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Autore: Chipped Cup    10/02/2017    2 recensioni
[ Captain Swan | AU senza magia ]
Emma Swan, ventotto anni, sola, un lavoro scadente che la faceva a malapena arrivare a fine mese. Oramai ci aveva messo una pietra sopra e aveva accettato, seppur malvolentieri, quella schifosa vita che le era capitata. Poi la svolta: una chiamata, un'offerta di lavoro nella piccola cittadina di Fort Kent, Maine, le da la spinta che le serviva per ricominciare. Emma Swan arriva in città senza troppe aspettative, tutto quello che chiede è un po' di pace, ma con Killian Jones, padre trentenne e solo, tra i piedi e un segreto a lungo custodito che sembra voler spuntare fuori ad ogni costo rimescolando così tutte le carte in tavola, la sua nuova vita a Fort Kent sarà tutto fuorché tranquilla.
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Dalla storia:
Emma sorrise. Un sorriso sincero, entusiasta, tenero e rassicurante. Aveva appena avuto la dimostrazione del grande cambiamento che stava affrontando Killian Jones: piano piano stava lasciando andare la sua “parte oscura” e stava crescendo, maturando e diventando responsabile. E lo faceva per suo figlio, ma anche per lei. Se prima poteva aver avuto dei dubbi su di lui, in quel momento vennero spazzati via come una ventata d'aria fresca.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. L'anniversario (parte2)




Sabato sera, pochi minuti dopo la mezzanotte, e in quella strada non c'era anima viva. Emma era abituata alla vita di Boston, non che uscisse poi molto, pensandoci, ma era sicura che fosse decisamente più frenetica di quella di Fort Kent. Sicuramente le strade non apparivano così deserte a quell'ora nel weekend, neanche nei quartieri più isolati. C'era decisamente troppo silenzio, poteva sentire tutti i piccoli rumori sospetti del suo vecchio motore che tanto provava a ignorare. Sempre meglio del russare di Jones, comunque, che diventava più forte di secondo in secondo. Le sembrava di trasportare un trapano in funzione, una trivella, un martello pneumatico, sui sedili posteriori. Il fastidio che le stava causando era il medesimo.
«Jones», provò a chiamarlo, dopo aver svoltato a destra e imboccato la via di casa sua; controllò un'altra volta il fogliettino scarabocchiato dal dottor Nolan, poggiato sul sedile del passeggero e rivolto verso di lei, tanto per essere sicura. «Jones, siamo arrivati», lo informò, o almeno tentò di informarlo visto che l'uomo prese a russare ancora più forte, quasi a voler farle capire che non aveva la minima intenzione di svegliarsi.
Ma Emma non aveva la minima intenzione di mollare, perciò afferrò rapida il bigliettino di David, lo accartocciò appallottolandolo nella sua mano destra e glielo lanciò dritto in faccia, controllando dallo specchietto di beccarlo per bene. Il tiro andò a segno, Jones sussultò ma non si svegliò, si grattò appena il naso e tornò a ronfare. Nessuno dei due voleva darla vinta all'altro, a quanto pareva. La giovane Swan individuò il numero civico che cercava, i fari del suo maggiolino scoprirono un vialetto con un piccolo giardino ben curato e un parcheggio per l'auto vuoto - la macchina di Jones era ancora ferma al Rabbit Hole, dopotutto.
Imboccò, accelerando debolmente prima di frenare di colpo. Fu tirata indietro dalla cinta, le mani ben ancorate sul volante, ma la stessa cosa non si poteva dire di Jones che rotolò rovinosamente sul tappetino. «Ma che diavolo-», esclamò, la voce impastata dall'alcol o dal sonno, oppure da tutte e due.
Emma voltò appena la schiena e lo guardò divertita, più che divertita, avrebbe osato dire appagata «Siamo arrivati», ripeté con un sorrisetto e un'aria da sufficienza, indicando con le dita della mano la dimora dell'uomo. Questo la guardò, una volta essersi tirato su con le braccia, confuso; strizzò appena gli occhi e si passò una mano su di essi per essere sicuro di non avere un'allucinazione. Ma quanto aveva bevuto? L'ultimo ricordo che aveva di quella donna, di quella folle donna, era il pugno in faccia che gli aveva dato nel locale. E ora lo aveva accompagnato, dove? Guardò fuori dal finestrino e notò di trovarsi nel vialetto di casa sua. Sì, aveva decisamente perso qualche pezzo per strada. «Non ho tutta la notte», sbottò di punto in bianco lei, «ti sbrighi a scendere o hai bisogno di una mano?»
Killian imprecò sottovoce mentre si sedeva sul sedile posteriore ed apriva lo sportello, mosse appena la mano in sua direzione, un invito a lasciar perdere, di non aver voglia (e la forza) di continuare quella stupida discussione e scese dall'auto. Emma mise in moto non appena ebbe richiuso lo sportello, ma aspettò ancora qualche istante prima di partire. Non perdeva di vista Jones neanche per un istante, lo osservava senza sbattere ciglia mentre inciampava sui suoi stessi piedi e barcollava verso la porta d'ingresso. Inciampò di nuovo e cadde subito sul primo scalino della veranda. Emma sbuffò alzando gli occhi al cielo, spense la macchina, tolse cinta e chiave, afferrò la sua borsa e scese anche lei, raggiungendolo in pochi passi. Gli fece passare il braccio destro intorno alle sue spalle, lo afferrò per la vita e lo tirò su, non senza poca fatica considerando la differenza delle loro stazze.
«Non riesco a credere che io lo stia davvero facendo», mormorò a bassa voce, parlottando tra sé, mentre saliva trascinandosi dietro l'uomo per un gradino alla volta. Lui le mugugnò qualcosa nelle orecchie, qualcosa di incomprensibile e che non riuscì neanche a capire, per tutta risposta. La puzza di alcol le arrivò alle narici, strinse i denti e storse il naso, più scocciata di quanto non fosse solo un minuto prima. Sentì le dita di Killian aggrapparsi al colletto della sua giacca di pelle blu scura poco prima di arrivare davanti la porta d'ingresso.
Emma individuò subito il vaso di cui le aveva parlato David, ma non si arrischiò a mollare Jones così da potersi chinare e trovare la chiave di scorta, terrorizzata che potesse cadere e trascinarsi lei dietro, aggrappato com'era. Così gli aprì la giacca e cominciò a cercare la tasca giusta, cercando di ignorare il sorrisetto soddisfatto che si era appena disegnato sul volto dell'uomo. Da ubriaco le sembrava ancora più irritante. Trovò la chiave e la infilò nella serratura, girò due volte e riuscì finalmente ad aprire.
Non fece in tempo a mettere un solo piede oltre la porta che qualcosa le saltò addosso, facendole scappare un urlo per la sorpresa. La cosa parve allontanarsi, andar via, Emma entrò in casa e subito ascoltò i passetti veloci di un quattro zampe di media taglia. Quattro zampe che le fu di nuovo addosso nel giro di un secondo.
Jones si allontanò dalla sua presa e con fare sicuro allungò la mano verso la parete vicina, così da accendere le luci dell'intero soggiorno. «Buono Pongo, buono», mormorò rivolto al cane, un bellissimo esemplare di dalmata che non smetteva più di scodinzolargli intorno e poggiare le zampe anteriori sulle sue gambe. Emma, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, pensò che lo avrebbe fatto barcollare e cadere nel giro di poco, mentre guardava quella scena. E come se avesse captato i suoi pensieri, il cane, Pongo, si fermò dal fare le feste al padrone e girò la testa verso di lei, guardandola con sospetto e avvicinandosi per annusarla. «Lei è un'amica, bello», affermò dopo Jones, guadagnandosi un'occhiataccia, che però non notò, da parte della bionda.
Emma lo lasciò andare, lo osservò con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, sperava di vederlo camminare con più equilibrio, quel tanto che bastava per arrivare alla sua camera almeno, ma pochi passi dopo lo vide inciampare sui suoi stessi piedi e, quasi meccanicamente, corse ad aiutarlo.
«Non ce la fai proprio a lasciarmi, eh?» Rise lui mentre tornava ad aggrapparsi a lei come poco prima. Emma alzò gli occhi al cielo, combattendo l'istinto di lasciarlo lì a cavarsela da solo. Ma perché si trovava ancora lì e perché lo stava aiutando, poi? Il dottor Nolan le aveva chiesto - o era meglio dire imposto? - di riportarlo a casa e lei lo aveva fatto, il suo compito finiva lì. Però lo guardava e non riusciva ad andarsene come se niente fosse: poteva anche essere un coglione, in quel momento aveva bisogno di aiuto e lei era l'unica nei paraggi. Lo vide portarsi la mano libera sulla bocca e cominciò ad andare in panico: un conto era aiutarlo a raggiungere il suo letto, un altro era ripulire il suo vomito e, no, non aveva la minima intenzione di farlo.
«No, no, no, no. Ti porto in bagno, trattieni. Resisti. Resisti», cominciò a dire a raffica mentre lo trascinava lungo il corridoio. Sperava ardentemente che il bagno non fosse al piano di sopra, non avrebbe avuto il tempo o la forza di farlo salire altre scale. Aprì una porta a caso - delle quattro che si trovò davanti - che si rivelò essere solamente uno studio, a giudicare dalla grande libreria e dalla disordinata scrivania che riuscì a intravedere in quella frazione di secondo. Non si scoraggiò e aprì quella subito alla sua destra che, per sua fortuna, si rivelò quella esatta.
Lo lasciò andare e gli diede le spalle mentre l'uomo si inginocchiava ai piedi del water. Sospirò tra sé dopo avergli acceso la luce, ripetendosi che doveva trattarsi sicuramente di un incubo perché mai in tutta la sua vita si era ritrovata in una situazione del genere. E forse proprio per questo accettò il fatto che fosse tutto vero, neanche nella sua più fervida immaginazione poteva creare una catena di eventi così angosciante per lei.
«Hai finito?» Gli domandò quando non sentì più il minimo suono, dopo essersi tolta le mani dalle orecchie; poteva benissimo essersi addormentato sulla ceramica per quanto poteva saperne. Anzi, no, perché avrebbe cominciato a russare e l'intero quartiere lo avrebbe sentito. E non riusciva proprio a girarsi per controllare lei stessa perché il vomito la schifava. Tuttavia, quando non arrivò nessuna risposta, girò lievemente la testa verso destra, il poco che le permetteva di lanciargli un'occhiata con la coda dell'occhio. Riuscì a vederlo, ancora seduto sulle sue ginocchia, appoggiato al water col braccio destro.
«Non lo so», borbottò lui alle sue spalle, respirando piano. Ottimo, davvero, davvero ottimo. Ma non poteva semplicemente lasciarlo lì, seduto sul pavimento, a cavarsela da solo? Doveva per forza sentire quel dannatissimo senso di colpa opprimerla nel petto? E perché quella vocina nella sua testa che le intimava di fare la cosa giusta non poteva starsene zitta e farsi gli affaricci suoi?
«Andiamo, ti metto a let-», fece per voltarsi ma Jones fu più veloce di lei e tornò a piegarsi ancora una volta sul water. La bionda cominciò a sentire lo stomaco sottosopra e si portò istintivamente una mano alla bocca, stanca, stremata e schifata. «Fottiti, Jones!» Imprecò tra sé mentre si allontanava dal bagno e prendeva a camminare per il lungo corridoio, cercando di passare il tempo e non pensare a quello che aveva appena visto. Maledetto, stupido Jones. «Dovevi proprio bere così tanto, eh?» Gli urlò ad un certo punto, le mani sui fianchi, la testa bassa. Lui non rispose e lei non aggiunse altro. Sentì dei movimenti, ad un tratto, ed alzò la testa verso il bagno appena in tempo per vederlo in piedi, una mano sulla porta e l'altra sulla parete, strascinava i piedi e la guardava imbarazzato. «Tutto bene?» Gli domandò, tanto per accertarsi di non correre altri pericoli. Lui annuì silenziosamente e lei sospirò sollevata prima di avvicinarsi così che lui potesse appoggiarsi nuovamente a lei. «Ti porto a letto e non fare battute», sibilò non appena l'uomo fece per aprire bocca.
Piano piano lo accompagnò fino in camera, lui riuscì ad indicarle la porta giusta. Emma riusciva a percepire la presenza di Pongo, il dalmata, subito alle sue spalle; l'aveva seguita, anzi li aveva seguiti, per tutto il tempo, restandosene comunque buono e a qualche manciata di passi di distanza a limitarsi a scodinzolare. Il suo padrone gli aveva intimato di fare il bravo e lui aveva ubbidito subito, la bionda ne era molto sorpresa, più che altro perché non aveva mai avuto a che fare con un animale domestico in tutta la sua vita.
Jones si sedette subito sulle coperte, occupando il lato destro del letto matrimoniale situato nel centro della stanza; Emma non accese nessuna luce perciò non riuscì a distinguere bene le altre cose che la componevano, anche se le interessavano ben poco, non vedeva l'ora di andarsene a dirla tutta. Killian si levò la scarpa sinistra col piede destro, scalciandola via, ripeté lo stesso gesto anche con la scarpa destra. Tirò giù le coperte e fece per infilarvisi sotto, ma Emma lo fermò con un «Aspetta!», gli afferrò la giacca che ancora teneva addosso e lasciò che scivolasse lungo le sue braccia. Ignorò il sorrisetto che gli si dipinse sul volto e alzò gli occhi al cielo capendo al volo la battuta volgare che riuscì, però, a trattenere.
Si rese conto solo in quel momento di aver lasciato la sua borsa nel salotto, chissà quando. Tornò indietro, mentre l'uomo si stendeva finalmente nelle lenzuola pulite a pancia in giù, posò la sua giacca nell'attaccapanni vicino la porta d'ingresso e recuperò la sua borsa, cominciando a mettere tutto all'aria alla ricerca delle pasticche che portava sempre con sé in caso di emergenza. Non appena le trovò ne cacciò fuori una e, con una strana sicurezza, si diresse in cucina a recuperare un bicchiere. Lo riempì d'acqua e tornò in camera di Killian Jones, che aprì leggermente l'occhio sinistro - la faccia completamente schiacciata sul cuscino - quando la sentì arrivare. Emma posò tutto sul suo comodino e sospirò, finalmente quell'incubo era finito.
Fece per andarsene, ma Jones le afferrò di scatto il polso destro. «Dove vai?» Domandò, la voce impastata, l'occhio che faceva fatica a restare aperto, con la palpebra che sbatteva rapida. Emma lo guardò stranita, guardò la sua mano sinistra intorno al suo polso per qualche secondo, incapace di formulare qualsiasi parola. L'uomo era lì disteso, ancora ubriaco e mezzo addormentato, eppure la sua presa riusciva ad essere davvero forte, pur senza stringerla troppo per farle male.
«Vado a casa», riuscì, alla fine, a dire, aggrottando appena la fronte pensierosa. Cosa c'era di sbagliato in quelle parole? Cos'altro doveva fare, arrivata a quel punto? Non era più di nessun aiuto, ora Jones non doveva fare altro che farsi una bella dormita, nient'altro.
«Emma...», cominciò a dire l'altro, incerto, lasciando che il nome della donna andasse perso in un profondo respiro. Le lasciò andare debolmente il polso, il sonno si stava via via impadronendo di lui e la sua mano scivolò via da quella della bionda senza che potesse rendersene conto. Emma restava in attesa, aspettando che le parlasse, che le spiegasse perché stesse continuando a trattenerla. Voleva che restasse lì per tutta la notte per vegliarlo? In quel caso poteva scordarselo, non aveva voglia di restare a vegliare quello che, a conti fatti, era un completo sconosciuto che si era ridotto in quel modo di sua spontanea volontà. «Mi... Dispfiave», mugugnò, la bocca contro il cuscino.
«Cosa?» Domandò in modo spontaneo la donna, che davvero non aveva in alcun modo capito una sola parola di quello che le aveva detto Jones. Una parte di lei si chiese se l'uomo stesse davvero cercando di dirle qualcosa, o se stesse solamente pronunciando parole a caso, in preda ai fumi dell'alcol e colto dal sonno. In realtà poteva benissimo essere così, ma decise comunque di rimanere in attesa per qualche altro secondo.
«Mi-dis-pia-ce», ripeté il moro, alzando di poco la testa dal cuscino e scandendo bene ogni sillaba, sperando che Emma, quella seconda volta, lo capisse. Lei, dal canto suo, aveva capito perfettamente e proprio per questo non riuscì ad affermare nulla, non una parola di senso compiuto. Gli dispiaceva, per cosa? Per il disturbo, per come si era comportato quella sera, per essersi ubriacato o per come l'aveva trattata in libreria? Restò in silenzio, cercando qualcosa da dire, e Killian intuì, in quel silenzio, un'esortazione a spiegarsi meglio. «Solitamente non mi comporto così», mormorò, prima di crollare nuovamente con la testa sul cuscino. Si era spiegato, certo, ma non per questo Emma aveva la situazione ben chiara in testa.
«Non... Non preoccuparti?» Affermò incerta, guardandolo pensierosa. Le parole dell'uomo potevano riferirsi a tante cose, ma si rese conto che non sarebbero arrivate ulteriori spiegazioni: Killian Jones era ormai crollato tra le braccia di Morfeo e adesso dormiva pesantemente. Si domandò, tra le altre cose, se fossero scuse sentite o se parlasse solamente attraverso l'alcol. Quei bicchieri di troppo lo avevano reso più sincero? O stava veramente sparando parole a caso, senza rendersene conto?
Emma si disse che fosse inutile continuare ad interrogarsi a riguardo, alla fine neanche le importava così tanto saperlo. Uscì dalla camera senza premurarsi di far poco rumore, certa che il moro non sarebbe stato svegliato neanche da un'esplosione nucleare. Afferrò la sua borsa, lasciata nell'ingresso, Pongo la osservava curioso mentre lei riponeva dentro tutto il contenuto poggiato di fretta, poco prima, sopra al primo mobile che aveva trovato.
Aprì la porta, pronta ad andarsene, ma si sentì, nuovamente, chiamare. «Swan?» Sobbalzò sorpresa, ma rimase ferma dove stava, convinta che Jones stesse solamente parlando tra il sonno e che non la stesse effettivamente chiamando. Aspettò, nuovamente, tanto per esserne certa e non avere pesi sulla coscienza. Un secondo, due secondi, tre secondi, cinque, otto, undici. Poteva andarsene, pensò. «Eri maledettamente bella, stasera». Silenzio. Emma non fiatò. Pongo se ne tornò nella sua cuccia. Killian, dopo pochi istanti, russò. Emma tornò a casa.

Elsa era passata in libreria, verso le undici di mattina, a salutarla e a portarle una fetta di crostata d'albicocca. Emma rimase sorpresa da quel gesto: alla fine era stata lei a rovinare la loro serata immischiandosi in una situazione che non la riguardava minimamente, stava a lei cercare la donna per scusarsi e rimediare in qualche modo. Ma evidentemente quello era il modo che Elsa aveva per farle sapere che andava tutto bene, che non ce l'aveva con lei e che, incidente con Jones a parte, si era divertita. Emma mangiò la crostata lodando le doti culinarie di quella sua nuova e gentile amica, decidendo di non rivelare che a lei l'albicocca faceva in realtà abbastanza ribrezzo. Magari più avanti ci avrebbero riso sopra entrambe, davanti a un bel dolce al cioccolato, ma per il momento era preferibile non darle quell'informazione così da non rovinare tutto.
Elsa poi la salutò, dovendo ritornare a lavoro. Emma si ritrovò di nuovo sola, Belle ormai aveva piena fiducia nei suoi confronti e non passava più a controllarla o ad aiutarla, anche perché il matrimonio era ormai alle porte e lei era sempre più impegnata. Ad Emma mancavano, un po', le incursione di Belle nel negozio, in quanto, perlomeno, aveva la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno: gli affari della libreria non andavano poi tanto male, ma capitavano, ogni tanto, interi pomeriggi passati senza il minimo accenno di un cliente e, quindi, in perfetta solitudine. Gli abitanti della cittadina, tra l'altro, non le chiedevano quasi mai una mano per scegliere i libri, andavano dritti alla meta e si presentavano da lei, al bancone, già con i soldi in mano. Non c'era modo di scambiare troppe parole, non c'era modo di fare nulla. La donna odiava davvero restare tutta la giornata nello stesso posto, senza concludere niente, ma era comunque un buon lavoro, aveva un tetto sopra la testa e, almeno per il momento, la cosa le bastava.
Almeno stava scoprendo di avere una passione per i romanzi gialli. In quelle poche settimane di lavoro aveva già concluso due libri da 429 e 351 pagine, e ora si apprestava a finirne un terzo. Il caso era interessante, il protagonista stava quasi per arrivare alla soluzione, ma Emma proprio non riusciva a concentrarsi, la mente da tutt'altra parte. Da quando aveva visto Elsa, non riusciva a non pensare alla serata precedente, non riusciva a togliersi dalla testa Jones e il modo in cui lo aveva lasciato.
Pensava di sapere che razza di uomo fosse, ovvero uno che non perdeva l'occasione di provarci con qualsiasi individuo di sesso femminile, consapevole di essere (oggettivamente parlando, neanche Emma poteva in alcun modo negarlo) attraente e forse abituato ad avere costantemente donne che cadevano ai suoi piedi. Emma odiava questo tipo d'uomo. Eppure le sue scuse continuano a risuonarle nel cervello, seguite dalle parole “solitamente non mi comporto così”. Faticava a crederci, ad essere onesti, ma qualcosa, dentro di lei, le diceva che Jones, in quel momento, fosse sincero e, in qualche modo, lucido, e difficilmente quel suo super potere di riconoscere sempre le verità dalle menzogne faceva cilecca. In più pensava al dottor Nolan, che sembrava senz'altro una brava persona che teneva a Jones, e una brava persona non perdeva il proprio tempo con cattivi soggetti, no? Perciò Emma si domandava cosa avesse spinto un brav'uomo a distruggersi in quel modo.
Una parte di lei si sentiva in colpa ad averlo lasciato, la sera prima, ma un'altra le ribadiva che non doveva esserlo in alcun modo. Con ogni probabilità, Jones aveva dormito fino a tarda mattinata, svegliandosi di sicuro con un forte mal di testa, questo era tutto. Forse doveva controllare che stesse bene? No, per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Non era una sua parente, non era sua amica. Eppure continuava a sentirsi tremendamente in colpa e cominciava ad odiare quella sensazione.
Nessuno aveva intenzione di mettere piede in libreria, così la Swan decise di chiudere con un'ora e mezza d'anticipo, dicendosi che avrebbe fatto uno straordinario il giorno seguente. Entrò nel suo maggiolino giallo, posò entrambe le mani sul volante e guardò fisso oltre il vetro, sentendosi stupida. Stava veramente andando a casa di Jones per vedere se aveva bisogno di qualcosa? Come minimo le avrebbe rifilato una battuta a sfondo sessuale, tanto per non smentirsi, e si sarebbe guadagnato un altro pugno in faccia. Sospirò, infilò la chiave e mise in moto. Stupida, stupida, stupida. Ripercorse la stessa strada fatta neanche 24 ore prima, passò davanti al Rabbit Hole, poi all'ospedale e infine si fermò allo stesso semaforo rosso. Stupida, stupida, stupida. Girò a destra all'incrocio e imboccò la via di casa Jones. Cosa diamine stava facendo? E, soprattutto, perché? Stupida. Il vialetto era vuoto, non c'era nessuna macchina e questo le faceva pensare che non fosse minimamente uscito di casa per tutto il giorno, lasciando la vettura ancora davanti al locale.
Emma parcheggiò al suo posto e scese dalla macchina dandosi, per l'ultima volta, della stupida. Continuando a non sapere per quale motivo si trovasse lì, bussò un paio di volte alla porta, prima di decidersi a suonare il campanello. Nessuno le rispose. Suonò ancora ma la situazione non cambiò, non percepì il minimo rumore dall'altra parte della parete. Nessuno era in casa, quindi, e lei aveva fatto tanta strada per niente, ma soprattutto aveva avuto tanti sensi di colpa per niente, visto che, a quanto pareva, Jones stava più che bene per andarsene in giro. In qualche modo si sentì sollevata, non era più costretta a pensarci.
Sulla via del ritorno a casa, però, incrociò una faccia conosciuta. Il dottor Nolan camminava lungo il marciapiede alla sua sinistra, carico di buste della spesa. Emma cominciò ad accostare, prima di suonare il clacson un paio di volte per attirare la sua attenzione. Questi si voltò e lei gli si fermò davanti, rivolgendogli un sorriso incerto. «Salve, dottor Nolan», lo salutò mente il biondo, per tutta risposta, strizzava appena gli occhi e aggrottava la fronte, come se stesse cercando di capire dove l'avesse già vista. Alla fine la sua espressione si illuminò, mettendola finalmente a fuoco.
«Oh... oh!, ma certo, sì, salve, ehm, miss...» «Swan, Emma», si presentò lei, il gomito poggiato sulla portiera, dopo aver abbassato completamente il finestrino così da poter parlare con l'uomo. Si era appena resa conto di non essersi neanche presentata la sera prima, ma d'altronde entrambi andavano piuttosto di fretta: lei non vedeva l'ora di sbarazzarsi di Jones e lui doveva tornare dai suoi pazienti. «Vuole... vuole un passaggio?» Domandò incerta, non sapendo bene se il dottore abitasse nelle vicinanze così da potersi permettere di trascinare tante buste, a piedi, fino a casa, o se stesse solamente andando verso la propria auto, parcheggiata da qualche parte. Le sembrava, comunque, opportuno chiederglielo, soprattutto dopo averlo fermato per salutarlo. Non sapeva neanche lei perché lo avesse fatto, tra l'altro.
«Oh», esclamò il dottor Nolan, sorpreso da quella domanda, prima di aprirsi in un radioso sorriso, «oh, magari, te ne sarei eternamente grato!» Disse infine, facendo ridacchiare la bionda, che gli indicò di salire a bordo del suo maggiolino.
«Dove abita?» Domandò, una volta che fu salito. A guardarlo meglio, appariva piuttosto provato e accaldato; Emma era piuttosto pratica di quella zona e sapeva che il supermercato più vicino distava più o meno un chilometro, in più il caldo sole di maggio picchiava piuttosto forte quel giorno e il biondo, così carico di buste, non era neanche riuscito a togliersi la giacca che, per quanto leggera fosse, doveva infastidirlo molto. Emma si premurò di accendere l'aria condizionata, tenendola comunque bassa per non fargli venire un colpo.
«Ti prego, dammi del tu. Chiamami David», affermò mostrandosi divertito da tutte quelle formalità. In effetti dovevano avere la stessa età, anno più o anno meno, tante cerimonie apparivano piuttosto sceme, pensò la bionda. David le indicò la strada da percorrere come se non fosse del luogo, ignorando che Emma aveva trascorso in quel posto tutta la sua infanzia e che, probabilmente, quelle strade erano più note a lei che a lui. «Allora, sei in città da poco, vero?» Le domandò infine, voltandosi a guardarla con un sorriso che, ne era certa, non aveva mai abbandonato la sua faccia.
«Qualche settimana», rispose lei, volgendo appena appena la testa verso destra, in modo da guardarlo velocemente, arricciando il naso. Non era la prima persona ad avergli fatto quella domanda: c'era stata Ruby la sera prima e poi la maggior parte dei clienti della libreria. Cominciava a chiedersi se qualcuno non le avesse attaccato un foglio con su scritto nuova arrivata dietro la schiena. Ma in quel caso se ne sarebbe accorta, forse. «Davvero, è una cosa così ovvia?» Si ritrovò a chiedere, senza staccare gli occhi dalla strada, piuttosto incuriosita dalla risposta. «Continuano tutti a chiedermelo: “Sei nuova in città?” “Non sei di queste parti, vero?” “Come ti trovi?” “Nuova arrivata, eh?” Sul serio, come fate a capirlo?» David, per tutta risposta, si mise a ridere. «Non devi prenderla sul personale, davvero. È una piccola cittadina, siamo tutti cresciuti insieme, ci conosciamo più o meno tutti di vista». Spiegò lui, senza smettere di mostrarsi divertito. Emma lo guardò sospettosa: quella era la risposta più gettonata alla sua domanda, ma continuava a ritenere impossible che tutti conoscessero tutti. «E poi, non prenderla male, ma si vede dalla tua espressione». Emma si voltò, questa volta, per guardarlo in faccia. «La mia espressione?» Ripeté incredula, spalancando leggermente la bocca con fare sciocco, non capendo seriamente il nesso che potesse esserci tra le due cose.
«È...», David parve prendersi un momento per pensare al termine corretto, forse per non offenderla o infastidirla, «diffidente», affermò alla fine. Emma non rispose, non poteva e non sapeva come ribattere. Era diffidente, era vero, lo era stata per tutta la sua vita, in special modo a Fort Kent. Quel posto non le riportava alla memoria bellissimi momenti, era ovvio che non potesse mostrarsi entusiasta di essere tornata. O appena arrivata, come pensavano i suoi abitanti. L'uomo notò i suoi occhi freddi e decise di alleggerire la situazione. «In realtà, questo è il ragionamento che fanno le persone normali. Io posso leggere nella mente, sai, ho questo super potere!» Emma si rilassò, concedendosi una piccola risata, scuotendo il capo scettica mentre svoltava a sinistra. «È la verità!» Rimbeccò David, fingendosi offeso. «Te lo dimostrerò: lavori nella libreria di Belle, vero?»
Emma frenò, ritrovandosi davanti ad un semaforo rosso scattato all'ultimo istante, prima di voltarsi verso l'altro. «Come diavolo fai a saperlo?!» Esclamò sconvolta, accettava di passare facilmente come nuova arrivata, ma quello era troppo, soprattutto quando lei non era mai stata un libro aperto, per nessuno, nemmeno per Neal.
«Te l'avevo detto, io. Sono un indovino!» Ribatté, mettendosi in una posa plastica da supereroe. Scoppiò poi a ridere. «Stesso discorso, città piccola, le voci corrono. Nuova arrivata, nuova libraia. E poi Killian mi ha parlato del vostro incontro». Emma aveva appena rimesso in moto l'auto, ma quasi non tornò a frenare di colpo dopo quella secchiata d'acqua gelida; David lo notò «Non mi ha detto poi molto, solo che eri “maledettamente bella”, parole sue», ancora quelle parole, pensò la bionda, «dalla tua reazione devo immaginare che non si sia comportato proprio a modo, ti chiedo scusa da parte sua. Killian è... una brava persona, davvero, solo che alle volte tende ad esagerare».
Emma non disse niente e prese a rimuginare su quelle parole. Era ferma nella decisione di non voler cambiare opinione su Killian Jones, ma d'altra parte era curiosa di vederlo con gli occhi di David perché sembrava una versione totalmente differente da quella che aveva conosciuto. «Ieri sera», cominciò a dire, mentre parcheggiava davanti casa Nolan, «mi hai detto che solitamente non si ubriaca in quel modo; prima sono passata a casa sua e non c'era nessuno. Non credi che sia...»
«No, non è tornato ad ubriacarsi, potrei metterci la mano sul fuoco», affermò, scurendosi un poco in volto, «probabilmente sarà andato al cimitero».

Fort Kent, Maine; Maggio 2011


Killian non riusciva nemmeno a ricordare come fosse la sua vita prima dell'arrivo di Milah; spesso cercava di pensare a come fosse, dieci anni prima, a cosa facesse, chi frequentasse, ma tutto appariva come sbiadito, nella sua mente, grigio, come se non avesse più la minima importanza. Gli sembrava di averla sempre avuta al suo fianco, in ogni ricordo, in ogni occasione importante, o anche brutta, lei era presente, non lo aveva mai abbandonato. Non era stato semplice entrare nelle sue grazie, soprattutto per colpa del suo vecchio carattere libertino e della loro differenza d'età - quasi 7 anni -, ma alla fine era riuscito a conquistarla e da allora non si erano più lasciati. La osservava con la coda dell'occhio e un sorriso radioso, mentre passava un piccolo cono gelato a un Henry in trepidante attesa. Cosa aveva fatto per essere così fortunato? Ordinarono altri due gelati per loro, Killian pagò e, dopo aver preso il bimbo per mano, uscirono dalla gelateria.
Non si erano ancora veramente abituati a quella nuova vita a Fort Kent, sicuramente Henry con i suoi quattro anni e mezzo d'età l'aveva presa meglio di loro, ma infondo erano arrivati in città solamente da qualche mese. I primi tempi erano stati piuttosto frenetici, lui e Milah, per colpa dei rispettivi lavori, si vedevano poco e niente, Henry era costantemente con una babysitter e Killian si domandava se avessero fatto bene a trasferirsi. Ma ben presto, Milah decise di prendersi un anno sabbatico per il bene del bambino e questo parve funzionare.
«Henry, attento!» Esclamò ad un tratto il moro, chinandosi verso il bambino e tirando subito fuori un fazzoletto «Ti sta colando tutto il cioccolato», lo avvertì, cogliendo l'occasione per pulirgli anche la bocca, completamente sporca di gelato. Il bimbo rise e riprese a mangiare; Killian si alzò, riprendendo a camminare, consapevole che nel giro di pochi minuti avrebbe dovuto compiere di nuovo quell'operazione.
«Perché non andiamo a mangiare da Marco, stasera?» Propose Milah improvvisamente, voltandosi a guardarlo con un sorriso, una volta che ebbe mangiato l'ultimo pezzo del suo cono. Marco era un vecchio ristoratore conosciuto da tutti in città; avevano mangiato da lui qualche volta, aveva sempre offerto loro il dolce e raccontato qualche vecchia storiella per divertire Henry. Era davvero un brav'uomo.
«Non dovevamo ordinare cibo d'asporto e passare tutta la serata sul divano?» Domandò retoricamente l'altro, ricordandole quello che lei stessa aveva suggerito solo poche ore prima, mentre leggeva a Henry un libro che parlava di una buffa scimmietta il cui unico scopo della vita pareva quello di mangiare banane.
«Sì, beh... cambio di programma», alzò le spalle e arricciò il naso, divertita. Killian le mise una mano dietro la schiena e la avvicinò a sé, stampandole quindi un bacio sulla guancia. Prese poi il cono - privato completamente del suo gelato - di Henry, e la manina del piccolo con l'altra mano, anche se un secondo dopo fu costretto a prenderlo in braccio, visto che aveva cominciato a fare i capricci per un motivo o per un altro.
Proprio in quel momento una donna, alle loro spalle, gridò; non fece in tempo a voltarsi per controllare che fosse tutto okay, che fu urtato violentemente da qualcuno, non riuscì neanche a vederlo in faccia per quanto corresse veloce. Una piccola folla aveva circondato la giovane donna che aveva urlato poco prima, riuscì solamente a catturare le parole “furto” e “borsa”, prima di girarsi confuso verso Milah. Ebbe appena il tempo di lanciarle un'ultima occhiata, che quella partì all'inseguimento del ladro senza pensarci sopra due volte. Killian le urlò contro, per fermarla, ma lei non lo ascoltò e girò l'angolo prima ancora che potesse accorgersene.
Killian fece per andarle dietro, Henry aggrappato alla sua giacca sembrava non capire nulla di quello che stava accadendo, non che il padre stesse riuscendo a tenere il filo degli ultimi avvenimenti meglio di lui. Il tempo di fare un passo, che il suono, il rumore, di uno sparo gli gelò il sangue.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, Henry scoppiò a piangere quasi nello stesso momento.

Fort Kent, Maine; Maggio 2016


Aveva salutato David da poco e adesso si ritrovava a gironzolare intorno al cimitero. Non sapeva neanche lei perché si trovava lì, anzi in realtà la sua intenzione era quella di tornare a casa. Si era distratta un attimo, poi, davanti a un semaforo rosso che pareva infinito, si era persa nei suoi pensieri e un secondo dopo si era ritrovata in quel posto. Il maggiolino giallo parcheggiato accanto a una Ford nera, vecchia di qualche anno, che proprio non riusciva a smettere di fissare, la mente da tutt'altra parte. Doveva scendere dall'auto e andarlo a cercare o doveva mettere in moto e tornarsene a casa come aveva programmato all'inizio? E poi, andarlo a cercare per dirgli cosa, esattamente?
Swan, hai completamente perso il cervello. Non erano assolutamente affari che la riguardavano in prima persona. Non era affar suo sapere cosa passasse per la testa di Jones, la sua storia non era affar suo, la sua vita non era affar suo. Killian Jones non era affar suo. E non voleva che lo diventasse, tra l'altro. Quindi afferrò furiosamente le chiavi, ma non le girò. Ispirò profondamente e rilasciò fuori l'aria qualche istante dopo.
Si odiava come non mai. Uscì ben presto dall'auto ed entrò nel cimitero. Il sole cominciava a tramontare e il posto pareva deserto, per questo non le fu difficile individuare una figura nera, in piedi davanti ad una lapide non troppo lontana da lei. Gli si avvicinò lentamente, fermandosi alle sue spalle. Cosa doveva fare? Consolarlo? Chiuse gli occhi per farsi coraggio prima di distruggere la distanza che li separava, posizionandosi al suo fianco, senza dire una parola. Killian Jones si accorse della sua presenza, volse leggermente lo sguardo nella sua direzione, poi lo riportò verso la tomba.
Emma lesse “Milah Jones, 1976 - 2011”. Si rese conto solo in quel momento di non aver chiesto a David la minima informazione sull'argomento; non sapeva neanche chi fosse quella Milah, una sorella? La sua compagna? A giudicare dall'età e dagli occhi vuoti di Jones, Emma scelse mentalmente la seconda opzione. Pensò al modo in cui si era ridotto la sera prima. Erano passati 5 anni ed ancora il solo pensiero lo portava a di struggersi completamente. Si sentì in colpa per averlo definito una persona disgustosa, solo qualche giorno prima. Pensiero che cancellò subito dalla sua mente. Era dispiaciuta per lui, ma la sua opinione non era mutata.
Nonostante tutto, restò lì, al suo fianco. Decise di non andare da nessuna parte, decise di non muoversi e decise di non parlare. Non c'era niente che potesse dire capace di farlo sentire meglio, non aveva bisogno sicuramente delle parole di una sconosciuta. Restarono lì per una buona mezz'ora, senza emettere un singolo fiato, senza guardarsi né toccarsi. Il sole, ormai, completamente tramontato li nascondeva dal resto del mondo.




Note dell'autrice:
Miss me? : )
... davvero, non so come scusarmi per questo tremendo ritardo! Ho avuto problemi con internet sul pc, cioè in realtà li ho ancora, infatti sto postando via cellulare. Mentirei se vi dicessi che il capitolo è pronto da mesi, in realtà a novembre/dicembre ho scritto pochissimo, colpa dell'ansia pre-quarta stagione di Sherlock (vi giuro che non ho pensato ad altro per un mese intero se non di più, non sto esagerando), poi il pc ha smesso di funzionare e non l'ho toccato per settimane (dal 25 dicembre) e solo qualche giorno fa mi sono rimessa a scrivere il capitolo (che era rimasto fermo a pagina 4, tipo). Well, storia lunga, l'importante è che stia riuscendo finalmente a postare! Ehm, per dire, ho dovuto ricopiare 11 pagine piene di word sulle note del telefono, un trauma!!
Btw, spero che abbiate apprezzato il capitolo, tanti momenti captain swan finalmente, con una piccola incursione di David e, sì, anche di Milah, ma è morta ormai, non preoccupiamocene più lol
Piccolo annuncio che non centra con la storia: mi farò perdonare per questi mesi di assenza con 2 one shot belle belle (spero almeno) che ho già iniziato a scrivere ma non so quanto posterò. Ovviamente sui captainswan! Ah, visto che ci sono mi faccio anche un po' di pubblicità, se qualcuno è interessato a Sherlock (seriamente, se ancora non lo guardate RIMEDIATE SUBITO) e/o alla Johnlock, nel weekend o al massimo lunedì posterò una one shot anche su di loro (e se vi va, ne ho altre due pubblicate, se volete farci un salto), perciò tenete d'occhio il mio profilo ;) e magari fatemi sapere che ve ne pare.
Ah, avete visto la nuova versione di Hook in questo nuovo universo parallelo? Aiuto.
Grazie a chiunque abbia letto fino a qui, un bacione :)


Ps. Perdonate gli errori di battitura, sono colpa del telefono. Correggerò tutto con calma non appena avrò un po' di tempo

  
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