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Autore: eliseCS    16/01/2017    1 recensioni
Uno scontro, un caffè rovesciato e una figuraccia.
Può questo dare inizio a qualcosa?
Apparentemente no se Carlotta è in ritardo per prendere l'aereo che la riporterà a casa e se del ragazzo a cui dovrebbe pagare la lavanderia non conosce nemmeno il nome.
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Un'occasione mancata, come tante, ma non si sa mai: potrebbe ripresentarsi quando uno meno se lo aspetta.
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Storia - leggasi pazzia - assolutamente senza pretese, ispirata da un post su twitter.
Spero che il tentativo di scrivere in prima persona non sia disastroso come sembra (a me).
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- II -
(pov Carlotta)
 
Sembrano passati secoli da quella volta che sono andata in gita a Belfast con la classe delle superiori e di certo se me l’avessero detto all’epoca non avrei mai pensato che ci sarei tornata.
E invece eccomi qui, sei anni dopo.
Sono sempre io: i capelli biondi, gli occhi del colore dal nome strambo; ho ancora la mia sciarpa di Grifondoro – non me ne separerei mai – anche se il viso che si nasconde al di sotto quando fa freddo è cresciuto ed è diventato più adulto.
Come dicevo, sono la stessa ragazza di quella volta, solo con sei anni in più e una laurea.
 
Non è stato facile convincere i miei a farmi fare questa esperienza: quando gliene ho parlato la prima volta mio padre si è mostrato entusiasta per poi lasciare strategicamente il discorso in sospeso mentre mia mamma ha bocciato subito l’idea.
Troppi soldi, troppo lontana da casa, troppi soldi (e no, non mi sono sbagliata a scriverlo due volte).
Persino Bea ha sorpreso tutti scoppiando a piangere e chiudendosi in camera sua fino all’ora di cena dicendo che non voleva che io partissi.
Se alla fine avessi deciso di rinunciare e restare a casa probabilmente l’avrei fatto solo per lei.
 
Sono stata titubante anch’io fino all’ultimo: l’Irlanda del Nord come posto di lavoro non è esattamente a due passi da casa, senza contare il problema dell’alloggio, i mezzi di trasporto, la lingua e l’esame di inglese che avrei dovuto superare per potermi iscrivere all’Albo in Irlanda.
Un gioco da ragazzi, insomma.
Certo, le condizioni del contratto erano più favorevoli di quanto uno potesse sperare, ma tra una cosa e l’altra avevo dovuto mettere in conto che sarei dovuta rimanere lì per almeno tre o quattro anni, se avessi accettato e se mi avessero presa.
Non è poco.
 
L’aspetto che mi aveva preoccupato di più era il fatto che sarei stata da sola.
Non tanto per gli amici – quando sei figlia di un militare che cambia città di residenza ogni tre anni e hai un carattere tendenzialmente chiuso e riservato non fai in tempo a farteli, gli amici. Non di quelli veri, almeno – ma per la famiglia.
Perché anche se mi lamento sempre in fondo in fondo gli voglio bene sul serio, e separarsi così di punto in bianco non è una cosa semplice.
 
E invece nonostante tutto sono davvero tornata.
 
 
 
Le prime settimane sono volate tra il lavoro in reparto – perché non è più solo tirocinio come all’università – e le lezioni del corso di inglese per dare l’esame che mi consentirà di essere finalmente un’infermiera in tutto e per tutto anche qui.
L’alloggio mi è stato fornito – e pagato – dall’ospedale, ed è stato un grande vantaggio all’inizio non dover pensare anche a quello.
Peccato che però devo iniziare a pensarci adesso visto che la durata della nella camera che mi è stata assegnata è di due mesi.
Ce ne sarebbero voluti altri due prima di poter dare l’esame, iscrivermi all’Albo e iniziare a ricevere stipendio pieno.
Mi viene male a pensare a come farò a pagarmi un posto dove stare con quello che guadagno al momento, ma di chiedere soldi a casa non se ne parla.
Non ci tengo a sentirmi dire te l’avevo detto da mia madre – che nonostante i suoi «Sei tu che devi scegliere cosa fare» alla fine non ha mai approvato davvero la mia decisione di partire.
 
 
 
E quindi eccomi qui.
Dovrebbero essere più o meno le tre di notte e sono seduta nella guardiola del reparto di chirurgia generale – ho fatto i salti di gioia quando mi hanno detto che sarei stata assegnata ad una chirurgia – con un discreto numero di giornali impilati davanti a me.
Mi sembra di essere nella scena di un film mentre con la penna rossa segno gli annunci di affitto che mi sembrano più vantaggiosi.
Ad un certo punto Megan rientra a sua volta in guardiola dopo essere stata a rispondere ad un campanello, sedendosi di fronte a me dall’altro lato della scrivania sbirciando curiosa il mio lavoro.
 
Megan Murray: capelli castano ramato, occhi castani, sempre sorridente – anche con i pazienti più difficili.
È una donna ormai sulla cinquantina ed è l’infermiera responsabile a cui sono affidata finchè non sarò regolarmente iscritta all’Albo, il che vuol dire che seguo tutti i suoi turni.
Secondo il mio modesto parere non mi sarebbe potuta andare meglio.
Ormai ho superato l’imbarazzo di parlare in inglese e il mio vocabolario si è notevolmente arricchito per quanto riguarda la terminologia specifica del settore.
Se sei un’infermiera non puoi essere timida, fine del discorso. E Megan mi aveva aiutata molto in questo senso.
Mi ricordo che nel primo periodo pensavo a lei come ad un falco che mi volava sopra la testa osservandomi attenta ad ogni mossa che facevo: preparare la terapia, fare un prelievo, rapportarmi con i medici…
Non posso ancora essere lasciata completamente da sola per la solita questione burocratica, ma direi che ormai ho ampia libertà di movimento.
In più è diventata quasi una seconda madre per me, visto che da quando siamo entrate più in confidenza mi chiede sempre se mangio abbastanza, se dormo sufficientemente e mi dà anche una mano con le consegne che ci vengono assegnate al corso di inglese se non capisco qualcosa.
 
 
Ma lo so qual è la cosa che tutti voi morite dalla voglia di sapere…
Il ragazzo sconosciuto è stato il protagonista in un paio di occasioni quando, rientrati dalla gita, ci siamo confrontati sulle figuracce che ognuno di noi aveva fatto durante la settimana, ma nulla di più.
Non ho più ripensato a lui in questi anni.
Ammetto invece che l’episodio mi è tornato prepotentemente alla memoria quando sono uscita dall’aeroporto dopo essere atterrata a Belfast in compagnia di valigia e bagaglio a mano.
Niente bicchiere di caffè stavolta, ma il traffico fuori dalla struttura e l’affaccendarsi delle persone attorno a me devono aver fato scattare qualcosa.
Mi sono ritrovata a fantasticare su di lui più spesso di quanto mi piacerebbe ammettere ma parliamoci chiaro: quante probabilità avevo di incontrarlo – e di riconoscerlo – dopo sei anni?
Pensando anche ai miei precedenti con gli esponenti del sesso maschile direi meno di zero.
Evidentemente non sono fortunata in amore, magari dovrei buttarmi sul gioco…
 
 
«Stai ancora cercando?» la voce di Megan, tenuta ad un volume ragionevolmente basso, mi distoglie dai miei pensieri facendomi tra l’altro rendere conto che mi sono bloccata con la penna a mezz’aria da chissà quanto tempo.
Abbasso il braccio e appoggio la penna accanto al giornale che stavo – più o meno – esaminando in quel momento.
Annuisco sospirando: «Sì…»
«Ma…?» c’è sempre un ma.
«Ma sono tutti appartamenti interi e costano troppo» concludo chiudendo il giornale con un gesto che mi esce più secco del previsto.
«Mi basterebbe una camera… e non voglio chiedere soldi ai miei»
Avevo pensato alla possibilità di trovarmi un – altro - lavoretto da qualche parte, ma con i turni dell’ospedale è impossibile.
Dei colleghi che hanno accettato di venire a lavorare all’estero per il momento sono l’unica ad essere stata assegnata qui e così non ho nemmeno qualcuno che conosco con cui potrei eventualmente dividere il costo dell’affitto.
Non avevo ancora abbastanza soldi da parte per potermi permettere nessuno degli appartamenti di cui avevo letto gli annunci sui giornali.
E mi restavano poco più di due settimane prima di dover levare le tende dalla stanza di quella specie di casa dello studente dove alloggio al momento.
 
Vedo lo sguardo di Megan farsi pensieroso ma non faccio in tempo a chiedere spiegazioni che il segnale sonoro che avvisa che qualcuno ha appena suonato un campanello si diffonde nell’aria.
«Lascia, vado io» scatto in piedi con fin troppo entusiasmo per le 3:47 del mattino.
Non ritorniamo più sull’argomento.
 
 
•••


 
Questo pomeriggio è passato velocemente, probabilmente perché tra campanelli, pazienti di ritorno dalla sala operatoria e incombenze varie non ci siamo fermate un attimo neanche per andare in bagno.
Approfittiamo del primo momento di tranquillità per scappare in cucina e mettere qualcosa nello stomaco lasciando temporaneamente il reparto in mano all’altra turnista.
L’ora di cena è passata da un bel pezzo, alcuni dei pazienti più anziani hanno già cominciato a chiedere le gocce per dormire: con un po’ di fortuna i campanelli dovrebbero aver smesso di suonare di continuo.
Addento il mio panino allo speck lasciandomi scappare un verso di apprezzamento, era già da un po’ che il mio stomaco brontolava…
Rimaniamo in silenzio finchè non abbiamo entrambe finito di mangiare, un solo campanello che suona interrompe la quiete che sembra finalmente essere scesa sul reparto.
«Alla fine hai trovato qualcosa?» mi domanda Megan mentre ripone i contenitori del cibo che si era portata da casa.
Annuisco non troppo convinta: «Forse. C’è questo appartamento dove abitano già due ragazzi che fanno l’università… hanno ancora una stanza libera. Domani pomeriggio vado a vedere com’è».
L’unica cosa che mi impensieriva era come avrei fatto a raggiungere l’ospedale da lì.
 
«Volevo invitarti a cena uno di questi giorni» continua lei cambiando completamente discorso, tanto che per un istante la guardo confusa.
«Che ne dici di dopodomani? Poi ti do anche un passaggio fino a qui per il turno [di notte. NdA], non mi costa niente»
«Io… non vorrei disturbare…» protesto debolmente.
«Sciocchezze» risponde Megan sventolando una mano in aria.
«Ecco» aggiunge passandomi un foglietto su cui ha appena scritto ora e indirizzo.
Mi sembra familiare ma non saprei dire perché.
La ringrazio e torniamo in guardiola per lasciare che anche la collega vada a mangiarsi qualcosa mentre lei mi spiega come raggiungere la via.
 
 
•••
 
 
Sto camminando sul marciapiede non molto affollato, la mia borsa che un tempo era da tirocinio e ora è da lavoro in spalla.
Ala fine ho capito come mai l’indirizzo di casa di Megan mi era familiare: è la stessa via in cui abitava la famiglia che mi ha ospitata quando sono venuta qui la prima volta in gita.
La famiglia Doherty – questo è il cognome del marito di Megan – abita giuso qualche numero più avanti dall’altro lato della strada.
Com’è piccolo il mondo.
Guardo la scatola di cioccolatini che ho in mano come regalo per gli ospiti: non volevo presentarmi a mani vuote e quella era l’unica idea che mi era venuta in mente.
Spero che apprezzino almeno il pensiero.
 
Non sono mai andata particolarmente d’accordo con i miei vecchi compagni di classe, non ho mai legato veramente con nessuno di loro, ma in questo momento mi ritrovo a ripensare alla gita e a quanto – seppur per una sola settimana – mi era finalmente sembrato di fare parte del gruppo e non di essere l’ultima arrivata che si è trasferita da un’altra città per il triennio.
 
Passandomi accanto qualcuno mi urta il braccio piuttosto bruscamente.
La scatola di cioccolatini mi cade finendo sull’asfalto – fortuna che è tutta impacchettata e non si può aprire – e impreco in italiano, pronta a dirne quattro a chiunque mi sia venuto addosso.
Raccolgo la scatola e mi raddrizzo in tempo per vedere lo sguardo seccato di un ragazzo che mi squadra per un istante con aria di sufficienza prima di girare sui tacchi e andarsene.
 
Rivivo lo scontro e l’incidente con il caffè di sei anni fa come il più vivido dei déjà-vu.
Solo che questa volta non è stata colpa mia e il tizio poteva anche chiedere scusa, cafone!
 
Cerco di scacciare via il malumore istantaneo che mi ha provocato quell’incontro e mi stampo un bel sorriso sule labbra prima di suonare il campanello di casa Doherty.

















Salve, eccomi con il secondo capitolo.
Chi mi conosce sa benissimo che la sintesi non è assolutamente una mia dote, e infatti per non smentirmi anche con questa storia ho finito con il dilungarmi.
Per capirci: dei due capitoli che dovevano essere credo siano diventati cinque...
Tutti abbastanza brevi come questo e il precedente, ma pur sempre tre in più rispetto a quelli che avevo in mente.
E niente, spero che anche questo sia piaciuto a qualcuno.
Per domande, spiegazioni, dubbi, ecc sapete dove trovarmi, e se qualcuno mi facesse sapere cosa ne pensa ne sarei davvero felice :)
Come per le storie passate ho deciso di pubblicare una volta a settimana, quindi a lunedì prossimo!
E.



 

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