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Autore: Rhealistic    07/02/2017    0 recensioni
Non potevo immaginare che sarebbe cambiato tutto così tanto.
Non lo potevo sapere, e se anche ne fossi stata a conoscenza, probabilmente non lo avrei accettato.
La mia vita non ha ore, non ha minuti: sarebbero inutili.
Sono canoni utilizzati per scandire il tempo, in modo da riuscire a rapportarsi con gli altri.
Ma io non ne ho bisogno: da tre anni non metto piede fuori da casa e sto bene così.
Vivo mangiando, dormendo e mischiando il Valium nel succo al melograno.
Meno cose provo, meno cose sento e più riesco a simulare quella che la gente comune chiama "vita".
In fondo che senso ha mettere il naso fuori, se quello che ti circonda è orribile?
Il mondo fa schifo.
Ma non è colpa mia.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Oggi è un giorno come un altro.
Come ogni mercoledì sono seduta nell’aula di letteratura inglese, accanto a Jim Carson, che al momento è intento a scoprire quali nefandezze siano contenute nel suo orecchio. Osservo svogliata la lavagna, mentre la professoressa tenta di fare un qualche schema per spiegare meglio a questi decerebrati la trama di “L’importanza di chiamarsi Earnest”. La trovo una vicenda stupida e fin troppo semplice per non essere chiara a degli alunni del quarto anno.
La capirebbe anche Brittany, e lei ha solo cinque anni.
Trovo tutto più noioso del solito, tanto che dopo 15 minuti di schema inconcludente e domande stupide da parte di Bree ed alcune delle sue amiche, alzo lenta la mano.
“Si, signorina Evans?” chiede Mrs. Kein.
“Posso uscire?” chiedo secca, senza far trapelare l’urgenza nella mia voce. Altri 5 minuti qui dentro ed esplodo. La lentezza con cui gli altri apprendono mi irrita e spesso giungo al limite della sopportazione. Ci sono cose che spesso sono davvero elementari, ma le persone si rifiutano di concentrarsi, dando per scontato che per loro sia un argomento impossibile da imparare e che quindi non merita tempo. Per questo spesso si trovano matematici che non sanno nulla di letteratura o psicologi che non masticano la matematica. Non per ignoranza ma per pigrizia.
Osservare queste persone mi ha permesso di comprendere molte cose, tra le quali quanto poco  sopporti i miei coetanei: non parlo di individui in particolare, ma tutti i ragazzi della mia età, senza alcuna distinzione.
“Come prego?” chiede lei sbigottita “Ci sono problemi?”.
Ritorno alla realtà e mi rendo conto della domanda che ho posto poco fa alla professoressa.
“Si, mi annoio. Pensavo che questo fosse il corso avanzato.” dico schietta.
“Signorina, non capisco bene questa sua mancanza di rispetto, ma le assicuro che qui non perdiamo tempo prezioso.” dice, calcandosi gli occhiali sul naso.
“Da quel che posso notare, ne perdete eccome. Quello schema è inutile, oltre che sbagliato.” Dico facendole notare un accoppiamento errato fra i personaggi.
Kein si affretta a correggere il lavoro alla lavagna, mentre io raduno velocemente le mie cose e mi incammino verso la sua cattedra.
“Se può farmi la cortesia di firmare il permesso, io me ne andrei anche per oggi.” Dico allungandole il pezzo di carta.
Lei allunga piano la mano ossuta e con una calligrafia svolazzante ci scrive il nome e cognome.
Afferro il foglietto e mi dirigo verso l’uscita, senza girarmi indietro.
Sento lo sguardo dei miei compagni bruciarmi sulla schiena e trapassarmi il petto, facendomi mancare l’aria. So già che questa scenetta mi costerà cara fra qualche ora, e di certo non a causa del corpo docenti.
Sono quegli occhi che mi fissano, il problema.
Sono sempre loro.

Passo tranquilla fra i corridoi, superando aule gremite di studenti chini sui cellulari coperti da qualche astuccio o libro, mentre i professori spiegano quasi urlando qualche nuovo concetto fondamentale per il test di metà semestre. Tutte cose che ho sempre ignorato.
Non mi reputo superiore agli altri, non credo di non meritarmi il posto che occupo, ma certe cose trovo non mi appartengano.
Anche io, come qualunque adolescente adoro fare shopping e bere frappuccini da starbucks, ma non vedo perchè le persone ne debbano sempre fare un affare di stato: postarlo sui social, parlarne con l’amica, trasformare una storiella buffa in un pettegolezzo. Io non sono così, e non penso riuscirò mai a diventarlo.
Cammino piano verso l’atrio che mi permetterà di raggiungere il cortile secondario, quasi sempre deserto perchè il sole lo raggiunge a fatica.
Non sono una persona asociale, ma diciamo che la compagnia non è mai stata proprio il mio forte.
L’unica amica di cui io abbia memoria è Ebony Wiked, con cui passai quasi tutta l’estate fra la prima e la seconda media. Poi a lei crebbero le tette e mi comunicò che ora, purtroppo, aveva “altre priorità”. Ho sempre pensato fosse una risposta stupida ma mia madre mi spiegò che certe persone è meglio perderle che trovarle. Forse è per questo che preferisco stare con la mia sorellina Brittany, piuttosto che con gli altri. Lei è innocente, sincera e dice sempre quello che pensa. Adoro la chiarezza e lei ne è l'impersonificazione.
Varco la soglia della scuola e sono ufficialmente nel mio piccolo paradiso personale, l’unico posto in questo tugurio che non rischia di farmi soffocare.
Manca 1 ora e 40 minuti alla prossima lezione, ed ho tutto il tempo per riposare, e riprendere in mano la mia vecchia copia de “La dodicesima notte” di Shakespeare.
Ogni cosa pare al suo posto, e finalmente sento l’aria nei polmoni.


Mancano 12 minuti al suono della campanella, così mi alzo e cerco di radunare le poche cose che ho sparpagliato in giro per poter prendere un buon posto in aula.
Di solito cercano tutti di sedersi in prima o ultima fila, quando non sanno che un ottimo modo per mimetizzarsi è il centro.
I professori sono sempre troppo presi a controllare che gli ultimi non chiacchierino e che i primi stiano attenti per notare chi sta nel mezzo.
Arrivo al mio armadietto quando in giro ci sono solo una manciata di persone, segno che ancora non è suonata e che non tutti hanno professori abbastanza buoni da farli andare via prima.
Il corridoio puzza di disinfettante ed inchiostro, seguito da un continuo rumore di passi e qualche bisbiglio. I ragazzi sono sempre impazienti di poterlo raggiungere, io ci vedo solo uno dei peggiori momenti della giornata. Il rumore di passi aumenta, finche non diventa un rumore ben definito e continuo: qualcuno sta correndo.
Ignoro l’informazione e ributto la testa nell’anta di metallo alla ricerca dei libri di Aritmetica avanzata, quando sento dei respiri affannati e una voce urlare “Evans!”.
Mi giro di scatto, pensando a cosa mai abbia fatto per essermi meritata un accoglienza simile.
Davanti a me trovo la professoressa Kein e la vicepreside McFerrel che mi cercano con lo sguardo, entrambe trafelate e coi vestiti sgualciti.
“Si?” chiedo sporgendomi appena verso di loro.
Le uniche volte in cui mi sono ritrovata a parlare con Virginia McFerrel era all’inizio del secondo anno, quando Bree ed alcune delle sue stupide amiche pensarono fosse divertente tagliarmi i capelli. L’unico problema è stato che quando me ne sono accorta io le abbia chiamate “Brutte cretine” e loro si siano incazzate tanto da attirare l’attenzione del professore. Così mi ritrovai nell’ufficio della vicepreside con l’accusa di aver richiesto quell’acconciatura nuova. Inutile dire che non mi è mai nemmeno passato per l’anticamera del cervello di farmi tagliare i capelli, tantomeno da Bree.
La vicepreside mi fissa intensamente con lo sguardo allarmato.
“Ehm, come dire, è successo qualcosa. Volevamo avvisarti prima ma non ci riuscivamo. Ecco, c’è stato un incidente, forse è meglio se raggiungi i tuoi genitori in ospedale.”.


Corro, facendo lo slalom fra le persone, persone che camminano lente, chine sul loro smartphone, ignare di quello che sta accadendo intorno a loro, ma convinte di saper tutto grazie ad internet.
Ed intanto io corro, corro come una fossennata, nella speranza di non arrivare tardi, di non pentirmi di essere voluta uscire prima da quell’aula claustrofobica.
Corro fino a rendermi conto che non ho più fiato.
Corro immaginandomi il momento in cui entrerò nella stanza e la mia sorellina si girerà dicendomi quanto sia stata scema a essermi spaventata.
Corro sapendo che mi sventolerà davanti qualche strano dolciume datogli dalle infermiere.
Corro sapendo di essere in ritardo per colpa del mio ego spropositato.
Corro ringraziando le due donne che mi hanno cercato per tutta la scuola.
Apro piano la porta, pronta a tirare un sospiro di sollievo per essermi agitata tanto inutilmente.
Quando Mrs. McFerrelIl mi ha comunicato la cosa il mio cuore ha perso un battito.
Ma in realtà so che non è successo nulla, che è tutto apposto.
Spalanco la porta e mi precipito ai piedi del letto.
Mia madre piange aggrappata a mio padre.

Ma di mia sorella nemmeno l’ombra.

 

   
 
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