II – La Leonessa
Pisa
è stata conquistata.
Il
re è morto.
E
il principe… il principe è...
Era
notte quando il carro di Agamennone giunse a Micene; la
città era
illuminata da costellazioni di fiaccole, il cui fumo si nascondeva
nel buio e mi avvolgeva in un abbraccio soffocante.
Mio
figlio… dov’è il mio bambino?
Le
silenziose lacrime che i miei occhi erano riusciti a liberare si
erano ormai seccate sulle gote come cicatrici; la mia mente era
schiacciata da una fitta nebbia che cancellava ogni sensazione,
torturata da orrende visioni.
Dov’è
il mio bambino? Ricordo le mie grida… ma lui
dov’è?
Agamennone
mi accarezzava i riccioli sfuggiti all’acconciatura sfatta,
senza
smettere di sorridere; ogni suo gesto trasudava possessione e brama,
il suo tocco era il sibilo di un serpente.
Più
del dolore che avrebbe accompagnato la mia notte di nozze, tuttavia,
nei brevi attimi di lucidità tremavo per ciò che
il giorno dopo
avrebbe avuto inizio: una dorata vita da prigioniera, regina eppure
schiava, uno splendido trofeo di guerra. Quanto avrei preferito
essere gettata in strada come un cane, essere dimenticata ed evitata;
invece sarei stata trascinata nel letto dell’uomo a me
più odioso,
costretta ad assecondarne i desideri.
“Comportati
da regina”, mi sibilò lui a un tratto,
stringendomi con forza un
polso. “Ti ho scelto come sposa, da te pretendo un
comportamento
esemplare.” La sua presa si sciolse un istante prima che
varcassimo
la porta leonina e la folla ci accogliesse con
grida gioiose, quindi il re riprese ad assaporare la mia pelle con le
sue dita sanguinarie. “Guardati attorno”, mi
sussurrò, “osserva
la città che ti circonda: è ricca, non conosce
privazioni, e sono
certo che imparai ad amarla come hai fatto con Pisa… e anche
di
più.”
Dovetti
trattenermi fino alla spasimo dal rivolgergli le parole più
sprezzanti e astiose, ma lo sguardo che gli lanciai rivelava quali
fossero i miei reali pensieri.
I
suoi occhi mi fissarono con scherno per qualche istante, quindi si
tramutarono in pozze buie, così spaventose che dovetti
abbassare lo
sguardo per non gridare. “Che
cosa hai fatto a mio figlio?”, sentii poi pronunciare la mia
stessa
voce.
Silenzio.
“Era stirpe nemica.”
Due
sole parole, per rivelarmi la peggior nefandezza di cui si sarebbe
potuto macchiare e che il mio cuore, fino a quel momento, non aveva
voluto riconoscere. “Era solo un bambino...”,
mormorai, cercando
disperatamente l’aria e chiedendomi perché
quell’incubo non
fosse ancora cessato. Perché?
“Ne
avrai altri”, fu la fredda risposta, e a quel punto sorrisi
con
disprezzo, alzando il capo. “E se quello fosse il destino
anche dei
tuoi
figli?”, sibilai, e una piccola stilla di piacere mi
uncinò il
petto quando vidi il re afferrare con rabbia il bordo del carro.
Quelle
furono le uniche parole che ci scambiammo durante il viaggio; quando
giungemmo alla reggia, fu lo stesso Agamennone a trascinarmici
dentro, separandosi da me solo dopo avermi consegnato alle ancelle,
perché mi preparassero alla notte.
Quando
infine venni condotta alla camera nuziale, lui era già
lì, il viso
rivolto a una Luna così enorme che la grande finestra non
riusciva
ad abbracciarla nella sua interezza. Appena sentì i miei
passi si
voltò e mi fissò con i suoi occhi di pietra nera,
il candido torace
scoperto drappeggiato dal velo dell’oscurità.
Se
lo avessi conosciuto prima di Tantalo lo avrei desiderato con ardore;
ma tutta la bellezza si sfaldava nella scia di sangue che gli faceva
da mantello, moriva tra quelle mani che ignoravano la pietà.
Non
chinai il capo quando lui mi si avvicinò; non lo feci quando
mi
colpì con un violento schiaffo, né quando mi
prese per la vita e
sollevandomi mi sbatté contro la parete, graffiandomi
schiena e
braccia. “I miei figli non subiranno la sorte del tuo
bastardo”,
sibilò, “perché io non sono debole
quanto lo era Tantalo. Io
comando, ciò che voglio lo ottengo, e sono in grado di
proteggere
chi mi è caro.”
“Tantalo
non aveva la tua stessa forza, è vero”, replicai
soffiando, “ma
ricorda che tu mi hai preso con il tradimento. Non gloriarti di
questo rapimento… grande re.”
Agamennone
lasciò la presa; scivolai al suolo battendo malamente i
gomiti, e
quando mugolai dal dolore lui sorrise, compiaciuto, per poi
inginocchiarsi di fronte a me. “Dimenticati ciò
che hai visto e
sopportato, perché non ti farò del
male… se accetterai la tua
Sorte.
Se
accetterai me.”
La
mia risposta era chiara nel disprezzo che gli occhi urlavano; ma la
sua espressione non mutò, come se il rancore non lo lambisse.
In
quel momento capii: tutti i miei tentativi di resistere non sarebbero
valsi a nulla. Agamennone
vinceva sempre, e ancora una volta l’aveva
fatto, mostrandomi quanto fossi sola.
Chi
avrebbe accolto il mio grido furioso, chi avrebbe asciugato le
lacrime di una donna, un mero oggetto di scambio, chiamata
più volte
maledizione e peso? Le sue pretese erano legittimate dal potere e
dalle leggi della guerra, e per questo non temeva la mia furia: mi
giudicava debole, indifendibile... patetica.
Ma
potrebbe arrivare il giorno in cui sarai tu a temere, pensai,
potrebbe
arrivare, e allora... allora...
I
pensieri furono spezzati dai miei singhiozzi, seguiti poi da un
pianto nero come le parole che reprimevo nel cuore.
Dov’era
Clitemnestra la Fiera, allora? Era stata spezzata e uccisa insieme
alla sua famiglia? Era fuggita in luoghi dove la violenza non poteva
giungere, dove l’odio non aveva motivi per esistere?
Me
lo chiesi per tutta la notte, rannicchiata in un angolo della camera
e tenuta sotto la sorveglianza dello sguardo del re, e continuai a
farlo anche il giorno dopo, da quando il Sole apparve timidamente per
riscaldare i tetti della città.
Agamennone
lasciò il letto, andò alla finestra; sorrise al
fresco mattino e ai
canti che la brezza portava con sé, per poi voltarsi.
“Li senti,
figlia di Tindaro? Sono imenei, doni per noi”,
mi sussurrò.
Le
nozze che poche ore dopo si svolsero non furono felici come le prime:
nonostante i canti e i balli che mi circondavano, nonostante
l’aria
intessuta di profumi e musica, io sentivo solo me stessa urlare, le
narici piene dell’odore del sangue, come se mai avessi
lasciato
quella buia galleria dove avevo visto gli Inferi aprirsi e fossi
stata intrappolata per sempre là, tra le spire di un incubo.
Quell’orrenda
sensazione mi accompagnò per tutti i festeggiamenti e mi fu
al
fianco fino nel talamo, dove Agamennone, dopo avermi sussurrato
parole che la tristezza non mi fece comprendere, diede sfogo al suo
desiderio. Non ebbe alcuna importanza il fatto che usò
gentilezza e
che il mio corpo reagì alle sue carezze: tra i sospiri di
quella
notte guardai il mio futuro contorcersi in una trama indesiderata, e
quando
gridai non lo feci per il piacere; ma questo rimarrà sempre
un
segreto celato nel mio cuore, dove i ricordi non possono essere
uccisi; lì, nell’unico
luogo dove io
posso essere ancora mia... totalmente, e solamente, mia.
Nei
primi mesi furono in molti a fare considerazioni sulla mia nuova
vita: Micene mormorava che per me la Sorte non fosse mutata, dato che
il re aveva avuto la bontà
di sposarmi, salvandomi dall’ignominia della
schiavitù. Ero
ancora regina, solamente di un’altra
città; quindi, che la mia voce non osasse alzare lamentele e
richieste, che il mio temperamento fosse quieto e non rancoroso,
perché gli Dèi mi avevano concesso
l’onore di sposare la Potenza.
Ciò
mormorava la mia
gente, accusando in segreto lo sguardo con cui li osservavo avanzare
nel mégaron
ed esporre le loro sfortune, ma temendolo quando lo posavo sulle loro
teste.
Che
cosa potevano sapere, comprendere, di ciò che provavo?
Era
vero, così come a Pisa scioglievo il nodo dei giorni negli
appartamenti femminili, tessendo e controllando l’operato
della servitù, oppure occupandomi della mia bellezza, facevo
lo
stesso a Micene; ma era un’altra, in verità, a
farlo.
Quando
mi specchiavo, non riconoscevo più il mio volto: ero davvero
io
quella donna senza espressione?
Ero
davvero io quella che sgridava con furia le ancelle a ogni invisibile
imperfezione nel loro lavoro, ero davvero io quella che tesseva i
pepli più meravigliosi e poi li faceva a pezzi?
Ogni
giorno era peggiore dei precedenti: aprivo gli occhi, fissavo il
soffitto della camera e mi chiedevo cosa tenesse ancora insieme quel
grumo di schegge tremolanti in cui ero stata ridotta, e quando sarei
potuta essere libera di cadere in frantumi e divenire aria. Il
silenzio era l’unica
compagnia che non disprezzassi... ma con esso arrivava, spesso, anche
l’inquietudine: perché mai, mai avevo visto tanta
oscurità come
nella casa di Agamennone.
Non
sapevo per quale motivo, ma la stirpe a cui ero stata unita era
maledetta, e ben presto compresi che il sangue che il re si lasciava
alle spalle era molto più di quanto avessi scorto, e non
sporcava
solamente lui: era il marchio di una colpa che il tempo non avrebbe
estinto [1], che sfrigolava come fiamma sotto la pelle
dell’Atride,
pronta a mordere e condannare anche me.
Così,
tra timori e ricordi, svolsi il filo dei miei istanti per lunghi
giorni; poi, un mattino, ancor prima di aprire gli occhi compresi che
stava per accadere qualcosa. Mi alzai a sedere nel talamo con il
cuore che batteva dolorosamente, e senza nemmeno vestirmi mi diressi
alla finestra; la Luna sbiadiva nel roseo manto dell’alba,
eppure,
ne sono sicura, la scorsi rifulgere quando posai gli occhi su di Lei.
Cercai di comprendere che cosa la sua luce mi volesse dire, e quella
sensazione di attesa
mi accompagnò per tutto il giorno; così, quando
una delle ancelle
mi punse inavvertitamente la spalla con uno spillone, me ne accorsi
solamente quando una goccia di sangue piombò sul dorso della
mia
mano.
“Perdonami,
mia signora...” sentii mormorare la fanciulla, e allora le
rivolsi
lo sguardo, la vidi rannicchiata su sé stessa al suolo, in
attesa di
essere punita. Se questo fosse accaduto il giorno prima,
l’avrei
torturata con quello stesso spillone fino a farla urlare; invece,
quando allungai la mano fu per accarezzarle con calma i capelli.
“Alzati”, mormorai, “e riprendi il tuo
lavoro.” Le sorrisi,
quindi ripresi a fissare il cielo; e quando il Sole stava per
iniziare la lunga discesa, mi rifugiai nei giardini.
Le
ore scorsero veloci passeggiando senza meta tra gli alberi, fino a
quando una voce calma mi chiamò. “Lasciami sola,
chiunque tu sia”,
sussurrai, poi qualcosa mi spinse a voltarmi.
Sobbalzai
quando riconobbi nell’elegante figura che mi stava innanzi la
donna
senza nome che avevo già incontrato nel palazzo di Tantalo,
e un
brivido mi attraversò la schiena, bloccandomi.
Lei
sorrise con la stessa dolcezza con cui parlava, quasi avesse appreso
i miei pensieri, e mi si avvicinò lentamente. “La
tua fierezza è
proprio qui, davanti ai miei occhi: ma è solamente
un’ombra di
quella che era prima. Sono davvero bastati così pochi
istanti per
cambiarti e farti smarrire, regina?”
Rimasi
in silenzio, sentendomi esposta, nuda, davanti al sorriso della
sconosciuta, che abbassò lo sguardo. “Ho sofferto
con te, dolce
Clitemnestra, e ne soffro ancora. Ti avevo portato la gioiosa notizia
di un figlio, e questo bambino l’ho visto morire nel silenzio.
Stai
provando ciò che ogni madre non ha nemmeno il coraggio di
pensare, e
quanto te mi sento violata.
Questo
mondo protegge gli uomini, riduce all’impotenza noi donne: ma
noi
possiamo ancora e sempre combattere, non credi?
Una
spada non fa di sé un’arma, se non nel modo in cui
la si usa;
tutto, con intelligenza e con la giusta decisione, può
servire a
proteggerti e a riportare la giustizia.”
“Nessuna
donna avrà mai un tale potere”, ribattei dopo un
lungo istante di
silenzio, “nessuna.”
“In
realtà non è così. A volte, una donna
può rivelarsi l’inaspettato
nemico, il più subdolo e spietato. Che cosa limita
l’amore di una
madre verso i propri figli? La Morte stessa non fa che
accrescerlo.”
Scossi
il capo, e la sconosciuta annuì leggermente alla mia
incredulità.
“Il tuo dolore è inestinguibile e maligno, e le
mie parole ti
giungono incomprensibili; ma un giorno riuscirai a capirle.
Allora,
niente si opporrà a te: i fiumi placheranno la furia e le
pietre si
piegheranno... e una nuova Luna sorgerà.”
Rimasi
impietrita, mentre a quelle parole rispondeva un’immagine: la
misteriosa statua che una volta avevo sognato, la dominatrice delle
fiere e della Natura. “Io... io...”
La
donna si voltò, senza ascoltarmi. “È di
nuovo
Luna piena, regina, e lo sarà per altre tre”,
mormorò, per poi svanire nella luce.
Quando
compresi quelle parole mi premetti una mano sul ventre, tremando;
quindi mi accasciai sul terreno, e lì piansi a lungo.
Quella
notte, quando le porte del talamo si chiusero e Agamennone mi prese
tra le braccia per rovesciarmi sul letto, io lo fermai. “No,
questa
notte non mi avrai”, mormorai, “perché
ballerò a lungo, per
ringraziare gli Dèi della vita che cresce dentro
me.”
Gli
occhi del re si ingrandirono, rifulsero. Non mi mossi quando lui mi
abbracciò, non ricambiai i suoi baci: volevo allontanarmi
dal suo
sguardo, rimanere in completa solitudine.
La
sua testa infine annuì, le sue braccia si aprirono:
“Danza fino
all’alba
e anche oltre, mia regina”, mormorò, e
l’eco delle sue parole
era appena svanito che come una farfalla mi librai per i corridoi del
palazzo, raggiungendo i giardini e liberando la mia energia in una
sfrenata preghiera, bagnata dal plenilunio e dalla sua benedizione.
Nei
giorni successivi, la premura materna scacciò in parte
l’astio, e
anche il comportamento di Agamennone mutò: davanti al mio
ventre
ogni mese più gonfio, la sua prepotenza allentava il morso,
lasciando che fosse una sorta di timore reverenziale ad
accompagnarlo; e anche le sue ombre si ritraevano.
Quando
finalmente il dono tanto attese nacque, scoprimmo che era una
principessa dai capelli corvini, che colpiti dalla luce divenivano
onde violette, e dai grandi occhi ambrati: uno sguardo consapevole,
quasi antico,
li illuminava, sfiorando appena l’aria e la
realtà, rivelando una
profonda quanto inspiegabile conoscenza, unita alla più
innocente
dolcezza. Era diversa, lo comprendemmo entrambi; e come tale, seppi
subito che avrei dovuto sempre sorvegliarla.
Immersa
in quei pensieri, non mi accorsi che Agamennone si era avvicinato
alla balia e aveva preso la piccola dalle sue braccia; per un istante
tremai, poi lo guardai accostare lentamente la fronte alla sua.
“Atta
[2] ti proteggerà sempre, mio fiore.
Sempre”,
mormorò, e la bambina lo guardò con
intensità, quasi volesse
scrutargli le profondità del cuore; quindi con una delle sue
manine
gli strinse un dito, in una tenera richiesta di affetto.
Dopo
qualche istante il re la portò da me, e io le accarezzai il
capo.
“Ifigenia... mia adorata”, mormorai. Alzai poi gli
occhi su di
lui, e con un gesto secco feci allontanare tutti. “Ricordati
di
questa promessa”, gli sussurrai quando fummo da soli,
“ricordati
le parole che hai appena pronunciato. Gli Dèì ci
guardano, e non
dimenticano... non lo fanno mai.”
La
mia voce fu potente come il rombo di un tuono, resa ferma
dall’amore
che provavo per la nostra piccola rosa: avevo già perso un
figlio,
non avrei sopportato la morte di un altro... senza
rischiare di impazzire e osare l’inaudito.
Agamennone
chinò il capo; quando lo rialzò, c’era
verità nel suo sguardo.
“Ogni cosa che ho detto è una promessa; ai Beati
come a te, mia
leaina
[3], io non ho mentito.” Annuì; e quella fu la
prima volta che
tollerai le sue mani sulla mia pelle e fui contenta di sentire la
sua voce.
In
seguito, come mi era stato predetto, ebbi altri tre figli: Elettra la
Splendente, la rondine dagli occhi neri ma dalla chioma di fuoco, che
fin da subito si mostrò così legata al padre da
dormire o quietare
il pianto solamente nelle sue braccia; Crisotemi, timida e dolce,
priva di quel fuoco che le sue sorelle possedevano; e infine Oreste,
il più perfetto simulacro di Agamennone e il suo orgoglio.
Ognuno
di loro era così bello da farmi temere l’invidia
degli Dèi, e io
lo vegliavo con tutte le mie forze; tuttavia, era proprio Ifigenia e
la sua anima cangiante a trattenere il mio sguardo più a
lungo.
“È
diversa, e chi si distingue raramente trova gioia”,
sussurravo ad
Agamennone nella notte, stringendomi contro il suo petto.
Continuavo
a rimpiangere Tantalo e la mia vita precedente, ma lentamente la sua
presenza diveniva sempre più sopportabile.
Lui
mi accarezzava la schiena e i capelli, mi parlava fino a quando non
calmavo le mie paure; e se da una parte la sicurezza della sua lingua
mi intimoriva – era superbia quella che a volte percepivo,
nascosta
e sibilante tra le parole –, dall’altra mi
rassicurava: lui era
veramente potente, dove posava lo sguardo giungeva la vittoria; si
diceva che fosse lo stesso Zeus a vegliarlo, tanta era la sua forza.
E
tuttavia... tuttavia c’era una cosa che avevo imparato e mai
avrei
dimenticato: nessuno, nemmeno il Cronide [4], può cambiare
il corso
della Luna, Dea dal volto mai uguale.
Il
primo presagio, in un dolce mattino, fu il volto degli uccelli: basso
e circolare, come quando si avvicina una tempesta, e pieno di grida.
Tuttavia, il cielo rimase sereno per giorni e giorni.
Il
secondo presagio, in un lento pomeriggio, furono le campagne: il
grano si piegò sotto un vento invisibile, e dai canneti che
costeggiavano i rivi emerse un pianto; ma non c’era nessun
uomo o
animale a vagare in quei luoghi.
Il
terzo presagio, in una notte fredda, furono la terra e il cielo: la
prima si spaccò e ne uscì sangue che subito
svanì, il secondo
divorò le stelle una a una, per poi liberarle dopo
interminabili
istanti.
A
questi segni, che furono i più terribili, ne seguirono
altri, e
paura e sconcerto si riversarono sempre di più nel nostro
palazzo,
assumendo la forma di preghiere, di racconti di fuochi e tenebre.
Intimorita
da quelle orrende visioni, molte notti mi svegliai di soprassalto,
stringendo al petto Oreste e correndo dalle mie figlie, timorosa di
non trovarle nei loro letti; quando le scorgevo nei giardini urlavo
loro di rientrare, per poi abbracciarle strettamente e implorare loro
di essere prudenti, che avremmo
dovuto essere pronti.
Furono
giorni di silenzio e tremiti, quelli: temevamo ogni fruscio troppo
forte, ogni fulmine che squarciava il cielo del primo mattino, la
goccia di pioggia che si frantumava al suolo; e come Micene, anche le
altre città stavano vivendo le nostre stesse irreali vicende.
“L’aria
è priva di ogni odore umano”, mormorava
Agamennone, mentre
osservavamo le tempeste abbattersi sui tetti della città,
“perfino
di quello della vita. Il vento porta profumi mai percepiti
prima.”
Alzava poi lo sguardo verso il cielo intrappolato dalle nubi, lo
osservava. “Questa è una guerra fra
Dèi.”
“Forse
è così... ma la loro ira riguarda anche
noi”, rispondevo.
“Sì.
E nessuno può essere sicuro che la battaglia non sposti le
sue forze
tra di noi... un giorno”, terminava.
Tuttavia,
con la medesima velocità con cui tutto era iniziato,
improvvisamente
cessò: le notti divennero quiete, la Natura riprese il suo
ciclo,
nessun rombo ruppe più la tranquillità del giorno.
Io,
tuttavia, non riuscii a crederci in quella pace: non aveva ancora
nome ciò che ci sovrastava, ma non sarebbe rimasto celato
per
sempre. Io, che avevo già vissuto quella realtà,
sapevo che quello
non era stato nemmeno l’inizio, e nonostante i giorni
iniziassero a
rincorrersi sempre più velocemente, ogni nuovo mattino
scrutavo
l’orizzonte, in attesa.
Passarono
anni prima che i fili del Destino iniziassero a delineare una trama;
e tutto iniziò in un pomeriggio uguale agli altri.
Se
chiudo gli occhi, ogni istante di quel giorno perduto mi si svela: le
dita abili di Ifigenia ed Elettra che corrono sul telaio e formano un
disegno sempre più splendido, il mio sguardo che accarezza
il bruno
e il rame dei loro capelli, le risate di Oreste, ancora così
piccolo
e fragile, che gioca con l’orlo del velo e mi guarda,
cercando i
miei occhi e ridendo ancora più forte quando li trova.
“Non
tentarmi, piccolo, o potrei mangiarti”, posso ancora sentire
me
stessa sussurrare, prima di ghermirlo e ricoprirlo di baci; e in
ugual modo sento il calore del Sole scomparire, divenire solo una
striscia infuocata che non vuole abbandonare il cielo.
Ed
è lì, mentre mostro al principe il corpo sinuoso
della mia pallida
Dea che fa splendere il firmamento, che la scorgo: una minuscola luce
tremolante, una fiaccola, che velocemente si avvicina;
un’altra la
segue, e poi ancora, senza fine, e insieme a loro giunge
un’incomprensibile inquietudine. “Ifigenia,
Elettra, prendete
vostro fratello; voi, ancelle, cercate Crisotemi e portatela qui.
Subito!”, esclama, ora
come allora, la mia voce piena d’allarme, vedendo in
quell’inaspettata processione più di quanto avrei
voluto.
Sì,
ricordo… molti carri bucarono il manto del buio, quella
notte; il
palazzo si riempì di grida e sussurri, e se la voce di
Agamennone
riuscì infine a portare il silenzio, fallì
tuttavia nel recare la
calma.
In
mezzo a quella cacofonia spiccavano le dure parole di una persona che
non stentai a riconoscere: il re di Sparta Menelao, lo sposo di
Elena. Qual era il motivo della rabbia che avvelenava la sua lingua?
Il sordo vociare che lo circondava mi impediva di udirlo
chiaramente, ma percepivo i muri tremare quando lui parlava.
“Ci
stanno forse attaccando, madre?”, chiese a un certo punto
Elettra,
venendo più vicina a me.
Io
scossi il capo, cercando di calmare lei e allo stesso tempo me
stessa. “Non ti devi preoccupare di niente, mia luce. Non
c’è
alcun pericolo”, mormorai, ma la piccola non smise di guardarmi.
“Atta
sta bene, vero?”, mormorò di nuovo, alzando appena
la voce; io
sorrisi, le accarezzai una guancia. “Elettra, ritorna con le
altre
e rimani tranquilla: tuo padre è solo impegnato in questioni
di
governo e gli animi sono solo un po’ più caldi del
solito.”
Rimasi
a guardarla allontanarsi mordendomi le labbra con forza, perché stavo
provando la
sua stessa paura, e sopportai a stento le molte ore d’attesa;
infine, quando finalmente udii il palazzo cadere nel silenzio,
lasciai le miei stanze e mi misi in cerca di Agamennone, per poi
trovarlo nella nostra camera, il volto teso rivolto alla porta.
“Mio
re...”, mormorai avvicinandomi, “che cosa
è accaduto?”
Lui
alzò appena lo sguardo su di me, quindi tese una mano per
tenermi
lontana dal suo petto. “Tu e tua sorella eravate destinate ad
avere
più di un marito... a quanto pare”,
mormorò.
Corrugai
la fronte, senza capire, e lui scosse il capo.
“Siamo… siamo
stati traditi e sfidati, e non possiamo non combattere.”
“Chi-chi
ci ha tradito?”
Silenzio.
“Elena non è più qui, tra le braccia
della sua terra natale;
naviga verso la città di Troia, insieme al suo rapitore.
La
guerra degli Dèi ora è scesa tra di noi,
Clitemnestra, e ci chiama. I
giorni della pace sono finiti.”
Socchiusi
gli occhi, conscia di non aver ancora appreso appieno quelle parole.
“Sono mai esistiti? Per te… ma non per
me”, replicai tuttavia,
senza nascondere l’amarezza del tono.
Agamennone
non rispose, forse nemmeno mi udì; ma se anche lo avesse
fatto, le
mie parole non avrebbero avuto conseguenze.
Distese
di sabbia e sangue erano il suo nuovo orizzonte, gloria e potenza le
amanti; l’incerta sorte di regina o schiava sarebbe toccata
nuovamente a me, una donna… un’ombra, una piccola
pietra preziosa
su una corona che non mi sarebbe mai appartenuta.
“Partiremo
prima che il mare diventi tempestoso. Il
ritorno... il ritorno solo i Numi sapranno e vorranno concedercelo.
Non
so se ti rivedrò ancora, figlia di Tindaro.”
Nelle
sue parole c’era più tristezza di quella che io
provassi per lui.
“Sei stato forgiato dalle guerre. Tornerai”,
mormorai solamente,
allungando una mano e accarezzandogli il volto, non staccandola dalla
sua pelle per tutto il tempo che l’oscurità ci
avvolse.
“ Tu
non piangerai per me, vero?”, disse a un tratto il re.
L’armatura
di orgoglio non era riuscita a proteggerlo dal fatto che mai
l’avrei
amato come Tantalo, e in quel frangente ogni menzogna cadeva; e
tuttavia, come me lui si preoccupava dei nostri figli, li amava e
vegliava: questo affetto, seppur lievemente, mi aveva legata a lui, e
non lo avrei tenuto segreto. “No. Ma pregherò per
il tuo
ritorno... perché chi mi è caro ha bisogno di
te”, gli mormorai.
Lui
non rispose, né mi parlò più per tutti
i restanti giorni che lo
separarono dalla partenza; solamente, sul far della sera mi
raggiungeva e rimaneva a guardare un altro crepuscolo, per poi
andarsene e raggiungere le nostre figlie, giocare con loro a lungo.
Io
non lo seguivo, perché in quegli istanti i miei pensieri mi
imponevano la solitudine: tutto quello era troppo simile a
ciò che
avevo sopportato a Pisa, e ogni giorno ero più affaticata,
oppressa
nel petto, del precedente. Era paura?
Era
preoccupazione, tristezza?
Era
consapevolezza?
“Ho
paura, madre. Non per la guerra... ma a causa di qualcosa che ancora
non
riesco a capire. È una sensazione che mi toglie il
sonno”, mi
sussurrò una sera Ifigenia, mentre ultimavamo
l’ennesimo peplo.
“Tutti
noi temiamo per il re. È normale”, le risposi,
senza dare a vedere
il turbamento.
“Forse
è quello. Forse è... solo
immaginazione.”
Non
c’era la Luna l’ultima notte che Agamennone mi
strinse a sé e
sospirò tra i miei capelli, né spuntò
il Sole quando, il mattino
successivo, salì sul carro che conduceva lontano da noi.
In
un chiarore che non aveva niente di reale, guardai il grande Atride
svanire sul sentiero, cercando di non ascoltare il pianto che mi
circondava e la tempesta che ululava nella mia mente.
“A
presto... grande Agamennone”, mormorai, stringendo con
più forza
Oreste e cercando tra i suoi riccioli il profumo del padre.
Gli
Dèi non erano con noi, allora; eravamo solo noi, con la
nostra
umanità e i nostri pensieri, davanti alla Sorte.
NOTE
[1]
Si fa riferimento alla lunga scia di crudeltà e vendette che
vide
protagonisti Atreo e Tieste, rispettivamente padre e zio di
Agamennone e Menelao.
Le nefandezze che compiranno non moriranno con loro, ma macchieranno anche gli
Atridi, e solamente
con Oreste la scia di sangue avrà
fine.
[2]
Forma affettiva per definire il padre, corrisponde al nostro
“papà”
o “babbo”.
[3]
Nella tragedia di Eschilo, Cassandra definisce Clitemnestra una
“leonessa (leaina)
a due gambe”.
[4]
Patronimico di Zeus, in quanto figlio di Crono.
ANGOLO AUTRICE
Buonasera
a tutti :)
Così,
siamo arrivati al secondo capitolo... e ancora non abbiamo finito *si
dispera*
Ebbene
sì, ancora una volta questo capitolo stava diventando troppo
lungo,
e ho deciso di dividerlo: ma ormai siamo vicini al punto cruciale...
forse.
Altre
note: non si ha menzione nei miti
di segni premonitori riguardo alla guerra di Troia, ma ho voluto
inserirli comunque, per enfatizzare l’entità del
conflitto che si
avvicinava.
Non
si è sicuri sull’esatta successione dei figli di
Agamennone e
Clitemnestra, se non che Oreste doveva essere l’ultimo nato,
mentre
ho insistito sul legame di Elettra con Agamennone così come
ci viene
presentato nelle tragedie.
Non
mi sembra che abbia altro da dire, se non che se avete precisazioni o
domande io sono qui per ascoltarvi e rispondervi.
Alla
prossima,
Manto