Masonri.
Synergy. Winners. Broadbord.
Nisijo.
E poi ancora Masonri,
Synergy, Winner.
Di nuovo.
Masonri.
Synergy.
Win-
«Niet, niet,
Yuuri! Non hai sentito quello che
ti ho detto? Devi piegare le ginocchia!»
La voce di
Victor suona leggermente spazientita e Yuuri
deve fare del suo meglio per ignorarla, mentre il suo coach sfreccia
sui
pattini per raggiungerlo al centro della pista. Il ragazzo chiude gli
occhi e
si permette di riprendere fiato per almeno qualche secondo, senza
nemmeno
cercare di alzarsi. Non che si sia fatto male – almeno a
cadere è diventato
bravo – ma la sensazione del ghiaccio sul viso e sotto le
mani non è poi così
spiacevole. Ultimamente ha capito che lui è nato per stare
nel ghiaccio, non
solo sopra, ma completamente immerso.
Gli piacciono i brividi, gli piace l’insensibilità
bagnata che gli anestetizza
le dita, gli piace il calore del suo corpo che sembra infiammarsi pur
di
resistere a quella morsa, anche se alla fine, lo sa, gli
stritolerà i polmoni,
il cuore, il cervello. Gli piace perché è
l’unica sfida che non potrà mai
vincere, nemmeno se si allenasse tutta la vita solo per quello, nemmeno
se si
impegnasse con tutte le sue forze. Gli piace perché
può arrendersi senza
sentirsi lo stupido, speranzoso, inutile Yuuri che al Grand Prix ci ha
provato,
ci ha provato sul serio, ma ha perso lo stesso.
Finalmente
i
cartelloni degli sponsor appesi sotto la platea hanno smesso di
vorticargli
attorno e le luci accecanti dei riflettori ormai non possono
più ferirgli la
vista attraverso le palpebre serrate. Per la prima volta da quando ha
messo piede
nel palazzetto riesce a rilassarsi davvero, può quasi far
finta che sia tutto
come prima, che lui possa ancora essere quel Katsuki Yuuri che tutti
davano per
favorito alla finale del Grand Prix. Anche se quel Katsuki Yuuri non lo
è più
da un pezzo.
Alla fine le
lame dei pattini di Victor smettono di
graffiargli le orecchie e capisce che adesso il suo coach è
troppo vicino per
fingere di non sentire i rimproveri sempre più acuti che gli
sta rivolgendo. A
volte la sua voce sembra quella di un messaggio preregistrato,
perennemente
sintonizzata sulla frequenza del no,
Yuuri, non si fa così, stai attento, devi impegnarti di
più. Yuuri quasi
sorriderebbe, se non sapesse che i suoi trenta secondi di pace sono
già finiti
e che ormai dovrebbe cominciare ad alzarsi. Eppure si prende un altro
po’ di
tempo, giusto quello che gli serve per immaginare cosa vedrà
non appena
riaprirà gli occhi: purtroppo per lui, riesce a dipingere un
quadro che si
rivela fin troppo fedele alla realtà per poter credere di
non vivere
esclusivamente di quei momenti.
Victor
è in piedi davanti a lui. Ha i capelli un po’
spettinati e le guance arrossate per il freddo, proprio come aveva
previsto, e
la sciarpa continua a scivolargli dalla spalla, non importa quante
volte si
ostini a rimetterla a posto con quel buffo scatto del polso. Sul viso
ha
impressa la stessa smorfia di disappunto un po’
compassionevole che gli rivolge
ogni volta che commette un’idiozia – e ultimamente
accade davvero troppo
spesso. Yuuri distoglie lo sguardo pur di evitare quegli occhi troppo
azzurri e
troppo sinceri e si concentra testardamente sui piedi del suo coach,
quei piedi
che danzano sempre, anche quando è fermo, forse per
scaldarsi, forse perché Victor
non smette mai di ballare, mai. Lo fa dappertutto, in continuazione,
nella sua testa
c’è sempre e solo Victor, che balla di continuo e
scandisce il ritmo di tutti i
suoi pensieri ed è insopportabile, e allora Yuuri lo fissa
fino a farsi male da
solo, perché davvero non ce la fa più. Deve
vederlo lì, davanti a lui. Mentre
lo guarda dall’alto come ha sempre fatto. Non nei suoi sogni,
non nei suoi
incubi, ma lì. Di carne e ossa e tutto quello che lui non
avrà mai.
«Stai
più attento, la prossima volta» lo redarguisce,
ma senza smettere di sorridere, e gli porge una mano per aiutarlo a
rialzarsi.
Yuuri si
puntella sui gomiti e ignora le sue dita
tese, rimettendosi in piedi da solo con qualche difficoltà.
Victor non sembra
aversene a male.
«Guarda,
ti faccio rivedere il passo. Devi solo-»
«Servirebbe
a qualcosa?» lo interrompe lui. Cerca di
non lasciar trapelare nessuna emozione, eppure se solo Victor
osservasse meglio
quegli occhi che continuano a sfuggirgli, forse non avrebbe bisogno di
porgergli la domanda successiva.
«Cosa
intendi, Yuuri?»
«Voglio
dire che…» alza le spalle, incerto su come
spiegargli qualcosa che a lui sembra tanto semplice «Insomma,
è inutile, no?
Non serve a niente. Tutto questo, dico. Le lezioni e gli allenamenti e
tutto il
resto. Non posso pattinare.»
«Non
dire sciocchezze, certo che puoi. Te l’ho detto,
il problema è che sei troppo rigido. Non guardarti i piedi
mentre pattini, alza
il viso – ecco, così» gli sfiora il
mento, costringendolo a sollevare lo
sguardo. Le sue dita gli bruciano la pelle anche attraverso i guanti, e
Yuuri
può assaporare per qualche secondo lo stesso dolore affilato
che il ghiaccio
gli infligge dopo ogni sconfitta «Bravissimo, guarda in alto.
E i tuoi muscoli,
cos’hanno che non va, oggi? Non hai fatto abbastanza
stretching? Alza la gamba,
da bravo.»
Yuuri obbedisce
svogliatamente e il desiderio di
tornarsene a casa diventa più forte che mai. È
stanco, dolorante, sudato, Victor
lo sta facendo impazzire. Sopporta le sue premure come un nipote che si
lascia
coccolare di malavoglia dalla nonna troppo affettuosa. Chiude gli occhi
di
nuovo, sperando che quell’allenamento finisca presto, ma
è costretto a
riaprirli non appena sente la mano di Victor strisciare lungo i
pantaloni della
sua tuta. Gli stringe il ginocchio, scivola lungo la coscia, lo sfiora
e lo
tocca dappertutto e improvvisamente fa caldo – troppo
caldo. Se Yuuri riuscisse a formulare un pensiero coerente si
chiederebbe perché il ghiaccio non si è ancora
sciolto, sotto quelle fiamme che
sembrano bruciarlo dall’interno.
«Ti fa
male qui?» gli sussurra all’orecchio. A bassa
voce, come se quelle parole fossero solo per lui, come se Victor stesso
esistesse solo per lui. Per Yuuri è come ricevere un colpo
di pistola dritto al
cervello, e forse è così, perché
all’improvviso smette di pensare e si
divincola e si scorda di essere un pattinatore malconcio con una gamba
sollevata su una lastra di ghiaccio. In pochi secondi è di
nuovo a terra, steso
sulla schiena, con il suo coach carponi su di lui.
«Yuuri!»
lo chiama, allarmato, scostandosi i capelli
dal viso con uno gesto nervoso delle dita «Si può
sapere che ti prende, oggi?
Va tutto bene?»
«Benissimo»
risponde lui con un filo di voce. Quella
caduta improvvisa gli ha fatto dimenticare la regola principale: non
guardarlo
mai troppo a lungo, per nessun motivo, e soprattutto non guardarlo
negli occhi.
Ormai però l’ha fatto e non riesce a distogliere
più lo sguardo perché Victor è
come un magnete e Dio, quanto odia il suo cuore impazzito, in quel
momento
«Dài, spostati, mi stai facendo male»
sbuffa, dissimulando l’imbarazzo con un
colpo di tosse poco credibile.
Victor scoppia a
ridere con quella sua risata che
riempirebbe qualsiasi vuoto.
«Okay,
okay» dice, ma invece di alzarsi rotola di lato
e finisce steso accanto a lui. Per un momento fissano entrambi il
soffitto
della palazzina ed è come se il tempo si fermasse, sotto
quel cielo di travi e
acciaio.
«Andiamo
a casa» sospira Yuuri. Non gli piace più
quell’intimità che condividono troppo spesso,
quell’amicizia che forse, giusto
un po’, appena ambiguamente, avrebbe potuto essere
qualcos’altro – ma solo prima,
certo, adesso no, adesso non si
fa nessun’illusione. Si alza a sedere e comincia a slacciarsi
i pattini, però
le mani di Victor strisciano subito sopra le sue.
«L’allenamento
non è ancora finito» gli ricorda,
vagamente polemico «Yuko ha detto che possiamo restare per
un’ora.»
«Preferirei
tornare a casa, se non ti dispiace» ripete
Yuuri, chinando il capo. Anche senza guardarlo sa che Victor sta per
protestare, e allora si morde le labbra a sangue e digrigna i denti, ma
si
costringe a dirlo, annegando il disgusto verso se stesso in un oceano
di
autocommiserazione.
Apre la bocca e
ammette che di quel Katsuki Yuuri
ormai non è rimasta che l’ombra.
«Mi fa
male il ginocchio.»
Ed è
vero, disperatamente vero. Eppure suona come una
scusa alle sue orecchie, perché si era ripromesso di non
dirlo mai ad alta
voce, nemmeno quando il dolore era così forte da fargli
tremare le gambe.
Nemmeno quando, all’inizio della riabilitazione, si
allacciava i pattini ai
piedi con una determinazione che scemava di giorno in giorno,
finché stringere
i nodi alle stringhe non era diventato altro che una menzogna. Una
bugia con
cui tradiva se stesso e Victor, perché il chirurgo glielo
aveva detto subito,
in fondo.
«Non
sarà mai come
prima.»
«Oh»
bisbiglia Victor, e non aggiunge altro. Per un
po’ lo guarda lottare contro i lacci troppo stretti con le
dita intirizzite dal
freddo, ma dopo qualche minuto quello spettacolo diventa straziante.
«Ce la
faccio» lo ferma Yuuri, anticipando la sua
offerta d’aiuto. Si graffia il dorso delle mani per
l’ennesima volta, ma alla
fine i pattini volano via dai suoi piedi con un gesto troppo brusco
perché possa
davvero andare tutto bene. Stavolta
Victor non si intromette e gli permette di alzarsi da solo, nonostante
le sue
braccia non riescano a stare ferme come dovrebbero: scattano in avanti
e si
posizionano a qualche centimetro dai gomiti di Yuuri, pronte ad
afferrarlo al
minimo segno di instabilità. Quante volte lo hanno salvato
da una brutta
caduta, quelle braccia, soprattutto nelle prime settimane dopo
l’incidente, e
ora non riescono a ricordarsi che la loro posizione naturale non
è lì dietro,
ma lungo i fianchi del loro proprietario. Victor vorrebbe davvero che
obbedissero ai suoi comandi e restassero immobili e obbedienti al loro
posto,
perché gli occhi di Yuuri fanno malissimo sulla pelle. Non
sono arrabbiati,
solo feriti. Non vuole essere trattato come un invalido, lui lo sa,
eppure non
riesce mai a trattenersi. Quella smania ossessiva di proteggerlo non
gli passa
mai, nemmeno quando, beh, è da lui
che dovrebbe difenderlo.
Il tragitto
verso casa è lungo e silenzioso. Yuuri
deve fermarsi spesso per riprendere fiato e regalare un po’
di tregua a quel
ginocchio che è diventato una croce troppo ingombrante da
portare da solo e
troppo umiliante perché riesca a condividere il suo peso con
qualcuno. Gli
ultimi metri che lo distanziano da casa li deve percorrere trascinando
la gamba
destra, eppure non rimpiange il suo rifiuto di prendere
l’autobus o chiamare un
taxi. Non rimpiange nemmeno il bastone che sua madre gli ha comprato
mesi
addietro, e che per tutto quel tempo è rimasto a
impolverarsi dietro la porta,
dove lo ha lanciato non appena gli è stato consegnato.
«Andiamo
a fare un bagno alle terme?» chiede Victor,
mentre gli tiene aperta la porta per permettergli di entrare. Il
sorriso che si
costringe a sfoggiare è così finto che Yuuri
quasi prova pena per lui,
nonostante sappia che quel sentimento sia pienamente ricambiato.
«Vado
a stendermi in camera. Per favore, dì a mia
madre di non chiamarmi per cena. Non ho fame» ribatte,
avviandosi verso le
scale. Posiziona la gamba sana sul primo gradino e poi issa anche
quella
malandata, appoggiandosi al corrimano per evitare di sbilanciarsi.
«Sei
sicuro? Potrei chiederle di preparare il katsudon»
suggerisce Victor, con quella
nota di allegria forzata che gli fa venire voglia di tapparsi le
orecchie.
Yuuri si rifiuta di fermarsi e anche solo di voltarsi verso di lui
mentre
risponde.
«Non
ho vinto niente per meritarmelo» replica, alzando
le spalle.
«Non
è vero, Yuuri, sei troppo duro con te stesso. Oggi
sei riuscito a finire tutti gli esercizi di riabilitazione, dovresti
considerarla una-»
«Non
ho vinto niente» ripete Yuuri. La sua voce suona
più secca di quanto avrebbe voluto, ma non se ne dispiace.
Almeno Victor china
il capo e non aggiunge altro, e rimane a tormentarsi le mani mentre
guarda ciò
che resta del suo allievo trascinarsi su una rampa di scale come un
morto che
cammina.
∞
Victor
deve aver parlato con la sua intera famiglia.
Sua madre non
l’ha chiamato per cena, sua sorella non
gli ha chiesto di aiutarla a sistemare prima della chiusura del centro
termale,
suo padre non l’ha cercato per sapere come sono andati gli
allenamenti. Loro li
chiamano ancora così, allenamenti.
Solo
Yuuri sembra accorgersi che quelli non sono affatto allenamenti, sono
fisioterapia. Non hanno nulla a che vedere con il pattinaggio.
Uno sguardo alla
radiosveglia sul comodino lo informa
che è mezzanotte passata. Da quando è tornato a
casa, qualche ora prima, non ha
fatto altro che lasciarsi cadere sul letto e fissare cocciutamente il
soffitto.
Il tardo pomeriggio ha lasciato posto al tramonto e poi al buio
conciliante della
notte senza che lui trovasse la forza di infilarsi sotto la doccia o
almeno
cambiarsi gli abiti sudati. È rimasto lì e basta.
Ogni tanto ha alzato la mano
destra davanti al viso per guardare il piccolo cerchio
d’argento che gli
stringe l’anulare, senza riuscire a vederci altro che
l’ennesima promessa
infranta.
Ricorda
distrattamente quel giorno in cui ha pianto in
un parcheggio perché Victor continuasse a fargli da coach,
ma gli sembra far
parte di un’altra vita, di un altro Yuuri. Ora farebbe
qualsiasi cosa per convincere
Victor ad andarsene. Preferirebbe vederlo tornare in Russia, da Yurio,
o da Yakov,
o da chiunque altro, pur di liberarsi della sgradevole sensazione di
averlo
incatenato accanto a sé per il resto della sua vita.
Non ce
l’ha con il ghiaccio per quello che è successo,
davvero. Il ghiaccio, al contrario, gli sembra essere l’unico
che ormai riesca
a capirlo pienamente. Il ghiaccio non lo guarda con occhi pieni di
compassione mentre
gli cede una gamba o perde l’equilibrio, il ghiaccio si
limita ad accoglierlo
quando cade. Non lo giudica, non lo compatisce, non si torce le mani
dalla
preoccupazione ad ogni suo minimo gesto. Yuuri sa che non è
colpa del ghiaccio
se ormai il suo ginocchio è andato. La colpa è
sua. Né del ghiaccio, né di
Victor, né di nessun altro. Solo sua.
La stanza
d’ospedale in cui si era svegliato era
troppo bianca per essere la pista di pattinaggio, come aveva
ingenuamente
pensato prima di infilarsi gli occhiali, ma vedere Victor e sua madre
seduti al
suo capezzale gli aveva fatto recuperare la memoria anche troppo in
fretta.
La finale. Il
programma libero. Quel quadruplo alla
fine della seconda parte che non avrebbe dovuto tentare. La caduta. Il dolore. E quel crack
assordante che gli sarebbe risuonato in testa per mesi,
perfettamente udibile nel silenzio di una platea che tratteneva il
respiro.
«Non
avrei dovuto lasciartelo fare. Non avrei dovuto
lasciartelo fare» Victor sembrava essere in grado di dire
solo questo, mentre
sua madre rimaneva zitta con le labbra tanto strette da sembrare un
taglio
inciso nella pelle. Nessuno dei due piangeva, ma il suo coach guardava
dritto
davanti a sé con gli occhi spalancati e pieni di vuoto, in
un’espressione di
sbigottita meraviglia. Non ci credeva nemmeno lui a quanto era appena
successo,
non sembrava rendersi conto né del luogo in cui si trovava
né di chi era steso
nel letto che aveva di fronte.
«Non avrei
dovuto lasciartelo fare.»
Yuuri era
stanchissimo e avrebbe voluto rimettersi
subito a dormire, anche se si era appena svegliato. Gli antidolorifici
gli
anestetizzavano i pensieri insieme al cervello, eppure da qualche parte
c’era
qualcosa che pungeva e che, lo sapeva, non lo avrebbe lasciato in pace
se non
glielo avesse detto prima di riassopirsi.
«Lo
avrei… lo avrei fatto lo stesso» aveva balbettato,
con la voce impastata e un pessimo sapore in bocca.
Victor lo aveva
guardato ancora più stupito, come se fino
a quel momento non si fosse nemmeno accorto della sua presenza.
«Quel
quadruplo Salchow. Lo avrei fatto lo stesso,
anche… anche se tu mi avessi detto di no.»
Ed era vero, lo
avrebbe fatto sul serio. Quel
quadruplo era la sua unica possibilità di ribaltare la
classifica, di
raggiungere JJ, di dimostrare che in fondo lui ne
valeva la pena. E invece si era spezzato con lo schiocco
secco
di un rametto sotto una scarpa da ginnastica. Ci avrebbe provato,
avrebbe
tentato quel Salchow con o senza l’approvazione di Victor.
Che aveva detto sì, Yuuri,
provaci, puoi
farcela, ma
non era colpa sua, diamine, nemmeno l’idea era stata sua.
Aveva fatto tutto da
solo, con l’ingenuità di un ragazzino o la
presunzione di un pattinatore o
chissà che altro nome doveva dargli, a quello stupido
entusiasmo che lo aveva
convinto a rovinarsi la carriera per sempre.
«Camminare?
Oh, certo che camminerà. Cinque o sei mesi
di riabilitazione e lo vedrete correre in giro sano come un pesce.
Sicuro,
anche il pattinaggio va bene. Non ci sarà nessun problema,
posso assicurarvelo.
Ah, a livello agonistico, dite? Beh, no, quella è
un’altra storia. Detto
francamente, ragazzo, puoi scordartelo. Nossignore, niente salti con
quel
ginocchio – però puoi farti qualche giro di pista,
se prometti di tenere i
piedi ben saldi a terra. Bisogna sapersi accontentare delle piccole
cose, non
credi? Bene, se volete scusarmi adesso ho altri pazienti. Mi raccomando
per la
fisioterapia, va iniziata il prima possibile. Tornerò
più tardi per vedere come
te la passi.»
Il dottore non
aveva tirato fiato nemmeno per un
secondo mentre compilava in tutta fretta la cartella del suo paziente e
ricalibrava i nuovi dosaggi per le medicine. Non lo aveva guardato in
faccia neanche
una volta e sembrava serenamente immune agli occhi sbarrati di Victor o
all’espressione
assente di Yuuri. Aveva lasciato la stanza senza chiudere la porta e a
loro due
non era rimasto altro che evitarsi a vicenda. Si erano evitati per
mesi. Si era
rotto qualcosa, oltre al suo ginocchio, qualcosa che, come lui, non
sarebbe mai
tornato come prima.
Yuuri torna al
presente con il rumore del suo stomaco
che brontola protestando per la fame. Pondera l’idea di
intrufolarsi in cucina
e prendersi qualcosa da mangiare, ma l’idea di scendere e
risalire le scale
basta a dargli la nausea – e l’alternativa di
chiedere aiuto a qualcuno riesce
a sembrargli perfino peggio. Si è già rassegnato
ad aspettare la colazione,
quando qualcuno entra in camera sua senza bussare.
Victor indossa
la sua vestaglia preferita e regge un
vassoio in equilibrio su una sola mano, mentre con l’altra
cerca a tentoni
l’interruttore della luce. Dopo averlo trovato si prende
qualche istante per
ricambiare lo sguardo vacuo di Yuuri con un sorriso tristissimo, prima
di
avvicinarsi e sedersi sul bordo del materasso.
«Ho
pensato che magari ti andava uno spuntino» dice,
posando il vassoio sul comodino.
Yuuri si tira su
a sedere e appoggia la schiena alla
testiera in legno del letto, afferrando qualcosa dal vassoio senza
nemmeno
controllare di cosa si tratta.
«Grazie»
mormora, fissandosi le mani. Rimuove
l’involucro di plastica dalla polpetta di riso e manda
giù qualche boccone
controvoglia. Curiosamente non ha più tanta fame.
Victor non
accenna ad andarsene. Inclina la testa di
lato e continua a fissarlo senza parlare, aspettando che finisca di
mangiare
prima di appallottolare le cartacce e lanciarle nel cestino sotto la
scrivania.
Yuuri beve qualche sorso d’acqua dal bicchiere che ha sul
comodino e cerca di
fare del suo meglio per ignorarlo: sopportare i suoi silenzi
è diventato ancora
più difficile che reggere il confronto dei suoi occhi.
«Puoi
andartene, Victor» distende la gamba ferita
oltre il bordo del letto e cinge l’altra al petto. Mentre
appoggia il mento sul
ginocchio si chiede, irritato, perché il petto debba fargli
così male da
impedirgli di respirare.
Il suo coach
sussulta, colto alla sprovvista, ma Yuuri
non sembra arrabbiato, né tantomeno infastidito. Non
c’è nient’altro che
rassegnazione.
«D’accordo»
risponde lui, confuso «Prendo il vassoio e
lo riporto in-»
«No,
intendevo… puoi andartene. Da qui, dal Giappone.
Puoi tornare in Russia.»
Victor non sa
bene cosa dire. Non che non se lo fosse
aspettato, certo, solo non credeva che sarebbe successo così
presto, prima che
potesse anche solo pensare a una risposta da dargli. A un modo di
convincerlo
che, per lui, ne valeva ancora la pena.
«Perché
dici così, Yuuri?»
«Qui
non c’è niente per te. Non puoi insegnare a
pattinare a qualcuno che non pattinerà mai
più» scrolla le spalle come per dire
che tanto a lui non interessa. Non più, almeno. A che
servirebbe, dato che le
illusioni non bastano comunque a cambiare la realtà?
La cosa che
più lo infastidisce è che Victor fa finta
di non sapere quale sia la sua, la loro
situazione, e riesce pure a tirare fuori uno di quei famosi sorrisi,
quelli che
durante la riabilitazione erano riusciti a tenere Yuuri a galla solo
per
miracolo.
«Non
è vero, non dire così» lo rimprovera,
battendogli
piano una mano sulla spalla. Ormai lo tocca solo così:
piano. Come se avesse
paura di romperlo, come se il piccolo, fragile Yuuri non fosse
più in grado di
sopportare l’irruenza tempestosa dei suoi abbracci o le sue
dita artigliate
sulla pelle, quando invece gli mancano tanto quanto il pattinaggio
– quello
vero, non le stronzate della fisioterapia.
«Certo
che puoi pattinare. Oggi sei andato alla grande»
cerca di essere incoraggiante, ma il suo falso ottimismo lo deprime
ancora di
più.
«Non
posso gareggiare» ribatté Yuuri. A lui non va
più
di fingere. Gli sembra di dover spiegare a un bambino di cinque anni
perché la
vita fa schifo, e l’espressione attonita di Victor non fa
altro che
riconfermare la sua impressione. Si sente quasi in colpa a infierire su
quei
sogni che una volta erano anche suoi.
«Non
si pattina solo per vincere, Yuuri.»
«Tu
sei venuto fin qui per questo, no? Per farmi
vincere. Accidenti, Victor, ma mi hai guardato bene? Non riuscirei a
eseguire
nemmeno un toe-loop» è così frustrato
che per un momento si scorda il suo
proposito di mantenere la calma, eppure Victor non pare nemmeno
accorgersi
della sua mano stretta a pugno attorno al loro anello bugiardo o di
quel tono
troppo alto e troppo amaro. Corruga le sopracciglia e gli afferra le
spalle
all’improvviso, costringendolo finalmente a guardarlo in
faccia.
«Ci
hai provato, Yuuri?» domanda, di colpo serio «Hai
provato a fare un toe-loop? Sai che cosa ha detto il dottore, non
dovresti-»
Ma Yuuri si
libera dalla sua presa con uno scatto
nervoso del braccio e si allontana di nuovo.
«Non
preoccuparti. Non l’ho fatto» sibila, seppellendo
il viso tra le dita.
Victor si odia
perché una piccolissima parte di lui ci
ha sperato. Ha sperato che Yuuri l’avesse tentato davvero,
quel toe-loop –
anche non riuscendoci, magari, anche se il dottore ha detto di no,
anche se avrebbe
potuto rischiare un altro grave infortunio. Anche se il suo dovere da
coach
sarebbe quello di impedirglielo, lui vorrebbe solo vedere Yuuri
provarci. Vorrebbe
vedere i suoi piedi che si staccano dal ghiaccio, giusto per un
secondo,
magari, per il più goffo e mal eseguito toe-loop della
storia del pattinaggio.
Gli andrebbe bene lo stesso, sul serio. Gli basterebbe sapere che non
ha perso
quella voglia di danzare con il ghiaccio che lo ha convinto fin dal
primo
istante a fargli da allenatore. Perché – Victor lo
sa – senza quel desiderio di
volare di Yuuri non rimane più nulla.
Il suo allievo
non sembra captare nessuno di quei
pensieri e si limita a riavviarsi i capelli, godendosi quel piccolo
momento di
pace in cui Victor non sa fare altro che restarsene lì
seduto con le mani in
grembo. Respinto, ancora e ancora. Yuuri si sente ancora peggio sapendo
cosa
sta passando per la testa del suo coach in quel momento, una litania di
che cosa ho fatto è colpa mia non
sarei mai
dovuto venire qui è colpa mia è colpa mia
è colpa mia. Lo sa e lo odia,
perché la colpa è sua.
Sente un senso
di appartenenza e di gelosia verso quella colpa che tutti sembrano
tanto
ansiosi di voler condividere con lui. Tutti ne vorrebbero almeno una
parte, ma
lui non se ne separa mai, ha raccolto tutti i pezzi della sua tragedia
e se li
tiene stretti, solo per lui, nascondendoli dentro un armadio o sotto al
letto,
da qualche parte dove nessuno può trovarli. Non vuole
compassione, soprattutto
non da quello che era il suo coach, ma se Victor si ostina a spartire
quel peso
con lui, non potrà mai chiuderlo fuori dal buco nero che
è diventato la sua
vita. Anche se, ormai, rimanere solo con la sua devastazione
è tutto ciò che
riesce a desiderare.
Yuuri vuole solo
arrendersi. Sente di meritarselo,
almeno un pochino, eppure finché Victor rimane lì
dovrà continuare a fingere
che valga la pena lottare.
E allora Victor
deve andarsene. Perché Yuuri non ce la
fa più.
«Non
devi rimanere qui. Non ce n’è bisogno. Non ha
senso.»
«Io voglio
rimanere. La riabilitazione sta andando bene, no? Il dottore dice che
migliorerai ancora. Qual è il problema, Yuuri?»
La
riabilitazione.
La riabilitazione sta andando bene. La riabilitazione.
Riabilitazione.
Che parola di
merda.
Nemmeno sei mesi
prima gareggiava per il primo posto
nella finale del Grand Prix. Adesso il suo traguardo a lungo termine
è finire
un giro di pista senza sbattere la faccia contro il ghiaccio.
Come
può andare
bene?
«Forse
sono io a non volere che tu rimanga. Non sei un
fisioterapista, no? Voglio dire, non sei nemmeno un vero coach. Sei un
pattinatore.»
Non un
pattinatore qualsiasi. Il migliore.
Quello che gli
sta facendo è ingiusto, e Yuuri lo sa.
Victor ha fatto qualsiasi cosa per lui – diavolo, nemmeno un
professionista
avrebbe potuto fare di meglio – ma lui non può
sopportarlo, non se il prezzo da
pagare è quel senso di colpa asfissiante. Victor gli ha
allacciato le scarpe quando
non riusciva a piegarsi, lo ha persino portato in spalla quando la sua
testardaggine lo aveva spinto più lontano di quanto potesse
sostenere. Ha
sopportato i suoi sfoghi, le sue lacrime, i suoi rancori. Ha rinunciato
a tre
mesi della sua carriera, tre mesi della sua vita,
in nome di qualcosa che tutti hanno chiamato solo cieca devozione. Per
Yuuri
non si è mai trattato altro che di inutile espiazione.
«Non
mi devi niente, Victor, hai capito? Non sei stato
tu a convincermi a fare quello stupido Salchow. Tornatene in Russia a
pattinare. O ad allenare Yurio, o chi ti pare. Qualcuno a cui le tue
lezioni
sarebbero utili a qualcosa.»
Victor si limita
a scuotere appena il capo. China la
testa verso il petto e una cascata di capelli gli oscura gli occhi, e
Yuuri non
riesce a capire costa stia facendo finché non lo sente
parlare di nuovo.
«Ci
siamo fatti una promessa» gli ricorda il suo
coach. Non c’è traccia di accusa nelle sue parole,
ma sono piene di una
consapevolezza che colpisce Yuuri dritto nel petto. È allora
che la vede, di
nuovo, la promessa che Victor porta ancora al dito e che ora sta
sfiorando con
le labbra.
Yuuri si odia,
si odia da morire. Ma deve farlo.
Gli crollano le
spalle mentre si sfila l’anello e
afferra la mano di Victor per sbatterglielo sul palmo. Ce lo preme
così forte
che sembra voglia imprimerglielo nella carne, ma quando allenta la
presa il suo
tocco è troppo leggero perché possa lasciarci
anche un po’ del suo calore.
«Non
vale più» gli dice, la voce ridotta a niente
più
di un flebile sussurro, fin troppo udibile in quel silenzio di rottura
«Sei
libero, Victor. Non vale più.»
Io
non valgo
più.
Victor guarda
prima l’anello sul suo palmo, che ormai
è solo una fascetta d’argento fredda come il
ghiaccio che gli ha portato via il
suo compagno, poi il viso di Yuuri. Non trova niente di quello che
vorrebbe
vederci – rabbia? Tristezza? Disperazione? Non lo sa nemmeno
lui. C’è solo, di
nuovo, quella rassegnazione alla sconfitta, non solo sulla pista di
pattinaggio, ma nella sua intera vita. Una sconfitta che Victor sente
anche
sua.
«Vattene,
ti prego. Vattene.»
E allora Victor
non può fare altro che andarsene.
∞
Nessuno
sembra stupirsi per la sua partenza improvvisa, forse perché
tutti immaginavano
che ormai fosse solo questione di tempo. Mari lo aiuta a imballare le
sue cose
e poi passa la scopa in quella che fino all’anno prima non
era stata altro che una
vecchia sala da pranzo in disuso, e all’improvviso era
diventata la residenza
di una stella del pattinaggio mondiale. Si rigira tra le dita un
lustrino
caduto da chissà quale costume di scena e poi lo getta nella
spazzatura. Non
avrebbe mai immaginato che sarebbe finita così.
Yuuri impiega un
po’ troppo tempo a salutare Maccachin
perché Victor non si accorga che sta solo tentando di
rimandare il loro addio.
Non lo biasima di certo: sa che a lui basterebbe una sola parola per
disfare le
valigie e cancellare la prenotazione del diretto per Mosca, ma sa anche che
quella
parola non arriverà. E allora aspetta quieto che Yuuri
riesca almeno a
incrociare il suo sguardo.
I minuti che
seguono sono imbarazzanti e pieni di non
detti. La famiglia Katsuki rumoreggia fuori dalla porta,
affaccendandosi per
finire di caricare i bagagli sul taxi tra i preparativi per
l’apertura del
centro termale. Il loro chiacchiericcio di sottofondo si amalgama in un
brusio
indistinto che fischia nelle orecchie di Yuuri insieme al frastuono
roboante
del sangue che affluisce troppo in fretta verso il cuore. Non
ricorderà nulla
dei minuti successivi, se non immagini sfuocate e la sua voce troppo
acuta e
tutte le parole che avrebbe tanto voluto dire, ma che in quel momento
non riusciva
a farsi venire in mente.
Mi
dispiace non
accompagnarti in aeroporto, ma oggi il mio ginocchio non ne vuole
sapere. Non
importa, non preoccuparti, però ricordati di passare dal
medico. Sì, certo, lo
farò. Allora ciao. Ciao, fai buon viaggio. Ti chiamo appena
arrivo. No, non
importa, non fa niente, avrai altro da fare. No, davvero, voglio sapere
cosa
dice il dottore. Non è niente di grave, tranquillo,
passerà presto. Victor, è
ora di andare, il taxi è pronto. Va bene, arrivo, solo un
secondo. Ciao Yuuri,
ci sentiamo presto. Sì, certo, ci sentiamo.
Ciao.
E tutto finisce
così, un po’ a metà, come se entrambi
fossero rimasti in sospeso per qualcosa che, alla fine, non
è arrivato. Yuuri
assiste in diretta all’epilogo di quella che è
stata l’involuzione del loro
rapporto, chiedendosi come diavolo hanno fatto le cose a precipitare
così
velocemente. Si erano incontrati, avevano imparato a conoscersi, si
erano
avvicinati sempre di più – dannazione, si erano anche baciati
– e poi
l’incidente, il dolore, le porte sbattute, il freddo delle
sue mani,
l’esitazione di quelle di Victor, gli abbracci che partivano
dal cuore e non
arrivavano mai a destinazione, è
colpa
mia, no, tu non c’entri,
i mal di
testa, quel dannato ginocchio che non voleva mai obbedirgli, la
delusione, ti ho rovinato la vita
– lo pensano
entrambi e non lo dice nessuno – pattina,
puoi farlo, io lo so, le lacrime di rabbia,
io voglio solo arrendermi.
E poi,
inaspettato, il sollievo. Forse l’unica
sensazione sincera che prova da mesi, ormai. Victor se
n’è andato. Si sono
salutati come fossero estranei e fa male, male da morire, ma se
n’è andato.
Yuuri torna in
camera sua e striscia di nuovo sotto le
coperte. Dorme fino a mezzogiorno, poi riemerge dal groviglio di
coperte che è
diventato il suo letto e si prepara per le fisioterapia. Non gli
interessa di
come andrà, non ha più nulla da dimostrare. Non
c’è più motivo di sentirsi
frustrato se qualcosa non funziona – ormai il tempo che sta
sprecando è solo il
suo, in fondo. Recupera perfino il bastone da dietro la porta,
perché è inutile
fingere di non averne bisogno, ora che non deve provare a tutti che
può farcela
da solo. Nessuno si aspetta più che lui torni a pattinare il
prima possibile, e
insieme a quella pressione insostenibile se ne va anche la frustrazione
per non
essere mai all’altezza delle aspettative. In cielo non
c’è nemmeno una nuvola,
quel giorno. La fisioterapia è perfino piacevole senza i
suoi occhi straziati addosso.
Fa ancora male,
certo, ma almeno il dolore resta solo
fisico. Aveva proprio ragione, le cose vanno davvero meglio senza
Victor.
Non torna
più alla pista di pattinaggio, anche se ogni
tanto la sua passeggiata quotidiana lo porta pericolosamente vicino
all’Ice
Castle. A volte si limita a guardarlo da fuori, a volte cede al
richiamo del
ghiaccio ed entra – solo per salutare Yuko, certo, che si
offre sempre di
tenere aperto il centro dopo l’orario di chiusura, se vuole
fare qualche giro
di pista quando non c’è più nessuno.
Yuuri non accetta mai, la ringrazia e
spesso si ferma a scambiare quattro chiacchiere con la sua famiglia.
Tutti
evitano di parlargli di Victor, ma la televisione non gli risparmia
alcun
dettaglio.
La notizia del
suo ritorno all’agonismo non tarda ad
arrivare, anche se per la conferma ufficiale deve aspettare la
cerimonia di
apertura del Grand Prix. Quando tocca a lui presentare il suo tema per
la
stagione, i media impazziscono. Tra i flash che sembrano riempire
l’intera
stanza e i giornalisti che si contendono la sua attenzione, Victor non
vacilla
nemmeno per un istante. Si alza in piedi e tiene la sua cartella
stretta al
petto, mentre con l’altra mano accetta il microfono che gli
porge il
presentatore.
«Signor
Nikiforov,
crede che si troverà in svantaggio rispetto agli altri
partecipanti dopo la sua
lunga pausa dal pattinaggio competitivo?»
«Ritiene
che la
sua età possa rappresentare un ostacolo?»
«La
prego, signor
Nikiforov, solo una domanda! Cosa lo ha spinto a partecipare al Grand
Prix di
quest’anno?»
«Signor
Nikiforov,
quali pensa siano le sue possibilità di vittoria?»
«Il
suo ritorno ha
qualcosa a che fare con l’incidente di Katsuki Yuuri?
È vero che il suo allievo
non tornerà più a pattinare?»
Victor non
sembra turbato dal frastuono dei reporter e
aspetta pazientemente che torni il silenzio prima di prendere la
parola. Parla
con calma e lentamente, senza alcuna esitazione.
«Non
ho alcun dubbio sull’esito della competizione»
sorride, e dal divano del suo salotto sorride perfino Yuuri. Sulla mano
che
stringe il microfono non c’è traccia
dell’anello che è sparito anche del suo
dito «Partecipo per vincere.»
A quel punto il
cicaleccio della stampa diventa
assordante. Altre mani volano in aria per chiedere la parola, ma Victor
non
sembra prestar loro attenzione e si limita a girare il blocco appunti
verso la
telecamera. Al centro del foglio, quasi completamente bianco, campeggia
una
sola parola.
Dawn
«Questo
sarà il tema della mia stagione. Non ho altro
da aggiungere» inclina graziosamente la testa e regala un
altro sorriso alle
telecamere «Spero farete tutti il tifo per me.»
Yuuri si sporge
in avanti e spegne la televisione,
ignorando le proteste di Mari e Minako che avrebbero voluto continuare
a
seguire la diretta della cerimonia. Mentre infila la giacca per uscire,
diretto
alla sessione di fisioterapia, si chiede se chiamare Victor per
congratularsi
con lui. Ormai sono settimane che non parlano al telefono, dopo
quell’imbarazzante prima volta che era stata tutta un
susseguirsi di “Victor,
io…” e
“No,
non dire niente, lo capisco”, “Sì,
però volevo-”, “Yuuri, va bene
così. Come va
il ginocchio?”, “Tutto bene. Ora scusa, devo
andare”, “D’accordo, ci sentiamo
presto”, e “D’accordo, ti chiamo
io” anche se in verità non
l’aveva mai
chiamato. C’erano stati messaggi che non riuscivano a dire
niente e silenzi
molto più espliciti. Victor in fondo non glielo aveva
nemmeno accennato che
avrebbe partecipato al Grand Prix. Forse non le voleva, le sue
congratulazioni,
e poi cosa c’era da congratularsi? Ancora non aveva vinto
nulla.
Il tempo passa e
quella telefonata non la fa mai.
Hasetsu
è una piccola città, ma per quanto possa
provarci Yuuri non può esiliarsi dal mondo. Le notizie del
ciclo di successi di
Victor continuano ad arrivare da ogni parte – sua madre,
Minako, perfino
l’edicolante sotto casa. Nessuno sembra pensare o accettare
che lui di quel
Grand Prix non voglia saperne niente. Vorrebbe solo concentrarsi sulla
sua
guarigione, sulla nuova alba che Victor gli ha promesso, sulla
possibilità di
ottenerla che gli ha concesso nel solo modo che conosceva. Ormai
può fare a
meno del bastone e non zoppica neanche più, tranne quando
è troppo stanco per
riuscire a camminare dritto. Il suo fisioterapista è molto
fiero di lui e anche
Yuuri sente un cauto affetto per se stesso emergere sotto tutti i
rimpianti e
le disillusioni.
Il giorno della
finale si chiude in camera sua e si
rifiuta di uscire. Sa che Victor si è qualificato, lo
saprebbe anche se sua
sorella non si fosse premurata di informarlo, perché
andiamo, è Victor. Prima
ancora di essere suo amico
era un suo fan. Ci aveva creduto fin dall’inizio, forse
più di tutti gli altri.
È
quasi sera quando un flebile bussare preannuncia
l’arrivo di sua madre. Yuuri si volta verso la porta e la
vede entrare con il
cordless stretto tra le mani, cullandolo come se fosse un figlio.
«È
finita?»
Hiroko fa un
cenno affermativo con il capo e Yuuri
annuisce a sua volta. Per qualche secondo nessuno dei due aggiunge
altro, ma
poi sua madre glielo dice.
«Sta
arrivando.»
A Yuuri non
serve sapere altro. Sa che la sua gamba
glielo farà rimpiangere, ma scatta in piedi e si infila le
scarpe senza nemmeno
allacciarle. Corre fuori dalla stanza con tanta foga che nessuno
potrebbe
paragonarlo allo stesso ragazzo che fino a poche settimane prima si
trascinava
in giro appoggiandosi a un bastone troppo precoce rispetto ai suoi
ventiquattro
anni.
Yuuri ignora i
richiami ansiosi dei suoi genitori e si
precipita fuori di casa con la giacca buttata distrattamente sulle
spalle.
Forse pensano che stia scappando, che non voglia rivederlo, ma loro non
possono
sapere. Non possono nemmeno immaginare con quanta cieca
fedeltà Yuuri sia certo
che è lì che Victor lo cercherà. Ed
è lì che lui si farà trovare, forse in
ritardo, forse senza capire bene perché, ma sarà
lì.
Non dovrebbe
correre, non ancora, probabilmente se ne
pentirà. Il dolore parte dal ginocchio destro e si espande
un po’ di più ogni
volta che il piede tocca terra, arrivando a bruciargli il polpaccio, la
coscia,
a un certo punto addirittura il petto. Yuuri corre ancora
più forte e si lascia
consumare dalle fiamme. Gli spuntano delle lacrime agli angoli degli
occhi, ma
lui nemmeno se ne accorge. Gli viene quasi da ridere.
Quando
l’insegna dell’Ice Castle appare da dietro
l’ultima curva, si prende finalmente il lusso di rallentare e
riprendere fiato.
I polmoni lo implorano per almeno qualche secondo di quiete, ma Yuuri
non può
fermarsi. Continua a camminare, anche se ormai deve trascinare la
gamba, e
spinge la porta d’ingresso entrando con la furia di un
tornado. Yuko lo guarda
dall’abitacolo che usa come ufficio e non dice niente.
Accenna un sorriso e un
saluto che Yuuri non ricambia mentre gli lancia le chiavi della pista.
«Ricordati
di chiudere, quando te ne vai» si
raccomanda prima di uscire. Yuuri annuisce ed entra nel palazzetto
vuoto.
Ha ancora il
fiato corto quando si siede su una
panchina a bordo pista. Il tempo passa e anche il suo respiro torna
regolare,
mentre guarda la distesa di ghiaccio che gli si apre davanti come
l’ultima
salita da percorrere prima di portare a termine la sua scalata.
L’unico tratto
che non può percorrere da solo. La cinghia dei pattini pesa
dolorosamente tra
le sue dita indolenzite dal freddo e allora li lascia andare,
permettendo che
cadano a terra con un tonfo sordo.
Non gli rimane
che aspettare.
Passano ore, o
forse minuti, ma non fa differenza,
perché alla fine Victor arriva.
Yuuri lo sente
prima ancora che i suoi passi risuonino
nell’immensità dello spazio vuoto. Aspetta che si
sieda accanto a lui prima di
voltarsi a fronteggiare i suoi occhi.
Victor sorride.
Al polso ha il nastro della medaglia
d’oro con cui sta giocherellando, passando il pollice su ogni
sporgenza e
incavatura.
Il cuore di
Yuuri salta un battito. Una gioia
spontanea e un po’ infantile, ultima erede
dell’adolescenza passata ad
appendere poster di Victor Nikiforov sulle pareti della sua stanza, gli
piega
gli angoli delle labbra verso l’alto.
«Hai
vinto» dice solo, con voce un po’ roca, e prima
che possa accorgersene il suo braccio scivola su quello di Victor.
Cerca la sua
mano e la stringe forte, sorridendo quando lo sente ricambiare senza
esitazioni.
«Abbiamo
vinto» risponde Victor. Si sfila la medaglia
dal polso e gliela mette al collo, scuotendo piano la testa quando lo
sente
iniziare a protestare «È tua. L’ho vinta
per te.»
Yuuri non
può nemmeno ribattere per colpa di quel
groppo in gola che sembra bloccargli tutte le vie respiratorie.
All’improvviso
non riesce più a guardarlo in faccia, ma le dita di Victor
si posano sul suo
viso e lo costringono ad alzare di nuovo lo sguardo.
«La
nostra promessa, te la ricordi?»
Yuuri se la
ricorda, ricorderebbe anche se Victor non
estraesse dalla tasca la piccola scatola che contiene i loro anelli.
È lui il
primo a prenderne uno e infilarlo al dito del suo ex coach, anche se le
mani
gli tremano così tanto che rischia quasi di farlo cadere a
terra. Solo quando
il cerchietto d’argento torna a stringere anche il suo
anulare, dopo tanti mesi
di assenza, si accorge di quanto si sia sentito incompleto fino a quel
momento.
Adesso sembra davvero che tutti i pezzi siano finalmente tornati al
loro posto.
Victor si
inginocchia davanti a lui e gli sfila le
scarpe. All’inizio Yuuri prova a protestare – aspetta, Victor, non so se ci riesco, sono mesi che
non lo faccio –
ma alla fine cede e si lascia infilare i pattini ai piedi. Gli permette
perfino
di aiutarlo ad alzarsi, forse perché sa che non riuscirebbe
mai a reggersi da
solo. Le gambe gli tremano troppo e la corsa che lo ha portato fino
all’Ice
Castle lo ha sfiancato più di quanto vorrebbe ammettere.
Victor
è il primo a salire sul ghiaccio. Gli prende
entrambe le mani e lo tira gentilmente verso di sé,
guidandolo lungo il bordo
della pista. Per qualche minuto pattinano così, in silenzio,
senza lasciare mai
la presa l’uno sull’altro. Yuuri non ha
più paura di cadere perché sa che
Victor non lo lascerebbe mai andare. Chiude gli occhi e si riprende il
freddo,
il sibilo del ghiaccio sotto le lame, la sensazione di poter spiccare
il volo
da un momento all’altro. Il suo pattinaggio.
Il suo ginocchio
ritorna sano, le platee si riempiono,
la finale del Grand Prix aspetta solo lui. Gli occhi del suo allenatore
sono
pieni di orgoglio mentre lo guardano concludere la sua esibizione senza
nemmeno
una sbavatura.
Basta riaprire
gli occhi per rendersi conto che quello
che sarebbe potuto succedere, se solo non avesse tentato quel Salchow,
non è mai
successo. Solo una cosa resta la stessa, lo sguardo di Victor che gli
dice va bene così, Yuuri. Sono
fiero di te. E
allora va davvero bene così.
Le mani di
Victor si stringono attorno alle sue. Ormai
sono al centro della pista.
«Salta,
Yuuri.»
E Yuuri salta. I
suoi piedi si staccano dal ghiaccio
mentre le braccia di Victor lo sorreggono, portandolo più in
alto di quanto
avrebbe mai potuto immaginare, più lontano di quanto sarebbe
mai potuto
arrivare da solo.
Quando atterra
di nuovo le sue labbra trovano quelle
di Victor come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non
stanno nemmeno
pattinando più, serrati in un abbraccio tanto stretto da
togliere il fiato.
Yuuri nasconde le lacrime seppellendo il viso nel petto del suo ex
allenatore.
Va
tutto bene, si
ritrova a pensare, con una sorta di malinconico stupore,
va tutto bene. Ed è vero.
Si porta una mano al
cuore e si accorge che non gli fa
più male.
Niente, ringrazio i Sonata Arctica per aver fatto da colonna sonora alla stesura e Yuuri e Victor per essere così gay <3 df