto dall’alto.
- Senti, così non va. Mi hanno portata qui, in questo castello fintamente abbandonato e abitato da chissà quale strano tipo che ha un drago come cane da guardia, e ho fame e non so cosa fare, mio papà è morto, i miei fratelli anche, non so cosa faccio qui, non so cosa… non so… - singhiozzò, dopo aver farfugliato con parole ben poco regali il peso che aveva nel cuore.
Il gatto le si strusciò sulle caviglie e poi le tirò di nuovo la gonna per farsi seguire.
Asciugandosi le lacrime, la principessa prese un profondo respiro e osservò il lungo corridoio: doveva assolutamente arrivare alla dispensa.
Racimolando tutto l’autocontrollo di cui disponeva, corse giù per le scale, lasciandosi alle spalle uno sgomento gatto, e si fiondò in cucina senza guardarsi intorno.
Chiuse dietro di sé la porta della grande sala in cui veniva preparato il pranzo e si concesse un momento di respiro. Non era morta. Non era morta.
Ma i piedi urlavano di dolore, stretti in quelle graziose scarpette rigide e assassine. La principessa si chinò per levarle, e rabbrividì a contatto con il freddo pavimento.
Quando alzò lo sguardo per scrutare il luminoso ambiente, invece, rabbrividì di paura.
Cucchiai e mestoli si muovevano nell’aria, da soli, animati di vita propria, mentre stracci umidi e imbevuti di detersivo profumato pulivano il pavimento già di per sé lucido. Le posate volavano dai cassetti alla tavola, imbandendola insieme a bicchieri, tovaglia e piatti di porcellana. Persino gli alimenti uscivano di loro spontanea volontà per andare a suicidarsi in pentole e padelle ricolme d’acqua bollente od olio caldo.
Urlando, la principessa scappò via, ricominciando a piangere, e risalì le scale prestando poca attenzione ai piumini che spolveravano i mobili del salone o ai panni che pulivano i vetri. Il gatto osservò la sua nuova fuga con sguardo perso, chiedendosi forse cosa mai fosse successo.
Quando sentì la porta della camera sbattere di nuovo, decise che per quel giorno ne aveva abbastanza, e si acciambellò comodamente in mezzo alla scala.
 
La principessa pianse per quasi mezza giornata, e si fermò solo perché non aveva più nemmeno la forza di singhiozzare. Gli occhi le si erano gonfiati e una potente emicrania si era impossessata delle sue facoltà di raziocinio, impedendole ancora di più di fare mente locale.
Quando, nel pomeriggio, il gatto ricominciò a grattare la porta, lei si alzò e l’aprì senza fiatare. Ormai la fame governava ogni suo pensiero, e tutta quella situazione le sembrava solo un incubo, un’allucinazione.
Il gatto, seduto di fronte alla porta, miagolò ed entrò, mentre un vassoio ricolmo di cibi prelibati lo seguiva, mosso da fili invisibili: crema di zucca con olio e crostini, insalata, cosce di pollo con patate intinte nella salsa e imburrate, pane tostato e macedonia con frutti di bosco.
Con gli occhi grandi quanto i bicchieri ricolmi di succo e acqua posizionati sul vassoio, la principessa si gettò a terra e addentò il pane croccante gemendo di piacere. Quando le posate saltellarono fino a lei insieme ad un tovagliolo e una brocca d’acqua, la fanciulla decise di non porsi domande e, afferrando delicatamente un cucchiaio, iniziò a trangugiare la crema di zucca.
Nemmeno il cuoco del suo castello sapeva cucinare così bene. Quand’ebbe finito, piatti, posate e salviette zampettarono via, e la principessa restò a fissarli finché sparirono giù per le scale.
- Grazie – mormorò, così piena da poter scoppiare.
Erano giorni che mangiava solo pane e carne secca.
Uno scroscio d’acqua impetuoso attirò la sua attenzione, e il gatto miagolò, guidandola nella sala da bagno: la vasca di stava riempiendo di acqua calda, e diverse lozioni profumate si stavano autonomamente versando in quella polla d’acqua che sembrava chiamare a gran voce la ragazzina.
Da quanto tempo non si concedeva il lusso di un bagno profumato?
Sospirando di piacere, la principessa si spogliò e si tuffò nella vasca, ridendo contenta: la temperatura era perfetta.
Quando uscì, dei morbidi panni puliti le asciugarono il corpo, e una vestaglia da notte insieme alla biancheria si posarono ai suoi piedi, pronti per essere indossati.
Saziata, libera nel corpo e pulita, finalmente, la principessa uscì dal bagno sorridendo, e subito il letto smosse le proprie coperte in modo tale da accoglierla tra le sue coltri.
Ponendosi ben pochi interrogativi, la bambina si lasciò abbracciare da quel letto troppo grande, e il gatto fece presto a raggiungerla per dormire con lei.
Mentre sprofondava nel sonno così come il sole si tuffava oltre l’orizzonte, le tende si chiusero facendo sprofondare tutto nel buio.
 
La mattina la principessa fu svegliata da una linguetta ruvida che le solleticava il collo. Contorcendosi, si rannicchio sotto al piumone caldo e si coprì la testa spettinata, lasciando che le ciocche cerulee si aggrovigliassero ancora di più.
All’improvviso lanciò un gridolino di sorpresa, e gemette per il freddo: le coperte si erano arrotolate ai suoi piedi, e le tende si erano spalancate per lasciar entrare la calda luce del mattino.
La principessa aprì pigramente un occhio, troppo assonnata per essere spaventata da quella casa stregata, e osservò le morbide pantofole che si erano accoccolate davanti a lei, sul pavimento. Nel camino, i ciocchi di legno si stavano indipendentemente organizzando, e nel giro di poco la fanciulla sentì un allegro fuocherello crepitare calorosamente.
Il gatto le si arrampicò sul fianco e scivolò sul suo petto, andando a sistemarsi proprio davanti al suo viso. Quando la principessa incontrò il suo musetto, scoprì che la stava fissando di rimando, in attesa.
E colse un bagliore provenire dal suo collo.
- Ma cosa…? – mormorò, allungando una mano per prendere tra le dita una piccola targhetta che pendeva da un collare scuro praticamente invisibile tra il pelo del gatto. – Panther…lily. Ti chiami così? Pantherlily?
Il felino miagolò rocamente e le posò una zampa vellutata sul viso, in un’umana carezza.
La principessa sentì le lacrime pungerle gli occhi e spingere per uscire: in tutta la sua vita aveva ricevuto un numero così basso di abbracci e carezze da poterlo conteggiare sulle dita delle mani. E lì, in quel castello abitato da oggetti posseduti, un gatto era riuscito a farla sentire per la prima volta una semplice bambina in fase di crescita che aveva più che mai bisogno di coccole.
- Posso chiamarti Lily? – domandò la principessa accarezzandogli la testolina.
Il gatto iniziò a fare le fusa, ma dopo alcuni istanti saltò giù dal letto e si diresse verso la porta, invitandola a seguirlo.
La ragazzina sentì un brivido di paura correrle giù per la schiena e mettere definitivamente fine alla sua pace mentale. – Io non ci torno di sotto. Ho paura, le cose volano! Sono possedute! Cosa ci faccio io qui?
Il gatto miagolò indispettito e se ne andò, lasciandola sola in compagnia del fuoco che si era acceso da solo.
Disperata, la principessa si rimpossessò delle coperte arrotolare ai suoi piedi e se le tirò sopra la testa, tremando.
Quando sentì di nuovo il miagolio di Lily, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. Uscendo dal rifugio di coltri, la principessa vide che il gatto era seduto ai piedi del letto con un altro vassoio di cibo di fianco.
Le venne immediatamente l’acquolina in bocca osservando i magnifici colori di quegli alimenti preparati per la sua colazione: pane tostato perfettamente dorato, una tazza di latte fumante, diversi tipi di marmellata e piccoli dolcetti alla frutta con crema insieme ad un bicchiere di spremuta.
- Santo cielo… - mormorò, esterrefatta.
Il vassoio levitò fino a posarsi sulle gambe della giovane, e la principessa, senza titubanze, ringraziò l’aria e cominciò a mangiare.
Le sembravano passati secoli dall’ultima volta che aveva fatto colazione, e all’improvviso si chiese se in realtà quel castello non fosse stato una benedizione. Insomma, era in una casa meravigliosa con una stanza solo per lei, pasti che sembravano preparati dai migliori cuochi della contea, ed era lontano dal pericolo, se lo sentiva.
Subito però rammentò la guerra che si stava combattendo a casa sua, ricordò che in quel castello in realtà maledetto si aggirava un drago che sembrava ricoperto di scaglie metalliche, che era completamente sola, prigioniera, e non avrebbe saputo come scappare.
- Ora cosa faccio? Cosa devo fare qui? – sussurrò dopo aver finito ogni briciola di quelle prelibatezze cucinate solo per lei.
Il vassoio si allontanò, muto, e ignorò la domanda della giovane.
Fu il gatto a risponderle, circa, miagolando per attirare la sua attenzione verso il guardaroba. Le coperte si allontanarono nuovamente da lei, e il materasso sussultò, spronandola a scendere. Inquieta, ma sicura di potersi fidare per lo meno di quel gatto, la principessa entrò nella stanza adiacente al camino, e spalancò la bocca: nemmeno sua madre aveva un guardaroba del genere a casa loro.
Vestiti di ogni colore, forma e stile si susseguivano in bella mostra su appendini di legno pregiato, affiancati da scaffali su scaffali di scarpe eleganti e pantofole, biancheria ed espositori di gioielli.
Il gatto morse l’orlo della vestaglia con cui si era coperta la sera prima, e la principessa non perse tempo a domandarsi che fine avesse fatto la sua veste sporca e consunta con cui era arrivata lì: portava ancora addosso l’odore di cenere e morte che aveva impregnato la stoffa come una maledizione.
- Posso scegliere qualsiasi cosa?
Lily inclinò la testa e si acciambellò ai suoi piedi.
Una profonda calma mista a gioia riscaldò il cuore della bambina, che per la prima volta pensò di approfittare di quei miracoli. Non sapeva cosa sarebbe successo in futuro, ma la sua amica Erza non le aveva forse insegnato che non era necessario conoscere il futuro per vivere appieno il presente?
Quando si spogliò, la vestaglia da notte si piegò e si depositò sul letto, e la principessa rise contenta.
 
Pochi minuti dopo, la giovane stava sbirciando fuori dalla sua stanza con un semplice vestito di lana senza pretese e spessi calzetti ai piedi. Indossare uno di quei sfarzosi abiti da sera sfavillanti sarebbe stato sciocco: nessuno poteva vederla, e lei aveva bisogno di restare comoda nel caso in cui qualche coltello avesse deciso di attaccarla.
- Vediamo un po’, cosa possiamo fare oggi secondo te, Lily? – chiese la principessa, uscendo cautamente dalla stanza. – Potremmo andare nel salottino, oppure esplorare bene la cucina. Da dove viene il cibo, e chi lo prepara? Le stoviglie? Ma come fanno? Sono per caso oggetto di una maledizione come nella favola de La Bella e la Bestia? Perché io sono stata portata proprio qui? E…?
La miriade di domande che espose al gatto venne interrotta quando, in procinto di scendere le maestose scale che conducevano al piano inferiore, la principessa vide uno spiraglio di luce filtrare da una porta socchiusa al lato opposto del corridoio.
Le porte che aveva incontrato lungo il percorso erano tutte chiuse, lo aveva verificato personalmente. Tutte tranne la sua e… quella che aveva appena notato.
Come incantata, tornò lentamente sui suoi passi e procedette in linea retta invece di svoltare per prendere le scale. Lily la seguì senza fiatare, e la ragazza ebbe uno strano presentimento.
Raggiunta la porta, tirò piano la maniglia e si infilò nello spazio aperto, trovandosi davanti un paio di scale a chiocciola molto anguste e alte, illuminate a intervalli regolari da torce ad olio che crepitavano e riempivano l’aria di un leggero odore di fumo.
Lily miagolò e saltò sulle scale, correndo verso la sommità preclusa alla vista della principessa.
- Ehi! – chiamò a mezza voce. – Torna qui, Lily!
Temeva che se avesse alzato la voce quell’angusto passaggio le sarebbe crollato in testa.
Ingollando la saliva come per darsi coraggio, mise il piede sul primo scalino di legno, aspettandosi nuvole di polvere e scricchiolii. Invece, come il resto del castello, quel luogo stretto era perfettamente conservato, tanto da sembrare nuovo.
Alla principessa sembrò di aver salito mille scalini quando finalmente giunse in cima, dove incontrò una semplice piattaforma di legno dal soffitto basso e quattro pareti tinte di rosso a causa della torcia.
Prima ancora di formulare una domanda, il gatto si alzò sulle zampe posteriori e agitò quelle anteriori in aria, inducendo la giovane ad alzare la testa: c’era una botola sopra di lei. Inginocchiata com’era, per non sbattere la testa, non ci mise molto ad aprire il chiavistello e far scorrere lateralmente la porticina orizzontale, che probabilmente era montata su cardini.
Libera di alzarsi in piedi, la principessa sbucò con mezzo busto nel nuovo ambiente e… rimase senza fiato.
Quella in cui era approdata era un’unica stanza, lunga quanto l’intero castello e largo altrettanto, chiuso solamente dai quattro muri esterni che rappresentavano il perimetro dell’edificio.
Ad adornare lo spazio immenso non c’erano altro che libri e scaffali, librerie immense alte fino al soffitto. Piccole e precarie scale conducevano direttamente alle guglie che da fuori mettevano un’immensa soggezione e davano al castello quell’aria tetra e maledetta che avrebbe fatto scappare anche i fantasmi.
Tra le corsie di libri c’erano scrivanie vuote e lucidate provviste di carta e calamai, pennelli e tavolozze di colore per qualsiasi utilizzo, divanetti e sedie o teche espositive.
- Sono incastrata in un sogno… - mormorò la bambina, con gli occhi sfavillanti.
Una delle tante domande che le avevano affollato la mente era stata: cosa farò qui dentro per il resto dei miei giorni?
I vestiti li aveva, il cibo anche, non c’erano dubbi che sarebbe sopravvissuta, ma… cosa avrebbe fatto contro la noia?
Quella sala immensa rappresentava la risposta più che ovvia alla sua domanda. Avrebbe esplorato quel luogo, avrebbe passato giornate intere a leggere o scrivere e disegnare, portando a termine l’insegnamento che presso il suo palazzo le veniva impartito in maniera così ligia. Magari studiando un libro sul giardinaggio avrebbe anche potuto provare a rimettere in sesto il giardino anteriore di quel castello.
Come per le scale, quello spazio immenso era rischiarato da torce poste a brevi intervalli l’una dall’altra, estraibili dai loro sostegni per essere spostate a piacimento.
Facendo vagare il suo sguardo pieno di ammirazione in quel luogo magico, la principessa notò due cose che nell’estati del momento le erano sfuggite: l’unica finestra che c’era nella stanza, sul soffitto, gettava luce su un leggio sul quale stava appollaiato un vecchio libro, e il drago era lì, dormiente, a circondarlo con la coda metallica.
La principessa decise che doveva leggere quel libro.
In barba ai miagolii allarmati di Lily, la fanciulla si tirò fuori dalle scale e chiuse la botola, estromettendo il gatto. Con l’adrenalina che scorreva nel corpo e il brivido del proibito che le scaldava il sangue, la giovane si avvicinò senza fare rumore all’imponente figura che occupava il centro di quella biblioteca. A pochi centimetri dalla sua coda, sentì distintamente il fiato caldo del drago scompigliarle i capelli.
Chiudendo gli occhi, alzò una gamba e scavalcò l’ostacolo, dirigendosi con sicurezza verso il manoscritto.
Era la prima cosa rosa dal tempo che vedeva, in quel castello nuovo e avanguardistico.
La copertina di pelle marrone era screpolata e sbrecciata agli angoli, mentre degli strisci simili a graffi ne rigavano il titolo, rendendolo illeggibile.
La giovane trattenne il respiro quando uno sbuffo di polvere si sollevò per il movimento delle pagine, rivelando un testo ingiallito ma tutto sommato ben conservato.
Finalmente, il titolo del libro venne rivelato, al centro della prima, gialla pagina:
 
Lo Sprovveduto
Una storia di re Gajeel Redfox
 
La principessa aggrottò le sopracciglia.
Aveva già sentito quel nome… ma quando?
Accantonando i suoi dubbi, decise di cominciare la lettura di quel particolare manoscritto.
Ma le pagine erano vuote.
Girandole febbrilmente una per una, con la delicatezza che quella carta vecchia richiedeva, la principessa dimenticò il drago accanto a lei e una strana foga la prese, annullando tutti i suoi pensieri eccetto uno: doveva sapere.
Finalmente, dopo pagine e pagine di mute e invisibili parole, comparve una macchia di inchiostro nero: una piuma, disegnata nell’angolo in basso della pagina.
Una piuma nera che conteneva un occhio rosso con la pupilla stretta dei gatti. O dei serpenti.
Era troppo tardi per tirarsi indietro, così la principessa voltò pagina, estraniandosi da tutto ciò che non fosse quel libro.
 
A te che leggi questo libro auguro ogni tipo di fortuna, discendente del casato dei McGarden.
Auguro a te buona sorte come augurai sventura al casato dei Redfox, cento anni orsono.
 
C’era un tempo in cui nel mondo regnava la pace.
Un tempo in cui la gioia fioriva come i giardini in primavera, in cui ognuno si accontentava di ciò che aveva e godeva di ciò che otteneva grazie alle proprie mani.
In quel tempo, i due regni che predominavano nella terra di Earthland avevano deciso di allearsi e fondare un unico, grande regno: il regno di Fiore.
Questi due regni erano governati da re M. Redfox e re G. McGarden, che strinsero un patto firmato con il loro stesso sangue. Essendo il territorio troppo ampio da governare, i due spartirono le proprie terre con governi autonomi minori, ma giurarono che in caso di dissidi li avrebbero nuovamente riuniti per far tornare l’equilibrio, in nome di ciò che era scritto nel patto.
 
La principessa aggrottò le sopracciglia e fissò la luce che entrava dal lucernario sopra di lei.
Lei aveva studiato la storia di Fiore, la sapeva a menadito, così come sapeva di essere la discendente di uno dei più potenti casati reali del suo continente.
Ma… del casato dei Redfox non aveva mai sentito parlare.
 
Per quasi cinquant’anni l’alleanza durò.
Cinquant’anni di luce e successi e prosperità.
Ma la cupidigia e l’egoismo albergano anche nei cuori dei più puri, inclinandoli al male.
Avvenne pertanto che la guerra scoppiò.
I territori del più profondo sud di Fiore si unirono segretamente per rovesciare il governo dei McGarden e impadronirsi delle loro ricchezze. Quando re G. McGarden scoprì il complotto, era ormai troppo tardi, e lui troppo vecchio per prendere decisioni belliche, alle quali era impreparato.
Il figlio, il principe G. II McGarden, ordinò pertanto un consiglio e decise di chiedere aiuto al re M. Redfox, nei confronti del quale il padre nutriva un profondo affetto e una sincera ammirazione.
G. II McGarden venne pertanto convocato a palazzo, scoprendo che sul trono non regnava più re M. Redfox, bensì il figlio, Gajeel Redfox, ultimo re del casato dei Redfox.
Il figlio era cresciuto sordo ai consigli e ai saggi insegnamenti del padre, e vedendo nella richiesta d’aiuto di re G. II McGarden la possibilità di arricchirsi ancora di più, non solo rifiutò l’alleanza proposta, ma addirittura si organizzò per trovarsi contro di lui.
La notte del tradimento, però, le cose non andarono secondo i piani.
In ottemperanza al patto stretto cinquant’anni prima, e firmato con il sangue che scorreva nelle vene dei figli dei re, la tragedia si abbatté su re Gajeel Redfox.
In sella al suo cavallo, pronto a tradire un fedele alleato e infangare un giuramento stipulato dalla più potente fata dell’epoca, l’ultima fata, Gajeel Redfox non si scagliò mai contro il casato dei McGarden.
Tramutato in un drago d’acciaio, specchio del suo cuore, rase al suolo il suo stesso esercito e, accecato dal tributo che il patto richiedeva, sterminò gli insorti ribelli, salvando re G. II McGarden.
 
Questa è la vera storia di Fiore, da me scritta in testimonianza della verità e della lealtà.
Io, Ultima Fata, e insieme Prima, lascio questo memoriale a coloro che verranno dopo, a dimostrazione del fatto che un giuramento non si può rompere.
Si possono solo affrontare le conseguenze delle proprie azioni, rimpiangendo le proprie decisioni avventate e la propria brama illecita.
Qui conservo il patto, affinché un giorno il nome del casato Redfox possa essere riabilitato e ricordato, tirato fuori dall’oblio in cui è caduto nel momento in cui il patto è stato infranto.
 
Per guardare al futuro,
La Fata del Giuramento
 
 
La principessa sbatté più volte le palpebre, cercando di dare un senso logico a ciò che aveva appena letto.
Voltando inconsciamente pagina, scoprì un pezzo di pergamena accuratamente ripiegato, fittamente scritto da due grafie diverse e firmato con inchiostro rosso.
Presolo in mano con l’intento di leggerlo, si ritrovò ad urlare a causa del ruggito del drago che credeva addormentato.
Voltando la testa, scoprì due ardenti occhi rossi, confondibili con le torce, che la fissavano con odio, e per la seconda volta la fanciulla poté scorgere del bianco in quell’ammasso di scaglie nere e grigie: i denti aguzzi del drago, ad un palmo dal suo viso.
Le gambe della principessa si mossero da sole, portandola lontana da lì, mentre il leggio si rovesciava e la coda del mostro scattava.
Calcolando la traiettoria mentre l’adrenalina le faceva registrare ogni dettaglio al rallentatore, la giovane notò con orrore che in brevi istanti la sua testa si sarebbe scontrata con quelle acuminate punte metalliche, in un colpo fatale.
Ma la coda non la raggiunse mai, e il drago ruggì il suo furore.
In preda al panico, la principessa aprì la botola da cui era entrata e si fiondò di sotto, chiudendo il chiavistello e rischiando di calpestare il gatto che l’attendeva.
I colpi scagliati sul soffitto sopra la sua testa e i graffi degli artigli la indussero a percorrere a rotta di collo le scale, a ritroso, fino a sbucare nel corridoio del primo piano.
Tirò un sospiro di sollievo e si accasciò a terra, tenendosi il cuore come per impedirgli di volare via sui suoi battiti fulminei.
Lily le lanciò un’occhiataccia, ma alla fine le accarezzò una mano col muso, rassicurandola.
Un altro ruggito squarciò l’aria, più forte e vivido che mai, e la principessa urlò tappandosi le orecchie.
 Il drago era al piano inferiore, entrato nel castello in chissà quale modo, e pronto a distruggere ogni cosa.
In preda al panico, la principessa corse a rotta di collo per il corridoio e, mentre tentava di raggiungere la sua camera, vide lo sfacelo che il drago stava lasciando alle sue spalle: non un mobile, non un cuscino o un muro venivano risparmiati alla sua ira. I suoi occhi fiammeggianti incontrarono quelli di lei, ma la fanciulla riuscì a chiudersi nel suo rifugio sicuro senza dargli il tempo di raggiungerla.
Mentre il cuore batteva ad un ritmo frenetico e disumano, la principessa pianse la sua paura e, in stato di shock, fissò il soffitto senza un pensiero coerente, accasciata sul pavimento.
 
Quando aprì gli occhi, un po’ più calma, la luna era alta nel cielo nero e sconosciuto che la fissava dall’alto.
Concentrandosi sarebbe riuscita ad individuare le costellazioni che aveva studiato per anni insieme alla sua amica, la contessina Lucy, ma in quel momento il plumbeo coperchio del mondo le sembrava estraneo, e cattivo. Non era nemmeno sicura che fosse quello che vedeva sempre dalle finestre di camera sua, a casa.
Lily la salutò con un miagolio e una carezza sulla mano, nella quale spinse senza tanti preamboli la pergamena che la giovane aveva rubato da quella che, ne era certa, era la camera del drago.
Buffo che una biblioteca potesse essere un luogo tanto spaventoso per lei, che avrebbe potuto viverci dentro rinunciando per sempre alla luce del sole.
Un sommesso bussare alla porta la fece sobbalzare, e quando questa si aprì da sola fecero il loro ingresso elegante il consueto vassoio di cibo e le posate.
La principessa cominciava ad abituarsi a quella strana consuetudine, e ringraziò il cucchiaio d’argento quando questo si sistemò tra le sue dita.
Zuppa di verdure fresche con crostini di pane duro, salmone affumicato e patate affogate nella salsa.
Seduta comoda sul letto, mentre trangugiava la minestra, affamata, la fanciulla spiegò con solennità la pergamena, e fissò quelle lettere ordinate senza coglierne il senso: prima voleva solo osservare l’arte della scrittura e il modo in cui trasformava un semplice pezzo di carta vecchia in qualcosa dal profondo significato.
Chiudendo gli occhi, si preparò a leggere.
 
Oggi io, re G. McGarden, giuro solennemente per me e per i miei figli, nipoti e pronipoti, finché la stirpe non sarà estinta.
Giuro di proteggere e onorare re M. Redfox, insieme ai suoi figli, nipoti e pronipoti, fino alla fine della sua stirpe.
Giuro di aiutarlo nel momento del bisogno, per proteggere l’unità di questa terra e permetterle di prosperare e diventare ricca, così che tutti possano condurre una vita gioiosa e significativa.
Siglo questo patto con il mio sangue, conscio delle conseguenze che colpiranno qualunque McGarden non onori questo giuramento.
 
Re G. McGarden
 
Oggi io, re M. Redfox, giuro solennemente per me e per i miei figli, nipoti e pronipoti, finché la stirpe non sarà estinta.
Giuro di proteggere e onorare re G. McGarden, insieme ai suoi figli, nipoti e pronipoti, fino alla fine della sua stirpe.
Giuro di aiutarlo nel momento del bisogno, per proteggere l’unità di questa terra e permetterle di prosperare e diventare ricca, così che tutti possano condurre una vita gioiosa e significativa.
Siglo questo patto con il mio sangue, conscio delle conseguenze che colpiranno qualunque Redfox non onori questo giuramento.

 
Re M. Redfox
 
La principessa abbassò il foglio e ripose il piatto vuoto nel vassoio, impugnando la forchetta.
Confusa, alzò la testa al soffitto e l’appoggio alla testiera alle sue spalle.
Cosa significava quello che aveva letto durante quella giornata?
C’era qualcosa che le sfuggiva, ne era certa. Un piccolo dettaglio quasi trascurabile, eppure fondamentale.
Frustrata, ripiegò la pergamena, e notò l’iscrizione sul retro del foglio.
Frenetica, lo spiegò e lo girò, fissando le brevi frasi che sembravano scritte da una fata, tanto erano leggiadre.
 
Stipulo oggi questo patto,
Come se fosse un legale atto.
Io, Fata, sigillo col sangue questo accordo.
Sperando che di trasgredire nessuno abbia l’azzardo.
Questo giuramento in eterno vivrà,
fate perciò attenzione a chi verrà:
protezione e onore promettono i casati,
così com’è stato nei tempi passati.
Chi contro alla sua parola si rivolterà,
In un mostro orribile trasformato sarà,
costretto a servire per sempre colui che offenderà.
Come vale per due,
così vale per chi ne porta il sangue.
Un casato decadrà e un altro sorgerà,
ma sempre nel rispetto della promessa lealtà.
La Fata che veglia sul Giuramento
 
Attonita, la principessa strinse i pugni e lasciò cadere la pergamena, portandosi le mani al viso.
Un giuramento, un drago, i suoi antenati, i McGarden e i Redf…
- I Redfox… - sussurrò, facendo drizzare le orecchie a Lily. – I Redfox! – urlò poi, rischiando di rovesciare il vassoio ancora mezzo pieno di cibo.
- Mio fratello maggiore mi raccontava sempre la favola del drago Redfox quando ero piccola! – spiegò al gatto, aspettandosi che la capisse. – Diceva sempre che gliel’aveva narrata nostra madre, questa favella, ma io sapevo che era impossibile. La regina non è una di quelle donne che augurano la buonanotte ai figli.
Sconsolata, la principessa sorrise tristemente, e cercò di fare mente locale. – Mio fratello mi diceva sempre che un giorno il drago sarebbe stato la mia unica possibilità di sopravvivere, che mi avrebbe portata in un luogo magico e mi avrebbe protetta sempre, finché io lo avessi voluto. Mi diceva che poteva sembrare cattivo, ma in realtà era solo un cane da caccia con la museruola. Non avrebbe mai potuto uccidermi.
All’improvviso, la principessa si ricordò di un dettaglio: quando stava scappando dalla biblioteca, la camera del drago, la sua coda era guizzata repentinamente, diretta alla sua testa. Era impossibile deviarne la traiettoria, nemmeno il drago stesso avrebbe potuto bloccarla. Eppure, neanche un movimento d’aria l’aveva raggiunta.
Niente.
Il drago non poteva ferirla.
Incurante del vassoio sulle sue gambe, rovesciò le coperte e scappò lungo il corridoio, attirandosi un miagolio adirato di Lily.
Spettinata, con indosso lo stesso abito di lana e gli stessi calzettini che aveva indossato dopo il bagno, corse a perdifiato e si fiondò verso l’unica porta che sapeva essere aperta. Si lanciò su per le scale come se avesse un drago dietro le spalle e non sopra la testa, nel luogo al quale era diretta.
Dopo essere inciampata diverse volte, riuscì ad aprire la botola e spuntò nella biblioteca che era in realtà la camera del drago.
- Tu sei Gajeel Redfox! – urlò, senza nemmeno rendersi conto di aver aperto bocca.
Il drago, assopito, sollevò la pesante testa lucida alla tenue luce delle torce, e la fissò con un occhio di fuoco, lasciando chiuso l’altro.
- Tu sei Gajeel Redfox, il traditore della mia famiglia e il bugiardo che ha infranto il patto! – gridò ancora la bambina, che aveva solo tredici anni e stava letteralmente fronteggiando un drago.
Quest’ultimo ringhiò e, ormai sveglio, si sollevò sulle quattro possenti gambe ricoperte di scaglie metalliche, avvicinandosi a lei con odio puro dipinto negli occhi.
Se quegli occhi non fossero stato tanto vivi e spaventosamente umani, la fanciulla avrebbe potuto scambiare il mostro per una di quelle diavolerie metalliche di cui troppo spesso sentiva parlare nelle guerre che si svolgevano al nord di Fiore. Guerre vinte grazie all’uso di macchine senza cuore che spesso falcidiavano indistintamente amici e nemici.
Il drago si acquattò di fronte a lei e ringhiò più forte, ma la principessa non si scompose. Notò che il drago aveva delle placche metalliche tondeggianti sul muso, tre sopra ogni occhio, due per parte lungo il naso e due su quello che doveva essere il mento, e poi altre tre sulle orecchie appuntite che aveva appena appiattito sul cranio, irritato.
- Tu hai tradito un mio avo, e per questo ora ti trovi qui, tramutato in un drago. Per rispettare coercitivamente il patto che anni orsono hai infangato. Ora devi proteggere me, l’ultima McGarden rimasta in vita, nonostante l’odio che tu provi nei miei confronti. Non è forse vero?
Il drago si abbassò ancora di più, sfidandola con gli occhi.
- Sì che è vero! – si rispose lei. – Qui tu non sei altro che il mio schiavo!
Inferocito, il drago scattò sulle gambe posteriori e, spalancando le ali corvine e immense che per puro miracolo non urtarono alcun libro, ruggì tutto il suo dissenso.
Per un attimo la sicurezza della giovane vacillò, e cadde come un peso di piombo quando il drago si scagliò su di lei con le fauci spalancate.
Urlando di paura, la principessa portò le braccia a difesa della testa e si accasciò sulle ginocchia.
Ancora, però, niente la urtò, nemmeno il fiato del drago la raggiunse.
Titubante, aprì un occhio e lo vide sbuffare dal naso con disprezzo, massaggiandosi il muso con una zampa là dove il colpo a lei diretto non era andato a segno.
Ridacchiando, la principessa lo derise: - E così se provi a ferire me non fai altro che nuocere a te stesso?
Poi scoppiò a ridere, zittendo i gutturali ringhi sommessi del mostro di fronte a lei, perplesso di fronte alla sua gioia.
- Io sono Levy. Levy McGarden – dichiarò infine sorridendo. – Tu sei Gajeel, giusto? Sappi, Gajeel, che non mi interessano i tuoi trascorsi. Non mi importa ciò che hai fatto in passato. Ora tu sei qui, sei il padrone del castello e hai l’obbligo, anche se non lo vuoi, di proteggermi, in virtù del patto imbevuto del tuo sangue e del…
Le parole le morirono sulle labbra, così come l’entusiasmo scaturito dalla scoperta di avere a disposizione un drago innocuo.
Lei era parte stessa di quel patto che aveva trovato, siglato dal sangue dei Redfox e dei McGarden.
Lei e quel drago facevano parte di una di quelle vecchie favole che si raccontavano ai bambini prima di andare a letto, uno di quei miti a cui solo alcuni sognatori credevano.
Colta da un timore reverenziale, fissò il drago negli occhi, e si allontanò impercettibilmente.
- Ehm… io ti ringrazio per non avermi ancora mangiata… cioè, a dire il vero non puoi ferirmi quindi non posso ringraziarti per una cosa che sei obbligato a non fare… e… - farfugliò, schiarendosi poi la voce. – Io posso esplorare il palazzo?
Gajeel la fissò in silenzio, e alla principessa parve di cogliere un guizzo di freddo divertimento nei suoi occhi.
Voleva esplorare la biblioteca. Doveva.
Senza riflettere, mosse un passo verso lo scaffale più vicino, ma un ringhio ammonitore la bloccò.
Quel territorio era ancora suo.
Sconvolta dalle emozioni e dalle scoperte che aveva appena fatto, Levy arretrò e si sporse sulla botola che portava al piano inferiore.
- Io allora vado. Ci vediamo, Gajeel.
Lei non lo seppe mai, ma il drago rimase molto tempo ad osservare la botola metallica nella quale era sparita, domandandosi cosa fosse successo.
 
La principessa tornò a dormire dopo la chiacchierata con il drago, scortata da un Lily alquanto irritato.
Si fece un veloce bagno e chiese al camino di riaccendersi, dal momento che le era passato il sonno ma la luna era ancora alta nel cielo.
Scese a piedi nudi in cucina, rabbrividendo per il freddo e spaventandosi ogni volta che la luce si accendeva al suo passaggio. Con un sospiro, iniziò a rovistare in tutte le credenze alla ricerca di una tazza e un pentolino per preparare un buon tè nell’immobilità dell’enorme stanza.
Lily la raggiunse e la tirò per la camicia da notte, incoraggiandola ad uscire da quel luogo che poco si addiceva ad una nobile. Insomma, una principessa che si prepara da sola qualcosa?
- Aspetta, Lily, voglio farmi un tè, poi arrivo – informò il gatto.
Ma appena ebbe pronunciato quelle parole, i fornelli si accesero, i cucchiaini, lo zucchero e le pentole si misero in moto, obbedendo agli ordini appena pronunciati.
- Ah! – esclamò Levy, impressionata. – Fate tutto voi? Non volete una mano? Io so come… ehm…
Pentolini e stoviglie si erano bloccati, rivolti verso di lei, e la principessa capì che se avessero avuto gli occhi sarebbero stati tutti puntati su di lei come dei fari.
Squittendo, si affrettò ad uscire mormorando dei ringraziamenti.
 
L’alba colpì Levy sul viso con una forza inaudita, tingendo le sue ciocche turchesi e spettinate di riflessi rosati e violetti, in quel tripudio di colori che annuncia l’arrivo del sole.
La fanciulla si era addormentata con una calda coperta sulle spalle, seduta su una poltrona posta di fronte all’immensa vetrata della sua camera, quella che dava un’ottima visione del giardino posteriore.
Infastidita, la giovane strinse gli occhi e cercò di nascondere la testa sotto la coperta, ma una breve sbirciata all’esterno la indusse ad alzarsi sui gomiti e osservare con ammirazione il mondo che si stendeva fuori dalla camera.
E il drago di metallo che, placidamente, passeggiava con eleganza nel proprio giardino.
Quando Levy lo vide sistemarsi su un morbido pezzo d’erba e salutare l’alba con calma serafica, non poté non pensare alla bellezza di quella scena catturata a tinte velate su un quadro.
Un drago nero che, immerso nei colori caldi della natura, interrogava il sole.
 
La principessa corse verso la cucina ridendo, abituatasi ormai all’idea di una permanenza in quel castello incantato.
- Buongiorno cucina! Oggi farò colazione qui, e vi prego di scusare il mio aspetto trasandato e ancora addormentato – annunciò piroettando, facendo alzare di poco la vestaglia da notte e i capelli scompigliati. Rise contenta quando la cucina fece baccano, come a salutarla. – Da ora in poi mangerò sempre qui, in quanto non è convenevole per una nobildonna consumare i propri pasti a letto. Non credete?
Tutto tacque nella cucina.
Levy rise ancora. – Però io ho solo tredici anni, quindi magari in futuro mangerò ancora in camera. Cosa mi avete preparato di buono oggi?
In due secondi l’estremità della tavola fu apparecchiata e imbandita di frutta fresca, succhi, marmellate e torte fumanti dal profumo paradisiaco.
Prendendo in braccio Lily, attirandosi una sua miagolata inferocita, Levy si sedette a tavola e chiese una tazza di latte anche per il gatto, ingraziandoselo.
Aveva iniziato a mangiare da poco quando un rumore stridente la fece sobbalzare.
Guardando alle sue spalle, la principessa vide il drago entrare con circospezione direttamente da una porta ricavata nel muro, che si richiuse alle sue spalle dopo il suo passaggio.
La cucina servì anche a lui la colazione che il drago consumò in silenzio, senza degnare di uno sguardo nessuno.
Lily scese dal tavolo e corse verso di lui, salendogli sul muso e accucciandosi sulla sua testa.
Il drago roteò gli occhi e Levy sorrise alla scena.
Fu allora che Gajeel voltò la testa verso di lei, come se si fosse reso conto solo in quel momento della sua presenza.
La principessa invece si era resa conto di un’altra cosa. – Buongiorno Gajeel. È così che ti muovi all’interno del castello? Mediante dei passaggi magici che apri solo tu? Oppure il castello reagisce al tuo volere?
Il drago la ignorò e continuò a mangiare, anche se il gatto espresse il suo disappunto nei confronti della sua maleducazione.
Levy rimase a fissarlo, incerta su cosa dire, fino alla fine della colazione, quando Gajeel si alzò con Lily ancora accucciato sulla sua testa. Muto e insofferente, premette un meccanismo sul pavimento che a Levy era sfuggito e uscì dall’apertura che si era creata nel muro, sparendo alla vista.
La principessa scosse le spalle e bevve il suo latte schiumato, mentre una malsana idea si faceva largo nella sua mente: sarebbe diventata amica di Gajeel.
 
Esplorare il palazzo si rivelò divertente per i primi… quattro giorni.
Levy scoprì che tutto lì dentro, persino i muri, rispondevano alla sua volontà, cambiando ad ogni suo comando. Appena lo venne a sapere passò un’intera giornata ad arredare a suo piacimento tutto il salone principale, sotto lo sguardo irritato ma quieto del drago. Finì quello strano gioco solo la sera, quando ordinò alla casa di posizionare un vaso di fiori sulla testa di Gajeel, che ringhiò e si raddrizzò sulle gambe, facendola scappare via ridendo.
Le stanze al primo piano erano tutte chiuse eccetto la sua e quella che conduceva alla biblioteca, il cui accesso però era off-limits: il drago l’aspettava sempre vicino alla botola, guardingo, e anche se non poteva ferirla, Levy si guardava bene dall’irritarlo.
Dopo la prima settimana di permanenza lì, però, le cose cominciarono a diventare… noiose.
In quella prigione dorata poteva fare tutto… e al contempo non aveva la libertà di fare alcunché.
Aveva passato alcuni giorni a disegnare la scena che aveva visto qualche mattina prima, con il drago acquattato nell’erba e l’alba che salutava il mondo. Ma dopo aver completato il quadro non aveva trovato null’altro da fare.
Lily la seguiva come un’ombra ed era di compagnia, ma non si poteva fare granché con un gatto.
L’unica cosa che poteva consolarla era… un libro.
Così una sera, dopo il bagno, la principessa si strinse nella vestaglia da notte e, afferrato il dipinto, si diresse verso la biblioteca.
- Posso? – chiese flebilmente quando ebbe aperto la botola.
L’udito sopraffino del drago non fece fatica a captare quelle parole sussurrate, e subito lui sollevò la testa per puntare gli occhi rossi in quelli della giovane. Poi grugnì e rimise a posto la testa.
Levy, trattenendo il respiro, salì nella stanza di Gajeel e si diresse verso una libreria.
Ed ecco che subito il ruggito ammonitore del drago la bloccò.
- Ho un regalo per te – annunciò allora, avvicinandosi cautamente, mettendo in mostra la scena catturata sulla tela con le tempere. – So di non essere bravissima con il disegno, avevo ancora molte lezioni da prendere, presso il mio castello, però mi piacciono le sfumature che sono riuscita a dare alla tua figura. Trovo che sia bello il contrasto tra i tuoi colori e quelli caldi dell’alba. Lo crede anche Lily.
Miagolando il suo assenso, il gatto passò tra le gambe della fanciulla e andò ad accoccolarsi tra le zampe incrociate di Gajeel, che fissava il quadro con finto interesse.
- Mi… mi piacerebbe lasciartelo – lo informò Levy. – Consideralo un regalo, un po’ per la mia permanenza qui e un po’ come pegno di amicizia. Mi manca casa mia, mio padre e i miei fratelli, quindi… un po’ di compagnia mi piacerebbe. Oltre a quella di Lily, voglio dire.
Imbarazzata, con le mani strette sul bordo del quadro, la principessa attese un rifiuto che non tardo ad arrivare, mentre Gajeel sbuffava e posava la testa sul pavimento, fissandola con la coda dell’occhio.
- Come non detto. Io comunque questo te lo lascio, tu puoi permettermi di prendere un libro in cambio?
Ancora, il drago sbuffò, ma chiuse gli occhi in una muta concessione.
Contenta, Levy sorrise e si guardò intorno, emozionata all’idea di poter accedere a quei tesori di conoscenza. Al momento, però, c’era solo un libro che desiderava studiare minuziosamente.
Fece un cauto passo verso il libro di Gajeel, quello posto sul piedistallo, il manoscritto nel quale aveva trovato la storia dei suoi antenati e il patto che la riguardava, e pregò di avere via libera.
Purtroppo, la coda del drago fu lesta a sbarrarle la strada, e lo sguardo piccato di Gajeel la fece quasi sentire in colpa.
- Va bene, come desideri, quello non lo prendo – mugugnò lei, affranta e imbronciata, prima di dirigersi dall’altra parte della biblioteca seguita dallo sguardo circospetto del drago.
Presa una torcia dal muro più vicino, Levy impiegò diversi minuti per scegliere il libro a lei più confacente, e quando si diresse verso la botola era trascorsa quasi un’ora dall’inizio della sua ricerca.
La prima cosa che notò fu l’assenza di Gajeel nel centro esatto di quell’enorme stanza, e i pallidi raggi lunari che filtravano dall’unico lucernario la chiamavano a gran voce affinché prendesse il libro incustodito e, a quanto pareva, proibito.
La prima cosa che sentì, invece, fu il freddo pungente della notte che, dispettoso, la fece rabbrividire.
Il maestoso drago era lì, al limite della biblioteca, con mezzo corpo dall’interno del castello e mezzo posato sul terrazzino di cui la principessa ignorava l’esistenza, ad osservare la pallida luna tingere di blu ogni albero, fiore e libro.
Due occhietti scuri ma luminosi si aprirono di scatto sul dorso del metallico mostro, e Levy si rilassò solo quando riconobbe Lily, placidamente accoccolato sulla schiena di Gajeel.
Insofferente, il drago voltò la testa quel poco che bastava per osservare con la coda del fiammeggiante occhio la spaurita principessa, che si strinse nel vestito leggero e rabbrividì di nuovo.
Colta l’antifona, Gajeel si drizzò sulle zampe, facendo miagolare e soffiare Lily in protesta, e si diresse al suo giaciglio facendo chiudere il muro alle sue spalle.
Levy si riscosse dallo stato catatonico solo quando il drago le sbuffò in faccia, irritato.
- I-io vorrei prendere questo, se me lo concedi. Posso?
Gajeel sbuffò nuovamente e le voltò le spalle, accucciandosi per dormire.
Lily saltò giù dal suo dorso e, miagolando, sparì nella botola, facendo intendere a Levy di avere il via libera.
Felice di avere qualcosa da fare, finalmente, la fanciulla si chiuse la botola alle spalle dopo aver sussurrato la buonanotte al drago, e si diresse correndo verso la cucina, per leggere il suo nuovo amico in compagnia di una buona tisana.
 
La sera dopo, libro in mano, Levy si riaffacciò alla botola che conduceva alla biblioteca, e Gajeel la fissò con muto stupore. L’aveva evitata tutta la giornata, e ora lei si presentava volontariamente da lui?
Quella bambina era proprio strana.
- Ciao Gajeel. Spero di non averti svegliato. Ho… sì, ho finito questo libro e mi è piaciuto moltissimo. Si intitola La ragazza del bosco, l’hai mai letto?
Il drago la fissò con sguardo annebbiato e disinteressato, smorzando la sua gioia.
- Credo di no – si rispose Levy, abbacchiata. – Ti dispiace se lo lascio giù e ne prendo un altro?
Gajeel roteò i fiammanti occhi rossi e appoggiò il muso spigoloso sulle zampe anteriori, tornando a sonnecchiare.
Sospirando, la principessa si diresse verso lo scaffale da cui aveva sottratto il manoscritto, e alcuni minuti dopo tornò in silenzio verso la botola. Non si arrischiò a parlare di nuovo con il vecchio signore del castello, perché qualcosa le suggeriva che svegliare una bestia addormentata non era la mossa migliore da fare, fosse essa un cane, un orso o un drago.
Così, silenziosa com’era arrivata, se ne andò, e non si accorse dell’occhio rosso che, incuriosito, rimase fisso su di lei fino alla sua dipartita.
 
Per diversi giorni la routine fu sempre la stessa.
La principessa si alzava, mangiava, leggeva e chiedeva alla cucina di prepararle il pasto mentre lei continuava a leggere oppure spostava qualche dettaglio della stanza per distrarre un po’ la sua mente rapita in mondi di carta e inchiostro. La sera si lavava e, in camiciola da notte, sottraeva alla biblioteca uno o più libri, sotto lo sguardo sempre meno vigile eppure interessato di Gajeel.
Il drago non si faceva mai vedere, se non in qualche rara volta in cui si dirigeva in cucina con lei presente, per mangiare. La maggior parte delle sue giornate le spendeva in biblioteca, a deprimersi in quell’aria nera e polverosa, o a sonnecchiare tra le orchidee del giardino, lì dove l’erba alta aveva preso la forma del suo corpo metallico.
Levy aveva provato a conversare con lui, a proporgli qualcosa, ad essere gentile, ma lui semplicemente la ignorava o, peggio, si dimostrava infastidito dalle sue non richieste attenzioni, e la liquidava con un basso e profondo ringhio che la zittiva e la faceva avvampare.
Un giorno, stanca di quel silenzio e di quella monotonia, si sistemò comodamente sul divano del salottino, e rimase ferma ad osservare la pioggia che, nel primo pomeriggio, ammantava tutto di grigio. Nemmeno lo scoppiettante fuoco che ardeva nel camino a pochi passi da lei sembrava riscaldarla.
Lily le era sempre al fianco, eppure la principessa si sentiva estremamente sola. Le scope e i piumini cattura polvere non lavoravano mai quando lei occupava la sala, pertanto il silenzio regnava sovrano, eccezion fatta per il camino e le fusa del gatto dormiente.
Senza riflettere, senza motivo preciso, magari solo per sentire una voce umana riempire il vuoto di quel castello, Levy prese il libro nuovo e iniziò a leggerlo ad alta voce.
Lesse ininterrottamente per due ore, senza pausa bagno e tacendo solo per bere una tisana addolcita con il miele che la cucina le aveva preparato per la gola.
Si bloccò di botto solo quando una porzione di muro si aprì per far entrare il drago che, scrollandosi l’acqua piovana di dosso, si diresse senza cerimonie verso la cucina.
Quando fu sparito oltre il muro, Lily tornò ad ascoltare silenziosamente Levy, e gli stracci muti come delle ombre si affrettarono a ripulire il laghetto d’acqua che il drago aveva impunemente creato.
Alcuni minuti dopo Gajeel tornò nella grande sala leccandosi i baffi, metaforicamente parlando, per pulire gli ultimi residui di cibo depositatisi sulla sua faccia. La fanciulla non alzò nemmeno lo sguardo e rimase immobile a leggere, imperterrita, ormai troppo presa dalla nuova storia per interrompersi.
Gajeel si acquattò in mezzo al soggiorno e sbadigliò con uno sbuffo sonoro che fece sorridere la ragazza, suo malgrado.
Alcuni minuti dopo, il drago si addormentò vicino al fuoco, o almeno così pensò Levy. Gajeel, in realtà, rimase vigile, trasportato lontano da quelle parole che narravano le eroiche gesta di un cavaliere. Gesta che lui non aveva mai compiuto, nemmeno da umano, e che gli facevano pian piano capire tutta la pesantezza del suo errore.
Forse era per quello che la Grande Fata aveva fatto suggellare ai Redfox e ai McGarden un patto con una tale punizione in caso di trasgressione: trasformando il traditore in un mostro al servizio del casato offeso, la lealtà sarebbe stata premiata, il patto rispettato, anche se coattivamente, e il punito avrebbe imparato una lezione che nessun discorso carismatico avrebbe potuto far capire.
Gajeel Redfox stava imparando quanto può essere duro da sopportare il peso delle proprie azioni.
Quando Levy finì di leggere con un sospiro, riprendendo fiato dopo aver divorato le ultime pagine di quell’emozionante libro, spense la candela aromatica che il castello aveva acceso per lei sul tavolino davanti al divano, e si avviò silenziosamente al piano superiore.
Gajeel, che fingeva di dormire, si riscosse solo quando la sentì attraversare il corridoio verso la porta che conduceva alla biblioteca. Correndo fuori, volò fino al terrazzino che dava accesso alla sua stanza, e attese la principessa in posizione d’attacco.
Quando Levy sbucò dalla botola, si sorprese non poco di trovarsi il drago davanti, la coda che saettava indicando il suo nervosismo.
- Metto giù questo libro e ne prendo un altro, lo prometto. Vado via subito.
Osservandola mentre si dirigeva in fretta verso l’altra parte della biblioteca, il drago si ritrovò a sperare che non iniziasse a leggere senza di lui.
 
Per alcuni giorni la routine si svolse identica. Levy leggeva ad alta voce, interrompendosi solo per mangiare o prendere una boccata d’aria, e Gajeel si sdraiava in soggiorno per mezza giornata o più, fingendo disinteresse, rapito in verità dalle parole che sgorgavano dalla bocca della bambina.
Stanca dei continui rumori prodotti dai movimenti del drago, Levy decise di eliminare tutti i muri del castello, cancellando il confine tra salotto, soggiorno e cucina, così che il drago fosse libero di muoversi. Lui sbuffò con disappunto, ma non si lamentò e la principessa interpretò quel silenzio come una rassegnata conferma.
Con il passare del tempo il freddo iniziò ad essere pungente, e i fuochi nei camini disseminati per il castello ardevano ininterrottamente per riscaldare quelle fredde mura affinché il gelo non penetrasse.
Levy cominciò a preferire la sua calda stanza all’immenso e freddo soggiorno, così, poco a poco, iniziò a passare sempre più tempo lontana dal drago.
Finché un giorno questi non ruggì tanto a lungo da farla sobbalzare sotto le coperte del suo letto.
In camicia da notte, corse fuori dalla stanza temendo il peggio, e Lily la seguì con aria confusa.
Al di sotto del parapetto del primo piano, nel salone sgombro che di solito ospitava il drago sonnecchiante, Gajeel ruggiva con rabbia e saltava sulle zampe, chiamando la principessa.
Levy lo osservò cercando di capire cosa non andasse, e vide che lui muoveva ritmicamente la testa in direzione del soffitto, alzandosi sulle gambe posteriori per farle capire che la cosa che cercava era in alto.
- Cosa succede, Gajeel? Cosa c’è lassù?
Il drago assottigliò gli occhi, ruggì e fece un giro su sé stesso, riflettendo su cosa fare.
Poi si avvicinò alle scale che conducevano al primo piano, a lui precluso, e sollevandosi appoggiò le grosse zampe sul parapetto dove Levy lo osservava, facendola indietreggiare e cadere dalla paura.
La testa di Gajeel, così vicina come non era mai stata, era grossa quasi il quintuplo della sua, e il fatto che riuscisse a raggiungere il primo piano denotava quanto fosse lungo.
Con un solo esemplare di drago in battaglia, nessun esercito avrebbe mai perso. Non era un caso se, infatti, i McGarden avevano vinto contro i regni ribelli dopo il tradimento e la conseguente trasformazione in drago alleato di Gajeel.
Lui fissò la principessa, poi spostò lo sguardo sulla porta che conduceva in biblioteca e saltò per indicare il soffitto con il muso, ripetendo l’operazione tre volte.
- Vuoi che venga in biblioteca?
Gajeel annuì e indietreggiò fino alla porzione di muro che gli consentiva di uscire fuori. Guardò Levy per l’ultima volta e uscì, mentre il muro si richiudeva alle sue spalle.
Pochi istanti dopo, quando la principessa si fu rialzata, sentì Gajeel raspare sul pavimento sopra di sé, saltando e ruggendo. Lily corse verso la porta che dava accesso alle scale, e Levy lo seguì lesta.
Quando sbucò nella biblioteca, trovò il drago ad aspettarla e senza titubanze si diresse verso la parte orientale della stanza. Fermatosi, indicò a Levy una serie di libri, e la fanciulla indugiò alcuni istanti, cercando di capire cosa volesse il drago.
Posò cautamente una mano sul dorso di un libro dalla copertina verde, ma Gajeel grugnì e scosse la testa.
Tre manoscritti dopo, Levy aveva tra le mani un volume rosso dalla copertina ruvida ma ben conservata, e Gajeel, soddisfatto, si diresse verso il suo giaciglio, incoraggiandola a seguirlo.
Dopo aver trovato una posizione comoda, le indicò una sedia poco distante, e Levy vi si sedette senza obiettare.
Gajeel sbuffò e picchiettò con la zampa sul pavimento davanti a sé, mentre Lily si posizionava proprio sul luogo indicato dal drago, miagolando. La fanciulla, zitta e perplessa, avvicinò la sedia a loro finché non li vide soddisfatti, e poi si sedette in silenzio, con il libro in grembo.
Il drago la spronò con la testa, e dopo averla posata sulle zampe incrociate, la osservò mentre apriva con perplessità il manoscritto.
- Devo… leggerlo? Ad alta voce?
Il drago annuì brevemente prima di chiudere gli occhi.
Stupita, la principessa osservò la sua figura metallica brillare alla luce rossa delle torce, facendo apparire le sue scaglie come piccoli specchi scuri.
Allora, quando lui stava in salotto con lei, in realtà l’ascoltava, fingendo di dormire! Levy sorrise di fronte a quella piccola rivelazione, ma tornò subito seria quando un imperioso occhio rosso la fissò trucemente.
Con il calore nel cuore, iniziò a leggere la storia che il drago aveva scelto.
 
Passarono le settimane e Levy cominciò ad attendere con impazienza il momento in cui, a tarda sera, dopo la cena, il drago l’aspettava nella sua stanza. Il libro proibito le era ancora precluso, ma lei si sentiva meno sola in compagnia del gatto e del drago, e ovviamente della storia che Gajeel sceglieva personalmente.
Una sera, però, Levy non si presentò, e il drago iniziò a spazzolare nervosamente con la coda tutto il pavimento della biblioteca.
Infastidito, uscì nella fredda aria notturna e sobbalzò quando qualcosa di freddo gli si posò in viso. Stupito, osservò il mondo tingersi di bianco sotto alla prima nevicata dell’anno.
Fu solo grazie al colore rosso del suo cappottino che riuscì a scorgere Levy tra i ciuffi bianchi e verdi dell’erba ancora poco ammantata.
Gajeel si accucciò e la osservò mentre con le piccole mani catturava i fiocchi che volavano nel cielo, ridendo quando si scioglievano bagnandole le dita. La principessa iniziò a ridere e correre per il giardino, togliendosi il cappuccio affinché i capelli le si riempissero di bianchi batuffoli. Il drago la guardò divertito e si rilassò nel constatare che stava bene, che non si era presentata solo a causa della neve.
Lily lo raggiunse e si sistemò nell’incavo del suo collo, osservandolo per dirgli ciò che con i suoi miagolii non riusciva a trasmettere. Gajeel lo guardò, infastidito, e distolse lo sguardo per riposizionarlo su Levy, cercando di non far trasparire traccia dell’affetto che quella placida bambina stava lentamente facendo nascere nel suo cuore metallico. Lo nascose a Lily, affinché il gatto non notasse che quello che aveva presunto era la verità.
Il drago si riscosse dalla scena che sembrava tratta da una fiaba solo quando Levy, ormai zuppa eppure accaldata, starnutì, e starnutì ancora.
Gajeel si sollevò per sedersi e ruggì un ammonimento alla fanciulla, che sobbalzò spaventata: non si era accorta di essere osservata. Il drago, abbandonando Lily, saltò giù dall’alto terrazzino mentre la principessa tratteneva il fiato, temendo che si ferisse a causa dell’altezza. Ma Gajeel atterrò agilmente nella neve, e lanciandole un’occhiataccia si diresse verso il fianco della casa, attento a non calpestare le piantine innevate.
Dopo aver aperto una porzione di muro, fece cenno a Levy di entrare, e senza tante cerimonie la spedì a fare un bagno caldo.
La fanciulla poté rivederlo dopo ben tre giorni, quando la febbre fu passata e le fu permesso di uscire. La sua stessa stanza l’aveva imprigionata affinché non andasse a zonzo e si riposasse, e il drago aveva atteso pazientemente che si ristabilisse.
Annoiato, aveva cominciato ad andare in giardino per assaporare la frescura della neve sulle sue gelide scaglie, e fu proprio lì che Levy lo trovò, addormentato, la mattina del quarto giorno.
Il raffreddore era passato e anche la febbre e lei, piena di energie, non perse tempo. Infilandosi le vesti più calde che trovò, insieme a guanti e stivaletti impermeabili, corse in cucina e addentò al volo un po’ di pane tostato con marmellata, dirigendosi verso l’uscita posteriore sorda alle lamentele della cucina.
Una volta fuori, seppellì il naso nella sciarpa per via del freddo e chiuse la porta delicatamente quando Lily la raggiunse malvolentieri nella neve. Trattenendo un sorriso, Levy impastò la neve fresca e soffice come una piuma fino a ricavarne una palla, e colpì il drago direttamente sul muso.
Gajeel scattò in piedi e ruggì in posizione d’attacco prima di capire che era stata la bambina a colpirlo. Sia lei che Lily stavano ridendo e, offeso, il drago diede loro le spalle, ignorandoli.
Quando un’altra palla gli colpì la schiena, però, nascose un ghigno draghesco e si voltò con finta rabbia, facendo zittire le risate della fanciulla.
Spaventata, lei arretrò cercando di scusarsi, ma la coda del drago fu più veloce delle parole: con una singola frustata riempì la principessa di neve dalla punta dei capelli fino a quella degli stivali, facendola sputacchiare.
Fu il turno di Gajeel di ridere, producendo un suono simile ad un “gihihi”, e zittendo la principessa che era rimasta stupefatta dalla sua risata.
- Che guerra sia, allora, ingombrante drago! – urlò, scagliandosi contro di lui e bombardandolo di palle. Il drago rispose prontamente bloccando la neve con la sua coda, per poi mostrarle la lingua in una sorta di boccaccia, facendo ridere ancora di più la principessa.
Cercando di aggirare le spalate di neve che Gajeel le tirava, prese un secchio abbandonato per terra e lo riempì di neve fresca, per poi correre incontro al suo nemico e, dopo qualche tentativo improduttivo, versarglielo sulla testa.
All’ora di pranzo il giardino era disseminato di cumuli di neve disordinata e chiazze verdastre di erba, mentre sia Levy che Gajeel ridevano e ansimavano per la battaglia. La principessa aveva costruito un muro protettivo, ma il drago non ci pensò due volte a distruggerglielo e ruggirle giocosamente contro. Svettando sopra di lei, fece per seppellirla nella neve, ma lei chiese uno stop.
- Basta! – ansimò, ridendo. – Ti prego, basta. Hai vinto tu, ma non riempirmi ancora di neve, sono già abbastanza fradicia – esclamò prendendo fiato, togliendosi la neve dagli occhi.
Gajeel ridacchiò e osservò il suo nasino e le guance rosse, in contrasto con il viso pallido a causa del freddo. Impettito, tronfio per la vittoria, si diresse verso il muro del castello e lasciò che fosse lei ad entrare per prima, seguita da un ringhiante gatto fradicio e niente affatto felice.
Dopo aver fatto un bagno caldo ed avere indossato vestiti puliti, la principessa pranzò con lui, e quando quella sera si diresse in biblioteca e il drago le permise di sedersi su un cuscino vicino al suo ventre caldo, la principessa sorrise felice, veramente felice dopo molto tempo.
Qualcosa era cambiato.
In meglio.
 
La primavera arrivò lentamente, annunciata a tutto il castello dalle grida felici di Levy, che passò un’intera giornata ad osservare i boccioli dei fiori nuovi.
Quando il clima si mitigò, a nulla valsero le proteste di Gajeel per dissuaderla: Levy lesse per giornate intere un libro di botanica, fino a stremare il povero drago, e lo costrinse ad aiutarla nel giardinaggio.
Ogni sera leggevano insieme, in salotto o in biblioteca, e di giorno lei dipingeva oppure si dedicava al giardino con lui, facendogli scavare piccole fosse dove piantare i nuovi fiori multicolore. Lily, grato di non poter essere d’aiuto, li osservava compiaciuto all’ombra della veranda, godendosi lo sguardo amorevole di quel burbero drago che era stato vinto dalla dolcezza di quella bambina.
 
In piena estate il giardino era un tripudio di colori e di profumi, e la non più bambina, ormai quattordicenne, iniziò ad andare in giro con vestitini che a palazzo non le erano mai stati nemmeno mostrati. I capelli, sciolti e non acconciati in modo complicato com’era costretta a portarli nel suo castello, erano tenuti in ordine solo da una fascetta che le lasciava gli occhi liberi dalla frangia ribelle.
Le pesanti e grosse vesti di lana pregiata vennero abbandonate, così come le ingombranti camiciole intime. Al loro posto, il guardaroba di camera sua le propose vestitini corti al limite della decenza per una principessa, che arrivavano a metà coscia e lasciavano scoperte le braccia e spesso le spalle.
Levy le aveva indossate con vergogna la prima volta, indecisa se metterle o scambiarle con una veste lunga e più modesta, ma il caldo dell’estate le aveva tolto ogni dubbio. In fondo, in quel castello c’erano solo lei, il drago e il gatto, e nessuno avrebbe potuto criticare il suo abbigliamento o definirla una svergognata.
Gajeel non disse nulla del suo cambio di look, e la prima volta che vide le sue snelle gambe nude la fissò senza emozioni, scuotendo le spalle. Cosa poteva importarne ad un drago di vestiti?
I pomeriggi trascorrevano pacifici all’ombra di qualche albero imponente, mentre Levy si acciambellava tra le zampe metalliche di Gajeel che, seppur scomode, le offrivano una frescura che non avrebbe mai potuto trovare altrove. Leggeva fino alla sera, quando la cucina apparecchiava loro la cena su una coperta sotto le stelle, dove loro si sdraiavano per osservare quel cielo luminoso che a Levy sembrava distante anni luce da casa sua, eppure non gliene faceva sentire la mancanza.
Una sera, quando la fanciulla vide con emozione una stella cadente, Gajeel si acquattò sulle zampe e la spronò a salirgli in groppa, portandola sul tetto. Facendo attenzione alla sua incolumità, se la sistemò sul dorso e, sdraiandosi, lasciò che si accomodasse sulla sua schiena, fissando il cielo incandescente con occhi luminosi.
- Gajeel esprimi un desiderio! Guarda quella cometa ed esprimi un desiderio! – urlò ad un certo punto, facendolo sobbalzare e inducendolo ad alzare gli occhi.
Senza fiatare, il drago espresse un desiderio e aspettò che fosse Levy a parlare.
- Cos’hai chiesto, Gajeel? – mormorò infatti lei, a cavallo del suo collo, mormorandogli nelle orecchie quella personale domanda.
Lui non rispose, rimase con il naso premuto verso la volta celeste, godendosi quel momento perfetto.
- Non me lo dici? D’accordo, non mi offendo. Io però voglio rivelartelo. Ho chiesto di vivere per sempre qui con te, Gajeel. Ti voglio bene.
Il drago non si mosse al suono di quelle parole, e non mosse un muscolo nemmeno quando la ragazza gli circondò il collo con le braccia, abbracciandolo. Solo, si sollevò e spiccò il volo, facendola prima urlare e poi ridere quando il vento le scompigliò i capelli. Gajeel non poteva sconfinare, i limiti del giardino del castello erano invalicabili a causa della maledizione che gravava su di lui, però non avevano bisogno di grandi spazi quando sopra di loro il cielo scuro si srotolava infinito.
Quando Gajeel rientrò nel castello attraverso il terrazzino, depositando Levy nella biblioteca, ridacchiò dei suoi capelli spettinati, e constatò che, con le guance rosse e gli occhi pieni di adrenalina, era la creatura più bella che avesse mai visto.
- Grazie, Gajeel. È stata la serata più bella della mia vita – mormorò la principessa posandogli un bacio tra gli occhi, prima di scendere e dirigersi in camera per dormire.
Il drago, dopo essersi ripreso, evitò di guardare gli occhi eloquenti di Lily, che lo aspettava vicino al piedistallo del libro maledetto, e si diresse di nuovo fuori per osservare le stelle cadenti che ancora illuminavano il cielo con la loro scia infuocata.
Scorgendone una, Gajeel chiuse gli occhi ed espresse un altro desiderio, diverso da quello precedente, identico a quello di Levy, anche se lei non lo sapeva.
Chiese di poter tornare umano, chiese il perdono dei suoi errori, per poter passare la vita al fianco di quella fanciulla che l’aveva accettato nonostante i suoi sbagli, e proteggerla.
Proteggerla per sempre.
 
Passarono i giorni, le settimane, i mesi e infine gli anni, tre anni, tre estati.
L’ormai sedicenne Levy, padrona del castello, era sbocciata in tutta la sua bellezza mentre il suo corpo aveva iniziato a mostrare il segno della maturità, arrotondandosi in quei punti che rendono le donne appetibili.
Il drago aveva accolto in silenzio il cambiamento, notandolo ancora prima di lei, ma si era imposto di non rifletterci troppo sopra: lui era un drago, un traditore oltretutto, e lei non era che una bambina trasformatasi in donna sotto al suo sguardo.
Sebbene ripetesse spesso quanto affetto provasse per lui, nonostante il forte sentimento che aveva fuso il suo cuore d’acciaio, Gajeel sapeva che lui sarebbe stato per sempre il suo protettore, e nient’altro.
Be’, non per sempre.
Solo fino alla fine dei suoi giorni.
Fine che non tardò ad arrivare.
 
La sera prima dell’irreparabile, Levy si diresse in giardino da Gajeel con una decina di libri in mano e un vestitino arancione dai ricami bianchi che le lasciava scoperte tutte le braccia e le gambe. Era un tranquillo pomeriggio estivo e la non più bambina depositò la pila di libri più alta di lei accanto all’addome del drago, che sbuffò con disappunto quando la vide scaricare quel pesante carico.
- Non fare il brontolone, Gajeel – lo rimbeccò lei. - Non è mai morto nessuno per aver trasportato dei libri.
Il drago roteò gli occhi e posò la testa al suolo, fissando però il volto della giovane donna. Lily arrivò camminando tranquillamente, divertito dai battibecchi dei due.
- Ora, aspettatemi qui che vado a prendere una coperta e una lampada ad olio.
Gajeel non ebbe il tempo di ribattere che Levy era già fuggita di nuovo dentro il castello.
Quella sera divenne chiaro a tutti cosa la principessa volesse fare.
Dopo aver cenato in giardino ed essersi occupata un po’ delle piante, Levy fece sloggiare Gajeel dal suo posto e stese una grande coperta, permettendogli poi di riaccomodarsi. Accese la lampada ad olio e, dopo aver spostato i libri, si sedette con la testa premuta contro il lungo e squamoso collo del drago, con i libri di fianco. Lily, miagolando, si sedette accanto ad essi, e rimase ad osservare quietamente le lucciole che, data l’ora, avevano deciso di esibirsi in una danza amorosa per la ricerca della loro compagna di vita.
Levy, Gajeel e Lily rimasero a lungo a fissare affascinati quei piccoli insetti luminescenti che brillavano ad intermittenza. Quando Levy rabbrividì nella brezza serale, Gajeel la osservò dall’alto e piegò il muso, appoggiandolo per terra ad un soffio dai piedi di Levy, che aveva le gambe strette al petto. La coda del drago circondò sia lei che Lily mentre apriva un’ala per ripararli dall’aria fresca e, chiudendo gli occhi, attese che la giovane iniziasse a leggere.
Non disponibilePreso un libro e apertolo alla prima pagina, Levy e Lily rimasero incantati dalla bellezza di una farfalla dalle ali ocra, che sembravano prendere fuoco vicino al colore della lampada.
Serena e comoda, la giovane lesse fino a tarda notte, e quando gli occhi le diventarono pesanti, sbadigliò e accolse con un sorriso stiracchiato i cuscini che erano usciti di casa per offrirsi a lei.
Levy chiuse il libro e spostò la pila di manoscritti che aveva preso, lasciando che Lily le si avvicinasse. Spense la lampada e, dopo aver sistemato i cuscini, appoggiò la testa su quella che doveva essere la guancia del drago, sveglio ma con gli occhi chiusi.
- Buonanotte Gajeel – mormorò Levy, baciandogli piano una scaglia metallica e accarezzandogli dolcemente il muso, scaglia per scaglia, soffermandosi sulle placche metalliche rotonde che gli adornavano occhi, naso e orecchie. Sapeva che gli facevano il solletico, e in qualche rara occasione aveva emesso un suono simile a dei gorgoglii deliziati sotto al suo tocco, ma quella volta ottenne solo il silenzio in risposta.
Si addormentò sorridendo sapendo che, sebbene il drago fosse duro quanto la sua corazza, il suo cuore in realtà era morbido come una torta di pan di spagna.
E Gajeel, che fremeva sotto al tocco di Levy, pensò che in quel momento sarebbe potuto morire felice.
 
Al loro risveglio i suoi pensieri si rivelarono profetici.
- Eccola, è lì!
- Diamine, è prigioniera di quel mostro! Uccidetelo, presto!
- Attenti alla principessa, non dovete ferirla!
- Muovetevi idioti!
Profondo voci maschili si riversarono nel giardino dove Levy, Lily e Gajeel dormivano, alle prime luci dell’alba. La tenue penombra rese difficile distinguere quelle figure corazzate che sembravano piccoli draghi bipedi, ma Levy non tardò a riconoscere il vessillo sui loro scudi.
Balzando in piedi, imitata da Gajeel, esclamò: - I soldati del mio regno!
Tutte le teste si voltarono verso di lei, senza prestare attenzione al suo abbigliamento, e prima che il suo cervello potesse capire cosa stava accadendo una mano forte e dura le afferrò il polso e la trascinò verso di sé, facendola urlare. Perdendo l’equilibrio, rischiò di cadere a terra, ma il soldato la prese di malagrazia per i fianchi e se la portò alle spalle.
- Uccidetelo, forza.
Scossa e confusa, Levy poté solo vedere Lily scappare dietro di lei e, al riparo, soffiare con ferocia verso tutti quei soldati.
Solo quando sentì il rumore del metallo contro il metallo la ragazza si rese conto che le spade si stavano scontrando contro qualcosa di altrettanto duro e affilato. Un ruggito di rabbia e dolore confermò il suo terrore.
- Fermi! No! Basta, lasciatelo! Non fategli del male! – gridò, sopraffatta dalla paura.
- Vi stiamo salvando, principessa! – le urlò con pacatezza un altro soldato, che Levy riconobbe come uno di quelli che l’avevano lasciata davanti al castello, anni prima.
- Non ho bisogno di essere salvata!
Scappando dalla stretta di quel soldato che l’aveva trascinata a sé, l’unico a non avere lo scudo con lo stemma del casato dei McGarden, Levy corse verso il drago urlando fino a farsi dolere la gola.
Gajeel, ritto sulle zampe posteriori, ruggiva infuriato e allontanava i soldati.
Si accorse di Levy solo quando sentì qualcosa di morbido e caldo scontrarsi brutalmente contro il suo fianco. Girandosi, vide che la principessa lo stava abbracciando, pregando gli altri di fermarsi.
Conscio della vulnerabilità della fanciulla, Gajeel chinò il muso e l’allontanò dolcemente con il naso, cercando di non ferirla e allo stesso tempo provando a trasmetterla un senso di urgenza.
- Non ho bisogno di un salvataggio! Non mi serve!! Io non ti lascio, Gajeel, io non… ah!
Strappata dal suo fianco, il soldato di prima la stava bloccando affinché non scappasse, e Gajeel lo trafisse con uno sguardo d’odio incandescente.
Purtroppo, la distrazione cui Levy l’aveva sottoposto gli fu fatale: le spade degli altri soldati calarono forza lungo tutto il suo corpo e la principessa, sopraffatta dalle lacrime, urlò tutto il suo sgomento.
Con lo sguardo fisso su quel gigantesco corpo metallico che si riversava al suolo, inerme, quasi non si rese conto delle mani aggressive e dure che l’avevano presa di peso e se l’erano caricata addosso, trascinandola via.
Non disponibileIn braccio al soldato, la cui corazza era gelo contro la sua pelle scoperta, Levy si sporse oltre la sua spalla, oltre il suo elmo, e allungò una mano cercando inutilmente di raggiungere il drago.
Ma l’unica cosa che lo raggiunse furono le sue lacrime che, copiose, si posavano al suolo come gocce di rugiada ad ogni singolo, pesante passo di quel cavaliere assassino che l’aveva sottratta al suo drago.
Al suo amore.
- Gajeel, ti amo! GAJEEEEL! – gridò ancora, stremata, con i capelli scompigliati senza la sua fascetta a tenerli ordinati.
Ma Gajeel non rispose, non la fissò un’ultima volta.
Rimase semplicemente a terra, con gli occhi chiusi e le fauci semi-aperte in un ruggito di disperazione che nessuno avrebbe mai sentito, insanguinato.
Morto.
 
Piange quando il principe la porta via dalle rovine del castello,Non disponibile
dal drago che fedelmente l’aveva protetta,
calcia e urla e singhiozza per la sua bestia,
ripetendo la sua disperata richiesta di tornare
al luogo che aveva chiamato casa per più anni di quelli che riusciva a contare;

“Non ho bisogno di essere salvata”.
 

Gli attimi successivi a quella vicenda furono confusi e Levy visse ogni attimo come in un film visto attraverso velocità x10.
Si rese conto di essere stata caricata su una carrozza, pianse per ore tutta la sua sofferenza, senza udire le parole che il soldato accanto a lei le stava rivolgendo. Solo lei e il soldato. E Lily, che era riuscito a seguirli sulla carrozza e ora stava acciambellato sul grembo di Levy, depresso.
Alla fine, stremata, la principessa si addormentò.
 
Quando si svegliò era notte, e si accorse che qualcuno le aveva messo addosso un mantello, se per coprire la sua pelle esposta o scaldarla questo non lo sapeva. Il soldato non c’era, ma da fuori sentì la voce di alcuni uomini, e risate sguaiate che la fecero rabbrividire.
Alcuni istanti dopo il cavaliere entrò nella carrozza, sorpreso di vederla sveglia e lucida. O almeno, Levy pensava che fosse lo stesso soldato di quella mattina: senza elmo era impossibile dirlo. Aveva corti capelli biondi e occhi azzurri che le trasmettevano solo una disagevole sensazione di freddo. Doveva essere poco più grande di lei, e una leggera barba gli irruvidiva il mento.
- Buonasera principessa – salutò educatamente lui, con una voce bassa e volutamente vibrante che aveva puramente lo scopo di sedurla.
Levy deglutì e cercò di mascherare una smorfia disgustata.
- Chi sei, e dove mi stai portando? – domandò con poco garbo.
Il cavaliere spalancò gli occhi per un momento prima di recuperare il contegno.
- Se non fossi sicuro di ciò che la regina mi ha detto, dubiterei del vostro alto rango, principessa.
Solo allora Levy si rese conto di aver passato gli ultimi tre anni con un drago e un gatto, senza contatti umani, e che forse le buone maniere che sua madre le aveva impartito in modo tanto ligio si erano dissolte nella sua mente.
Cercando di darsi un tono, Levy si coprì le gambe e le braccia nude come meglio poté, e raddrizzò la schiena alzando il mento in modo fiero.
- Chiedo scusa, soldato. Io sono la principessa Levy McGarden, l’ultima discendente dei McGarden ancora in vita. Con chi ho… l’obbligo di parlare? – chiese, cercando di mascherare il disappunto e non essere prevenuta.
Il soldato sorrise in un modo che avrebbe dovuto essere suadente, ma che alla principessa fece venire la nausea. – Io sono il principe Doras, vostro promesso sposo, principessa. È un onore – rivelò, prendendole la mano per baciargliela.
Levy spalancò la bocca, inorridita. – Quale fandonie mi state rifilando, cavalier Doras?!
Una leggera e irritante risata gli uscì con tranquillità, e il principe si sistemò comodamente sul suo sedile imbottito, allungando una gamba anche su quello di Levy. – Nessuna menzogna, principessa. Vostra madre, la regina, ha chiesto un’alleanza con il regno di mio padre. Il re ha accettato e la guerra che dilaniava le vostre terre da ormai tre anni è stata vinta. In cambio della sua lealtà, la regina ha offerto a mio padre la mano dell’unica McGarden rimasta in vita. Voi, principessa.
Levy trattenne il fiato e le lacrime, desiderando più che mai di poter correre tra le ali di Gajeel, che aveva saputo confortarla in maniera egregia durante quegli anni, quando si era sentita triste e sperduta. Rivoleva la sua pacifica vita al castello. Lily, intuendo il suo stato d’animo, si strinse a lei e iniziò a fare le fusa.
- Certo, non si può dire che quella della regina sia stata un’offerta facile. Io vi ho dovuto letteralmente conquistare, principessa. Al vostro posto mi sentirei terribilmente onorato, mia promessa.
Levy restò zitta, strinse i denti e i pugni, mente Lily le leccava la mano in un modo che non aveva mai fatto, per consolarla.
- Devo ammettere però, cara principessa, che è valsa la pena di rischiare la vita per voi. Questi anni passati lontano dal mondo hanno davvero reso giustizia al vostro corpo… maturo – confessò ghignando e osservando eloquentemente il suo fisico nascosto dal mantello.
Con un’ultima, sarcastica risata, il principe si sdraiò comodamente e in pochi minuti si addormentò. Fissando in silenzio il paesaggio che scorreva nel buio fuori dalla carrozza, Levy pianse lacrime silenziose che caddero come macigni sulla testa di Lily, inquieto.
Pianse per la morte di Gajeel, per la sua sorte, per la perdita della vita da sogno che aveva condotto per tre felici anni.
E pianse per gli anni che di gioia che non avrebbe più potuto avere.
 
La vita a palazzo fu un disastro completo, e Levy rischiò l’esaurimento nervoso.
Sua madre, appena la vide arrivare in carrozza, guardò con disgusto il suo abbigliamento, e quel vestitino che nemmeno le prostitute che si svendevano per due spicci avrebbero avuto l’ardire di indossare. Il benvenuto che ricevette fu una spinta per indurla a muoversi e una severa occhiata al guardaroba della sua camera, che nel muto gergo della regina si traduceva con un: “Renditi presentabile, razza di svergognata.”
I giorni successivi furono una centrifuga di attività che la impegnarono dall’alba fino a diverse ore dopo il tramonto. A Levy venne impartito un ripasso delle fondamentali regole del galateo, venne spiegato cosa fosse successo in quegli anni di assenza, e fu ultimata in maniera lampo la sua educazione, anche se a detta del suo maestro non ce n’era bisogno.
Infatti, durante gli anni trascorsi al castello Levy aveva avuto l’opportunità di studiare diverse discipline e farsi una cultura generale superiore a quella che un maestro avrebbe potuto impartirle, approfondendo biologia, letteratura, storia, botanica e arte.
Brevissimo fu il momento che sua madre le concesse insieme alle sue amiche di un tempo, che piansero di gioia nel rivederla pochi minuti, per poi essere allontanate in modo da non minare il percorso integrativo della principessa. Il castello era stato arduamente ricostruito, ma le fortificazioni e le macerie che occupavano la strada fuori dal suo palazzo le rammentavano che le cose non sarebbero mai state come una volta, che il suo popolo aveva bisogno di lei e che troppe persone erano morte.
La regina era stata saggia ad allearsi con il re Doras, ma lei valeva davvero il prezzo che sua madre era disposta a pagare? Aveva senso pagare la propria libertà barattando quella altrui?
E lei, lei era abbastanza devota al suo regno da rinunciare alla sua felicità?
La regina aveva permesso senza riserve al principe Doras di bazzicare per il castello, concedendogli ad uso personale la stanza che un tempo apparteneva ad uno dei fratelli di Levy.
La sua opinione del suo futuro marito non faceva altro che abbassarsi a livelli tragicamente ignobili ogni volta che aveva l’obbligo di stare sola con lui e il suo ego, notando quanto l’arroganza e la sicurezza sciupassero l’intelligenza di un così bel ragazzo.
Più volte lo vide sedurre con moine scadenti alcune giovani domestiche che cercavano di mantenere la propria famiglia lavorando a palazzo, ed era scappata piangendo per un intero pomeriggio quando lo aveva sorpreso con le mani sotto la gonna di una delle sue belle cameriere personali.
Nemmeno con lei si era risparmiato, e oltre ad averle rubato alcuni baci violenti e privi d’affetto, si era spinto con le mani troppo oltre il confine del rispetto, e Levy aveva dovuto bloccare quelle avide e sporche mani con una forza che temeva di non poter utilizzare per sempre.
Se anche fosse riuscita a fermare l’irruenza del principe fino alle nozze, cosa avrebbe fatto da lì in poi?
Si sarebbe lasciata violentare notte dopo notte, piangendo l’amore che non poteva avere?
 
La vita di corte la soffoca, le fa venir voglia di urlare fino a non avere più energie per combattere.
Lei fugge nei giardini,
corre a piedi nudi tra le fontane e le aiuole,
tornando solo quando le guardie arrivano per cercarla,
la veste di seta strappata, e coperta di fango.
 
Fu quando, un pomeriggio, il principe la baciò con irruenza e le sollevò la gonna che Levy decise di non poterne più.
Scappò nel giardino, si nascose finché sua madre la trovò e la scortò in camera sua senza una parola, dandole le spalle come nel giorno in cui l’aveva abbandonata senza spiegazioni tra le grinfie di un drago.
Fuggì ancora, ogni volta che poté, si ribellò, e questo non fece altro che acuire il desiderio del principe di possedere una tale furia, spaventandola ancora di più.
Lily era sempre al suo fianco, pronto a darle conforto, ma cosa poteva fare un gatto contro le angherie della vita? A volte Levy lo trovava fermo sul balcone, di notte, ad osservare la luna e lamentarsi in silenzio per la scomparsa dell’amico, senza lacrime da versare.
- Non ho chiesto io di essere salvata! Non ne avevo bisogno – diceva tra i singhiozzi quando la chiudevano in camera, ripetendo quelle parole fino a crollare addormentata sul pavimento, con gli occhi gonfi e incapaci di guardare al futuro.
Poi, una sera, ferma ad osservare il cielo accanto a Lily con le guance bagnate, osservò il passaggio di una stella cometa, riflettendo su quel desiderio che aveva espresso da bambina e che non si era più avverato.
- Ti amo, Gajeel – bisbigliò, chiudendo gli occhi per non vedere più nulla.
 
I suoi sogni sono di volare, di fuoco e fumo,
e lei brama le notti in cui poteva addormentarsi con tiepide scaglie come cuscino,
sapendo che niente potrebbe azzardarsi a ferirla
mentre il suo drago sta di guardia,
ma quel mondo sembra appartenere ad un’altra ragazza ora.
 
Molto lontano dalla vita che la principessa conduceva a palazzo, eppure in un luogo vicino al suo cuore, una figura eterea fece la sua comparsa nel mondo per quella che forse era l’ultima volta.
Al suo passaggio, le rovine del castello che erano state abitate dall’ultimo Redfox, crollate insieme al loro padrone, tornarono a splendere con l’ardore di un tempo, e quel regno rimasto abbandonato per più di un secolo, distrutto dal tradimento del proprio signore, tornò alla vita e si ripopolò, pronto a voltare pagina.
La Fata dall’incarnato bianco come la luna e trasparente quanto il vetro si diresse verso il libro che un tempo aveva scritto, un libro che narrava una storia di lealtà e giuramenti infranti, di mostri e cupidigia. Ma, soprattutto, una storia di redenzione e d’amore.
Sorridendo, la Fata aprì il libro che Gajeel, vergognandosi di sé stesso, aveva sempre impedito a Levy di aprire, e scrisse la fine della storia:
 
Un giuramento dura in eterno, e come nel mondo bene e male si susseguono, così un errore può sempre essere mondato.
Come scritto nel patto, chiunque non ottempererà alla parola data, sia esso il primo o un suo discendente, sarà condannato a servire il casato offeso con ogni mezzo a sua disposizione, fino alla sua morte, che sopraggiungerà solo e unicamente per assassinio.
Eppure, la speranza non è mai persa.
Lo giuro sulla mia natura di Fata.

 
Poi, chiudendo il libro, la Fata fece comparire davanti a sé la pergamena recante il patto siglato con il sangue dei due casati, Redfox e McGardem, che Levy aveva tenuto sul comodino di camera sua per tutti quegli anni.
Rilesse qual era la sorte spettante ad eventuali traditori, e rise di fronte all’epilogo della storia.
Un epilogo che nemmeno lei, nella sua onniscienza, aveva potuto prevedere.
Scritte le ultime parole sul retro della pergamena, accarezzò la firma insanguinata del re Redfox e del re McGarden e, infilata la pergamena nella prima pagina del manoscritto, si diresse fuori, là dove il corpo di metallo del drago giaceva senza vita.
La Fata depose il libro contenente il patto per terra, sotto la zampa del drago. Accarezzatagli dolcemente la testa, lo baciò sul naso e mormorò: - Vivi, il tuo tradimento è sanato grazie alla tua fedeltà incrollabile. Re Redfox, risorgi e prendi ciò che è tuo per onorare il patto che una volta infrangesti.
Mentre due occhi di luce si chiudevano sul mondo, lasciando che la magia abbandonasse del tutto quelle terre ormai devastate dall’odio, un altro paio di occhi si aprì e incendiò di vita ogni cosa su cui si posò.
 
Una mattina come le altre, la principessa corse fuori dal castello urlando e ridendo, con i piedi nudi e le mani strette attorno ai lembi dell’ampia gonna rosa, per evitarsi l’intralcio della pesante stoffa.
La frescura autunnale iniziava a farsi sentire, e tutto attorno a lei il giardino era un tripudio di foglie cadenti e fiori appassiti, che a modo loro avevano un certo fascino nel coprire l’erba secca.
Decise, mentre scappava dalle guardie alle sue spalle, di non sporcarsi com’era solita fare: quel vestito le piaceva, e avrebbe fatto un dispetto a sé stessa, più che a sua madre, infangandolo.
Girato l’angolo ed eluse le guardie, Levy si nascose in un pertugio che i suoi inseguitori non avrebbero mai potuto oltrepassare, e trattenne le risate quando le vide proseguire dritte, affannate.
Uscì dopo alcuni istanti, quando la via fu libera, e scelse di percorrere un sentierino poco battuto tra i fitti alberi del giardino.
- …visto? Fa davvero paura! – esclamò una voce di donna.
Bloccandosi, la principessa cercò di fare meno rumore possibile e sbirciò le due giovani domestiche che stendevano alcuni panni sotto al sole ancora caldo.
- Non credo che faccia paura, è affascinante! Se lavorerà come soldato al castello, magari mi noterà e mi sposerà! – esultò l’altra ragazza, alzando le braccia al cielo e piroettando.
La sua amica rise: - Corri troppo, mia giovane fanciulla. Ti ricordo che il nuovo soldato si è fiondato qui dentro chiedendo espressamente notizie della principessa. Non ha voluto vedere nessuno a parte lei, nemmeno il principe Doras o la regina.
La ragazza con il cuore infranto sbuffò, sbrigando le sue faccende con ira. – Non è interessato a lei. Prima di tutto, la principessa sta per sposarsi. E poi come potrebbe conoscerla, visto che è appena tornata dalla clausura?
- Non lo so, non lo so – le rispose l’amica. – Ma quegli occhi rossi non mi piacciono per nulla.
Levy arretrò, incurante del rumore che faceva, e cercò di calmare i battiti accelerati del suo cuore.
Non aveva senso illudersi.
Gajeel era morto. Ed era un drago, non un soldato.
Magari era solo un pretendente da qualche terra, ignaro del fatto che lei fosse già felicemente promessa.
Eppure, qualcosa le diceva che doveva vedere con i suoi occhi quel cavaliere che era arrivato fin lì solo per lei.
I suoi piedi nudi corsero da soli e, ripercorrendo a ritroso il sentiero di quella mattina, sentì ben presto il suo fiato esaurirsi a causa della corsa.
Con il fuoco alle calcagna, girò l’angolo del castello che dava sull’entrata curatissima, dove svettavano due imponenti ciliegi ai lati dell’immenso cancello, e una fontana appena restaurata faceva gorgogliare l’acqua a tutte le stagioni.
I suoi piedi si bloccarono prima che il cervello potesse registrare le immagini che gli occhi filtravano senza comprendere.
Davanti a lei un ragazzo altissimo, muscoloso e dallo sguardo arrogante stava stravaccato contro il bordo della fontana, in attesa di qualcosa. Aveva lunghi capelli neri e ribelli anche se lisci, e in qualche modo ricordavano le scaglie appuntite di un drago. Il viso era spigoloso e adornato con piercing metallici al posto delle sopracciglia, ai lati del naso e sul mento. Indossava una casacca verde leggera sopra a dei calzoni simili ad una calzamaglia, anche se più larghi, e sulle spalle aveva degli spallacci metallici corazzati. Sulle braccia muscolose e toniche spiccavano delle bende bianche, se per protezione o per curare delle ferite era impossibile dirlo.
Ciò che colpì di più Levy, però, oltre alla sua maschia bellezza, furono gli occhi.
Occhi rossi con la pupilla sottile da rettile.
Da drago.
Con la bocca aperta e gli occhi sbarrati, il pomposo vestito rosa dai ricami bianchi che faceva invidia alla più bella fioritura primaverile, Levy osservò quello sconosciuto venuto lì per lei sorridere, anzi, ghignare, mettendo in mostra denti bianchi con canini aguzzi, e alzarsi, incrociando le braccia al petto.
Non disponibileIl suo sguardo si addolcì, nonostante il suo sorriso fosse quasi sinistro, e una risatina più che familiare gli sfuggì dalle labbra: - Gihi.
Levy non si mosse, ma sentì gli occhi inumidirsi e i muscoli contrarsi, pronti a scattare.
Il soldato si avvicinò a lei con passo sicuro, chinandosi per essere alla sua altezza: - Credevo che, tornando a dimensioni umane, ti avrei trovata più grande, invece resti sempre una piccola pulce irritante – commentò, mentre lei sovrapponeva a quei caldi occhi rossi un gigantesco muso nero e metallico.
Levy gli gettò le braccia al collo senza indugio, piangendo di gioia, ridendo e stringendolo a sé mormorando il suo nome.
Non le importava se la sua corazza era dura e fredda, lei aveva dormito più volte contro le sue scaglie appuntite.
Le importava solo delle sue forti braccia strette attorno alla sua vita, del suo naso freddo contro il suo collo, e dei suoi capelli neri sul viso, per una volta morbidi e non gelidi come il metallo.
Levy rise ancora più forte quando il ragazzo le posò un morbido bacio sul collo, facendole il solletico con il respiro, e se ne fregò altamente del capannello di gente che si era raccolta nel giardino, tra cui sua madre e il suo promesso sposo.
- Ti amo, Gajeel – bisbigliò asciugandosi gli occhi, una volta che lui l’ebbe depositata a terra.
Dall’alto, il giovane che aveva vissuto con lei più di tre anni e l’aveva vista crescere le sorrise dolcemente, in un modo che quasi strideva con il suo aspetto selvaggio, e le rispose: - Ti amo anche io, piccola lettrice.
 
Poi un cavaliere appare nella corte che lei odia tanto,
giurando la sua fedeltà non al principe,
o alla persona a cui lei fa fatica a pensare come a sua madre,
ma a lei,
e quando i loro occhi si incontrano, lei ride per la prima volta da quando il principe l’ha riportata a “casa”,
il fuoco nel suo sguardo familiare come se fosse suo.
 

Lei riconoscerebbe il suo drago ovunque
 
 

 
 
MaxB
Mi vergogno di me stessa.
Sono sparita per… quanto? Tre mesi?
E ora spunto fuori con questa cosettina qui ç.ç
Per carità, era da moltissimo tempo che volevo farlo, anche perché adoro Almandium come scrittrice, però… boh. Io spero vivamente che il capitolo vi piaccia, anche se sono conscia del fatto che non vale l’attesa che è costata.
Ho delle ideucce carucce per LNVI, ma ormai mi manderete a… fare un bagno, visto che lo ripeto ad ogni storia che pubblico eppure sono ancora qui, senza uno straccio di nuovo capitolo. Sono amareggiata. Però conta la volontà, no? Varrà pur qualcosa…. Spero.
Vi lascio il bonus per farmi perdonare (certo, come se bastasse…).
Vogliatemi bene ç.ç e fatemi sapere se vi è piaciuta questa pseudo rivisitazione di una favola ben nota, anche se non mi sono ispirata a La Bella e la bestia. Lo assicuro. Sono solo simili.
Grazie a chiunque è arrivato fin qui, grazie.
A presto, spero,
MaxB


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Bonus
Levy non poté vedere Gajeel per quasi tutto il giorno, dal momento che la regina e il principe Doras lo rapirono nella sala consigliare della sovrana per discutere in privato.
Dai toni concitati che la principessa colse origliando di nascosto, Levy presunse che la faccenda fosse tanto delicata quanto spinosa. Fu costretta a scappare, perdendosi il discorso, quando Gajeel alzò la voce, e la sua voce tonante si spanse come un ruggito al di là della porta, facendola scoppiare a ridere.
Solo lei sapeva come trattare il suo drago.
Sperava di poterlo vedere la sera, a cena, ma a sua insaputa era stata organizzata una festa nobiliare per festeggiare il nuovo ospite, e Levy passò la maggior parte della serata con il braccio incastrato in quello del principe, che la stringeva a sé in maniera quasi compulsiva, mentre la regina, nervosa, non lasciava il suo fianco libero.
Per quanto tentassero di tenerli lontani fisicamente, però, nulla poteva impedire alla principessa e al drago di cercarsi, parlarsi e toccarsi con gli occhi, che venivamo regolarmente calamitati l’uno dall’altra.
Levy lo vide arrossire quando la notò, a disagio in mezzo a quella fiumana di alti esponenti della nobiltà che tentavano di interrogarlo sul suo sangue e sui suoi possedimenti. Poco abituato com’era a parlare e interagire con gli umani, fu un miracolo se Gajeel non scappò via, spogliato da quel pomposo ma attraente completo di sartoria che faceva impallidire persino quello del principe Doras. Impallidire lui, e avvampare l’innamorata principessa.
I saluti furono brevi e freddi, distaccati, sebbene Levy provò a più riprese a sgusciare dalla stretta del principe per buttarsi su Gajeel, imberbe degli spettatori pettegoli.
A tarda notte il principe e la regina la scortarono in camera, chiudendovela dentro a chiave, e la principessa urlò la sua rabbia e il suo odio nei confronti di quella corona e di quella madre che era affettuosa quanto un serpente a sonagli.
Piangendo si spogliò, si lavò senza l’aiuto delle sue domestiche, e si accinse a dormire quando ormai la luna era alta nel cielo, e così piena da ricordarle un bianco occhio che la fissava.
Lily le si strusciò sulle caviglie, e lei, talmente stremata da non avere nemmeno la voglia di raccontargli di Gajeel, lo prese in braccio e si nascose sotto le coperte, piangendo.
Che senso aveva sapere che Gajeel era vivo, che era lì, se non poteva nemmeno vederlo?
Un ticchettio la riscosse dalle sue lugubri deduzioni, e Levy spalancò gli occhi osservando il balcone.
Poco dopo, un altro sassolino sbatté contro il vetro della sua finestra, e la fanciulla si precipitò fuori, all’aria aperta, spaventando Lily.
Gajeel era lì sotto, un mucchietto di sassi in mano e un ghigno sbilenco sul viso.
- Buonasera, principessa. Andiamo a farci uno di quei voli che ti piacciono tanto? – le chiese a mezza voce, facendola illuminare.
- Mi dai il tempo di cambiarmi? Sono leggermente impresentabile al momento – rispose lei, conscia del fatto che nonostante avesse solo mormorato quella frase, l’udito da drago di Gajeel avrebbe colto anche la punta d’imbarazzo del suo tono.
Infatti lo vide ridacchiare: - Sei nuda, per caso?
Levy avvampò. – No! Ma indosso solo la camicia da notte e non è molto dignit…
- Principessa, devo ricordarti che hai sempre girato in camiciola nel mio castello? E quante volte hai fatto il bagno nel laghetto, con solo la biancheria addosso? Solo perché ero un drago, non significa che io non ricordi, o non abbia notato, certe cose.
La fanciulla si coprì il viso, vergognandosi, ma si rese conto che Gajeel aveva ragione. L’aveva già osservata in vesti succinte, poco importava che non fosse più un drago. E poi, più aspettava, più rischiava di farsi scoprire dalla regina.
- Gajeel, come faccio a scendere?
- Salta, ti prendo io – le bisbigliò lui, allungando le mani.
Levy sgranò gli occhi: - Come?!
- Non fare quella faccia, l’hai sempre fatto. Ti ricordi quando ti lanciavi dal balcone della biblioteca, sapendo che ti avrei sempre presa? Ora non cambia nulla.
Lei deglutì, poi gli fece cenno di aspettare e si diresse al suo guardaroba. Gli lanciò delle coperte che, prendendolo alla sprovvista, gli atterrarono sulla faccia, facendola ridere. Poi Levy gli buttò Lily, e rischiò di svegliare tutto il castello con le sue risate quando Gajeel imprecò a causa degli artigli affilati del gatto, terrorizzato. Quasi si commosse guardando il tenero ricongiungimento tra il gatto e il suo padrone.
Alla fine, tenendosi stretta la camiciola tra le gambe affinché Gajeel non vedesse più del dovuto, Levy si issò sul balcone e si lasciò cadere chiudendo gli occhi, aprendoli solo quando sentì le forti braccia di Gajeel stringerla a sé.
Indossava solo una tunica a maniche lunghe dai colori scuri, che gli arrivava e metà coscia, e dei pantaloni attillati chiari. Tipico abbigliamento da mettere sotto l’armatura.
Gajeel le posò un bacio in fronte e, senza parlare, la condusse al cavallo nero che aveva cavalcato fino a raggiungerla. Non dissero niente mentre Gajeel montava in sella e sistemava le coperte prima di prendere Lily e sistemarselo in grembo. Non dissero nulla nemmeno quando, con l’aiuto di Gajeel, Levy si sedette davanti a lui e prese in braccio Lily, accasciandosi contro il petto del cavaliere.
Le sue braccia forti la circondarono mentre tirava le redini per far galoppare il cavallo, fuggendo nella notte.
Non avevano bisogno di parlare, quando i loro occhi e i loro corpi lo facevano per loro.
 
- Di cosa parlavi con mia madre e Doras? – lo assalì Levy, incapace di trattenere la curiosità, quando si furono sdraiati sull’erba, con una coperta sotto di loro e una sopra, a coprirli.
Gajeel non rispose, la strinse a sé e le annusò i capelli appena lavati, indicando poi il cielo.
- Non sembrano le stesse stelle che vedevamo a casa – mormorò, tracciando con un dito affusolato linee invisibili tra una stella e l’altra.
Levy sorrise senza darlo a vedere di fronte all’ammissione che il castello di Gajeel fosse in realtà la loro casa.
- Anche a me sono sempre sembrate diverse. Quelle di casa sono più grandi e luminose. Però non hai risposto alla mia domanda – confessò lei, incalzandolo.
Gajeel sospirò e si voltò su un fianco, incatenando gli occhi con i suoi. – Ho chiesto alla regina la tua mano.
- Tu cosa?! – esclamò Levy, facendo trasalire sia Lily che il cavallo, e probabilmente anche gli alberi addormentati che ogni tanto gettavano loro qualche fiore ormai afflosciato.
- Io ho chiesto alla regina la tua mano. Per sposarti. Speravo che accettasse facilmente, visto che comunque il nostro matrimonio comporterebbe l’unione di due regni immensi.
Gajeel sembrava quasi a disagio, e l’espressione sconcertata di Levy non lo aiutava affatto a sciogliersi.
- Si è messo di mezzo anche quella mezza calzetta, quel principe idiota che dovresti sposare. Senza di lui avrei anche potuto convincere tua madre.
Di fronte al silenzio di Levy, Gajeel si chiese se in realtà la principessa non stesse ringraziando la madre per non aver ceduto a lui la sua mano.
Ma i suoi dubbi vennero fugati senza dubbio quando lei gli posò un morbido bacio in fronte, accarezzandogli la guancia con un sorriso d’amore sulle labbra. – Troveremo un modo, Gajeel. Il patto e il nostro stesso sangue sono dalla nostra parte. Nessuno potrà separarci.
Il ragazzo seppellì il viso nel collo della ragazza, inspirando il profumo della sua pelle e stringendola ancora di più a sé.
- Ti amo davvero, Gajeel. Senza di te, ora non starei nemmeno vivendo.
Il giovane sollevò lo sguardo con le sopracciglia aggrottate, attendendo un chiarimento.
- Non so se alzarsi la mattina e respirare l’aria di un’esistenza priva di significato possa definirsi vivere, Gajeel. Tu hai dato un senso ad ogni giorno di questi ultimi anni.
Gajeel si sporse e la baciò, a suo agio nelle cose che richiedevano il mero istinto piuttosto che abitudini umane a cui lui non era più conforme.
Levy rispose al bacio sorridendo, intrecciando le gambe alle sue e facendo correre le mani sotto la tunica, lungo il torace scolpito del cavaliere.
Gajeel rise e nascose la faccia nel petto della ragazza, senza cattive intenzioni se non quella di celarle il rossore.
- Come corri, bambina – le disse con voce roca e vibrante.
Levy si rese conto di ciò che stava facendo e ritrasse le mani, improvvisamente a disagio. – Ti chiedo scusa, Gajeel. Temo di essermi lasciata prendere la mano, letteralmente. È che… è così bello essere toccata da mani che amo, invece che da mani fredde e impositive.
Gajeel serrò la mascella e Levy poté quasi udirlo digrignare i denti. All’improvviso lui le catturò le labbra in un bacio dolce e famelico insieme, facendola sciogliere contro di sé. – Ora ci sono io, Levy. Nessuno dovrà toccarti contro la tua volontà. Nemmeno un capello – le assicurò, baciandole leggermente la bocca.
Lei sorrise e, con gli occhi lucidi, lo abbracciò appoggiando la testa sul suo petto.
Passarono diversi minuti di quiete perfetta prima che lei aprisse ancora bocca.
- Ma com’è possibile?
- Mh… cosa? – mugugnò lui, quasi addormentato nel tepore che il corpo seminudo di lei e il pelo di Lily gli regalavano.
- Che tu sia vivo. Io ti ho visto morire, Gajeel. E poi eri un drago! Perché le condizioni del patto sono cambiate, com’è possibile?
Lui si stropicciò gli occhi. – Sei sempre stata tu quella brava a dare risposte – rispose, alludendo a tutti i discorsi che Levy aveva fatto ad alta voce a sé stessa nel corso degli anni.
- Dai, sii serio Gajeel – lo riprese lei, dandogli un pizzicotto sul fianco che lo fece ridere.
- Va bene, bambina pestifera. Non so darti una precisa risposta, posso solo dirti che i patti possono essere interpretati in molti modi, forse. Fatto sta che, quando ho aperto gli occhi ho visto una luce spegnersi davanti a me. Il mio regno è risorto dalle rovine e sotto alla mano ho trovato questo – rivelò, allungandosi nella fredda notte autunnale per passare a Levy il suo libro. Quello a cui le aveva sempre impedito l’accesso.
Lo Sprovveduto, Una storia di Gajeel Redfox.
La pergamena su cui era inciso il patto firmato con il loro sangue, il sangue dei loro antenati, scivolò fuori dal manoscritto, e Levy scorse subito le quattro righe scritte con inchiostro fresco, aggiunte da poco.
Dopo averle lette, felice, baciò ancora Gajeel e si rasserenò sapendo che, in un modo o nell’altro, lei e lui sarebbero stati insieme per sempre, come il patto voleva.
Non lo avevano forse giurato per l’eternità?
 
Il dado è tratto,
il drago è morto,
ma non scordate un fatto:
l’amore raddrizza ogni torto.
  
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