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Autore: Manto    10/01/2017    10 recensioni
Il cuore di Clitemnestra è sempre stato avvolto dall'oscurità: le storie che la riguardano trasudano sangue, rancori mai svaniti e sogni infranti dal filo di una Sorte infelice, che si svela in un disegno dalla trama cupa.
Ma la regina di Micene è ben di più che donna vendicativa; nel suo sguardo si agita una presenza antica, pronta a portare giustizia là dove questa viene estirpata... e a svelare la forza di una madre violata.
(Anche se in ritardo, buon compleanno, Flos Ignis!)
Genere: Angst, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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II – La Leonessa




Pisa è stata conquistata.
Il re è morto.
E il principe… il principe è...

Era notte quando il carro di Agamennone giunse a Micene; la città era illuminata da costellazioni di fiaccole, il cui fumo si nascondeva nel buio e mi avvolgeva in un abbraccio soffocante.
Mio figlio… dov’è il mio bambino?
Le silenziose lacrime che i miei occhi erano riusciti a liberare si erano ormai seccate sulle gote come cicatrici; la mia mente era schiacciata da una fitta nebbia che cancellava ogni sensazione, torturata da orrende visioni.
Dov’è il mio bambino? Ricordo le mie grida… ma lui dov’è?
Agamennone mi accarezzava i riccioli sfuggiti all’acconciatura sfatta, senza smettere di sorridere; ogni suo gesto trasudava possessione e brama, il suo tocco era il sibilo di un serpente.

Più del dolore che avrebbe accompagnato la mia notte di nozze, tuttavia, nei brevi attimi di lucidità tremavo per ciò che il giorno dopo avrebbe avuto inizio: una dorata vita da prigioniera, regina eppure schiava, uno splendido trofeo di guerra. Quanto avrei preferito essere gettata in strada come un cane, essere dimenticata ed evitata; invece sarei stata trascinata nel letto dell’uomo a me più odioso, costretta ad assecondarne i desideri.
Comportati da regina”, mi sibilò lui a un tratto, stringendomi con forza un polso. “Ti ho scelto come sposa, da te pretendo un comportamento esemplare.” La sua presa si sciolse un istante prima che varcassimo la porta leonina e la folla ci accogliesse con grida gioiose, quindi il re riprese ad assaporare la mia pelle con le sue dita sanguinarie. “Guardati attorno”, mi sussurrò, “osserva la città che ti circonda: è ricca, non conosce privazioni, e sono certo che imparai ad amarla come hai fatto con Pisa… e anche di più.”
Dovetti trattenermi fino alla spasimo dal rivolgergli le parole più sprezzanti e astiose, ma lo sguardo che gli lanciai rivelava quali fossero i miei reali pensieri.
I suoi occhi mi fissarono con scherno per qualche istante, quindi si tramutarono in pozze buie, così spaventose che dovetti abbassare lo sguardo per non gridare.
“Che cosa hai fatto a mio figlio?”, sentii poi pronunciare la mia stessa voce.
Silenzio. “Era stirpe nemica.”
Due sole parole, per rivelarmi la peggior nefandezza di cui si sarebbe potuto macchiare e che il mio cuore, fino a quel momento, non aveva voluto riconoscere. “Era solo un bambino...”, mormorai, cercando disperatamente l’aria e chiedendomi perché quell’incubo non fosse ancora cessato. Perché?
Ne avrai altri”, fu la fredda risposta, e a quel punto sorrisi con disprezzo, alzando il capo. “E se quello fosse il destino anche dei tuoi figli?”, sibilai, e una piccola stilla di piacere mi uncinò il petto quando vidi il re afferrare con rabbia il bordo del carro.
Quelle furono le uniche parole che ci scambiammo durante il viaggio; quando giungemmo alla reggia, fu lo stesso Agamennone a trascinarmici dentro, separandosi da me solo dopo avermi consegnato alle ancelle, perché mi preparassero alla notte.
Quando infine venni condotta alla camera nuziale, lui era già lì, il viso rivolto a una Luna così enorme che la grande finestra non riusciva ad abbracciarla nella sua interezza. Appena sentì i miei passi si voltò e mi fissò con i suoi occhi di pietra nera, il candido torace scoperto drappeggiato dal velo dell’oscurità.
Se lo avessi conosciuto prima di Tantalo lo avrei desiderato con ardore; ma tutta la bellezza si sfaldava nella scia di sangue che gli faceva da mantello, moriva tra quelle mani che ignoravano la pietà.
Non chinai il capo quando lui mi si avvicinò; non lo feci quando mi colpì con un violento schiaffo, né quando mi prese per la vita e sollevandomi mi sbatté contro la parete, graffiandomi schiena e braccia. “I miei figli non subiranno la sorte del tuo bastardo”, sibilò, “perché io non sono debole quanto lo era Tantalo.
Io comando, ciò che voglio lo ottengo, e sono in grado di proteggere chi mi è caro.”
Tantalo non aveva la tua stessa forza, è vero”, replicai soffiando, “ma ricorda che tu mi hai preso con il tradimento. Non gloriarti di questo rapimento… grande re.”
Agamennone lasciò la presa; scivolai al suolo battendo malamente i gomiti, e quando mugolai dal dolore lui sorrise, compiaciuto, per poi inginocchiarsi di fronte a me. “Dimenticati ciò che hai visto e sopportato, perché non ti farò del male… se accetterai la tua Sorte.
Se accetterai me.”
La mia risposta era chiara nel disprezzo che gli occhi urlavano; ma la sua espressione non mutò, come se il rancore non lo lambisse.
In quel momento capii: tutti i miei tentativi di resistere non sarebbero valsi a nulla.
Agamennone vinceva sempre, e ancora una volta l’aveva fatto, mostrandomi quanto fossi sola.
Chi avrebbe accolto il mio grido furioso, chi avrebbe asciugato le lacrime di una donna, un mero oggetto di scambio, chiamata più volte maledizione e peso? Le sue pretese erano legittimate dal potere e dalle leggi della guerra, e per questo non temeva la mia furia: mi giudicava debole, indifendibile... patetica.

Ma potrebbe arrivare il giorno in cui sarai tu a temere,
pensai, potrebbe arrivare, e allora... allora...
I pensieri furono spezzati dai miei singhiozzi, seguiti poi da un pianto nero come le parole che reprimevo nel cuore.

Dov’era Clitemnestra la Fiera, allora? Era stata spezzata e uccisa insieme alla sua famiglia? Era fuggita in luoghi dove la violenza non poteva giungere, dove l’odio non aveva motivi per esistere?
Me lo chiesi per tutta la notte, rannicchiata in un angolo della camera e tenuta sotto la sorveglianza dello sguardo del re, e continuai a farlo anche il giorno dopo, da quando il Sole apparve timidamente per riscaldare i tetti della città.
Agamennone lasciò il letto, andò alla finestra; sorrise al fresco mattino e ai canti che la brezza portava con sé, per poi voltarsi. “Li senti, figlia di Tindaro? Sono imenei, doni per noi
”, mi sussurrò.
Le nozze che poche ore dopo si svolsero non furono felici come le prime: nonostante i canti e i balli che mi circondavano, nonostante l’aria intessuta di profumi e musica, io sentivo solo me stessa urlare, le narici piene dell’odore del sangue, come se mai avessi lasciato quella buia galleria dove avevo visto gli Inferi aprirsi e fossi stata intrappolata per sempre là, tra le spire di un incubo.

Quell’orrenda sensazione mi accompagnò per tutti i festeggiamenti e mi fu al fianco fino nel talamo, dove Agamennone, dopo avermi sussurrato parole che la tristezza non mi fece comprendere, diede sfogo al suo desiderio. Non ebbe alcuna importanza il fatto che usò gentilezza e che il mio corpo reagì alle sue carezze: tra i sospiri di quella notte guardai il mio futuro contorcersi in una trama indesiderata, e quando gridai non lo feci per il piacere; ma questo rimarrà sempre un segreto celato nel mio cuore, dove i ricordi non possono essere uccisi; lì, nell’unico luogo dove io posso essere ancora mia... totalmente, e solamente, mia.



Nei primi mesi furono in molti a fare considerazioni sulla mia nuova vita: Micene mormorava che per me la Sorte non fosse mutata, dato che il re aveva avuto la bontà di sposarmi, salvandomi dall’ignominia della schiavitù. Ero ancora regina, solamente di un’altra città; quindi, che la mia voce non osasse alzare lamentele e richieste, che il mio temperamento fosse quieto e non rancoroso, perché gli Dèi mi avevano concesso l’onore di sposare la Potenza.
Ciò mormorava la
mia gente, accusando in segreto lo sguardo con cui li osservavo avanzare nel mégaron ed esporre le loro sfortune, ma temendolo quando lo posavo sulle loro teste.
Che cosa potevano sapere, comprendere, di ciò che provavo?

Era vero, così come a Pisa scioglievo il nodo dei giorni negli appartamenti femminili, tessendo e controllando l’operato della servitù, oppure occupandomi della mia bellezza, facevo lo stesso a Micene; ma era un’altra, in verità, a farlo.
Quando mi specchiavo, non riconoscevo più il mio volto: ero davvero io quella donna senza
espressione?
Ero davvero io quella che sgridava con furia le ancelle a ogni invisibile imperfezione nel loro lavoro, ero davvero io quella che tesseva i pepli più meravigliosi e poi li faceva a pezzi?
Ogni giorno era peggiore dei precedenti: aprivo gli occhi, fissavo il soffitto della camera e mi chiedevo cosa tenesse ancora insieme quel grumo di schegge tremolanti in cui ero stata ridotta, e quando sarei potuta essere libera di cadere in frantumi e divenire aria. Il silenzio era l
’unica compagnia che non disprezzassi... ma con esso arrivava, spesso, anche l’inquietudine: perché mai, mai avevo visto tanta oscurità come nella casa di Agamennone.
Non sapevo per quale motivo, ma la stirpe a cui ero stata unita era maledetta, e ben presto compresi che il sangue che il re si lasciava alle spalle era molto più di quanto avessi scorto, e non sporcava solamente lui: era il marchio di una colpa che il tempo non avrebbe estinto [1], che sfrigolava come fiamma sotto la pelle dell’Atride, pronta a mordere e condannare anche me.
Così, tra timori e ricordi, svolsi il filo dei miei istanti per lunghi giorni; poi, un mattino, ancor prima di aprire gli occhi compresi che stava per accadere qualcosa. Mi alzai a sedere nel talamo con il cuore che batteva dolorosamente, e senza nemmeno vestirmi mi diressi alla finestra; la Luna sbiadiva nel roseo manto dell’alba, eppure, ne sono sicura, la scorsi rifulgere quando posai gli occhi su di Lei. Cercai di comprendere che cosa la sua luce mi volesse dire, e quella sensazione di
attesa mi accompagnò per tutto il giorno; così, quando una delle ancelle mi punse inavvertitamente la spalla con uno spillone, me ne accorsi solamente quando una goccia di sangue piombò sul dorso della mia mano.
 Perdonami, mia signora...” sentii mormorare la fanciulla, e allora le rivolsi lo sguardo, la vidi rannicchiata su sé stessa al suolo, in attesa di essere punita. Se questo fosse accaduto il giorno prima, l’avrei torturata con quello stesso spillone fino a farla urlare; invece, quando allungai la mano fu per accarezzarle con calma i capelli. “Alzati”, mormorai, “e riprendi il tuo lavoro.” Le sorrisi, quindi ripresi a fissare il cielo; e quando il Sole stava per iniziare la lunga discesa, mi rifugiai nei giardini.
Le ore scorsero veloci passeggiando senza meta tra gli alberi, fino a quando una voce calma mi chiamò. “Lasciami sola, chiunque tu sia”, sussurrai, poi qualcosa mi spinse a voltarmi.
Sobbalzai quando riconobbi nell’elegante figura che mi stava innanzi la donna senza nome che avevo già incontrato nel palazzo di Tantalo, e un brivido mi attraversò la schiena, bloccandomi.
Lei sorrise con la stessa dolcezza con cui parlava, quasi avesse appreso i miei pensieri, e mi si avvicinò lentamente. “La tua fierezza è proprio qui, davanti ai miei occhi: ma è solamente un’ombra di quella che era prima. Sono davvero bastati così pochi istanti per cambiarti e farti smarrire, regina?”
Rimasi in silenzio, sentendomi esposta, nuda, davanti al sorriso della sconosciuta, che abbassò lo sguardo. “Ho sofferto con te, dolce Clitemnestra, e ne soffro ancora. Ti avevo portato la gioiosa notizia di un figlio, e questo bambino l’ho visto morire nel silenzio.
Stai provando ciò che ogni madre non ha nemmeno il coraggio di pensare, e quanto te mi sento violata.
Questo mondo protegge gli uomini, riduce all’impotenza noi donne: ma noi possiamo ancora e sempre combattere, non credi?
Una spada non fa di sé un’arma, se non nel modo in cui la si usa; tutto, con intelligenza e con la giusta decisione, può servire a proteggerti e a riportare la giustizia.”
Nessuna donna avrà mai un tale potere”, ribattei dopo un lungo istante di silenzio, “nessuna.”
 In realtà non è così. A volte, una donna può rivelarsi l’inaspettato nemico, il più subdolo e spietato. Che cosa limita l’amore di una madre verso i propri figli? La Morte stessa non fa che accrescerlo.”
Scossi il capo, e la sconosciuta annuì leggermente alla mia incredulità. “Il tuo dolore è inestinguibile e maligno, e le mie parole ti giungono incomprensibili; ma un giorno riuscirai a capirle.
Allora, niente si opporrà a te: i fiumi placheranno la furia e le pietre si piegheranno... e una nuova Luna sorgerà.”
Rimasi impietrita, mentre a quelle parole rispondeva un’immagine: la misteriosa statua che una volta avevo sognato, la dominatrice delle fiere e della Natura. “Io... io...”
La donna si voltò, senza ascoltarmi. “È di
nuovo Luna piena, regina, e lo sarà per altre tre”, mormorò, per poi svanire nella luce.
Quando compresi quelle parole mi premetti una mano sul ventre, tremando; quindi mi accasciai sul terreno, e lì piansi a lungo.
Quella notte, quando le porte del talamo si chiusero e Agamennone mi prese tra le braccia per rovesciarmi sul letto, io lo fermai. “No, questa notte non mi avrai”, mormorai, “perché ballerò a lungo, per ringraziare gli Dèi della vita che cresce dentro me.”
Gli occhi del re si ingrandirono, rifulsero. Non mi mossi quando lui mi abbracciò, non ricambiai i suoi baci: volevo allontanarmi dal suo sguardo, rimanere in completa solitudine.
La sua testa infine annuì, le sue braccia si aprirono: “Danza fino all
’alba e anche oltre, mia regina”, mormorò, e l’eco delle sue parole era appena svanito che come una farfalla mi librai per i corridoi del palazzo, raggiungendo i giardini e liberando la mia energia in una sfrenata preghiera, bagnata dal plenilunio e dalla sua benedizione.
Nei giorni successivi, la premura materna scacciò in parte l’astio, e anche il comportamento di Agamennone mutò: davanti al mio ventre ogni mese più gonfio, la sua prepotenza allentava il morso, lasciando che fosse una sorta di timore reverenziale ad accompagnarlo; e anche le sue ombre si ritraevano.

Quando finalmente il dono tanto attese nacque, scoprimmo che era una principessa dai capelli corvini, che colpiti dalla luce divenivano onde violette, e dai grandi occhi ambrati: uno sguardo consapevole, quasi antico, li illuminava, sfiorando appena l’aria e la realtà, rivelando una profonda quanto inspiegabile conoscenza, unita alla più innocente dolcezza. Era diversa, lo comprendemmo entrambi; e come tale, seppi subito che avrei dovuto sempre sorvegliarla.
Immersa in quei pensieri, non mi accorsi che Agamennone si era avvicinato alla balia e aveva preso la piccola dalle sue braccia; per un istante tremai, poi lo guardai accostare lentamente la fronte alla sua. “
Atta [2] ti proteggerà sempre, mio fiore. Sempre”, mormorò, e la bambina lo guardò con intensità, quasi volesse scrutargli le profondità del cuore; quindi con una delle sue manine gli strinse un dito, in una tenera richiesta di affetto.
Dopo qualche istante il re la portò da me, e io le accarezzai il capo. “Ifigenia... mia adorata”, mormorai. Alzai poi gli occhi su di lui, e con un gesto secco feci allontanare tutti. “Ricordati di questa promessa”, gli sussurrai quando fummo da soli, “ricordati le parole che hai appena pronunciato. Gli Dèì ci guardano, e non dimenticano... non lo fanno mai.”
La mia voce fu potente come il rombo di un tuono, resa ferma dall’amore che provavo per la nostra piccola rosa: avevo già perso un figlio, non avrei sopportato la morte di un altro...
senza rischiare di impazzire e osare l’inaudito.
Agamennone chinò il capo; quando lo rialzò, c’era verità nel suo sguardo. “Ogni cosa che ho detto è una promessa; ai Beati come a te, mia
leaina [3], io non ho mentito.” Annuì; e quella fu la prima volta che tollerai le sue mani sulla mia pelle e fui contenta di sentire la sua voce.
In seguito, come mi era stato predetto, ebbi altri tre figli: Elettra la Splendente, la rondine dagli occhi neri ma dalla chioma di fuoco, che fin da subito si mostrò così legata al padre da dormire o quietare il pianto solamente nelle sue braccia; Crisotemi, timida e dolce, priva di quel fuoco che le sue sorelle possedevano; e infine Oreste, il più perfetto simulacro di Agamennone e il suo orgoglio.
Ognuno di loro era così bello da farmi temere l’invidia degli Dèi, e io lo vegliavo con tutte le mie forze; tuttavia, era proprio Ifigenia e la sua anima cangiante a trattenere il mio sguardo più a lungo.
È diversa, e chi si distingue raramente trova gioia”, sussurravo ad Agamennone nella notte, stringendomi contro il suo petto.
Continuavo a rimpiangere Tantalo e la mia vita precedente, ma lentamente la sua presenza diveniva sempre più sopportabile.

Lui mi accarezzava la schiena e i capelli, mi parlava fino a quando non calmavo le mie paure; e se da una parte la sicurezza della sua lingua mi intimoriva – era superbia quella che a volte percepivo, nascosta e sibilante tra le parole –, dall’altra mi rassicurava: lui era veramente potente, dove posava lo sguardo giungeva la vittoria; si diceva che fosse lo stesso Zeus a vegliarlo, tanta era la sua forza.
E tuttavia... tuttavia c’era una cosa che avevo imparato e mai avrei dimenticato: nessuno, nemmeno il Cronide [4], può cambiare il corso della Luna, Dea dal volto mai uguale.


Il primo presagio, in un dolce mattino, fu il volto degli uccelli: basso e circolare, come quando si avvicina una tempesta, e pieno di grida. Tuttavia, il cielo rimase sereno per giorni e giorni.
Il secondo presagio, in un lento pomeriggio, furono le campagne: il grano si piegò sotto un vento invisibile, e dai canneti che costeggiavano i rivi emerse un pianto; ma non c’era nessun uomo o animale a vagare in quei luoghi.
Il terzo presagio, in una notte fredda, furono la terra e il cielo: la prima si spaccò e ne uscì sangue che subito svanì, il secondo divorò le stelle una a una, per poi liberarle dopo interminabili istanti.
A questi segni, che furono i più terribili, ne seguirono altri, e paura e sconcerto si riversarono sempre di più nel nostro palazzo, assumendo la forma di preghiere, di racconti di fuochi e tenebre.
Intimorita da quelle orrende visioni, molte notti mi svegliai di soprassalto, stringendo al petto Oreste e correndo dalle mie figlie, timorosa di non trovarle nei loro letti; quando le scorgevo nei giardini urlavo loro di rientrare, per poi abbracciarle strettamente e implorare loro di essere prudenti, che avremmo dovuto essere pronti.
Furono giorni di silenzio e tremiti, quelli: temevamo ogni fruscio troppo forte, ogni fulmine che squarciava il cielo del primo mattino, la goccia di pioggia che si frantumava al suolo; e come Micene, anche le altre città stavano vivendo le nostre stesse irreali vicende.
L’aria è priva di ogni odore umano”, mormorava Agamennone, mentre osservavamo le tempeste abbattersi sui tetti della città, “perfino di quello della vita. Il vento porta profumi mai percepiti prima.” Alzava poi lo sguardo verso il cielo intrappolato dalle nubi, lo osservava. “Questa è una guerra fra Dèi.”
Forse è così... ma la loro ira riguarda anche noi”, rispondevo.
Sì. E nessuno può essere sicuro che la battaglia non sposti le sue forze tra di noi... un giorno”, terminava.
Tuttavia, con la medesima velocità con cui tutto era iniziato, improvvisamente cessò: le notti divennero quiete, la Natura riprese il suo ciclo, nessun rombo ruppe più la tranquillità del giorno.

Io, tuttavia, non riuscii a crederci in quella pace: non aveva ancora nome ciò che ci sovrastava, ma non sarebbe rimasto celato per sempre. Io, che avevo già vissuto quella realtà, sapevo che quello non era stato nemmeno l’inizio, e nonostante i giorni iniziassero a rincorrersi sempre più velocemente, ogni nuovo mattino scrutavo l’orizzonte, in attesa.
Passarono anni prima che i fili del Destino iniziassero a delineare una trama; e tutto iniziò in un pomeriggio uguale agli altri.
Se chiudo gli occhi, ogni istante di quel giorno perduto mi si svela: le dita abili di Ifigenia ed Elettra che corrono sul telaio e formano un disegno sempre più splendido, il mio sguardo che accarezza il bruno e il rame dei loro capelli, le risate di Oreste, ancora così piccolo e fragile, che gioca con l’orlo del velo e mi guarda, cercando i miei occhi e ridendo ancora più forte quando li trova.
Non tentarmi, piccolo, o potrei mangiarti”, posso ancora sentire me stessa sussurrare, prima di ghermirlo e ricoprirlo di baci; e in ugual modo sento il calore del Sole scomparire, divenire solo una striscia infuocata che non vuole abbandonare il cielo.
Ed è lì, mentre mostro al principe il corpo sinuoso della mia pallida Dea che fa splendere il firmamento, che la scorgo: una minuscola luce tremolante, una fiaccola, che velocemente si avvicina; un’altra la segue, e poi ancora, senza fine, e insieme a loro giunge un’incomprensibile inquietudine. “Ifigenia, Elettra, prendete vostro fratello; voi, ancelle, cercate Crisotemi e portatela qui. Subito!”, esclama,
ora come allora, la mia voce piena d’allarme, vedendo in quell’inaspettata processione più di quanto avrei voluto.
Sì, ricordo… molti carri bucarono il manto del buio, quella notte; il palazzo si riempì di grida e sussurri, e se la voce di Agamennone riuscì infine a portare il silenzio, fallì tuttavia nel recare la calma.
In mezzo a quella cacofonia spiccavano le dure parole di una persona che non stentai a riconoscere: il re di Sparta Menelao, lo sposo di Elena. Qual era il motivo della rabbia che avvelenava la sua lingua? Il sordo vociare che lo circondava mi impediva di udirlo chiaramente, ma percepivo i muri tremare quando lui parlava.
Ci stanno forse attaccando, madre?”, chiese a un certo punto Elettra, venendo più vicina a me.
Io scossi il capo, cercando di calmare lei e allo stesso tempo me stessa. “Non ti devi preoccupare di niente, mia luce. Non c’è alcun pericolo”, mormorai, ma la piccola non smise di guardarmi.
Atta sta bene, vero?”, mormorò di nuovo, alzando appena la voce; io sorrisi, le accarezzai una guancia. “Elettra, ritorna con le altre e rimani tranquilla: tuo padre è solo impegnato in questioni di governo e gli animi sono solo un po’ più caldi del solito.”
Rimasi a guardarla allontanarsi mordendomi le labbra con forza, perché stavo provando la sua stessa paura, e sopportai a stento le molte ore d’attesa; infine, quando finalmente udii il palazzo cadere nel silenzio, lasciai le miei stanze e mi misi in cerca di Agamennone, per poi trovarlo nella nostra camera, il volto teso rivolto alla porta.
Mio re...”, mormorai avvicinandomi, “che cosa è accaduto?”
Lui alzò appena lo sguardo su di me, quindi tese una mano per tenermi lontana dal suo petto. “Tu e tua sorella eravate destinate ad avere più di un marito... a quanto pare”, mormorò.
Corrugai la fronte, senza capire, e lui scosse il capo. “Siamo… siamo stati traditi e sfidati, e non possiamo non combattere.”

Chi-chi ci ha tradito?”
Silenzio. “Elena non è più qui, tra le braccia della sua terra natale; naviga verso la città di Troia, insieme al suo rapitore.
La guerra degli Dèi ora è scesa tra di noi, Clitemnestra, e ci chiama. I giorni della pace sono finiti.”
Socchiusi gli occhi, conscia di non aver ancora appreso appieno quelle parole. “Sono mai esistiti? Per te… ma non per me”, replicai tuttavia, senza nascondere l’amarezza del tono.
Agamennone non rispose, forse nemmeno mi udì; ma se anche lo avesse fatto, le mie parole non avrebbero avuto conseguenze.
Distese di sabbia e sangue erano il suo nuovo orizzonte, gloria e potenza le amanti; l’incerta sorte di regina o schiava sarebbe toccata nuovamente a me, una donna… un’ombra, una piccola pietra preziosa su una corona che non mi sarebbe mai appartenuta.
Partiremo prima che il mare diventi tempestoso. Il ritorno... il ritorno solo i Numi sapranno e vorranno concedercelo.
Non so se ti rivedrò ancora, figlia di Tindaro.”
Nelle sue parole c’era più tristezza di quella che io provassi per lui. “Sei stato forgiato dalle guerre. Tornerai”, mormorai solamente, allungando una mano e accarezzandogli il volto, non staccandola dalla sua pelle per tutto il tempo che l’oscurità ci avvolse
.
 Tu non piangerai per me, vero?”, disse a un tratto il re. L’armatura di orgoglio non era riuscita a proteggerlo dal fatto che mai l’avrei amato come Tantalo, e in quel frangente ogni menzogna cadeva; e tuttavia, come me lui si preoccupava dei nostri figli, li amava e vegliava: questo affetto, seppur lievemente, mi aveva legata a lui, e non lo avrei tenuto segreto. “No. Ma pregherò per il tuo ritorno... perché chi mi è caro ha bisogno di te”, gli mormorai.
Lui non rispose, né mi parlò più per tutti i restanti giorni che lo separarono dalla partenza; solamente, sul far della sera mi raggiungeva e rimaneva a guardare un altro crepuscolo, per poi andarsene e raggiungere le nostre figlie, giocare con loro a lungo.
Io non lo seguivo, perché in quegli istanti i miei pensieri mi imponevano la solitudine: tutto quello era troppo simile a ciò che avevo sopportato a Pisa, e ogni giorno ero più affaticata, oppressa nel petto, del precedente. Era paura?
Era preoccupazione, tristezza?
Era
consapevolezza?
Ho paura, madre. Non per la guerra... ma a causa di qualcosa che ancora non riesco a capire. È una sensazione che mi toglie il sonno”, mi sussurrò una sera Ifigenia, mentre ultimavamo l’ennesimo peplo.
Tutti noi temiamo per il re. È normale”, le risposi, senza dare a vedere il turbamento.
Forse è quello. Forse è... solo immaginazione.”
Non c’era la Luna l’ultima notte che Agamennone mi strinse a sé e sospirò tra i miei capelli, né spuntò il Sole quando, il mattino successivo, salì sul carro che conduceva lontano da noi.
In un chiarore che non aveva niente di reale, guardai il grande Atride svanire sul sentiero, cercando di non ascoltare il pianto che mi circondava e la tempesta che ululava nella mia mente.
A presto... grande Agamennone”, mormorai, stringendo con più forza Oreste e cercando tra i suoi riccioli il profumo del padre.
Gli Dèi non erano con noi, allora; eravamo solo noi, con la nostra umanità e i nostri pensieri, davanti alla Sorte.





NOTE


[1] Si fa riferimento alla lunga scia di crudeltà e vendette che vide protagonisti Atreo e Tieste, rispettivamente padre e zio di Agamennone e Menelao.
Le nefandezze che compiranno non moriranno con loro, ma macchieranno anche gli Atridi, e solamente con Oreste la scia di sangue avrà fine.


[2] Forma affettiva per definire il padre, corrisponde al nostro “papà” o “babbo”.


[3] Nella tragedia di Eschilo, Cassandra definisce Clitemnestra una “leonessa (leaina) a due gambe”.


[4] Patronimico di Zeus, in quanto figlio di Crono.




ANGOLO AUTRICE


Buonasera a tutti :)
Così, siamo arrivati al secondo capitolo... e ancora non abbiamo finito *si dispera*
Ebbene sì, ancora una volta questo capitolo stava diventando troppo lungo, e ho deciso di dividerlo: ma ormai siamo vicini al punto cruciale... forse.
Altre note: non si ha menzione nei miti di segni premonitori riguardo alla guerra di Troia, ma ho voluto inserirli comunque, per enfatizzare l’entità del conflitto che si avvicinava.
Non si è sicuri sull’esatta successione dei figli di Agamennone e Clitemnestra, se non che Oreste doveva essere l’ultimo nato, mentre ho insistito sul legame di Elettra con Agamennone così come ci viene presentato nelle tragedie.
Non mi sembra che abbia altro da dire, se non che se avete precisazioni o domande io sono qui per ascoltarvi e rispondervi.


Alla prossima,
Manto

   
 
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