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Autore: Blakie    07/12/2016    6 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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And we'll be good

capitolo 9

 

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(Daryl)


Quando vidi Beth respirare più regolarmente e profondamente, capii che si era addormentata. Nella penombra, osservai i tratti rilassati del suo viso e le ciocche sottili dei capelli che le ricadevano sulla fronte e sulle guance. Era serena e rilassata per la prima volta da quando, quella sera, ero entrato in casa sua. Non potevo dire lo stesso di me. Io non ero rilassato, affatto. Sentivo la voglia irrefrenabile di scappare, eppure non riuscivo a muovermi. E non solo perché la sua fronte era appoggiata contro di me - sembrava dormire così profondamente che, anche se mi fossi mosso, non l'avrei svegliata - ma perché il mio corpo tutto mi impediva di farlo. Di andarmene, di mettere nuovamente dei paletti tra lei e me. Tutte le volte che cedevo e mi avvicinavo, ero sempre meno in grado di allontanarla nuovamente, dopo. Il desiderio di starle vicino era diventato più forte della volontà di distaccarmene e mi sentivo uno schifoso egoista, per questo.
Nelle settimane che avevo passato ad insegnarle come usare le armi, non avevo potuto non accorgermi di come mi guardava; di come la sua voce tremava quando mi mettevo alle sue spalle per correggere la postura delle braccia, di come il suo corpo si irrigidiva alla vicinanza col mio; dei sorrisi luminosi che mi rivolgeva di mattina non appena mi trovava davanti alla porta di casa sua; di tutte le attenzioni che mi riservava. Subito avevo detto a me stesso che, cazzo, lei è dannatamente gentile e sorridente con tutti, sempre; ma non potevo illudermi che fosse quella la verità. Non quando ero cosciente di tutto quello che avevamo passato insieme e di come era cambiato l'atteggiamento di Beth nei miei confronti. Lo avevo capito, così come mi ero reso conto di essere finito in un grande casino. Beth provava qualcosa per me, quindi era anche lei in un grande casino.
Incasinati entrambi, fino al collo. E io avevo ancora paura ad ammettere chiaramente con me stesso che c'era un motivo, se ricambiavo i suoi sguardi; se la mia voce diventava più roca, quando le correggevo la postura e avevo le labbra vicine al suo orecchio; se i suoi sorrisi alla mattina mi smuovevano qualcosa al centro del petto; se le sue attenzioni stavano diventando una necessità.
Le missioni con Aaron, da una parte, mi davano un po' di respiro da quei pensieri contorti e contrastanti. Là fuori dovevo tenermi sempre concentrato sulla sopravvivenza e compiere gesti meccanici - freccia, colpo, ricarica - senza arrovellarmi troppo. Ma quando la notte arrivava e il lieve russare di Aaron faceva da sottofondo al mio turno di guardia, avevo tutto il tempo del mondo per pensare. Subito dopo essermi chiesto come se la stessero passando ad Alexandria, il volto di Beth si accendeva nella mia mente e spazzava via tutto il resto. Era andata in missione con quei bambocci? Le era successo qualcosa? Stava bene? O era rimasta al sicuro tra le mura? Non potevo fare a meno di pensarci, dandomi del coglione per il fatto di non essere nemmeno più in grado di controllare quello che mi passava per la testa.
Avrei potuto allontanarla in ogni modo, ma in ogni modo sarebbe riuscita a rientrare con prepotenza nella mia vita e nella mia testa. Così era Beth e, probabilmente, non riusciva a rendersene pienamente conto. Non riusciva a capire fino in fondo la sua capacità di ottenere quello che voleva, non era in grado di comprendere il potere che aveva su di me. Beth era troppo buona per manipolare volutamente qualcuno: infatti bastavano i suoi occhi così puri, il suo maledetto candore e i suoi modi gentili per fare tutto il lavoro sporco al posto suo. E io ci ero caduto come l'ultimo degli allocchi, neanche fossi un adolescente in calore. 

Merda, merda, merda.

Persino il suo dolore, ora, era in grado di farmi restare. Sollevai il palmo della mano che aveva stretto la sua per tutte quelle ore e lo osservai. Beth non era più la ragazzina debole che avevo conosciuto alla fattoria, ma, nonostante il suo notevole cambiamento, non era ancora in grado di sopportare il peso di un lutto. Anche se, probabilmente, tutta quella storia l'avrebbe presa diversamente, se Noah non l'avesse sostituita. Mi seccava ammetterlo, ma nel dolore di Beth e nel suo profondo senso di colpa, avevo visto una parte di me. Io stesso mi ero addossato la responsabilità di quello che era successo alla prigione e, ancora peggio, a suo padre. Davanti a quella baracca fatiscente, era stata lei a farsi carico dei miei sensi di colpa. Forse eravamo più simili di quantocredessi, anche se ammetterlo non aiutava certo ad allontanarmi da lei. Anzi. Non permisi che il pensiero che lei avrebbe potuto trovarsi al posto di Noah si facesse troppo vivido nella mia testa. Non riuscivo nemmeno a pensarci e mi sarei sentito un pezzo di merda a decidere chi avrei preferito che morisse tra lei e lui. Nessuno si sarebbe meritato di morire, forse solo quello stronzo di Nicholas. Prima o poi, gliel'avrei fatta pagare, in un modo o nell'altro. 
Come se i miei tormenti interiori stessero toccando anche lei, Beth si agitò appena di fianco a me, facendo aderire ancora di più la fronte contro il mio fianco. Non l'avevo mai avuta così vicina, prima di allora. Il suo corpicino era caldo, accanto a me e il suo torso si alzava e abbassava regolarmente. La mano che tenevo ancora alzata, lentamente, andò a posarsi sulla sua schiena incurvata dalla sua posizione raggomitolata; il mio braccio la circondò, come a volerla proteggere da quello che aveva passato in quei giorni.
Mi sarei ucciso pur di non ammetterlo ad alta voce, ma, nella mia testa - seppur con riluttanza - potevo affrontare la realtà: ormai, tutto quello che succedeva a Beth, tutto quello che la feriva, tutto quello che provava, si rifletteva in me come in uno specchio, condizionandomi.

L'ho già detto "merda"?
Merda.


 
...


 
(Beth)


È rimasto. È rimasto qui, con me.

Non riuscivo a pensare ad altro, tanta era l'incredulità e la gioia di svegliarmi accanto a lui. Ed era un passo avanti, rispetto alle mattine precedenti in cui il dolore per la perdita di Noah e il senso di colpa mi avevano investita non appena aperti gli occhi. Per quanto l'emozione mi facesse battere il cuore e avvertissi una strana frenesia pizzicarmi nelle vene, mi imposi di rimanere immobile. Non volevo, per nessuna ragione al mondo, rischiare di svegliarlo. Non volevo che il suo braccio lasciasse la mia schiena, non ancora. Daryl non mi aveva mai degnato di un gesto così affettuoso, prima d'ora. Non di sua spontanea volontà: di sicuro, doveva aver simulato quella specie di abbraccio mentre dormivo. Non avrebbe mai avuto il coraggio, o la voglia, di farlo con me cosciente, perché così era l'arciere. Pensare che, di sua iniziativa, aveva deciso di compiere quel gesto - poco importava che l'avesse fatto di nascosto - accelerò ulteriormente il ritmo del mio cuore.
Lentamente, cercando di non muovermi troppo e di non fare rumore, alzai lo sguardo per cercare il suo viso. I suoi tratti erano rilassati, mentre era ancora addormentato. Avrei fatto qualsiasi cosa per fare in modo che provasse quella serenità anche da sveglio. Gli dovevo così tanto. Non mi aveva solo protetta, non si era limitato a salvarmi la vita: mi era stato vicino nel modo in cui ne avevo bisogno, senza sguardi di compassione o accondiscendenza. Trattandomi come una persona normale che stava provando emozioni destabilizzanti che, troppo spesso, in passato, avevano rabbuiato il cuore di Daryl. Lui mi aveva capita.
Avrei fatto qualsiasi cosa anche per potermi stringere a lui senza la paura di svegliarlo o di essere respinta, come se fosse una cosa normale nel nostro rapporto. Come se avessi il diritto di farlo ogni volta che lo desideravo. Ugualmente, ero grata per quel risveglio, per il suo corpo caldo accanto al mio, per il suo respiro profondo e regolare e la sua mano posata su di me. Sarei rimasta così per sempre, col cuore ebbro di gioia e l'animo così leggero.
Qualsiasi cosa avessi dovuto affrontare quella giornata, il giorno dopo e tutti quelli a seguire, non avrei avuto paura.
Qualsiasi pensiero doloroso mi avesse colta all'improvviso, che si trattasse di persone che avevo perso da poco o da tanto, non avrei avuto paura.
Quasiasi senso di colpa mi avesse bloccata e fatto dubitare di me stessa, non avrei avuto paura.
E, se mai l'avessi avuta, mi sarebbe bastato ricordarmi del volto di Daryl e della sua presenza discreta ma rassicurante accanto a me, per tranquillizzarmi.

Nulla poteva farmi davvero paura, con Daryl Dixon al mio fianco.

Compresi che stava iniziando a svegliarsi quando lasciò andare un sospiro pesante e le palpebre iniziarono a tremolargli. Si mosse appena, mentre io continuavo ad osservarlo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, non riuscivo ad allontanarmi dal suo calore. La sua mano rimase salda su di me. A fatica, sbatté le palpebre un paio di volte, prima di aprire gli occhi davanti a sé. Dopo aver lasciato vagare lo sguardo perso e assonnato per qualche secondo, focalizzò la propria attenzione su di me. I nostri occhi si incrociarono: io non mi mossi e lui continuò a cingermi col braccio. Ci guardammo, osservammo, studiammo per diversi momenti - o almeno, così mi sembrò. Le sue iridi cobalto erano un mare di quiete, seppur non del tutto leggibile; non riuscivo a immaginare che espressione potessi avere io in quel momento.
Avrei voluto dire qualcosa, ma temevo di far scoppiare la strana bolla nella quale i nostri sguardi ci avevano racchiusi. Parlare avrebbe significato mettere fine a tutto quello, tornare alla vita normale e rischiare di vedere Daryl allontanarsi nuovamente. Avrei tanto voluto sapere cosa gli stesse passando per la testa, ma era una battaglia persa cercare di capirlo o fargli ammettere quello che pensava. 

«Ho qualcosa in faccia?», borbottò Daryl infastidito, spezzando il silenzio.

Il suo prendere l'iniziativa mi colse totalmente impreparata. «N-No», balbettai, scuotendo la testa.

«Allora piantala di fissarmi», ordinò con tono piatto, alzando lo sguardo verso il soffitto.

Perché mi trattava così ma non mostrava la minima intenzione di allontanarsi da me?

Io mi accucciai contro di lui, distogliendo lo sguardo senza dire niente; la sua mano e il suo braccio erano ancora appoggiati sulla mia schiena, con delicatezza. Il modo in cui si comportava era strano, era nuovo. Non aveva mai fatto così, prima di allora. Era bastato quello che era successo la notte prima - nulla di rilevante, in fin dei conti - a cambiare tutto? A cambiare i suoi comportamenti nei miei confronti? Subito mi imposi di tenere i piedi per terra, ma era difficile controllare il turbinio di emozioni e fantasie che mi stavano facendo tremare il cuore.
Avevo paura anche solo a pensarlo, ma, forse, avevamo compiuto un passo avanti. E questa volta davvero.

«Daryl», lo chiamai e, per la prima volta, in una situazione del genere, non mi fu necessario prendere un respiro profondo prima di parlare. Però non lo guardai in viso, rimasi dov'ero.

«Mh?».

«So che sarò ripetitiva e scontata, ma... grazie. Stamattina non mi sarebbe tornata la forza di alzarmi da questo letto, se tu non mi fossi stato vicino. Ti devo tantissimo», affermai con gratitudine, piano.

«Non ti sei ancora alzata», mi fece notare.

Non capii se mi sentivo più indignata per il fatto che avesse ignorato i miei ringrazianmenti, o più divertita dal suo irriducibile sarcasmo.

Mi alzai di scatto issandomi sui gomiti, voltandomi verso di lui per rivolgergli un'occhiataccia. «Un "prego" sarebbe bastato», sbottai, cercando di non ridere. 

Lui alzò gli occhi al cielo, sbuffò e si tirò su a sedere, finendomi di fianco. «Ti è tornata pure la forza di rompere i coglioni», si lamentò, puntando l'indice contro la mia fronte e spingendo per punzecchiarmi.

«Ehi!», esclamai, colpendolo al braccio in un gesto automatico.

Fu come se non l'avessi nemmeno toccato. Mi ignorò nuovamente, dandomi le spalle per infilarsi gli scarponi che aveva lasciato dal suo lato del letto. Osservai il suo gilet con le ali d'angelo, sempre più convinta che fosse stato fatto apposta per lui. Perché quello era Daryl, per me. 
Cercai di scacciare quei pensieri oltremodo diabetici e uscii anche io dalla coltre di coperte, lasciandomi scappare un brivido di freddo una volta uscita da quel giaciglio caldo. Mi infilai le pantofole e legai i capelli nella mia solita coda, mentre sentivo il materasso appiattirsi una volta privato del peso di Daryl.
«Da quanto non mangi?», domandò all'improvviso, severo.

Io mi voltai a guardarlo, imbarazzata. «Da ieri».

Alzò gli occhi al cielo. «Come si deve, intendo. Tua sorella mi ha detto che hai fatto lo sciopero della fame».

Maledii mentalmente Maggie. «Mia sorella è la solita esagerata. Avevo poco appetito, tutto qui. Ho mangiato», mi giustificai. 

«Perfetto, allora vestiti: vieni a fare colazione con gli altri», ordinò, imperativo, aprendo la porta di camera mia. Aggiunse persino un piccolo cenno col capo, tanto per essere più eloquente. 
 
Anche se Maggie mi aveva rassicurata dicendo che tutta la mia famiglia era lì per me, mi sentii molto in imbarazzo all'idea di tornare tra loro. Razionalmente, sapevo che si trattava di una paranoia infondata: non mi avrebbero mai giudicata per non essere stata in grado di gestire lucidamente la perdita di Noah, né mi avrebbero rimproverata di essermi isolata totalmente per tre giorni. Eppure, l'entusiasmo che avevo provato fino a poco prima si spense. Sentii le spalle abbassarsi e il capo chinarsi da un lato.

«Che c'è?», domandò Daryl, con la mano che ancora teneva aperta la porta.

Abbassai lo sguardo. «Non so se me la sento di vedere gli altri».

Lui grugnì. «Quante storie, ragazzina. Sei diventata asociale peggio di me o sbaglio? Cammina!».

Nonostante il tono imperioso di Daryl, che era autoritario e non ammetteva repliche, mi sfuggì una risata. Non lo avevo mai sentito prendersi in giro, prima di allora. Pensare che, forse, lo aveva fatto per aiutarmi ultieriormente a risollevarmi il morale, mi riscaldò in un punto imprecisato in mezzo al mio petto. Ero così fortunata ad avero accanto a me. Non sapevo quanto tempo ci avrei messo ad uscire, senza di lui.

Mi stiracchiai e, a fatica, mi alzai in piedi. «Dubito che riuscirò mai ad essere così tanto asociale», ribattei.

Daryl esibì un sorrisetto arrogante. «In effetti, è pregio di pochi».

Alzai gli occhi al cielo, stiracchiandomi e abbandonando finalmente il letto. «Certo Daryl, certo».

L'arciere fece un altro cenno con la testa, sempre in direzione della porta. «Avanti, ci stanno aspettando. Muoviti».

Allargai le braccia in un gesto esasperato. «Non posso venire in pigiama, devo vestirmi!».

«Allora vestiti! E sbrigati!».

Io rimasi a guardarlo in silenzio, incrociando le braccia al petto. Mi misi a fissarlo insistentemente, senza dire una parola.

«E adesso perché fai la bella statuina?», domandò Daryl, confuso e abbastanza irritato.

«Devo vestirmi», ripetei.

«Lo hai già detto», sbottò, spazientito. «Senti, o ti dai una mossa o—».

«Daryl, santo cielo, devo togliermi il pigiama! Vuoi assistere, per caso?!», lo interruppi, alzando la voce in un moto di esasperazione.

La sua espressione mutò ad una velocità inaudita. Quasi sbiancò e i suoi tratti si sciolsero in un'espressione imbarazzata, gli occhi spalancati e che non sapevano dove guardare. Balbettò qualcosa di incomprensibile a bassa voce e mi diede le spalle con uno scatto, trascinando la porta con sé e chiudendola rumorosamente. Mi misi a cercare nell'armadio qualcosa da mettere, sforzandomi di non ridere a voce troppo alta ripensando alla sua espressione. Daryl era un uomo forte, grande e grosso: così difficile da uccidere, ma così facile da mettere in imbarazzo. Erano due lati di lui che, nella loro coesistenza, mi facevano provare tenerezza nei suoi confronti.
Quando uscii dalla mia camera, lo trovai appoggiato contro al muro di fronte a me, a braccia incrociate. Ogni ombra di imbarazzo aveva lasciato il suo volto, anche se, ne ero sicura, era stata semplicemente nascosta dietro alla maschera illeggibile che il suo viso aveva assunto. Decisi di non torturarlo con qualche battutina e feci finta di niente.

«Sono pronta», annunciai, senza troppa convinzione.

Daryl rispose con un cenno del capo, precedendomi giù per le scale. Io lo seguii, mentre avvertivo il mio cuore accelerare il suo ritmo: l'ansia stava iniziando a farsi strada dentro di me. Ogni scalino che scendevo mi riportava verso una quotidianità che avevo messo in pausa per tre giorni, troppo persa nel lutto per riuscire a viverla. Il fatto che quel periodo fosse finito - solo la parte dell'isolamento; mi ci sarebbe voluto molto di più, prima di superare la perdita di Noah - mi sollevava e spaventava allo stesso tempo. Con Maggie, Rick o Michonne non era come con Daryl: se fossi stata in silenzio, magari con lo sguardo perso da un'altra parte, in compagnia dell'arciere, a lui non sarebbe importato. Mentre con gli altri - magari era una mia impressione - mi sarei sentita in dovere di farmi vedere tranquilla, magari fare qualche sorriso, di tanto in tanto.

«Ti stanno aspettando tutti», disse l'arciere ad un certo punto, senza voltarsi.

Io mi fermai, a metà scalinata, mentre le sue parole riempivano lo spazio tra noi. Ancora una volta, aveva provato a rassicurarmi, in modo celato e abbastanza contorto. Ma l'aveva fatto. E immaginare di rivedere gli altri, di parlarci di nuovo e inserirmi di nuovo nella comunità, con Daryl silenziosamente al mio fianco, era uno scenario che potevo sopportare più volentieri. Le mie labbra si aprirono in un sorriso, anche se lui non poteva vederlo, perché mi dava ancora le spalle.

Quando mi fui infilata il giaccone, Daryl aprì la porta. La mia casa, che era stata il mio rifugio durante quei giorni, era illuminata dalla luce del mattino che filtrava dalle finestre. Uscire di nuovo alla luce del sole, sentire la brezza fresca sul viso e respirare all'aria aperta mi fece stare meglio da subito. Il dolore per quel lutto terribile non mi aveva abbandonata, ma, ora, riuscivo a sopportarlo un po' meglio. Era molto meglio che stare al letto, al buio e in stato quasi catatonico. Percorremmo il tratto che ci divideva dalle due grandi case fianco a fianco, come già tante altre volte avevamo fatto. Era diventata una cosa normale, ormai; una cosa tra noi.

«Chiederò a Jessie di darti una spuntata ai capelli», dissi all'improvviso, come se quell'idea mi avesse sorpresa tutto d'un tratto.

«Ci risiamo», grugnì Daryl. La sua espressione contrariata mi fece sorridere.

«Guarda che lo faccio per te! Come fai a prendere bene la mira, con tutti quei capelli che ti coprono la visuale?».

«La mia mira va alla grande. Preoccupati della tua, piuttosto», replicò, piccato.

Scoppiai a ridere davanti alla sua espressione immusonita. «Dovresti essere contento che alla fine non sia io a tagliarteli».

«Ti sei ricordata che non sai nemmeno come prendere in mano le forbici?».

«Una cosa del genere», ammisi. «Appena me la sentirò, andrò a chiedere a Jessie se può occuparsene. Con Rick ha fatto un bel lavoro».

Daryl assimilò l'informazione, ma non rispose. A quel punto, mi accorsi che eravamo arrivati a destinazione. Il battito del mio cuore accelerò e una sensazione di pesantezza si fece strada nel mio petto. Ero nervosa e si vedeva benissimo. Daryl mi superò e salì la scala del portico; il mio sguardo si soffermò sulle sue spalle forti, sulla schiena ampia e i suoi capelli scuri e disordinati.

E lì ricordai: non ero sola. Non lo ero mai stata.

Con quella consapevolezza, il nodo stretto dell'ansia si allentò appena ed entrai in quella casa, preceduta dall'arciere.

Mi resi conto che tutte le mie paranoie su come si sarebbero comportati gli altri erano inconsistenti. La mia famiglia mostrò solo una grande gioia nel riavermi di nuovo tra loro. Mi trattarono normalmente e non mi parve di vedere nei loro occhi nemmeno un briciolo di compassione, nemmeno per un istante. Non fu difficoltoso, per me, stiracchiare un sorriso quado Carol mi passò uno dei suoi biscotti, o farmi scappare una risata quando Carl fece una battuta. Sentii che, nonostante tutto, stavo finalmente tornando alla normalità. Persino mia sorella aveva smesso di guardarmi con apprensione, come se fossi stata capace di crollare davanti a lei da un momento all'altro.

Mentre ero seduta a quel tavolo e cercavo di riabituarmi a vivere al di fuori del mio dolore, notai che Daryl non aveva preso parte alla tavolata. Me ne accorsi solo in quel momento, perché prima ero stata travolta dalle attenzioni degli altri. Mi guardai in giro e notai che, come suo solito, se ne stava appollaiato alla seduta della finestra, guardando di fuori. Forse stava cercando di rimettere distanza tra di noi; forse temeva che mia sorella e gli altri, vedendoci arrivare insieme, si fossero fatti delle domande.

Le mie congetture vennero interrotte quando Daryl si voltò e il suo sguardo incrociò il mio.

In quel momento, non pensai più a nulla. La mia mente si riempì di un unico pensiero che, sperai, l'arciere potesse leggere nei miei occhi.

Grazie.


 
...
 
 

| Nota autrice |

Scusate.

Credo che sia il modo più opportuno per iniziare, dopo ben sei mesi di assenza. Mi dispiace, davvero e me ne vergogno. Specialmente se penso all'entusiasmo e alla prontezza con cui avete messo  a tacere le paturnie che vi ho esposto nell'ottavo capitolo. Alle mie insicurezze avete risposto con nove recensioni meravigliose. Vi ringrazio e vi chiedo scusa dal più profondo del cuore.
Sono stati mesi tosti, nei quali molte cose sono cambiate, ho dovuto studiare, dare esami; ho persino iniziato a lavorare per racimolare qualche soldino. E in tutto questo, ho iniziato a scrivere a rallenty. Scrivevo, ma poco e non di frequente. Qualcuna di voi potrebbe mettere in dubbio la passione che affermo di provare per la scrittura, ma vi assicuro che non è stato facile per me arrendermi al fatto che o non avevo tempo di scrivere, o ero bloccata.
Penso seriamente di avere addosso una "maledizione dell'ottavo capitolo"; praticamente arrivo all'ottavo capitolo di una long e mi blocco totalmente. Infatti, un'altra storia che ho scritto si è fermata inesorabilmente al capitolo ottavo. Spero, per questa volta, di aver scongiurato questa maledizione, visto che, alla fine, il capitolo 9 è uscito.
Già, il capitolo.
Per la prima volta da quando ho iniziato a pubblicare questa storia, pubblico un capitolo animata da una paura viscerale. Non la classica "ansia da prestazione", no; proprio paura nel vero senso della parola. Ho paura che non ci sarà quasi nessuno a leggere, che non vi piacerà, che rimarrete deluse. So che è corto rispetto agli altri, ma non mi sentivo davvero di aggiungere altro. Ho cancellato e riscritto la parte dopo il "grazie" venti volte e tutte e venti le volte sono rimasta insoddisfatta da quello che ho scritto.
Spero comunque che abbiate apprezzato il poco con cui sono tornata perché, davvero, non succede nulla. Capitolo di passaggio, se così si può dire. Ma nei prossimi succederanno più cose, ve lo prometto. Come vi prometto che non passerà così tanto tempo per il prossimo aggiornamento. Ho deciso che mi "imporrò" di pubblicare almeno un capitolo al mese e, se non ce la farò per il mese di gennaio, vi avverto subito che sarà colpa degli esami. Ma vi prometto ugualmente che ce la metterò tutta.

Mi fermo qui perché altrimenti le note diventano più lunghe del capitolo.
Ancora grazie e ancora scusatemi.
Un abbraccio,
Blakie

   
 
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